
Una leggenda popolare infondata vuole che l'eruzione dell'Etna del
252 lo abbia raggiunto senza però distruggerlo. Tale tradizione
si basa sulla vita di Sant'Agata riportata negli Acta
Sanctorum del Bollando, dove è riportato che ad un anno
esatto dalla morte della santa (251) un fiume di fuoco si diresse
alle porte della città, e i villani - preoccupati per le loro
campagne - giunsero alla tomba di Sant'Agata per prelevarne il velo
mortuario, usandolo per arrestare l'avanzata della lava. Tale fonte,
del tutto agiografica, indusse persino autorevoli vulcanologi
come il Gemmellaro ad interpretare erroneamente
l'anfiteatro (il quale si trovava alle porte della città) quale
punto in cui si arrestò la lava. Recenti studi stratigrafici e di
datazione hanno dimostrato chiaramente che la cosiddetta "colata
lavica di Sant'Agata" del 252 ebbe origine dal cono
del Monpeloso, e, riversandosi quasi per intero nel territorio
di Nicolosi, si fermò nel territorio di Mascalucia, a 450
m s.l.m., in direzione di Catania, ma senza mai raggiungerla.
L'unica traccia di una colata presso l'anfiteatro è una sporgenza
lavica che si affaccia da uno dei fornici murati
dell'edificio; quando però nel '900 fu compiuto un carotaggio sulle
pareti dell'ambulacro interno per cercare di capire cosa vi
fosse al di là, da esso fluirono liquami "a vagonate",
segno evidente che il corridoio è vuoto: il frammento di roccia
vulcanica sporgente è con tutta probabilità materiale di
riempimento per la gittata delle fondazioni della facciata della
sovrastante chiesa di San Biagio.
Secondo quanto riferisce Cassiodoro, nel V
secolo Teodorico, re degli Ostrogoti, concesse agli
abitanti della città di utilizzarlo quale cava di materiale da
costruzione per l'edificazione di edifici in muratura a
motivo dell'abbandono del monumento "per lunga vetustà".
Secondo alcuni autori, nell'XI secolo anche Ruggero II di
Sicilia ne trasse ulteriori strutture e materiali per la
costruzione della cattedrale di Sant'Agata, tra cui le colonne
in granito grigio che decorano il prospetto e le absidi, su
cui si riconoscerebbero ancora le pietre perfettamente
tagliate usate, forse, anche nel Castello Ursino in età
federiciana.

Nel XIII secolo, secondo la tradizione, furono adoperati i
suoi vomitoria (gli ingressi) da parte degli Angioini per
accedere alla città durante la cosiddetta guerra dei Vespri.
Nel secolo successivo gli ingressi furono murati e il rudere venne
inglobato nella rete di fortificazioni Aragonese (1302). Nel 1505 il
senato cittadino fece concessione a Giovanni Gioeni di usare le
pietre del monumento per la costruzione di abitazioni e per usarne
l'arena quale giardino. Una messa in sicurezza del rudere si ebbe
con il piano di costruzione delle mura della città nel 1550;
vennero abbattuti il primo e il secondo piano e con le stesse macerie
avvenne il riempimento delle gallerie. Dopo il terremoto del
1693 fu definitivamente sepolto, per poi essere trasformato in
piazza d'armi. In seguito vennero sfruttati gli estradossi delle
gallerie superstiti come fondamenta per le nuove abitazioni, nonché
per la facciata neoclassica della chiesa di San Biagio, nota
anche come 'A Carcaredda, cioè la fornace.
Dalla seconda metà del XVIII secolo l'anfiteatro fu
oggetto di scavi archeologici, che tuttavia non ne preservarono gli
ambienti ormai ipogei: i fornici vennero murati e sfruttati come
pozzi neri per i palazzi della ricostruenda città. Tale uso sembra
essere la causa dell'indebolimento della struttura di cui nel 2014 è
stato denunciato il pericolo di collasso in un'interrogazione
parlamentare del 1º aprile di quell'anno[10], in cui venne ripreso
ciò che già era stato portato all'attenzione dell'opinione pubblica
a seguito di una videoinchiesta della testata giornalistica CTzen.
Il 24 aprile dello stesso anno si è costituito un primo tavolo
tecnico per stabilire un programma di recupero del monumento,
mettendo contemporaneamente in sicurezza il quartiere sorto nei
secoli sopra le sue strutture. In precedenza, solo nei primissimi
anni del XX secolo si era operato un lavoro di
ricostruzione atto all'apertura per le visite, con la realizzazione
dello scavo di piazza Stesicoro e la creazione di un
percorso poi sfruttato solo occasionalmente.
Nel 1943, durante il bombardamento
degli Alleati che ridusse parte della città in cumuli di
macerie, la struttura (tanto l'ambulacro interno quanto gli stessi
pozzi neri) venne adoperata a mo' di rifugio. Successivamente si sono
susseguiti periodi di interesse e di abbandono; per molti anni, i
suoi cunicoli sotterranei sono rimasti chiusi per generici "problemi
di sicurezza" a seguito di presunti episodi tragici legati alla
curiosità di visitatori che provavano ad esplorarli. Ristrutturato
nel 1997, fu aperto solo durante la stagione estiva e poi
richiuso per infiltrazioni di reflui delle fognature delle
case limitrofe all'interno dell'anfiteatro. Parzialmente risanato,
nel luglio 1999 è stato riaperto al pubblico, per poi
essere chiuso nuovamente poco tempo dopo a causa di peggioramenti
delle sue condizioni. I suoi resti, rappresentanti quasi un decimo
dell'intero anfiteatro, sono visitabili dall'ingresso di piazza
Stesicoro e dal vico Anfiteatro, dove se ne vede l'altezza fino
a parte del terzo piano. Fino al 2007 era possibile vederne
una porzione del secondo piano da Via del Colosseo; oggi è
interamente coperto dal nuovo terrazzo di villa Cerami. In
quest'ultimo edificio, sede oggi della Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università degli Studi di Catania, è ancora possibile vedere
parte del sistema d'archi che collegava l'Anfiteatro alla collina
Montevergine (probabilmente l'antica acropoli della città).
La restante parte dell'anfiteatro è ancora interrata sotto le zone
di via Neve, via Manzoni e via Penninello.
«
Siccome l'Anfiteatro è il testimonio
più grande dell'antica Catanese grandezza, così fissi in esso il
Forastiere i primi suoi sguardi.» (Ignazio Paternò Castello, in "Viaggio
per tutte le antichità della Sicilia")
Il primo a parlare della presenza di un
anfiteatro romano a Catania è il Fazello, primo anche a
stabilirne le dimensioni inferiori al solo Colosseo di Roma. In
seguito, autori come Ottavio D'Arcangelo o Giovanni
Battista de Grossis ne proposero fantasiose ricostruzioni che
hanno comunque il valore di essere i primi rilievi dell'edificio.
Nel XVIII
secolo il principe di Biscari, per fugare ogni possibile dubbio
sulla sua reale esistenza a Catania nel passato, che alcuni
visitatori stranieri avevano decisamente negato, impiegò consistenti
somme del suo denaro per eseguire degli scavi e, in due anni, ne
portò a giorno un intero corridoio e quattro grandi archi della
galleria esterna. Nel XIX secolo gli scavi erano ancora
visitabili dall'ingresso su via del Colosseo (che il popolino
chiamava - e chiama tuttora - Catania Vecchia), e su di essi si
ricamava ogni tipo di leggenda. Tra tutte, quella di una scolaresca
che, insinuatasi nelle strutture per una visita, non ne era più
uscita.
Nel 1904,
durante l'amministrazione De Felice, si iniziarono i lavori per
riportarlo alla luce, ad opera dell'architetto Filadelfo
Fichera; questi vennero conclusi due anni più tardi. In questa
occasione fu messa in luce una profonda e misteriosa precinzione,
probabilmente ampliamento tardo dell'edificio, che impediva ai posti
più prossimi all'arena di vedere bene lo spettacolo, riduceva le
dimensioni dell'arena, ma permetteva una migliore prospettiva per un
piano supplementare, verosimilmente quello aggiunto nel corso del III
secolo. Nel 1907 si svolse la cerimonia di apertura, a cui
fu presente anche il re Vittorio Emanuele III. In seguito, già
nel primo dopoguerra, l'Anfiteatro venne lasciato decadere
nuovamente, al punto che molti edifici soprastanti ne usarono i
cunicoli come fognatura.
Nel corso degli ultimi anni ha subìto
ancora chiusure e riaperture; tra la fine del 2007 e
l'inizio del 2008 sono stati effettuati rilievi tecnici per
appurare lo stato di conservazione delle strutture dei pilastri
esterni. In questa occasione si è potuta verificare la presenza di
un rifacimento e di un ampliamento della struttura in seconda fase e
si è eseguito un nuovo rilievo che ha potuto condurre ad una
ricostruzione virtuale dell'edificio maggiormente aderente alla
realtà rispetto alle ardite elaborazioni del D'Arcangelo.

L'edificio presentava la pianta di forma ellittica, l'arena
misurava un diametro maggiore di 70 m ed uno minore di circa 50 m. I
diametri esterni erano di 125 x 105 m, mentre la circonferenza
esterna era di 309 metri e la circonferenza dell'Arena di 192 metri,
e si è calcolato che poteva contenere 15.000 spettatori seduti e
quasi il doppio di quella cifra con l'aggiunta di
impalcature lignee per gli spettatori in piedi.
Addossato alla vicina collina ne era separato da un
corridoio con grandi archi e volte che facevano da sostegno
per le gradinate. Era probabilmente prevista anche una copertura con
grandi teli per il riparo dal forte sole o nel caso di
pioggia. La cavea presentava 14 gradoni. Venne
costruito con la pietra lavica dell'Etna ricoperta
da marmi ed aveva trentadue ordini di posti. Secondo una
tradizione incerta e priva di riscontri si vuole vi si svolgessero
anche le naumachie, vere battaglie navali con navi e
combattenti dopo averlo riempito di acqua mediante
l'antico acquedotto.
L'anfiteatro di Catania,
strutturalmente il più complesso degli anfiteatri siciliani e il più
grande in Sicilia, appartiene al gruppo delle grandi fabbriche
quali il Colosseo, l'anfiteatro di Capua, l'Arena di Verona.
Presenta una struttura realizzata con muri radiali e volte non
addossata al terreno, dove la facciata non si appoggia direttamente
ai muri radiali, bensì a una galleria di distribuzione periferica.
La tecnica edilizia prevede l'uso dell'opera vittata per le parti
interne e quadrata per l'esterno. Le testate dei pilastri sono
in opera quadrata con piccoli blocchi di pietra lavica.
I paramenti denotano una certa
trascuratezza: i blocchetti dell'opera quadrata sono a taglio
irregolare e appaiono in buona parte di riporto. Gli archi sono
realizzati esternamente con grossi mattoni rettangolari dal
taglio regolare e uniti da malta di buona qualità, mentre
internamente sono fatti in opera cementizia a grosse scaglie radiali.
Singolare, nonostante la complessiva
sobrietà dell'edificio, doveva apparire il contrasto cromatico tra
la scurissima pietra lavica dei paramenti e il rosso dei
mattoni delle ghiere degli archi. Una nota di prestigio era
rappresentata dall'utilizzo del marmo, non solo per il rivestimento
del podio, ma anche per alcune decorazioni come le erme ai lati
dell'ingresso principale dell'arena. Molto probabilmente le gradinate
dovevano essere in pietra calcarea realizzando un forte gioco
cromatico tra il bianco dei sedili e il nero delle scalette, così
come supponibile dalle costruzioni coeve.

Allo scavo
dell'Anfiteatro si accede mediante una porta di ferro decorata ad
archetti traforati nel registro superiore e totalmente liscio nel
registro inferiore. A decorazione del portone metallico vennero
recuperati nel 1906 alcuni frammenti di colonne marmoree che
in origine dovevano costituire parte del loggiato superiore,
due capitelli ionici frammentari e parte di un architrave
su cui fu incisa la scritta AMPHITHEATRVM INSIGNE. L'ingresso è
così formato: al centro il portone metallico i cui stipiti sono le
colonne con capitello, coronato dall'architrave; le restanti due
colonne sono situate nelle due estremità laterali e inserite tra
queste e quelle centrali vi sono due pareti in pietra recanti
gli epitaffi simbolici di due illustri personaggi di epoca
greca legati a questa zona - Caronda a sinistra,
ricordato anche dall'omonima via; Stesicoro a destra, che
diede nome in antico alla via Etnea - composti dal
poeta Mario Rapisardi. La tradizione vuole che il sepolcro di
costoro fosse propriamente nella zona prossima all'anfiteatro.