sabato 2 agosto 2025

EGITTO - Statua di Amenardis I in alabastro

 
La statua di Amenardis I (JE 3420) è un'antica statua egizia in alabastro calcareo raffigurante la "Divina Sposa di Amon" Amenardis I (Hatnefrumut Amonirdisi), sorella di Pianki, re kushita e faraone fondatore della XXV dinastia egizia, ed attualmente esposta al Museo egizio del Cairo. Amenardis I (o Amenardis "la Vecchia", per distinguerla da Amenardis II) era figlia del sovrano kushita Kashta di Napata, attuale Gebel Barkal in Sudan.
A Napata si erano rifugiati, intorno al 950 a.C., i sacerdoti di Amon discendenti da Herihor ("Dinastia dei primi profeti di Amon") scacciati da Tebe dai faraoni libici della XXII dinastia: l'influenza dei fuggiaschi aveva dato vita a una società fortemente egizianizzata in senso tradizionalista e, soprattutto, religioso. Dopo che Pianki, successore di Kashta, ebbe conquistato l'Egitto e si fu insediato come faraone, fece in modo che la propria sorella Amenardis, principessa, fosse adottata come erede dalla "Divina Sposa di Amon" allora in carica, Shepenupet I (membro della precedente dinastia: figlia di re Osorkon III, i cui successori Takelot III e Rudamon furono costretti a riconoscere il potere nubiano), allo scopo di garantire ai sovrani nubiani il controllo dell'importante carica e dell'oracolo di Amon. Amenardis I occupò la propria influentissima carica nell'antica capitale Tebe, dove visse, e sua volta nominò propria erede Shepenupet II, di cui era zia per parte di padre.
Questa statua a grandezza naturale (la più celebrata fra quelle di Amenardis I) fu scoperta dall'egittologo francese Auguste Mariette nel 1858 in una piccola cappella all'interno del recinto di Montu a Karnak (e si ritiene sia stata d'ispirazione per il personaggio della principessa Amneris nell'Aida di Giuseppe Verdi, gli scenari della quale furono preparati da Mariette stesso).
La figura di Amenardis I, alta e solenne, richiama le rappresentazioni delle "Grandi spose reali" del Nuovo Regno, pur non riuscendo a superare uno stile monumentale piuttosto "freddo": indossa una pesante parrucca che ricade sulle spalle e sulla schiena, al centro della quale si trova un avvoltoio affiancato da due urei (distintivi delle personalità di rango regale(, mentre un diadema attorniato da molti urei sorreggeva, un tempo, una corona "hathorica" con corna di vacca e disco solare. I suoi orecchini sono simili a grandi borchie rotonde e indossa un lungo abito aderente, sofisticati bracciali e cavigliere, oltre a un pettorale con immagini di Amon e Mut finemente intagliate. La mano sinistra, portata al seno, stringe una sorta di curvo scettro a forma di fiore; la destra, distesa lungo il fianco, impugna un collare rituale menat. L'espressione ha un'aria grave e convenzionale. I cartigli di Amenardis I come "Divina Sposa di Amon", con i suoi nomi originali Hatnefrumut Amonirdisi-Merimut, sono incisi sul basamento che poggia su di un altro in basalto; inoltre l'iscrizione definisce la sacerdotessa "amata da Osiride Signore della vita" (Osiride Neb-Ankh), cioè il titolo con cui il dio Osiride era adorato nella cappella in cui fu scoperta la statua; il basamento inferiore contiene invocazioni ad Amon-Ra di Karnak, associato a Montu "Signore di Tebe". Due secoli dopo la realizzazione della statua, re Psammetico III fece cancellare i nomi di Kashta, padre di Amenardis I, e del fratello Shabaka, che regnò dopo l'altro fratello Pianki.

EGITTO - Statua di Amenofi III e Sobek

 
La statua di Amenofi III e Sobek (J 155) è un antico colosso egizio in alabastro calcareo raffigurante il dio-coccodrillo Sobek e l'importante faraone Amenofi III (1388/6–1350 a.C.) della XVIII dinastia egizia. Si trova al Museo di Luxor.
Fu scoperta casualmente nel 1967 presso il sito del Tempio di Sobek a Dahmasha (presso il quale venivano allevati coccodrilli sacri), nel Basso Egitto: la rinvennero, all'interno di un pozzo protetto da una lastra di pietra arenaria (fatta scorrere nella sua posizione, in antichità, grazie a due rotelle di bronzo), alcuni lavoratori impegnati nello scavo di un canale.
L'iconografia delle due figure è classica e tradizionale. Il temibile dio Sobek, assiso, sulla sinistra, su un trono dai lati coperti d'iscrizioni geroglifiche, è nella sua consueta forma antropomorfa, con testa di coccodrillo sormontata dall'ureo regale e da un imponente copricapo costituito da: modio, corna orizzontali d'ariete, disco solare e due alte piume; un pilastro dorsale interamente coperto d'iscrizioni ne rinforza la figura. Il dio distende il braccio sinistro per stringere a sé il faraone, in segno di protezione, mentre gli avvicina la mano destra al viso: impugna il simbolo ankh della vita e intende "vivificare" Amenofi III. Il sovrano, d'aspetto particolarmente giovanile, è in piedi, di dimensioni sensibilmente minori rispetto a Sobek (consueto segno di ossequio) e la sua posa è rigida: le braccia sono distese lungo il gonnellino mentre il piede sinistro è avanzato; indossa anche la barba posticcia, il copricapo nemes e l'ureo regale.
Nel secolo successivo, il faraone Ramses II della XIX dinastia "usurpò" la statua (verosimilmente considerata di gran pregio) facendovi apporre i cartigli dei propri nomi.

EGITTO - Statua di Iside in granito nero

 

La statua di Iside, madre di Thutmose III, è un'antica scultura egizia raffigurante la "Grande sposa reale" Iside, madre del faraone Thutmose III, in granito nero, esposta al Museo egizio del Cairo.
Questa scultura sofisticata della regina-madre Iside fu dedicata dal figlio, re Thutmose III, al Grande tempio di Amon-Ra a Karnak. Iside è ritratta in una posa classica per l'arte egizia, con le mani adagiate sulle gambe e uno scettro floreale nella mano sinistra, il capo sormontato da una pesante parrucca tripartita con lunghe trecce d'uguale lunghezza e quest'ultima terminante a sua volta con una base cilindrica e dorata cui erano applicate, un tempo, due alte piume (tuttora visibili, sulla sua fronte, i due urei, cioè il cobra e l'avvoltoio del Basso e Alto Egitto incoronati con le corone delle Due Terre). La donna indossa anche un grande pettorale e due bracciali. I suoi piedi posano su una base incorporata al trono, sul quale è scritto:
«Il dio perfetto, Signore delle Due Terre, Menkheperra [Thutmose III], amato da Amon-Ra, Signore dei troni delle Due Terre. Egli lo fece come monumento per sua madre, la "madre del re" Iside, giustificata [defunta].»

EGITTO - Statue di Rahotep e Nofret

 


Le due statue di Rahotep e Nofret sono annoverate tra i capolavori della statuaria della IV dinastia dell'Antico Egitto, esposte al Museo egizio del Cairo. Sono realizzate in calcare di alta qualità, i cui blocchi furono scelti con la massima cura per garantire lo straordinario risultato dell'artista che le scolpì.
Le due statue furono scoperte nel 1871 dall'egittologo francese Auguste Mariette nella mastaba a nord della Piramide di Meidum. Quando gli operai di Mariette entrarono nella stanza buia, rimasero terrorizzati alla vista dell'uomo e della donna che, grazie al loro splendido stato di conservazione, sembravano ancora vivi e seduti all'interno della tomba.
I due personaggi raffigurati sono stati identificati in base alle scritte poste ai fianchi delle due statue e sono il principe Rahotep e sua moglie, la principessa Nofret. Il principe Rahotep, il cui nome significa il dio Ra è soddisfatto, ha il titolo onorifico di sa-nswt-n-ghetef, cioè figlio del re, generato dal suo corpo, accordato, nel corso della lunga storia egizia, ai membri della famiglia reale. Gli altri titoli lo descrivono come un sacerdote di Ra e come supervisore ai lavori. Il nome della principessa Nofret è dipinto a fianco della testa ed è rekhet-nsw Neferet, la conoscenza reale.
La statua di Rahotep lo ritrae seduto, con la mano destra appoggiata sulla parte sinistra del petto, proprio sopra il cuore che per gli antichi egizi era la sede della saggezza e della sensibilità; l'altra mano invece è appoggiata sulla gamba sinistra. Rahotep ha baffi e capelli curati, mentre gli occhi sono incorniciati da un tratto di colore nero e intarsiati con quarzo bianco, cristallo di rocca e resina.
La status della moglie Nofret, invece, enfatizza la bellezza della principessa. La nobildonna, che indossa un duplice abito, è raffigurata anch'essa seduta: la veste più interna è il tipico abito attillato dell'Antico Egitto con spalline larghe, mentre quello più esterno assomiglia ad un mantello stretto. La parrucca è liscia, con scriminatura centrale, ornata da una fascia di motivi floreali che lascia scoperta sulla fronte una parte dei capelli. Gli occhi sono evidenziati con un tratto di colore e intarsiati con le stesse pietre usate per la statua del marito. Nofret porta una collana molto larga, tipica dell'Antico Regno, detta usekh, fatta di file alternate di grani di malachite e di cornalina. La principessa Nofret ha la pelle di color giallo-crema, in conformità con la tradizione secondo cui la carnagione chiara è, nelle donne, simbolo di nobiltà e di bellezza.

EGITTO - Testa di Userkaf

 


La testa di Userkaf (JE 90220) è il frammento di un'antica statua egizia del faraone Userkaf (ca. 2494–2487 a.C.), fondatore della V dinastia egizia, in grovacca; si trova al Museo egizio del Cairo).
Questa effigie di re Userkaf recante la Corona rossa (deshret) del Basso Egitto dà una chiara indicazione dello stile della statuaria regale al principio della V dinastia, consistente nella conservazione e nell'arricchimento degli illustri modelli (come la celebre statua di Chefren in trono, il busto del principe Ankhhaf) offerti dalla precedente IV dinastia. Imitando il proprio predecessore Shepseskaf, ultimo re della IV dinastia, Userkaf volle edificare la propria piramide a Saqqara anziché a Giza nei paraggi della Piramide di Cheope: nel suo Tempio funerario è stata rinvenuta la testa della prima statua colossale nota risalente all'Antico Regno, oltre a vari bassorilievi di qualità eccellente.
A nord di Saqqara, nel deserto di Abusir, Userkaf fece erigere il primo di una serie di templi dedicati al dio-sole Ra, la cui importanza era aumentata durante la IV dinastia ed era destinata a crescere ulteriormente sotto la V; sia Userkaf che i suoi successori Sahura e Neferirkara Kakai erano al centro di un mito di nascita divina che li voleva generati dalla moglie di un sacerdote di Ra e dal dio Ra in persona.
Questa testa di Userkaf in grovacca è stata rinvenuta appunto nel recinto di tale Tempio solare. Stilisticamente è comparabile alle sculture di re Micerino, morto pochi decenni prima: si nota la medesima cura nei dettagli delle tante triadi di Micerino affiancato da divinità, mentre la forma piacente degli occhi, allungati da una linea di trucco, è sormontata da marcate sopracciglia e diverrà un tratto distintivo della statuaria regale della V dinastia.
Al momento della scoperta si credette che la testa appartenesse a un'effigie della dea Neith, venerata a Sais e raffigurata con il medesima copricapo: a dispetto della peculiare delicatezza del viso e dell'assenza della tipica barba posticcia (già assente, d'altronde, anche dalla statua di Khasekhemui in scisto verde e dalla famosa statuetta di Cheope in avorio, ben più antiche), la presenza di una linea quasi impercettibile di baffi ha permesso di dichiararlo un ritratto regale.

EGITTO - Statua osiriforme di Mentuhotep II

 
La statua osiriforme di Mentuhotep II è una scultura raffigurante l'antico faraone egizio Mentuhotep II (2061 - 2010 a.C.), della XI dinastia, che compì la grande impresa di riunire l'Egitto dopo la disgregazione del Primo periodo intermedio e inaugurò il Medio Regno (ca. 2022 a.C.).
La scultura è intatta. Mentuhotep II è rappresentato, assiso in trono, nelle vesti del dio Osiride (col quale il re defunto veniva tradizionalmente identificato già nelle iscrizioni funebri dell'Antico Regno); la sua pelle è ritualmente nera, il colore appunto del dio dei morti. Indossa il mantello bianco della festa giubilare sed, con la quale il Paese celebrava un ringiovanimento del sovrano a partire dal suo 30º anno di regno. Reca la corona rossa (deshret) del Basso Egitto e, al mento, una imponente barba divina arricciata (la barba arricciata era attributo di divinità o geni). Le braccia incrociate sul petto, con le mani chiuse ad impugnare scettri oggi perduti, sono un altro elemento riconducibile al mummiforme Osiride.
Nonostante l'ampia fama e il valore storico e artistico, la si ritiene opera di un artista inesperto per quanto riguarda le proporzioni delle sculture regali assise: benché all'epoca le gambe fossero comunemente rappresentate più grandi del normale, nella statua di Mentuhotep risultano estremamente massicce, con piedi esageratamente grandi. A ciò si aggiungono la faccia dai tratti robusti, la bocca appesantita e il naso largo, segni di un'arte provinciale.
La statua fu sepolta, avvolta in un abito di lino, sotto al terrazzo del complesso del Tempio funerario di Mentuhotep II, nell'anfiteatro roccioso di Deir el-Bahari durante una apposita cerimonia, la natura della quale resta piuttosto oscura agli egittologi. Fu rinvenuta in una tomba di Osiride, cenotafio in cui il dio veniva simbolicamente inumato in effigie: tale camera fu forse originariamente progettata per contenere i resti mortali del re.
Fu scoperta accidentalmente nel novembre del 1898, quando il cavallo dell'archeologo britannico Howard Carter, percorrendo il pavimento dell'antico terrazzo che celava la tomba di Osiride, smosse il solaio sprofondandovi con una zampa. La fossa così rivelatasi, soprannominata Bab el-Hosan (Porta del Cavallo), portò alla scoperta di una camera intatta, contenente la statua di Mentuhotep II avvolta nel lino, un sarcofago vuoto, vasellame e barchette in legno. Come ha scritto Zahi Hawass: «Aspettandosi un grandioso rinvenimento - forse addirittura una sepoltura regale, poiché l'ambiente era indubbiamente connesso con il tempio funerario di Nebhepetra Mentuhotep - Carter organizzò l'apertura della camera con grande sfarzo, invitando anche importanti dignitari. L'esito si rivelò invece deludente secondo gli standard di allora (molti archeologi moderni ascriverebbero la scoperta tra le maggiori).» Da allora è conservata al Museo egizio del Cairo, con la sigla d'inventario JE 36195.

EGITTO - Statua del ka di Hor I


 
La statua del ka di Hor I (JE 30948) è un'antica scultura egizia in legno che rappresenta il ka di Hor I Auibra (ca. 1777 - 1775 a.C. o, per pochi mesi, nel 1760 o 1735 a.C.), un effimero faraone della XIII dinastia egizia.
Secondo la religione egizia, il ka era la forza che animava la forma visibile di qualcuno (sia il corpo oppure solo una statua) che il ba aveva scelto, dandole così la vita. Questa complessa nozione non ha un equivalente nelle moderne lingue europee; la sua traduzione con i termini anima o spirito è solo parzialmente precisa.
Il reperto fu realizzato in legno originariamente dorato e il soggetto doveva essere rivestito di un gonnellino, mentre ora appare completamente nudo. Sul capo della statua, applicate alla parrucca, appaiono due braccia: riproducono precisamente il geroglifico egizio da leggere ka. Originariamente, la figura impugnava un'asta nella mano sinistra, protesa in avanti, e stringeva uno scettro nella destra, che invece è distesa lungo il corpo. Il volto è reso particolarmente espressivo dai brillanti occhi realizzati in cristallo di rocca e quarzo, intarsiarti nel legno. Poiché rappresenta il ka di Hor I e non la sua persona, la scultura non è un ritratto del faraone. Ciò è inoltre sottolineato dalla mancanza, dalla fronte, dell'ureo (immancabile nella ritrattistica reale) e dalla presenza, invece, della parrucca tripartita e della lunga barba arricciata - attributi propri di divinità e geni e chiare allusioni alla natura divina del soggetto raffigurato.
La tomba quasi intatta di Hor I, contenente il sarcofago con la salma del sovrano, il tabernacolo ligneo e la famosa statua del suo ka, nascosti sotto una grande quantità di bastoni e vasi, fu scoperta nel 1894 da Jacques de Morgan, Georges Legrain e Gustave Jequier a Dahshur. La tomba non era altro che un pozzo ricavato presso l'angolo nord-orientale della piramide di re Amenemhat III, probabilmente progettato per un semplice cortigiano e solo in seguito adattata al meglio delle possibilità per accogliere i resti mortali e il corredo funebre di Hor I, morto forse inaspettatamente. Al momento della scoperta, la statua era ricoperta di uno strato di una pittura grigia che si disintegrò a contatto con l'aria. L'identità dell'enigmatico faraone Hor I Auibra è nota esclusivamente grazie a questa scoperta, in particolare grazie a due vasi in alabastro, all'imboccatura della cavità, recanti il suo nome.
La statua si trova al Museo egizio del Cairo, col numero d'inventario JE 30948. Scomparsa poco tempo dopo il suo arrivo nel museo, nel 1902, fu poi ritrovata in un luogo appartato del museo stesso, nascosta da un operaio che l'aveva danneggiata e temeva di essere punito.





EGITTO - Statua di Chefren assiso in trono

 
La statua di Chefren assiso in trono (JE 10062) è un'antica scultura funeraria egizia del faraone Chefren (ca. 2558 a.C. - 2532 a.C.), che regnò durante la IV dinastia. Si trova al Museo egizio del Cairo. Il suo materiale è l'anortosite-gneiss (un tipo di diorite), una pietra scura, pregiata ed estremamente dura, proveniente da cave regali distanti dal sito del ritrovamento oltre 640 chilometri - a sud lungo il corso del Nilo. L'opera, ritenuta uno dei massimi capolavori della statuaria egizia, intende sottolineare il potere e la dignità regale di Chefren e fu scolpita per essere collocata nel Tempio a valle, accanto alla Sfinge di Giza, all'interno della grande necropoli; era oggetto di un culto funerario: le sculture dei sovrani defunti, all'interno dei loro templi funerari, erano intese come sostituti del corpo del re per divenire sedi del suo ka: secondo la religione egizia, il ka era la forza che animava la forma visibile di qualcuno (sia il corpo oppure solo una statua) che il ba aveva scelto, dandole così la vita (questa complessa nozione non ha un equivalente nelle moderne lingue europee: la sua traduzione con i termini anima o spirito è solo parzialmente precisa). Dopo la morte, il ka avrebbe abbandonato il corpo, pur continuando a necessitare di un luogo in cui insediarsi: la statua. Scolpita a tutto tondo, l'opera raffigura Chefren seduto (una delle modalità più comuni per la rappresentazione della figura umana durante l'Antico Regno).
Chefren compare rigidamente assiso sul suo trono regale, con lo sguardo ieraticamente fisso davanti a sé in un punto lontano. Indossa il tipico copricapo nemes, in lino, sormontato dall'ureo regale, e la barba posticcia attaccata al mento cesellato: tutti questi simboli erano intesi come riferimento alla natura divina del faraone. Stretto in vita, porta un gonnellino plissettato, lungo fino alle ginocchia, che rivela un corpo idealizzato, giovane e dai muscoli definiti. L'avambraccio sinistro e parte della gamba sinistria sono mancanti. Questa immagine non è da interpretare come un ritratto fedele, ma come una simbolizzazione del potere di Chefren attraverso l'uso delle convenzioni artistiche egizie: un corpo perfetto, un viso senza età, proporzioni corporee ideali. La ritrattistica egizia idealizzata non intendeva rendere riconoscibili i connotati dei sovrani, bensì proclamarne la natura divina. L'elaborato trono su cui Chefren si asside è formato da due leoni che ne rendono particolarmente robuste le gambe. Fiori di loto (stemma araldico dell'Alto Egitto) e piante di papiro (del Basso Egitto) crescono fra le gambe del sedile e sono un chiaro riferimento all'unificazione dell'Alto e del Basso Egitto, che pose fine al periodo predinastico dell'Egitto e avviò il periodo dinastico (ca. 3150 a.C.). Horus, il grande dio-falco protettore dei faraoni, è fieramente appollaiato in cima allo schienale del trono e le sue due ali, aperte, abbracciano la nuca del sovrano in un gesto tradizionalmente protettivo: il faraone era creduto l'incarnazione di Horus in terra, ed era questa sua caratteristica divina a legittimarne il regno. 
Al di là della sorprendente immagine del falco di Horus, praticamente invisibile in una visione frontale dell'opera, i piedi di Chefren poggiano su una piattaforma decorata con l'incisione dei cosiddetti "nove archi", simboli tradizionali del dominio del faraone sui nemici stranieri e interni. La rappresentazione del faraone, molto calma e simmetrica, senza movimenti o emozioni, enuncia l'immobile eternità del sovrano: la sua corporatura sana e robusta, la postura permanente dimostrano di ignorare lo scorrere del tempo, a intendere che Chefren era considerato al di fuori del tempo e che il suo potere sarebbe esistito per sempre, anche nell'aldilà. La sua espressione è impassibile, il volto è senza età, alludendo velatamente a un regno privo di turbamenti e perfettamente controllato, oltre che a un potere incontrastato. La scultura appare compatta e solida, con poche parti sporgenti: il corpo ideale di Chefren e il suo trono sono legati per l'eternità in un unico blocco.

EGITTO - Testa colossale di Tolomeo XV Cesare

 


La testa colossale di Tolomeo XV Cesare (SCA 88) è il frammento di una statua colossale dell'antico faraone egizio Tolomeo XV Cesare (44–30 a.C.), detto Cesarione, figlio della regina tolemaica Cleopatra VII (51–30 a.C.), con la quale condivise formalmente il regno, e del condottiero romano Gaio Giulio Cesare. E' esposta alla Bibliotheca Alesxndrina, ad Alessandria d'Egitto.
L'identità del soggetto è oggetto di ipotesi e dibattiti. Questa testa in granodiorite si inserisce nel filone della statuaria regale tolemaica con caratteri sia greci che egizi: la dinastia tolemaica era infatti di origini macedoni e aveva assunto il potere in Egitto dopo la morte di Alessandro Magno (323 a.C.): tuttavia, le prime rappresentazioni di tali sovrani a fondere al tradizionale stile egizio gli influssi greci cominciarono a essere prodotte solamente sotto Tolomeo V (204–181 a.C.). Il reperto fu scoperto nel 1997 dall'archeologo subacqueo Frack Goddio sul fondale marino al largo di Alessandria d'Egitto, insieme a centinaia d'altri reperti di varia natura (statue, monete, stele, vasellame e altro).
La statua è rotta alle spalle e si sono preservate unicamente la testa, con viso giovanile e naturalistico, e parte del copricapo faraonico nemes: proprio il realismo dei tratti somatici rimanda a un modello più greco che egizio così come l'esecuzione dei capelli, tipica della scultura tolemaica greco-egizia[2]. Sulla superficie del nemes vi sono due serie di fori praticati per l'inserimento di cavicchi: la prima, sulla sommità della testa, serviva a sorreggere una corona non meglio definibile; la seconda serie, sopra le orecchie, sosteneva forse un diadema, una fascia o un paio di corna d'ariete del dio egizio Amon, assimilato al greco Zeus. In un primo momento si credette che non fosse mai stato realizzato, sulla sommità della fronte, l'ureo regale tipico dei sovrani d'Egitto e caduto in disuso in epoca romana (fuorché, curiosamente, per la gente comune nelle raffigurazioni funerarie): l'individuazione delle tracce dell'ureo nel 2001 permise di ascrivere la testa a un re egizio d'epoca tolemaica.
Lo stile dei capelli fu avvicinato da alcuni alle rappresentazioni di Augusto. Il viso è piatto e largo, la fronte prominente, le palpebre arrotondate, la bocca pesantemente piegata verso il basso in un'espressione "imbronciata" tipica del I secolo a.C. (presente, per esempio, in un colosso di Tolomeo II) Al Museo egizio di Torino, per esempio, si trova una statua di Cleopatra assai simile a questa testa, così come a svariati ritratti attribuiti a non meglio identificati "principi" del I secolo a.C. Si tratterebbe, quindi, di un'opera del periodo, cioè tardo-tolemaica. L'aspetto decisamente giovanile di questo re e le similitudini con l'immagine di Cleopatra a Torino porterebbero ad ascrivere la testa proprio agli anni di Cleopatra; la regina, nel corso degli anni, condivise il potere con cinque uomini: inizialmente i propri fratelli Tolomeo XIII e Tolomeo XIV, poi i propri amanti Gaio Giulio Cesare e Marco Antonio (che però non furono mai proclamati re d'Egitto), infine il proprio figlioletto Tolomeo XV, proclamato coreggente della madre e rappresentato al suo fianco nel Tempio di Hathor a Dendera: è possibile che accanto a questa statua se ne trovasse un'altra della madre, oggi perduta.

EGITTO - Statua della regina bianca

 
Statua della regina bianca
(JE 31413) è il soprannome di una scultura (conservata al Museo egizio de Il Cairo) raffigurante una regina - la cui identità è dibattuta - del faraone Ramses II (1279–1213 a.C.): la parte finale delle iscrizioni sul pilastro dorsale, con il nome e titoli principali della donna raffigurata, è andata perduta. Comunque, il copricapo circolare con i cobra sormontati da piccoli disco solari (che originariamente sosteneva due piume e un altro disco solare) e i due cobra sulla fronte (le dee Nekhbet e Uadjet) ne definiscono chiaramente il rango di regina. A causa di una certa somiglianza con un colosso (dieci volte più grande di questa statua), scoperto ad Akhmim nel 1981, di Meritamon, una della figlie dello stesso Ramses II e della Grande sposa reale Nefertari, che divenne una sposa reale alla morte della madre. La donna ritratta, giovane e con un leggero sorriso, indossa una parrucca tripartita fermata da una doppia banda che sostiene l'ureo, grossi orecchini sferici e un ampio pettorale, le cui perline sono a forma di geroglifico nefer, che significa "bello"; nella mano sinistra, appoggiata al seno destro, impugna una collana dal contrappeso a forma di dea Hathor, che permette di identificarla anche come sacerdotessa; i suoi capezzoli sono coperti da piccole rosette. Fra i titoli preservatisi sul retro del reperto, compare la dicitura: «Suonatrice del sistro di Mut e del menat di Hathor, danzatrice di Hathor
I colori della statua sono in uno stato di conservazione più che discreto. Fu rinvenuta a Tebe, nella "Cappella della Regina Bianca" del Ramesseum, dall'archeologo britannico Flinders Petrie nel 1896.


EGITTO - Statua di Amenardis I in alabastro

  La  statua di Amenardis I (JE 3420) è un'antica statua egizia in alabastro calcareo raffigurante la "Divina Sposa di Amon"...