mercoledì 23 aprile 2025

KERAMOS - Il ratto d'Europa (Campania)

 


Il ratto di Europa è uno dei più noti crateri realizzati da Assteas, artista pestano del IV secolo a.C. È stato definito "il vaso più bello del mondo".
L'attribuzione è certa, dato che il ceramografo incise sulla superficie del vaso sia la sua firma che i nomi delle figure dipinte.
Il cratere, appartenente alla tipologia detta "a calice", rientra nel filone della ceramica a figure rosse. È alto circa 70 cm e largo 60 all'apertura.
Sul lato anteriore è rappresentato il mito del ratto di Europa, mentre sul retro è possibile ammirare Dioniso seguito da alcune menadi, un sileno e il dio Pan (tale corteo prende il nome di tiaso).
Il cratere è stato rinvenuto nei primi anni '70 del Novecento a Sant'Agata de' Goti (in provincia di Benevento), città sorta sulle rovine dell'antica Saticula, da un operaio edile, durante dei lavori di scavo per la rete fognaria. Il carpentiere dapprima si appropriò illegalmente del reperto, poi lo portò a casa, fece alcuni autoscatti con una Polaroid a colori e infine lo vendette sul mercato nero per un milione di lire e un maialino.
Il cratere ha poi seguito la filiera di un'organizzazione criminale dedita al traffico internazionale di reperti storici, venendo depositato in Svizzera in attesa di un acquirente. Da qui, "il ratto di Europa" fu venduto al Getty Museum (Malibù, California). In questa sede fu esposto dal 1981 al 2005.
In seguito a lunghe e complesse indagini dell'Arma dei Carabinieri (Comando Tutela Patrimonio Culturale) è stato possibile riportare il cratere in Italia, grazie alla prova schiacciante di un'istantanea Polaroid ritraente il cratere e l'operaio che lo aveva ritrovato anni addietro.
A partire dal 2007 il vaso è stato esposto in diverse città europee: Roma, Montesarchio, Napoli, Paestum, Parigi, Sant'Agata de' Goti, Milano.
Attualmente il cratere è in esposizione presso il Castello di Montesarchio, sede insieme alla Torre del museo archeologico nazionale del Sannio Caudino (in provincia di Benevento), città situata sul territorio dell'antica Caudium.
La storia del cratere è stata narrata in diversi articoli giornalistici e, in maniera più approfondita, nel romanzo "Il ratto di Europa. Storia del vaso di Assteas" di Aniello Troiano e nel documentario di Michele Porcaro "ASSTEAS - Storia del vaso più bello del mondo" a cui ha collaborato il critico d'arte Vittorio Sgarbi.

(da Wikipedia, l'enciclopedia libera)

KERAMOS - Vaso di Eufronio (Lazio)

 


Il vaso di Eufronio, o anche cratere di Sarpedonte, è un cratere a calice decorato a figure rosse, alto 45.7 cm con un diametro di 55.1 cm, modellato dal ceramista Euxitheos e dipinto dal ceramografo Eufronio intorno al 515 a.C. Di provenienza illecita, è rimasto esposto dal 1972 al Metropolitan Museum di New York; dal 2006 è stato restituito allo stato italiano ed è conservato presso il Museo nazionale cerite, in deposito dal Museo nazionale etrusco di Villa Giulia. Proveniente dal saccheggio, avvenuto intorno al 1971, di una tomba etrusca presso Cerveteri, il cratere fu venduto per un milione di dollari dal mercante d'arte statunitense Robert Hecht Jr. e dal mercante d'arte italiano Giacomo Medici al Metropolitan Museum of Art di New York. In seguito ad un accordo, nel 2006 la proprietà del reperto è stata restituita all'Italia dove è definitivamente tornato nel gennaio del 2008. Dopo aver partecipato a diverse mostre (Mantova, Roma, Atene), alla fine del 2009 è stato collocato nel Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma, fino al febbraio del 2015, quando, in occasione del decennale del riconoscimento UNESCO della Necropoli della Banditaccia di Cerveteri, è stato spostato al Museo Archeologico Nazionale di Cerveteri, spostamento divenuto definitivo nell'ottobre dello stesso anno. Un'iscrizione riporta il nome del ceramografo e del ceramista mentre un'altra riporta "Leagro è bello": quest'ultima ha permesso di datare il vaso al periodo in cui sappiamo dalle fonti che Leagro era considerato il più bell'uomo della Grecia.
Le anse dividono la superficie in due aree decorate con scene differenti, separate all'altezza delle anse da una decorazione a palmette che Euphronios, unico tra i Pionieri a interessarsi a questi aspetti decorativi, deriva da Oltos.
La scena sul lato principale è tratta dall'Iliade e narra della morte di Sarpedonte, figlio di Zeus e di Laodamia, alleato dei Troiani nella guerra contro gli Achei. Le personificazioni del Sonno, Hypnos e della Morte, Thanatos, ne riportano il corpo in patria, trascinandolo via dal campo; il dio Hermes, al centro della scena, dirige l'operazione. La composizione è dominata dal grande corpo di Sarpedonte che evidenzia la padronanza raggiunta da Euphronios nella rappresentazione dello scorcio e nella comprensione della struttura anatomica; le due figure allegoriche, chine sul re licio, sono rappresentate, a parte le ali, come guerrieri, in pose naturalistiche e con anatomia precisa. Due altri guerrieri chiudono la scena alle estremità, che come si vede da delle scritte sono: Ippolito a destra e Leodamante a sinistra; sono figure stanti, osservatori, tradizionalmente presenti ad indicare l'esemplarità della rappresentazione, forse un collegamento tematico con il gruppo di giovani che, sul lato opposto del cratere, vengono raffigurati nell'atto di indossare le armi prima di una battaglia: una scena di genere, non necessariamente collegata ad eventi identificabili.
Si tratta di giovani ateniesi contemporanei, ma identificati con nomi tratti dalla mitologia dalle iscrizioni che accompagnano ciascuna figura. La scelta di unire scene storiche a vicende mitologiche, sullo stesso vaso e con lo stesso stile, crea un legame tra l'attualità e il mito.
La tecnica a figure rosse è costituita da figure risparmiate all'interno dell'ingubbio nero che ricopre il vaso; ad esse sono aggiunti dettagli interni con pittura nera più diluita. Lo stile naturalistico delle rappresentazioni, scorci e spazio illusionistico, è una delle caratteristiche proprie dei ceramografi del Gruppo dei pionieri, dell'epoca tardo-arcaica, di cui Eufronio fu il massimo rappresentante. La pittura nera è utilizzata da Eufronio, come dai suoi contemporanei, sia a rilievo sia diluita a vari livelli, restituendo differenti gradazioni nel tono, dal marrone scuro all'ocra. Eufronio tuttavia utilizza la linea a rilievo anche per i dettagli interni, una pratica che verrà abbandonata dai ceramografi attici più recenti. Il rosso opaco è aggiunto per alcuni dettagli e per le iscrizioni.




KERAMOS - Anfore panatenaiche

 
Le anfore panatenaiche sono anfore prodotte per contenere l'olio sacro che nell'antica Grecia veniva consegnato come premio agli atleti vincitori dei giochi panatenaici. Prodotte a partire dalla metà del VI secolo a.C. (nel periodo dei ceramografi Kleitias e Lido) e decorate con la tecnica a figure nere, questi vasi ufficiali mantennero tradizionalmente questo tipo di decorazione fino al II secolo a.C. Sono giunte sino a noi centinaia di anfore panatenaiche, la prima databile al secondo quarto del VI secolo a.C. (le gare di atletica sono state introdotte alle Panatenee nell'anno 566 a.C.), l'ultima all'età ellenistica. Era una commissione statale dunque molto remunerativa per il ceramista che la riceveva. Metà delle anfore giunte sino a noi è stata ritrovata in Attica, molte, data la loro preziosità, furono vendute e portate altrove.
La forma essenziale del vaso con il corpo ampio, il collo corto e sottile, la base affusolata e il piede piccolo rimase la stessa nel corso dei secoli, cambiò invece la parte decorativa che si adattava col tempo al cambiamento del gusto. I temi delle decorazioni rimasero gli stessi: sul fronte la figura di Atena, in atteggiamento bellicoso, tra due colonne sormontate da
galli (le colonne potevano riferirsi al tempio della dea o forse erano solo un supporto per i galli, simbolo di spirito combattivo) e con l'iscrizione standard "ton Athenethen athlon" ([io sono] dei Giochi Atenaici); sul retro veniva rappresentata una specialità dei giochi, quella in cui si era distinto il vincitore. A partire dal IV secolo a.C. queste opere recano la data della raccolta delle olive (indicata col nome dell'arconte), divenendo particolarmente utili per le datazioni; inoltre da questo momento solo le scene sul retro seguono l'evolversi dello stile mentre sul fronte la figura di Atena, a parte il cambiamento di profilo per cui inizia ad essere rivolta a destra anziché a sinistra, si allontana nel disegno
dall'evoluzione stilistica contemporanea, seguendo una maniera tradizionale e arcaizzante, come accadde anche sulle contemporanee monete ateniesi.
L'Anfora Burgon (Londra B 130), così chiamata dal nome dello scopritore, è la prima anfora panatenaica giunta sino a noi; è stata vinta per una gara equestre e potrebbe essere antecedente al 566 a.C. È un vaso robusto e poco slanciato, una forma che si evolverà col tempo verso una maggiore eleganza la quale diverrà addirittura eccessiva nei modelli del tardo IV secolo a.C. L'immagine di Atena sull'Anfora Burgon è una figura massiccia con un peplo semplice, diritto e senza pieghe; la decorazione non è ancora canonica, non esistono le colonne ai lati della figura, non c'è la fascia di linguette sopra l'immagine e sul collo del vaso vi sono una sirena e una civetta invece del disegno floreale che diverrà canonico in seguito.
Un'anfora panatenaica frammentaria conservata ad Halle, contemporanea dell'Anfora Burgon o leggermente posteriore,
mostra sul retro una scena con tre velocisti robusti in un esempio di quell'atteggiamento nella corsa che appare per la prima volta in questo periodo, con la gamba davanti sollevata contemporaneamente al braccio corrispondente. Il disegno sul collo del vaso è floreale, ma non ancora di tipo
Il successivo vaso completo è a Firenze e ancora non presenta le caratteristiche canoniche delle anfore di questa classe: assenza di colonne e iscrizione orizzontale sul retro, sulla parte anteriore del vaso un uomo nudo (il vincitore) si erge di fronte ad Atena come non avverrà più in seguito. Atena però ha già un tallone leggermente sollevato da terra, posizione che verrà mantenuta e che infonde un senso di movimento; la forma è ormai canonica anche per la fascia floreale sul collo che è del tipo a palmette in seguito comunemente accettato. L'anfora è stata attribuita a Lido: lo stile del disegno è molto simile al suo e specialmente ad una oinochoe tarda conservata a Berlino (Berlin 1732).
Con l'anfora panatenaica del British Museum (London B 134) incontriamo il primo autore specializzato in questo tipo di produzione stando al notevole numero di queste anfore giunto sino a noi; viene chiamato Pittore di Euphiletos, dall'iscrizione kalos che su questa stessa anfora di Londra circonda la ruota del carro, emblema sullo scudo di Atena. L'Atena del Pittore di Euphiletos è una figura energica con molte pieghe nelle vesti che aumentano il senso del movimento e ha un elmetto meno semplice rispetto agli esempi precedenti. Il vaso era un premio per il pentathlon; le figure degli atleti sul retro del vaso appaiono slanciate e vivaci, ma ancora rigide nei movimenti.
Alla fine del VI secolo a.C. appartengono le anfore panatenaiche del Gruppo di Leagros. L'Atena sul vaso di New York ha cambiato costume e indossa un chitone invece del peplo. Il bordo dello scudo non è più rosso, ma nero con punti rossi; l'emblema sullo scudo in tutte le anfore
panatenaiche del Gruppo di Leagros è una sirena e da questo momento in poi ogni pittore tenderà a dipingerne uno unico e caratteristico.
I due grandi pittori del periodo tardo-arcaico a figure rosse sono il Pittore di Kleophrades e il Pittore di Berlino. Un terzo artista a figure rosse che ha dipinto anfore panatenaiche è il Pittore di Eucharides. Del Pittore di Kleophrades ci sono giunte numerose anfore panatenaiche: l'emblema sui suoi scudi di Atena è sempre Pegaso. Le anfore panatenaiche del Pittore di Berlino appartengono al suo ultimo periodo, dopo il 480 a.C.; si tratta di una lunga serie di vasi premio, i primi attribuibili alla sua mano, quelli successivi ad un allievo e seguace, il Pittore di Achille. La prima delle anfore panatenaiche del Pittore di Berlino apparteneva alla collezione del marchese di Northampton presso Castle Ashby ed ora è a New York; mostra, nella scena della corsa sul retro, un esempio raro a questa data di movimento alternato braccio-gamba: in tutte e quattro le figure la gamba sinistra e il braccio destro vanno avanti insieme, e così la gamba destra e braccio sinistro.
Alla fine del V secolo a.C. e all'inizio del IV lo stile attraversa una fase di decadenza. Ne è un esempio l'anfora del British Museum B 605 che è interessante però per l'emblema sullo scudo di Atena: rappresenta le statue in bronzo dei Tirannicidi eseguite da Crizio e Nesiote nell'anno 476 a.C. Lo stesso emblema si trova su due anfore panatenaiche dello stesso periodo ma eseguite da un pittore diverso. Si è pensato che la scelta di questo emblema commemorasse l'espulsione di altri tiranni, i Trenta, e il ripristino del regime democratico ad Atene, nell'autunno dell'anno 403 a.C; le anfore sarebbero state offerte come premi ai giochi panatenaici del 402 a.C.
Nel IV secolo a.C. inizia la pratica di inscrivere le anfore panatenaiche con il nome dell'arconte dell'anno in cui era avvenuta la raccolta dell'olio. Una delle più antiche anfore panatenaiche di questa nuova serie è l'anfora di Berlino (n. inv. 3980) che è stata datata, malgrado il pessimo stato di conservazione dell'iscrizione, al 392/1 a.C. (arconte Philokles). Le proporzioni di Atena, dopo una fase di assottigliamento eccessivo, tornano ad essere normali e il panneggio torna ad
essere piano. I galli sono stati sostituiti da "simboli", ovvero piccoli disegni che spesso riproducono una statua, che cambiano di anno in anno e possono essere paragonati ai "simboli" presenti sulle monete.
Tra il 359 e il 348 a.C. viene introdotto un cambiamento nella figura di Atena dando inizio ad una nuova serie. La dea si volta ora a destra invece che a sinistra mostrando la parte interna dello scudo. La gonna si allunga e l'egida si riduce ad una semplice fascia incrociata con un piccolo gorgoneion al centro. Un mantello a coda di rondine viene indossato sopra le spalle; la coda di rondine non corrisponde a nulla di arcaico, ma diviene una caratteristica dei lavori arcaistici dall'inizio del IV
secolo a.C. in poi. Da questo momento il verso delle anfore panatenaiche varia nello stile e nella composizione, ma il lato frontale si riduce ad uno schema.
L'ultimo nome di arconte che appare, su un piccolo frammento, sulle panatenaiche esistenti, è Polemone, 312/311. Non si sa per quanto tempo ancora la pratica fosse rimasta in uso, le anfore panatenaiche ellenistiche portano i nomi di magistrati minori le cui date sono raramente note. Nel periodo ellenistico non solo lo stile, ma anche la qualità tecnica delle anfore diminuisce.



Nelle foto, dall'alto in basso:
- Anfora panatenaica (Anfora Burgon), Londra, British Museum B130
- Lido (attr.), anfora panatenaica, Firenze, Museo archeologico, 97779
- Pittore di Euphiletos, anfora panatenaica, Londra, British Museum B134
- Anfora panatenaica, 332/1 a.C., Londra, British Museum B610 (lato A)
- Anfora panatenaica (scena di pancrazio), 332/1 a.C., Londra, British Museum B610 (lato B)
- Anfora attica di tipo panatenaico databile 490-480 a.C. Con carro trainato da quattro cavalli dipinta da Kleophrades
- Anfora attica di tipo panatenaico, opera del Pittore di Michigan. Lato A: Athena Promachos tra colonne doriche. Lato B: Penthatleti: un discobolo e un lanciatore di giavellotto con un allenatore. Datazione 510-500 a.C. Da Vulci, scavi del 1837. Musei Vaticani, Museo Gregoriano Etrusco, Sala XIX
- Hoplitodromos. Lato B di una anfora di tipo attico panatenaica 323-322 a.C., da Bengasi (Cirenaica, Libia), Museo del Louvre, Parigi
- Anfora panatenaica attribuita al Pittore della Processione Nuziale, firmata Mikodemos, 363-362 a.C., Getty Museum

KERAMOS - Cratere P 473 della "Gipsoteca di Arte Antica e Antiquarium" di Pisa

 
Il cratere P 473 della "Gipsoteca di Arte Antica e Antiquarium" di Pisa è un cratere a colonnette a figure nere proveniente da Cerveteri, con ogni probabilità di produzione magnogreca, databile tra l’ultimo quarto del VI secolo a.C. e il primo quarto del secolo successivo. Tanto il nome del ceramista quanto quello del ceramografo (ammesso che in questo caso fossero due figure distinte) sono ignoti. È conservato presso la "Gipsoteca di Arte Antica e Antiquarium" all'interno della Chiesa di San Paolo all'Orto a Pisa. Il cratere P 473 è un tipico esempio di cratere a colonnette, caratterizzato da un corpo globulare, un piede a doppio gradino, un collo largo e un orlo piatto e sporgente.
Le dimensioni dell’oggetto sono normali per un cratere di questa tipologia: 31 cm in altezza e 29,9 cm a livello di diametro della bocca (34,4 cm se si prendono in considerazione anche le anse).
Il cratere è stato realizzato in argilla rosata ed è impreziosito, come accade spesso per questa categoria di oggetti, da numerose decorazioni e da una scena a figure nere che si è conservata su un lato della pancia del vaso, mentre sul lato opposto la decorazione pittorica è andata quasi completamente perduta.
Le decorazioni accessorie si presentano piuttosto standardizzate e includono:
- fogliette lanceolate unite tra di loro da steli a decorare il piatto del labbro
- palmette tra girali a decorare il piatto dell’ansa
- due file di foglioline di edera speculari a decorare la parte verticale del labbro
- alcuni raggi che si dipartono dal basso verso l’alto a decorare la fascia del cratere collocata immediatamente sopra il piede e sottostante la pancia.
Inoltre, sulla pancia la raffigurazione del motivo centrale è racchiusa all’interno di una metopa inquadrata sui lati da due bande di foglioline di edera speculari l’una rispetto all’altra e in alto da linguette nere e paonazze (il colore paonazzo è quasi completamente scomparso, ma permane visibile, seppure con una tonalità molto più chiara e sbiadita rispetto a quella originale, in due linguette conservatesi sul lato del cratere che ha perso la decorazione della pancia).
La scena raffigurata che si è conservata su uno dei due lati della pancia del cratere presenta una serie di personaggi che non sono identificati mediante nomi scritti a fianco delle figure, come invece accade in molti crateri e altri vasi cronologicamente e stilisticamente affini.
Procedendo da sinistra verso destra si possono riconoscere:
- all’estrema sinistra della rappresentazione un guerriero, stante, armato con elmo corinzio, che regge due lance e un grande scudo rotondo; quest’ultimo risulta decorato con un episema raffigurante un delfino, ancora oggi piuttosto ben visibile nonostante lo stato di conservazione non perfetto dell'oggetto
- al centro della pancia sono raffigurati tre personaggi: al centro è un guerriero colto nell’atto di infilare nella gamba sinistra uno schiniere, mentre alla destra e alla sinistra del guerriero sono due figure femminili stanti, completamente vestite, che gli reggono rispettivamente lo scudo e la lancia e la sola lancia
- all’estrema destra della rappresentazione è un altro guerriero stante, armato anch'egli di elmo corinzio, che regge due lance (oggi non più chiaramente visibili) e un grande scudo rotondo, anch’esso, come lo scudo dell’altro guerriero, impreziosito da un episema, questa volta raffigurante un aratro. Questo secondo guerriero è rivolto verso il centro della scena, mentre il guerriero a sinistra della pancia dà le spalle alla raffigurazione centrale, rivolgendo altrove il proprio sguardo.
L'interpretazione della scena appena descritta pone alcuni problemi piuttosto complessi, aventi soprattutto a che fare con l'identificazione del mito che vi verrebbe rappresentato. Innanzitutto, il cratere P 473 si può accostare a una serie molto nutrita di vasi che sembravano recare, seppure con alcune modifiche e variazioni, la rappresentazione pittorica della medesima scena: la consegna di un nuovo corredo di armi da parte di Teti ad Achille di cui si narra all’inizio del XIX libro dell'Iliade. Secondo il poema, Achille aveva prestato la propria armatura con la quale era giunto a combattere sotto Troia all’amico Patroclo, il quale si era offerto di provare a risollevare le sorti dell'esercito greco di fronte all'inarrestabile avanzata dell'esercito troiano guidato da Ettore (Achille si era da tempo ritirato dalla battaglia, offeso per il torto subito da Agamennone: cfr. Iliade, I). Patroclo era però stato abbattuto in battaglia da Ettore, il quale gli aveva anche sottratto l’armatura (di Achille) che indossava.
Quando Achille sceglie di tornare a combattere (Iliade, XVIII), la madre Teti chiede al dio Efesto di procurare al figlio una nuova armatura, e la consegna di quest’ultima viene appunto raccontata da Omero all’inizio del XIX libro dell'Iliade:
«L’Aurora peplo di croco dalle correnti d’Oceano
balzò a portare la luce agli immortali e ai mortali,
e Teti giunse alle navi, portando i doni del dio.
Trovò il suo caro figlio disteso su Patroclo,
e acuto piangeva; molti compagni intorno
gemevano. S’avvicinò a loro la dea luminosa,
e prese la mano del figlio, disse parola, diceva:
"Creatura mia, per quanto straziati, lasciamo stare
Patroclo, poiché per volere dei numi è stato abbattuto.
Ma tu, prendi l’inclite armi d’Efesto,
bellissime, quale mai mortale portò sulle spalle."
balzò a portare la luce agli immortali e ai mortali,
e Teti giunse alle navi, portando i doni del dio.
Trovò il suo caro figlio disteso su Patroclo,
e acuto piangeva; molti compagni intorno
gemevano. S’avvicinò a loro la dea luminosa,
e prese la mano del figlio, disse parola, diceva:
"Creatura mia, per quanto straziati, lasciamo stare
Patroclo, poiché per volere dei numi è stato abbattuto.
Ma tu, prendi l’inclite armi d’Efesto,
bellissime, quale mai mortale portò sulle spalle."»
(Iliade, XIX, 1-10, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti)

Tra i numerosi vasi su cui parrebbe raffigurato questo episodio si può citare per esempio una hydria databile intorno alla metà del VI secolo a.C., oggi conservata a Parigi al Museo del Louvre. Essa presenta su un lato della pancia una decorazione a figure nere in cui è raffigurata una serie di personaggi, tutti chiaramente identificabili grazie ai relativi nomi dipinti a fianco di ciascuno di essi. Al centro sono raffigurati Teti e Achille: la donna porge uno scudo e una corona al figlio, il quale riceve questi doni e già regge nella mano destra una lancia, anch’essa verosimilmente dono della madre. Il fatto notevole è che in questa rappresentazione ad accompagnare Teti sono raffigurate dietro a lei due figure femminili che recano altri due doni ad Achille (una corazza e un elmo): esse sono identificabili, sempre grazie ai nomi propri scritti a fianco, come due Nereidi. A completare la scena, dietro ad Achille è un guerriero armato con lancia e scudo, identificato dalla scritta “Odisseo”. Se la scena raffigurata su questa hydria fosse, come si è a lungo sostenuto sulla base del raffronto con un gran numero di rappresentazioni simili, l’episodio della consegna delle nuove armi da parte di Teti al figlio Achille raccontata all’inizio del XIX libro dell'Iliade, alcuni elementi di incoerenza tra questa raffigurazione pittorica e il racconto omerico risulterebbero difficili da spiegare: innanzitutto, la presenza della corona tra i doni portati da Teti ad Achille, poiché la corona non fa parte dell'armatura di nessun guerriero omerico, ma soprattutto le due Nereidi che accompagno la madre dell’eroe. Delle Nereidi, infatti, Omero non fa alcuna menzione all'inizio del XIX libro. La presenza di Odisseo potrebbe invece essere un riferimento sintetico ai compagni che nel racconto omerico vengono esplicitamente detti essere insieme ad Achille nel momento in cui questi viene raggiunto dalla madre (vv. 5-6).
In ogni caso, a questo episodio omerico sono state tradizionalmente ricondotte molte altre raffigurazioni su vasi, e in alcune di esse la posa dell’eroe Achille al centro della scena si presenta diversamente rispetto a ciò che accade nella hydria considerata poc’anzi: è il caso, per esempio, di un frammento di una tazza a fascia, databile intorno al 560/550 a.C. e oggi conservata presso i Musei Vaticani. In questa raffigurazione Achille, ritratto al centro della scena, non è in piedi su due gambe come nel caso della hydria sopra citata, colto nel momento di ricevere i doni portatigli dalla madre Teti, ma si tiene in equilibrio sulla gamba destra mentre infila uno schiniere nella gamba sinistra; nel frattempo la madre gli regge la spada e lo scudo. Tale schema compositivo sembra dunque essere molto vicino a quello del cratere P 473, dove pure il guerriero rappresentato al centro della scena è raffigurato mentre infila lo schiniere nella gamba sinistra, mentre una figura femminile di fronte a lui gli regge la lancia e lo scudo. Anche in questo frammento di tazza a fascia Teti è accompagnata da due Nereidi, una collocata dietro la ninfa e un’altra dietro ad Achille: esse recano rispettivamente una corazza e una lancia, anch’esse evidentemente facenti parte della nuova armatura di Achille. La scena raffigurata in questo frammento è in realtà molto più complessa e affollata rispetto ad altri vasi simili, dove i limiti spaziali del supporto lasciavano all’artista meno spazio di manovra: dietro a Teti e a una delle due Nereidi che l’accompagnano sono due opliti e una figura di uomo anziano, mentre dietro ad Achille e all’altra Nereide sono due uomini anziani e un ulteriore gruppo di opliti che non sembra partecipare direttamente alla scena. Anche in questo secondo caso si ha quindi a che fare con una serie di figure che non sembrano direttamente collegate né collegabili con l’episodio raccontato all’inizio di Iliade, XIX: oltre alle Nereidi, in questo caso si hanno anche alcune figure di uomini chiaramente anziani, mentre nel racconto omerico Achille è detto circondato dai suoi compagni d'armi, che dunque saranno stati - si può immaginare - più o meno suoi coetanei.
Questa presenza di figure (Nereidi e uomini anziani tra tutti) e di oggetti (come ad esempio la corona recata da Teti nella hydria di cui sopra) difficilmente conciliabili con il racconto omerico ha indotto alcuni studiosi a valutare la possibilità che l’episodio mitico che in tutti questi casi gli artisti antichi desideravano raffigurare non sia in realtà quello raccontato da Omero all’inizio del XIX libro dell'Iliade, bensì un altro, a esso per certi versi affine. Tra gli altri, Johansen ha notato che in molte rappresentazioni di questo episodio mitico compaiono alcuni elementi per così dire “domestici”, che sembrano difficilmente comprensibili immaginando un’ambientazione bellica per la scena raffigurata:
- la corona: nella hydria considerata poco sopra Teti porge al figlio una corona, mentre in un'anfora databile alla metà del VI sec. a.C. (oggi conservata al British Museum di Londra) Achille stesso compare al centro della scena già incoronato. Che Achille venisse raggiunto dalla madre presso il campo acheo già incoronato o sul punto di ricevere una corona è difficile da credere, e del resto Omero non fa alcuna menzione di questa presunta corona dell’eroe; piuttosto, Wrede[5] ha dimostrato come nelle scene di partenza dei guerrieri da casa sia tipico che la moglie o la madre porgano al proprio caro in partenza una corona o una benda con cui cingersi il capo, quasi fosse un sorta di amuleto portafortuna
- l’ariballo: sempre nella hydria considerata sopra, una delle Nereidi che segue Teti reca appeso al braccio un piccolo ariballo, anch’esso molto difficile da immaginare nel contesto di un accampamento
- nell'anfora di Londra Achille è addirittura raffigurato in abiti civili: egli non indossa alcun armamento e veste piuttosto il tipico abbigliamento del buon cittadino di epoca classica.
Questi elementi, come potenzialmente anche altri, per così dire “domestici”, che compaiono nelle raffigurazioni di questo tema, unitamente alla presenza di figure come quelle delle Nereidi o degli uomini anziani, hanno fatto dubitare Johansen che in tutti questi casi si possa effettivamente avere a che fare con la raffigurazione dell’episodio omerico raccontato all’inizio del XIX libro dell'Iliade: “these minor traits lend a domestic touch to our representations which is difficult to reconcile […] with the assumption that is, after all, near Troy that the incident is supposed to take place”.
Nella versione omerica del mito Achille si era recato a Troia con l’armatura che gli aveva donato il padre Peleo, il quale l'aveva a sua volta ricevuta come dono di nozze da parte degli dèi in occasione della sua unione con la ninfa Teti (Iliade, XVII, 192-198; XVIII, 82-85). Tale armatura era poi stata prestata da Achille a Patroclo (Iliade, XVI) e, dopo la morte di questo in battaglia, era caduta nella mani di Ettore (Iliade, XVI-XVII). In occasione del ritorno di Achille in battaglia (Iliade, XVIII-XIX), si era resa necessaria la fabbricazione di un nuovo set di armi per permettere all'eroe di tornare a combattere: questo secondo corredo di armi fu realizzato da Efesto su richiesta di Teti e fu donato ad Achille – come si è visto sopra – da Teti stessa.
Un’altra versione del mito, però, decisamente meno attestata, voleva che Achille si fosse recato a Troia non con l’armatura donatagli da Peleo, bensì con un set di armi realizzato fin da subito da Efesto e donato all’eroe dalla stessa madre Teti prima che egli partisse da casa per la guerra. Secondo questa variante del mito, Teti avrebbe raggiunto Achille presso Ftia (o presso l’antro del centauro Chirone, dove il giovane eroe stava seguendo la propria educazione) accompagnata dalle sorelle Nereidi, che l’avrebbero aiutata a recare tutti pezzi dell’armatura del figlio. Di questa variante del mito, per così dire secondaria rispetto a quella omerica, si hanno due sole attestazioni sicure, entrambe da Euripide ed entrambe da brani lirici: si tratta di Elettra, 442-451 e di Ifigenia in Aulide, 1067-1075. Se fosse dunque questa seconda variante del mito, e non quella dell'Iliade, a venire rappresentata nella serie di vasi di cui si è parlato sopra, si spiegherebbe la presenza fissa delle Nereidi come accompagnatrici di Teti, nonché di alcuni personaggi anziani che avrebbero potuto tranquillamente trovarsi presso la dimora di Achille al momento della visita della madre, sebbene i due passi di Euripide non possano fornire alcuna conferma certa in merito.
Ora che si è individuato il probabile episodio mitico alla base del gran numero di raffigurazioni pittoriche di cui si è parlato sopra, occorrerà notare che, probabilmente già molto presto, il legame stretto di queste decorazioni pittoriche con l’episodio mitico in questione sia andato progressivamente indebolendosi, fino a perdersi del tutto: il gruppo Achille-Teti, con annesse Nereidi e potenzialmente altri personaggi, iniziò quindi a essere reinterpretato come generica scena di congedo di un guerriero in partenza da casa (onde i molti elementi domestici di cui si è parlato sopra), tipicamente alla presenza della madre, della moglie, del padre e/o dei compagni. Questo progressivo indebolimento del legame tra queste raffigurazioni e il loro episodio mitico di riferimento è chiaramente testimoniato anche dal frammento di tazza a fascia considerato sopra, dove i personaggi attorno al gruppo centrale di Teti e Achille tendono a moltiplicarsi e a disporsi talvolta in gruppi del tutto autonomi rispetto all’evento focale della rappresentazione. Anche nel cratere P 473 il nesso della scena raffigurata con l'episodio mitico della consegna da parte di Teti ad Achille dell'armatura con il quale l'eroe si recherà a combattere sotto Troia andrà immaginato come decisamente sfumato nella mente dell'artista: l'intento di quest'ultimo sarà stato quello di riprodurre sul proprio pezzo non tanto Achille, Teti e una Nereide nello specifico, quanto piuttosto una generica scena di vestizione di un guerriero in partenza dalla propria patria, assistito da due donne di casa (forse la madre o la moglie e una serva) e accompagnato, presumibilmente, da due compagni opliti già vestiti e già pronti a partire.


KERAMOS - Coppa di Arkesilas


 La Coppa di Arkesilas è un kylix prodotto dal ceramista laconico noto come Pittore di Arkesilas, il cui nome deriva proprio da questo kylix. La coppa raffigura il sovrano Arcesilao II (Arkesilas), re di Cirene, ed è datata tra il 565 e il 560 a.C. La coppa fu trovata a Vulci ed è esposta al Cabinet des médailles della Biblioteca nazionale di Francia a Parigi (inventario 189).
Il re è raffigurato mentre osserva sette uomini che stanno imballando, pesando e immagazzinando beni commerciali. Delle iscrizioni indicano più in dettaglio le loro attività e il nome del re. Non è chiaro quale prodotto o prodotti stiano caricando; alcuni studiosi suggeriscono che si tratti del silfio, una pianta rara della quale Cirene aveva il monopolio, e l'attento controllo da parte del re sembrerebbe dare credito a questa ipotesi. Diversi animali africani sottolineano l'ambientazione africana della raffigurazione.
Per stile e motivo, questo dipinto è unico nell'arte antico. Immagini raffiguranti scene così connesse con la vita lavorativa sono molto rare, così come quelle raffiguranti Archesilao II. Estremamente importante per la storia della tecnologia è la raffigurazione delle bilance a piatti, poiché ne sono raffigurati l'uso e la struttura. Inoltre è importante che tali immagini siano state prodotte in Laconia, a dimostrare gli stretti legami tra Sparta e l'Africa settentrionale; un altro vaso dello stesso pittore, raffigurante la ninfa Kyrene (patrona di Cirene) che lotta con un leone, fu ritrovato sull'isola di Samo, un alleato di Sparta.

KERAMOS - Figurine di terracotta dell'antica Grecia

 
Le figurine di terracotta sono un genere di espressione artistica e religiosa spesso presente nell'antica Grecia. Queste figurine abbondano e offrono una preziosa testimonianza della vita quotidiana e della religione degli antichi greci.
La modellazione è la tecnica più comune e semplice. Veniva utilizzata anche per la realizzazione di bronzi: i prototipi erano fatti di argilla grezza. I pezzi di piccole dimensioni erano lavorati direttamente a mano. Per i modelli più grandi, i coroplath (in greco antico: κοροπλάθος? koropláthos, produttori di figurine) premevano le palline di argilla contro una forma in legno. Lo stampo era ottenuto mediante l'applicazione di un letto di argilla o gesso sul prototipo. Molto semplici erano gli stampi utilizzati dai Greci del continente fino al IV secolo a.C., che venivano poi semplicemente essiccati. Gli stampi bivalve, realizzati dai greci insulari, su modelli egiziani, richiedevano il taglio per ottenere un dritto e un rovescio, e spesso "delle chiavi" per consentire che le due metà si adattassero meglio. Quando il pezzo era complicato, con proiezioni importanti (braccia, gambe, testa,
abbigliamento), l'artigiano poteva realizzare lo stampo in parti più piccole. Il pezzo veniva poi essiccato.
La seconda fase consisteva nell'applicare uno strato di argilla cruda all'interno dello stampo, che poteva essere inciso in anticipo per ottenere effetti di rilievo. Lo spessore dello strato variava a seconda del tipo di oggetto da realizzare. Le facce dello stampo erano unite tra loro, l'oggetto viene poi sformato, e l'artigiano poteva procedere ai miglioramenti finali, tipicamente lisciando la giunzione. L'artigiano creava anche una piccola apertura, un foro di sfiato che permetteva al vapore di fuoriuscire durante la cottura. Lo sfiato poteva essere utilizzato anche per il montaggio, consentendo interventi all'interno del pezzo. Gli arti venivano quindi uniti al corpo mediante incollaggio con barbottina (argilla mescolata con acqua), o inseriti nel corpo.
Finitura e completamento[modifica | modifica wikitesto]
Il pezzo veniva poi cotto in forno, ad una temperatura compresa fra 600
e 800 °C. Il forno utilizzato è lo stesso utilizzato per la cottura dei vasi. Una volta che la statuetta era pronta, poteva essere ricoperta con uno strato ceramico. Questo strato veniva a volte ricotto a bassa temperatura. In principio, la gamma dei colori disponibili era piuttosto ridotta: rosso, giallo, nero e blu. Dall'epoca ellenistica in poi si aggiunsero l'arancione, il rosa malva e il verde ai primi colori. I pigmenti erano coloranti minerali naturali: ocra per il giallo e il rosso, carbone per il nero, malachite per il verde, etc.
Grazie al loro basso costo, le figurine erano offerte religiose perfette. Questo, infatti, era il loro scopo primario, in quanto l'aspetto decorativo venne solo più tardi. Questo spiega il motivo per cui i templi greci ospitano abbondanti quantità di ex voto o figurine funerarie, poiché non c'è quasi nessun documento scritto su questo argomento.
Queste figurine possono presentare problemi di identificazione. Certo, gli attributi consentono di riconoscere un particolare dio in modo indiscutibile, come ad esempio l'arco per Artemide. Inoltre, alcuni tipi di statuine corrispondono ad una forma precisa di culto legata ad una
divinità specifica. A volte, tuttavia, "gli dei in visita" complicano le cose: sono figurine dedicate a un dio che non è di quel santuario. Inoltre, la grande maggioranza delle figurine rappresentano semplicemente una donna in posizione verticale, senza attributi. Queste ultime statuette sono disponibili in tutti i santuari, indipendentemente dalla divinità.
Il dono di figurine accompagnava ogni momento della vita. Durante la gravidanza, le future mamme avevano cura di offrire una figurina di Ilizia, dea del parto: la statuetta rappresentava una donna accovacciata, in pieno lavoro, secondo la pratica orientale. Alcune statuette avevano una piccola cavità destinata a ricevere figurine più piccole, rappresentante dai loro bambini. Durante la prima infanzia, si davano figurine di bambini accovacciati, una rappresentazione di origine orientale arrivata in Grecia via Rodi e Cipro. I cosiddetti "ragazzi del tempio" sembravano proteggere i bambini. Rappresentazioni simili si trovano anche nelle tombe. Queste figurine sono di dimensioni variabili, forse per indicare l'età del bambino morto. In effetti, l'abitudine è quella di seppellire i morti accompagnati da oggetti d'uso quotidiano: gioielli, pettini, statuine per le donne; armi per gli uomini; figurine e giocattoli per i bambini. Le figurine venivano spesso rotte volontariamente prima di essere immesse nella tomba.
Le figurine di terracotta venivano spesso acquistate all'ingresso del santuario. Erano le offerte della gente comune, che non poteva
permettersi di dedicare oggetti di maggior valore. Esse venivano utilizzate anche per sostituire le offerte in natura, come animali o alimenti. Venivano collocate sui banchi dei templi o vicino alla statua di culto. Inoltre venivano depositati in luoghi di culto all'aperto: Socrate riconobbe una fonte sacra vedendo figurine sul terreno (Fedro 230 a.C.). Le figurine erano anche utilizzate per chiedere una grazia a un dio, ma anche per ringraziarlo dopo averla ottenuta. Quando le figurine erano troppo numerose in un tempio, venivano gettate in una "discarica sacra". In questo caso, venivano spesso rotte per evitare il recupero.
Dal IV secolo a.C., le figurine acquistarono una funzione decorativa. Così, rappresentavano personaggi teatrali, come racconta Giulio Polluce nel suo Onomasticon (II secolo): lo schiavo, il contadino, l'infermiera, la donna grassa, il satiro dal dramma satirico, etc. Le caratteristiche sono fortemente caricaturali e distorte. In epoca ellenistica, le figurine diventano grottesche: esseri deformi con le teste sproporzionate, seno cadente o pance prominenti, gobbi e uomini calvi. Le figure grottesche sono una specialità della città di Smirne, anche se
venivano prodotte ovunque nel mondo greco, per esempio a Tarso o Alessandria.
Infine, la terracotta veniva spesso usata per la fabbricazione di bambole e giocattoli per i bambini. Così, troviamo figurine articolate o piccoli cavalli, facile da manipolare con le mani piccole. A volte, la natura di una figurina era difficile da determinare, come le curiose campane-idolo dalla Beozia, che apparvero alla fine dell'VIII secolo a.C. Esse erano dotate di un lungo collo e un corpo sproporzionato, cilindrico tornito. Le braccia erano atrofizzate e le gambe mobili. Infine, la testa era forata per consentire di appenderle. Non è chiaro se fossero giocattoli o offerte votive.

Nelle foto, dall'alto:
- Hermes crioforo (?), figurina di terracotta della Beozia, ca. 450 a.C., Louvre
- Donna con le braccia alzate, tipica offerta funeraria, Cipro, VII secolo a.C., Louvre
- Stampo per il retro di una statuetta di Demetra - Iside, Louvre
- Donna che porta offerte, figurina arcaica del Peloponneso, Louvre
- Figurina grottesca: 350–300 a.C., Louvre
- Mitridate V di Ponto come benefattore, 157-121 a.C., Louvre

KERAMOS - Dinos del Pittore della Gorgone 

 

Il dinos del Pittore della Gorgone è una ceramica a figure nere (93 x 30 cm) prodotta ad Atene dal ceramografo noto come Pittore della Gorgone intorno al 580 a.C. e conservata a Parigi presso il museo del Louvre (n. inv. E874).
Il vaso apparteneva alla collezione Campana, acquistata dal museo del Louvre nel 1861. La provenienza dalla collezione Campana rende probabile che fosse stato rinvenuto in Etruria.
La forma del vaso è quella di un dinos, contenitore da banchetto di grande capacità nel quale si mescolava l'acqua con il vino. Ha un'altezza complessiva di 93 cm (altezza del cratere 44 cm, diametro massimo 30 cm, altezza del supporto 59 cm) ed è costituito da un recipiente e da un piedistallo modanato, un'accoppiata non frequente e che si ispira a modelli in bronzo.
L'argilla ha un colore giallastro ed è decorata a figure nere con dettagli color porpora di cui restano poche tracce. La piatta imboccatura presenta un fregio con palmette e fiori di loto intrecciati, lo stesso motivo che si trova negli altri fregi fitomorfi del vaso. Il corpo del dinos è diviso in sei fasce sovrapposte delle quali cinque sono a carattere decorativo, con fregi fitomorfi o animali nella tradizione della ceramica corinzia. La larga zona con fregio di fiori di loto e palmette intrecciati divide le quattro fasce animali sottostanti dal registro superiore, all'altezza della spalla, che è il primo esempio conosciuto di fregio interamente figurato e di carattere narrativo.
Vi sono rappresentate due scene differenti ma non separate. Da un lato, quello principale, Perseo che fugge dalle Gorgoni dopo aver ucciso la loro sorella Medusa la quale decapitata cade a terra; alla scena assistono Ermes con il petaso e la dea Atena.
Dall'altro lato due opliti combattono tra due carri a quattro cavalli guidati ciascuno da un auriga che si volta ad osservare il combattimento.
Il fondo del vaso è decorato con un ornamento costituito da sei mezzelune.
Sul piedistallo, con abbondanti modanature, sono presenti file di diversi animali (leoni, vacche, cervidi), mescolati a creature fantastiche come sirene e sfingi.
L'artista che dipinse quest'opera fu probabilmente allievo del Pittore di Nesso, dal quale ha ripreso il tema delle Gorgoni.
Il fregio, interamente narrativo e privo di elementi puramente decorativi, si colloca all'inizio della produzione attica, che progressivamente si svincola dalla tradizione corinzia durante il secondo quarto del VI secolo a.C.



KERAMOS - Achille benda Patroclo

 

Achille benda Patroclo è il nome convenzionale attribuito ad una Kylix a figure rosse di produzione attica, capolavoro della ceramografia classica, detto anche Kylix di Sosias, datata intorno al 500 a.C., del diametro di 32 cm. Si tratta dell'unico manufatto firmato del celebre ceramografo Sosias. Proveniente da Vulci, oggi appartiene all'Antikensammlung Berlin, inventariata al Nr. F 2278, ed è esposta nell'Altes Museum.
Si tratta di una kylix, ossia una coppa da vino in ceramica, utilizzata durante i banchetti. Un'iscrizione dipinta sullo stesso vaso ne riporta l'autore della decorazione, il ceramografo Sosias, considerato tra i massimi artisti della prima generazione di pittori a figure rosse, del quale costituisce l'unico esemplare firmato.
La decorazione comprende due raffigurazioni indipendenti, il cui legame non è stato identificato.
Sulla fascia decorativa esterna, frammentaria, è rappresentato Ercole accolto tra gli dei dell'Olimpo.
Di grande interesse è la scena rappresentata nel clipeo centrale della coppa, con l'eroe omerico Achille che fascia il braccio dell'amico Patroclo, ferito in battaglia. Nell'Iliade di Omero sono abbondantemente descritte le vicende dei due guerrieri, ma in questo caso non è chiaro se si tratti di un episodio proveniente dal poema omerico o da un altro poema del ciclo troiano; non si può neppure escludere che si tratti di un'invenzione del pittore. Di particolare interesse il fatto che tra i due protagonisti della scena Patroclo sia raffigurato come un uomo maturo che ha affrontato il nemico in battaglia, mentre un Pelìde ancora imberbe sembra assumere il ruolo di eròmenos.
Da un punto di vista stilistico, l'episodio in questione, distante dalle consuete rappresentazioni di episodi epici di battaglia, costituisce un raro esempio di raffigurazione di una scena di vita quotidiana. Le espressioni dei personaggi, in particolare la smorfia di dolore sul volto di Patroclo, sono rese con notevole intensità psicologica. Notevole abilità tecnica è mostrata dal pittore nella resa dei profili, nei quali gli occhi non sono dipinti frontalmente come era consuetudine.


KERAMOS - Polissena nelle arti

 
Polissena (in greco: Πολυξένη) è una delle figlie di Priamo e di Ecuba, principessa troiana di mirabile bellezza. La si ritiene responsabile della vaticinata e precoce uccisione di Achille, eroe mitico di proverbiale coraggio. Figura assente nell'Iliade, fu sviluppata dai poeti tragici, che ne temperarono la leggenda sino a definirla un personaggio corrispondente a Ifigenia, la fanciulla con la quale condivise la sorte di vittima di un sacrificio umano per la propiziazione del favore degli dèi.
Il suo mito fu ripreso da Euripide in due fortunate tragedie, Le Troiane e l'Ecuba, nonché nella Polissena di Sofocle, di cui rimangono pochi frammenti.

Polissena era la figlia più giovane di Priamo e di Ecuba. Darete Frigio, nella stesura del capitolo in cui esamina i protagonisti del conflitto troiano, ha delineato il ritratto di una giovinetta graziosa, alta, ben proporzionata, che con la sua bellezza superava molte altre donne. I suoi capelli erano sciolti, il collo esile, le gambe aggraziate e le mani sottili, ma la sua indole era ingenua e nascondeva un temperamento da bambina.
Polissena era legata da un affetto morboso al bellissimo fratellino Troilo, la cui folgorante avvenenza aveva fatto sorgere dibattiti sulla sua effettiva natura umana. Alcuni autori lo definiscono persino il frutto di un amplesso della regina Ecuba con Apollo, ma in ogni modo l'anziano Priamo lo pose sotto la sua protezione, annoverandolo tra i suoi rampolli favoriti. La figlia di Priamo pare già godesse di liete prospettive di matrimonio, ma solo una di queste sarebbe stata presa in seria considerazione dal padre, quella di Eurimaco, figlio di Antenore, che l'ospitò nella sua dimora in attesa delle regali nozze.
Venne l'inverno del decimo anno di guerra e gli eroi greci si imbattevano nei notabili troiani quando si recavano al tempio di Apollo Timbreo, che era territorio neutro; un giorno, mentre Ecuba stava sacrificando al dio, Achille arrivò al tempio con il medesimo proposito e si innamorò perdutamente della stessa Polissena.
Ora, era destino che Troia non potesse cadere se Troilo avesse compiuto venti anni di età. Nei primi nove anni di assedio, Achille tese un agguato al principe troiano per impedire che la profezia si avverasse. Troilo, che era solito riservare ogni sorta di amore ai suoi cavalli, si era recato ad abbeverarne uno con sua sorella Polissena presso una fontana che si trovava vicina al tempio di Apollo Timbreo. Mentre il giovinetto e sua sorella attingevano acqua, Achille, che attendeva nascosto il loro arrivo alla fontana, si precipitò fuori dal suo nascondiglio e assalì Troilo rovesciandolo dal suo cavallo, prendendolo per i capelli. Ma il figlio di Priamo sfuggì all'assalto dell'eroe e riuscì a nascondersi nel santuario di Apollo, trovando asilo sull'altare del dio. Achille, incurante di commettere un sacrilegio in un luogo consacrato al dio, trafisse Troilo con la sua lancia sullo stesso altare e lo decapitò sul posto.
La raffigurazione vascolare ha colto Polissena di frequente mentre in piedi e con un'anfora sul capo si reca presso una fontana insieme a Troilo giovinetto, l'uno per abbeverare i cavalli e la stessa per attingere l'acqua.
Una delle leggende sulla morte di Achille racconta come l'eroe, innamorato della fanciulla, si sarebbe recato al Tempio di Apollo a Timbra per averla in sposa; qui avrebbe trovato la morte per mano delle frecce, forse avvelenate, di Paride. Il figlio di Achille, Neottolemo (noto anche come Pirro), immolò sulla sua tomba Polissena per onorare la memoria del padre.
Sebbene non particolarmente frequentata nelle arti e nella letteratura, la vicenda di Polissena ne è rimasta comunque un tema fin dai tempi più antichi.
Già dal VI secolo a.C. ci sono pervenuti alcuni vasi a figure nere, sicuramente ispirati dai Canti Ciprii, attenti ora ad un particolare ora ad un episodio. Abbiamo Achille in agguato di Troilo mentre Polissena riempie l’anfora d’acqua nella hydria del “Pittore di Londra B 76” al Metropolitan (nella seconda foto dall'alto) o il dinos del “Pittore dei Cavalieri” al Louvre  (nella terza foto dall'alto), oppure i due fratelli che fuggono da Achille nel kylix detto Coppa di Siana del “Pittore C” , o semplicemente Achille che spia Polissena alla fonte nel lekythos del “Pittore di Athena” (nella prima foto in alto), ambedue al Louvre, oppure la scena sanguinosa di Neottolemo che sgozza la giovane principessa nell'anfora del British Museum attribuita alternativamente al “Pittore di Timiades” oppure al “Gruppo Tirrenico” (nella quarta foto dall'alto). Una rappresentazione del sacrificio estremamente simile a quest'ultima, ma di più raffinata fattura, è scolpita a bassorilievo sul cosiddetto Sarcofago di Polissena del Museo Archeologico di Çanakkale (foto qui in basso)


Un centinaio d’anni dopo furono composte le già citate delle tragedie di Euripide e quella perduta di Sofocle. Più o meno contemporaneamente Polignoto di Taso dipinse, fra le altre, la scena di «Polissena, che sta per essere sacrificata vicino alla tomba di Achille» in un edificio dell'Acropoli di Atene.
Dall’epoca romana ci è giunta in primis la scena del sacrificio in un riquadro della Tabula Iliaica Capitolina (I secolo a.C.) cui seguono la tragedia di Seneca Le Troadi e, soprattutto, le Metamorfosi di Ovidio che resteranno una fonte primaria fino ai tempi moderni. Molto interessante è il sarcofago scolpito ad altorilievo con le storie di Achille e Polissena (250 d.c. circa) ora Museo del Prado (nell'immagine a destra), proveniente probabilmente da Napoli.


KERAMOS - Coppe dei Piccoli Maestri

 

Le Coppe dei Piccoli Maestri sono un tipo di coppe attiche a figure nere, prodotte verso la metà e il terzo quarto del VI secolo a.C. Il loro nome è dovuto alla loro raffinata decorazione di piccolo formato.
Le Coppe dei Piccoli Maestri sono di origine più tarda rispetto alle coppe di Siana, ma entrambi i tipi furono prodotti per un lungo periodo di tempo. I Piccoli Maestri dipingevano soltanto la piccola fascia al di sopra della carenatura della coppa, più raramente anche il labbro e la zona dei manici. Probabilmente soltanto pochi pittori di Siana dipinsero anche coppe dei Piccoli Maestri.


Uno dei primi artisti a produrre le coppe dei Piccoli Maestri ad Atene fu Kleitias. Il cambiamento nella decorazione andò di pari passo coll'allungarsi del piede delle coppe. I pittori che si dedicavano alle coppe dei Piccoli Maestri raramente dipingevano vasi più grandi, mentre risulta che i pittori specializzati in vasi di grande formato abbiano pitturato anche coppe dei Piccoli Maestri. Il confronto stilistico tra formati più grandi e più piccoli per quest'epoca rimane difficile.
Molte coppe dei Piccoli Maestri sono firmate (in particolare le Lip Cup), visto che la firma era spesso incorporata nel complesso della decorazione. Le firme sono soprattutto dei ceramisti, probabilmente perché la produzione del vaso era spesso di qualità più alta rispetto alla sua decorazione.




Nelle immagini, dall'alto
Droop Cup di un artista attico sconosciuto (circa 550-30 C.C., Louvre CA2512)
Lip Cup con scene di sesso (Rodi, 550-540 a.C.; la parte inferiore è perduta)
Band Cup di un artista attico sconosciuto (circa 540 a.C., Louvre F72)

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...