Monte d'Accoddi, a volte
scritto Akkoddi, è un importante sito
archeologico della Sardegna prenuragica fondato tra il
4000 e il 3650 a.C. e ampliato tra il 2800 e il 2400 a.C. (Cultura di
Abealzu-Filigosa).
Per la concentrazione di differenti
tipologie di costruzione, il monumento è tutt'oggi considerato unico
non solo in Europa, ma nell'intera zona del mar
Mediterraneo, tanto particolare da essere associato, erroneamente,
per la forma alle strutture di più piani orizzontali sovrapposti
(dette "ziqqurat") della Mesopotamia.
Monte d'Accoddi è situato nella Nurra,
regione della Sardegna nord-occidentale, e più
precisamente nel territorio del comune di Sassari, vicino al
vecchio percorso della Strada statale 131 Carlo Felice, in
direzione di Porto Torres, in un terreno in origine di proprietà
della famiglia Segni.
Il complesso si trova all'interno di
una porzione di territorio che registra una importante presenza di
monumenti preistorici distanti fra loro poche centinaia di metri.
Tra i più importanti da segnalare,
oltre a Monte d'Accoddi, gli antichi cimiteri (chiamati "necropoli")
di Su Crucifissu Mannu, Ponte Secco, Li Lioni,
Sant'Ambrogio, Su Jaiu, Spina Santa e Marinaru, le tombe
costruite con grosse pietre (cioè i "dolmen") e le grandi
pietre infisse nel terreno (ossia i "menhir") di Frades
Muros, oltre ad una decina di nuraghi.
Il monumento, unico nella zona del
Mediterraneo, faceva parte di un complesso di epoca prenuragica,
sviluppatosi su un'area pianeggiante a partire dalla seconda metà
del IV millennio a.C. e preceduto da tracce di visite
del neolitico medio.
In un primo periodo si stabilirono
nella zona diversi villaggi di capanne a quattro angoli, appartenenti
alla cultura di Ozieri, ai quali si collega un cimitero con
tombe sotterranee a domus de janas e un probabile tempio
con pietre infisse nel terreno, lastre di pietra per sacrifici e
sfere di pietra.
Successivamente, popolazioni sempre
appartenenti alla cultura di Ozieri costruirono un'ampia piattaforma
sopraelevata, a forma di piramide tronca (27 m x 27 m,
di circa 5,5 m di altezza), alla quale si accedeva con una
rampa. Sulla piattaforma venne costruita una grande struttura
rettangolare rivolta verso sud (12,50 m x 7,20), che è stata
riconosciuta come tempio (chiamata "Tempio rosso",
perché la maggior parte delle superfici sono intonacate e dipinte
con ocra rossa); sono presenti anche tracce di giallo e di
nero.
All'inizio del III millennio
a.C. la struttura probabilmente fu abbandonata (sono state
rinvenute anche tracce di incendi). Intorno al 2800 a.C. venne
completamente ricoperta da un colossale riempimento, costituito da
strati alternati di terra, pietre e calcare del posto polverizzato.
Il riempimento è contenuto da un
rivestimento esterno in grandi blocchi di calcare. In questo modo
venne creata una seconda grande piattaforma a piramide tronca (36 m
x 29 m, di circa 10 m di altezza), accessibile per mezzo di
una seconda rampa, lunga 41,80 m, costruita sopra quella più
antica. Questo secondo santuario, conosciuto anche come "Tempio
a gradoni" è stato attribuito alla cultura di
Abealzu-Filigosa.
L'edificio conservò la sua funzione di
centro religioso per diversi secoli e venne abbandonato con l'età
del bronzo antico: intorno al 1800 a.C. era ormai in rovina e
venne utilizzato occasionalmente per sepolture.
Durante la seconda guerra
mondiale fu danneggiata la parte superiore dallo scavo di
stretti fossati per posizionare sopra delle armi contraeree.
Gli scavi archeologici furono condotti
da Ercole Contu (1954-1958) e da Santo Tinè (1979-1990).
Il monumento negli anni ottanta è stato oggetto di un
pesante intervento di restauro, con scavi, rimozioni di materiale e
ricostruzioni ingiustificate sulla rampa e posizionamento di alcuni
resti trovati nell'area.
Le ricerche di Contu prima, e in
seguito di Tinè appurarono la presenza di due altari costruiti in
periodi diversi, quello più antico e più piccolo è inglobato dalla
costruzione più recente.Quest'ultima è costituita da un tronco di
piramide con base di 37,50 m (lati nord e sud) per 30,50 m
(lati est e ovest) e altezza di 9 m circa. Dal lato meridionale
si sviluppa la rampa d'accesso, lunga 41,50 m e larga da un
minimo di 7 m ad un massimo di 13,50 nella parte a ridosso della
costruzione, che occupava nel suo complesso circa 1600 m².
Il monumento era costruito nella parte
più esterna da muri in pietra a faccia singola (a differenza
dei nuraghi, che ne hanno generalmente due) costituito da
blocchi irregolari di calcare, non poggiati sulla giuntura dei
blocchi sottostanti (altra differenza costruttiva rispetto ai
nuraghi).
Queste murature, inclinate a favore di gravità,
sostenevano l'ammasso interno, stratificato, di terra e pietrame,
organizzato in cassoni di contenimento e si sono conservate intatte
nella porzione di sud-est fino a 5,40 m di altezza.
La rampa era costruita con la stessa
tecnica man mano che procedeva la costruzione del tronco di piramide,
in modo da servire come piano inclinato per edificare il resto dello
stesso edificio.
Il tempio interno, era egualmente del
tipo "a terrazza" con base quadrangolare di 23,80 m x
27,40 e altezza di 5,50 m al quale era collegata una rampa di
25 m circa di lunghezza che permetteva di raggiungere la cella
(12,50 m x 7,25 m) che sovrastava la struttura. Della
cella, o sacello, che era l'ambiente più sacro della struttura,
rimangono oggi il pavimento ed il muro perimetrale per un'altezza di
70 cm, entrambi intonacati di rosso ocra.
Oltre all'altare nel complesso
archeologico di Monte d'Accoddi sono presenti altri monumentali
artefatti prenuragici.
Nel lato est della rampa, a pochi metri
da essa è presente un lastrone di compatto calcare di 8,2 tonnellate
di circa tre metri per tre, che costituiva un dolmen o
forse una tavola per offerte. La seconda ipotesi sembra essere
confermata dalla presenza di sette fori passanti nei bordi della
pietra che potevano servire a legare le vittime degli eventuali
sacrifici. La lastra è posta sopra un inghiottitoio naturale ed è
contemporanea all'altare più recente.
Nello stesso lato della rampa
d'accesso, e proprio a ridosso di essa fu trovata un'altra lastra,
questa in trachite, del peso di circa 2,7 tonnellate.
Nel lato opposto della rampa è stato
recentemente rialzato un menhir là trovato, di calcare
squadrato e forma allungata, alto 4,40 m e pesante 5,7
tonnellate.
Questi tre manufatti sono oggi visibili
nella posizione originaria e gli ultimi due sembrano essere coevi
dell'altare più antico.

Altri due monumenti litici, provenienti dalla zona ad est del
complesso sono stati collocati nei pressi della lastra più grande, e
sono due pietre calcaree sferoidali, la più grande, lavorata, pesa
più di una tonnellata ed ha una circonferenza di 4,85 m, mentre
la seconda ha un diametro di circa 60 cm. Sul monumento vi sono
tuttora solo delle ipotesi sia sul nome che sulla tipologia
del monumento stesso. Il nome akkoddi sembra derivare dal
sardo arcaico Kodi che significava: monte e da
cui deriverebbe l'altro nome sardo Kodina o Kudina che
sta ad indicare " pietra ". Ma quella riportata sopra è
una delle tante ipotesi sull'origine del nome, tuttavia ne esistono
diverse ma abbastanza confuse. L'altare sulla torre era
considerato il punto di incontro tra umano e divino e si pensa che un
gran numero di animali – sicuramente bovini -
venissero sacrificati per propiziare la rigenerazione della vita e
della vegetazione. Ai piedi della piramide a gradoni sono stati
ritrovati dagli archeologi grandi accumuli composti da resti di
antichi pasti sacri ed anche oggetti utilizzati durante i
riti propiziatori.
Numerose sono anche le ipotesi sull'utilizzo che ne veniva fatto.
Sulle credenze religiose, sui concetti di fertilità e riproduzione
legati al monumento e sulle antiche credenze dell'unione tra il cielo
e la terra, ci sono anche le ipotesi dell'archeologo Giovanni
Lilliu.
Vi è infine un'ipotesi, formulata dall'appassionato Eugenio Muroni,
secondo la quale la simmetria dell'altare prenuragico riprodurrebbe
le stelle della Croce del Sud, oggi non visibile dal sito di
Monte d'Accoddi, a causa della precessione degli equinozi, ma
che 5000 anni fa era probabilmente visibile nel settore sud del cielo
sardo, come confermato dal fisico Gian Nicola Cabizza. Secondo
questa teoria, le forme stilizzate, a croce secca, della Dea Madre,
stele posizionata a nord del monumento, realizzata in granito rosso,
non hanno neanche il segno o la modanatura del piccolo busto presente
in altre dee madri coeve; per cui, secondo Muroni, si volle
realizzare un qualcosa ispirato ad una forma a croce che altro non
poteva essere che la nota costellazione, significando, al contempo,
il passaggio dal culto meramente terragno a quello astrale, e quindi
ad uno stadio culturale maggiormente evoluto.