giovedì 20 marzo 2025

Lazio - Lorium

 

Lorium
 era una località situata sulla via Aurelia, nei pressi dell'odierna Castel di Guido (nel XIII municipio di Roma Capitale). La località era citata nella Tabula Peutingeriana come prima stazione di posta sulla via al suo XII miglio da Roma.
Vi si trovava una villa costruita dall'imperatore Antonino Pio che vi morì nel marzo 161 e nella quale risiedettero anche Adriano e Marco Aurelio.
Nella località si sono rinvenute tracce di un borgo di epoca romana che attraversò una fase ricca di costruzioni nel corso della seconda metà del I secolo a.C. Resti di costruzioni ai lati della strada e di tombe furono rimessi in luce in scavi condotti nel 1823-1824.
Lorium fu sede di un'antica diocesi con il titolo di Santa Rufina, unificata sotto papa Callisto II con la diocesi di Porto nell'attuale sede suburbicaria di Porto-Santa Rufina.


Sulle vicine colline esistono numerose tracce di ville romane suburbane residenziali. Gli scavi della Soprintendenza archeologica di Roma presso la villa dell'Olivella nel 2006, condotti dopo iniziali scavi clandestini di tombaroli scoperti dalla Guardia di Finanza nel 2005, hanno riportato in luce un impianto termale con pavimenti a mosaico pertinente a una grande villa residenziale del II-III secolo Altri due nuclei residenziali erano già stati individuati nei pressi sul monte delle Colonnacce ("villa delle Colonnacce", già depredata dai tombaroli negli anni settanta), e sul monte Aurelio.

Lazio - Roma, Ruderi di Coazzo

 
I cosiddetti ruderi di Coazzo (anche Pietra de Oro) sono un sito archeologico a Roma, in Italia.
Si tratta dei resti di un insediamento monastico del XIII secolo, costruito su una villa romana, di cui ha riutilizzato i materiali insieme ad altri provenienti da edifici funebri. Il sito si trova ad ovest del quartiere romano di San Basilio, vicino a Via Bernardini, non lontano da via Nomentana.
L'edificio era alto circa 3 metri era composto da due stanze con tetto a volta e pareti costruite in mattoni e tufo. Nel 1428 i proprietari del terreno, la famiglia Frangipane, donarono metà del casale alla Basilica di San Pietro, che affittò nel XVI secolo a Cola Jacobacci.

Lazio - Roma, Musei / Discobolo, Palazzo Massimo

 
Il Discobolo è una scultura bronzea realizzata da Mirone intorno al 455 a.e.v. (periodo di congiunzione tra preclassico e classico). Benché la statua originale sia ormai perduta, il soggetto ha attraversato i secoli grazie ai calchi in marmo di essa realizzati durante il periodo dell'impero romano.
La versione ritenuta più aderente all'originale è quella nota come Lancellotti, dal nome della famiglia che ne detenne il possesso prima di cederla al Museo Nazionale Romano.
Da tale esemplare ne è stata ricavata un'ulteriore copia marmorea esposta al Museo della storia dei giochi olimpici antichi di Archea Olympia, in Grecia.
L'opera fu probabilmente prima fusa, per poi essere scolpita, per la città di Sparta e rappresentava un atleta nell'atto di scagliare il disco.
Dell'opera si conoscono diverse versioni. Tra le più importanti, oltre a quella Lancellotti, ne esiste una integra al British Museum detta Townley che si distingue per un trattamento della testa più adrianeo, dai capelli più lunghi; inoltre lo scultore, possedendo una tecnica più avanzata, ridusse il tronco d'appoggio a lato della figura. Nel Museo nazionale romano si conserva un'altra versione frammentaria, detta di Castelporziano.
L'atleta fu raffigurato nel momento in cui il suo corpo, dopo essersi rannicchiato per prendere slancio e radunare le forze, sta per aprirsi e liberare la tensione imprimendo al lancio maggiore energia. Subito dopo girerà su sé stesso e scaglierà il disco, accompagnando il gesto con tutto il corpo.
Cicerone scrisse: «Le opere di Mirone non sono ancora vicinissime alla verità, nondimeno non si esiterà a dichiararle belle; quelle di Policleto sono ancora più belle e già veramente perfette secondo la mia opinione».
Gli storici d'arte dell'antichità lodarono Mirone per la sua maestria nel ritmo e nella simmetria. L'espressione di serenità, priva di sentimenti e accennante solo una tenue concentrazione, fu criticata da Plinio.
La cessione alla Francia napoleonica e alla Germania nazista
L'opera godette fin da subito di fama internazionale nell'Europa colta e intellettuale, anche grazie all'eccezionale stato di conservazione. Per fama era pari solo all'Apollo del Belvedere, alla Venere de' Medici, al Laocoonte o ai Cavalli di San Marco.
Fu quindi tra le prime opere oggetto di spoliazioni napoleoniche, tant'è che una stampa presso la Biblioteca nazionale di Parigi mostra l'arrivo del primo convoglio con i beni confiscati al termine della Campagna d'Italia di Napoleone, che arrivava a Champ de Mars, di fronte all'École Militaire di Parigi, tra cui figura il Discobolo appena acquisito a mezzo del trattato di Tolentino. Il Discobolo tornò a Roma con il Congresso di Vienna e l'opera di Antonio Canova.


Lo studio della statua consentì ai primi organizzatori delle Giochi olimpici di ricreare lo sport del lancio del disco, di cui si era persa la conoscenza e che richiede un moto circolare.
La bellezza della statua colpì inoltre Adolf Hitler che, durante il suo viaggio in Italia nel maggio 1938, vedendo nella bellezza e nella perfezione fisica dell'atleta il mito della razza ariana, si fece "gentilmente concedere" dal governo italiano l'opera. Sebbene il Consiglio superiore delle Scienze e delle Arti si fosse opposto, Hitler acquisisce l'opera tramite compravendita privata tra Göring e il principe Lancellotti per 5 milioni di lire. Essendo un'opera notificata alle Belle Arti, la sua esportazione era tuttavia vietata, ma grazie alle pressioni del ministro degli esteri Galeazzo Ciano, la statua riuscì ad arrivare in Germania nel giugno 1938.
Il Discobolo restò così in terra tedesca - per la precisione nella Gliptoteca di Monaco di Baviera - fino alla fine della guerra, quando lo storico dell'arte Rodolfo Siviero riuscì a convincere il Governo Militare Alleato che l'opera, insieme a tanti altri capolavori, era stata acquisita illegalmente dai nazisti grazie all'alleanza tra due regimi tirannici. Così - nonostante molte opposizioni, ricorsi giudiziari e svariati ritardi da parte tedesca - il 16 novembre 1948 il Discobolo tornò in Italia, insieme ad altri 38 capolavori che erano stati esportati illegalmente tra il 1937 e il 1943.


Lazio - Roma/Musei - Lamine di Pyrgi

 

Le Lamine di Pyrgi sono un documento inciso su tre fogli di lamina d'oro, di fondamentale importanza per la conoscenza della storia e della lingua del popolo etrusco. Fra i più importanti documenti epigrafici in lingua etrusca, attualmente il reperto è esposto al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma. Le lamine sono state rinvenute l'8 luglio 1964 durante una campagna di scavo diretta da Massimo Pallottino presso Santa Severa nel sito archeologico etrusco di Pyrgi. La città era uno dei porti di Caere (l'antica Cerveteri) e tra il VI ed il IV secolo a.C. rappresentava uno dei più importanti scali commerciali del bacino del Mediterraneo e possedeva almeno due santuari di rilevanza internazionale: un tempio della fine del VI secolo a.C. dedicato a Uni/Astarte (denominato Tempio B nell'area di scavi) e un tempio della prima metà del V secolo a.C. dedicato a Thesan/Leucotea (Tempio A).
Le tre lamine ritrovate nelle vicinanze del Tempio B e alte circa 20 cm, risalgono alla fine del VI o all'inizio del V secolo a.C. e contengono un testo in lingua fenicia e due in lingua etrusca. Si tratta di un'iscrizione sacra: i documenti testimoniano la consacrazione del tempio alla dea etrusca Uni, assimilata alla fenicia Astarte, da parte di Thefarie Velianas, supremo magistrato (lucumone) della città di Caere. Non sono propriamente dei testi bilingui in quanto presentano alcune differenze di estensione e di contenuto.
I due testi più lunghi — una lamina con iscrizioni in etrusco di 16 righe e 36 o 37 parole e l'altra di 10 righe in fenicio — sono quelli con le maggiori somiglianze; il testo in fenicio fornisce le motivazioni della consacrazione (Thefarie Velianas rende omaggio alla dea per la sua posizione di vertice nel governo cittadino), mentre quello etrusco sembra dare maggiore risalto al cerimoniale del culto. La terza lamina — con testo in etrusco di 9 righe — riassume brevemente la dedica.
Sebbene non comparabili — per l'imperfetta corrispondenza di contenuti e per la lunghezza decisamente inferiore — alla famosa stele di Rosetta, che permise la quasi totale decifrazione dei geroglifici egizi, le lamine di Pyrgi hanno comunque permesso agli studiosi un miglioramento della comprensione della lingua etrusca.
Il testo bilingue documenta il grado di influenza politica e culturale dei Punici in Etruria durante il VI sec. a.C. — con Thefarie Velianas come punto di riferimento all'interno di una rete di alleanze finalizzate a contrastare le mire espansionistiche elleniche nel Tirreno, scopo infine raggiunto dagli Etruschi — e può essere collegato dal punto di vista storico-politico con le notizie circa il primo trattato tra Romani e Cartaginesi siglato, per la Repubblica romana, dal console Lucio Giunio Bruto nel 505 a.C. e menzionato da Polibio nelle sue Storie (Pol., Hist. 3, 22).

Lazio - Toma, Sale di arte egizia del Museo di scultura antica Giovanni Barracco (EGITTO)

 


Il Museo di scultura antica Giovanni Barracco fa parte del sistema Musei in Comune di Roma ed è situato nel rione Parione, vicino a Campo de' Fiori. Raccoglie diverse opere di arte classica e del Vicino Oriente, donate al Comune dal barone Giovanni Barracco nel 1904.
Le prime due sale sono dedicate all'arte egizia, con diversi materiali provenienti da alcune aste parigine e diversi scavi effettuati direttamente in Egitto; si tratta della prima parte collezionata dal barone Barracco. La stele di Nofer è un frammento in calcare attribuito all'omonimo scriba della IV dinastia, ritratto davanti a un altare per le offerte. Proveniente originariamente dalla necropoli di Giza, Ismail Enver lo donò a Girolamo Bonaparte; a Parigi il barone Barracco acquistò il pezzo per la sua collezione. Vicino è presente una piccola statua fabbricata in legno e molto probabilmente risalente alla XII dinastia, sulle cui mani sono stati realizzati alcuni geroglifici. Una rarità è la sfinge femminile attribuita alla regina Hatshepsut (XVIII dinastia, foto in alto) in granito nero, la cui iscrizione menziona il fratello Thutmose II di cui la regina fu reggente. L'opera è stata ritrovata nel sito romano dell'Iseo Campense del I secolo, nei pressi del Campo Marzio.
Poco oltre si trovano un ritratto giovanile di Ramses II (foto a sinistra), rappresentazione dell'omonimo faraone del Nuovo Regno, realizzata sempre in granito nero, e con la corona doppia e un elmo, accompagnati dall'ureo sacro. Prodotta invece con la diorite è la figura di un sacerdote barbato, che Barracco credeva rappresentasse l'imperatore romano Giulio Cesare, mentre l'acconciatura fa pensare in realtà a un comune sacerdote dell'antica Roma; inoltre, la particolare fascia sulla testa con una stella a otto punte ricorda propriamente un personaggio di tipo sacerdotale. L'opera sarebbe databile al III secolo. Oltre alla maschera funebre d'epoca tolemaica, dello stesso tempo è anche una grande clessidra di Tolomeo Filadelfo, costruita in pietra basaltica ma ritrovata in frammenti presso il Serapeo Campense di Roma. Se all'esterno sono state realizzate alcune iscrizioni dedicate al re egiziano Tolomeo II, l'interno invece presente alcune tacche funzionali all'uso di questo strumento come clessidra, poi in realtà divenuto vaso d'offerta nei secoli successivi. Si ricordano anche un vaso canopo con coperchio cinocefalo, in calcite e appartenente alla XXVI dinastia, e una rara protome leonina in legno della XX dinastia.


Lazio - Museo nazionale etrusco Rocca Albornoz


Il Museo nazionale etrusco Rocca Albornoz è il museo archeologico della città di Viterbo, nel Lazio settentrionale, ed è dedicato principalmente all'archeologia etrusca. La Rocca Albornoz, sede del Museo Archeologico Nazionale, è appoggiata a una parte del percorso delle mura della città e domina la piazza sottostante sul quale si trova una fontana in peperino, progettata dal Vignola.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale del Lazio, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Costruita nel 1354 dal cardinale Egidio Albornoz, la fortezza dopo una serie di distruzioni ha beneficiato di una ristrutturazione nel 1506 promossa dal papa Giulio II che ha chiamato il Bramante al fine di aggiungere il cortile e la fontana centrale. Dopo i danni della seconda guerra mondiale, la fortezza è stato recuperata tra il 1960 e il 1979 con il sostegno dalla Soprintendenza BAA del Lazio e dalla Soprintendenza Archeologica per l'Etruria Meridionale che l'ha trasformata in struttura museale.
Il Museo nazionale etrusco è ospitato nella Rocca Albornoz, che si trova a Piazza della Rocca, nei pressi della Stazione Ferroviaria di Porta Fiorentina.
Al piano terra vi è una sezione sulla architettura etrusca dell'area di Viterbo compresi i pezzi archeologici recuperati a seguito degli scavi effettuati nel 1960 dall'Istituto di Studi Classici Svedese a San Giovenale e Acquarossa. Quest'ultimo, situato sul colle San Francesco vicino Ferento (protovillanoviano - . 500 aC) è stato strutturato nel periodo arcaico intorno ad un "palazzo" la cui terrecotte architettoniche sono attualmente conservati nella Rocca Albornoz (vii e il vi ° secolo), dove sono inseriti
in una ricostruzione di case etrusche arcaiche. Gli oggetti e le terrecotte che decoravano le case e il tempio ricostruiti all'interno del museo, così come i reperti di mobili e di utensili di tutti i giorni, hanno contribuito a far comprendere gli ambienti interni ed esterni al di fuori delle aree archeologiche in cui sono state ritrovate.
Il piano intermedio di solito ospita mostre temporanee.
Il primo piano è dedicato ai centri etruschi di Musarna, con il famoso mosaico con iscrizione in alfabeto etrusco scoperto nelle terme, e Ferento per la sua "fase romana" con il suo ciclo di statue composto da otto muse e una copia del Pothos di Scopas che ornavano il teatro, risalente all'anno 150 circa, precedentemente conservato a Firenze.
Il secondo piano è in fase di ristrutturazione per l'esposizione di reperti archeologici dell'Etruria meridionale, di esposizione di materiali provenienti dalla zona delle necropoli rupestri e dell'area del lago di Bolsena.
Una sezione speciale è dedicata alla Tomba della Biga, scoperta a Ischia di Castro con tutto il suo corredo funerario, tra cui una Biga.



Nelle foto, dall'alto: 
Lastre architettoniche da acquarossa
Pythos di grandi dimensioni, dalla tomba della biga, 530-520 ac
Testa di Augusto rilavorata come Costantino, 315 ac


Lazio - Tarquinia, Ara della Regina

 

L'ara della Regina posta sul "Pian di Cìvita", nei pressi di Tarquinia, è un tempio etrusco che veniva utilizzato in antichità per la celebrazione di riti e preghiere; si tratta di uno dei ritrovamenti archeologici più importanti della zona. È ben visibile il basamento e quello che si ipotizza fosse l'accesso alla cella interna del tempio, costruito con blocchi di nenfro, una roccia piroclastica tipica della regione.
La divinità alla quale era destinato il culto all'interno del santuario rimane ancora ignota, ma da studi recenti se ne ipotizza l'identificazione probabilmente con Artume, ossia Diana per i Romani.Grazie alle opere di restauro e di scavi svoltesi nel 1938 è possibile visitare quest'opera edilizia datata intorno al IV secolo a.C.. Il basamento, che è l'unico resto rimasto, è in macco, una pietra calcarea diffusa in Etruria.
I Cavalli alati, un'opera di laboriosa manifattura di arte etrusca, costituiscono il più importante ritrovamento avvenuto in questo sito. Questa lastra di terracotta, emersa nel 1938 durante i restauri condotti dall'archeologo Pietro Romanelli, rappresenta due equini alati e venne ritrovata interamente frammentata.
Per la ricostruzione è stato necessario un preciso lavoro di restauro. Anticamente erano però due le lastre che ornavano il frontone del tempio, una raffigurante i due cavalli alati e l'altra contenente una biga, andata perduta. La tavola di terracotta, databile tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C., è ora conservata al Museo Nazionale di Tarquinia.


Lazio - Luni sul Mignone


Luni sul Mignone è un insediamento preistorico e tardo-etrusco, in cui si protrasse un'attività di culto in epoca medievale, situato nel territorio comunale di Blera a circa 5 km dall'abitato antico di San Giovenale, e accessibile attraverso vie campestri a partire dalla strada che unisce Blera e Monte Romano. La struttura e la posizione delle alture tufacee di Luni e Fornicchio, tra il torrente Vesca ed il fiume Mignone a sud (la confluenza tra i due corsi d'acqua si trova proprio presso l'altura di Luni), ed il fosso Canino a nord, ne fanno luoghi naturalmente fortificati e di notevole suggestione.
Luni sul Mignone è un complesso abitativo dell'età del bronzo di rango primario che, nell'ambito della classe dei centri maggiori dell'area medio tirrenica, si può tuttavia considerare eccezionale solo perché sfuggito all'indifferenza e quindi alla dispersione del suo potenziale informativo grazie alla indimenticata corrusca stagione dell'archeologia regale svedese degli anni '50 e ‘60 del XX secolo.
La natura litologica e l'aspetto morfologico del supporto orografico hanno costituito la condizione di maggiore attrazione per le comunità protostoriche; si può sostenere che la formazione tabulare che l'erosione ha ritagliato dai vasti pianori originali - il Pian di Luni - rappresenta in modo esemplare le castelline dell'Etruria meridionale.

La località è occupata già nel Neolitico, per motivi in parte diversi da quelli che determinano l'occupazione dell'età del bronzo; infatti gli abitati neolitici del circondario si trovano per la maggior parte in pianura o su pendii e terrazzi; quelli su area difesa non si connotano come particolari per quantità e qualità dei ritrovamenti e in ogni caso non rivelano continuità per più fasi. A Luni, in particolare, le tracce di abitato neolitico riguardano solo un settore marginale dell'area difesa, il terrazzo dei Tre Erici.
Nell'età del bronzo l'occupazione attestata da frammenti dell'aspetto ceramico di Norchia è stata, sia pure problematicamente, ritenuta un precedente significativo dell'occupazione protostorica protrattasi per quasi un millennio, dall'inizio del Bronzo Medio fino al Bronzo Finale.
Sono visibili le fondamenta di abitazioni risalenti alla Cultura Appenninica, lunghe capanne quadrangolari con tetti a due falde fogliate e fondi parzialmente scavati nel tufo, abitate da diversi gruppi di famiglie. Queste capanne si trovavano al centro del pianoro, che era delimitato da lunghi e profondi fossati difensivi. Numerosi frammenti di ceramica micenea attestano i contatti con i popoli dell'Egeo.
Come per San Giovenale, San Giuliano, Blera e numerosi altri insediamenti circostanti, il consolidamento e la crescita demografica si arrestano nell'età del bronzo finale, allorché il loro abbandono corrisponde alla nascita degli stati della prima età del ferro, i cui centri gravitazionali (Cerveteri e Tarquinia) distano qualche decina di chilometri da questo settore delle valli del Mignone e della Vesca.
L'area difesa di Luni, le cui dimensioni sono tra i sette e gli otto ettari (nell'accezione estensiva che comprende nel perimetro dell'insediamento anche la castellina minore del Fornicchio), è dotata di una buona posizione rispetto alle principali vie idrografiche, compreso il collegamento con il mare, e al controllo visivo del territorio circostante. La distanza tra Luni e San Giovenale, che corrisponde a 5 km, deve ritenersi esemplificativa di un modulo che viene a ripetersi costantemente tra i maggiori abitati dell'età del bronzo di questo territorio. La morfologia dei rilievi di Luni venne in parte deformata dal passaggio della ferrovia Capranica-Civitavecchia che ha tranciato l'istmo che collegava Luni a Monte Fortino, il quale, in passato ha a volte dato nome all'intera area. Il toponimo corretto e mai dimenticato nell'uso locale è Luni e più precisamente Pian di Luni quando ci si voglia riferire al pianoro che gli archeologi svedesi hanno chiamato "acropoli".
In contrapposizione alle ipotesi secondo cui si tratterebbe di un abitato a due poli o addirittura di due distinti abitati, Luni e Fornicchio, gli archeologi propendono per la ricostruzione di un insediamento unitario il cui perimetro, decorrente lungo un ciglio pressoché ininterrotto, racchiude il Pian di Luni e il Fornicchio con la sella e il terrazzo intermedi. Sul Pian di Luni fu tracciata dagli archeologi svedesi una trincea esplorativa nel senso della lunghezza; questa rivelò lo stato di abrasione del banco di tufo litoide e la perdita della maggior parte dei depositi e delle strutture che pure dovevano essere state numerosissime come dimostrano i moltissimi buchi da palo venuti in luce nell'occasione. In condizioni peggiori, a causa di antiche attività di cava, versava la sommità del Fornicchio, altresì cosparsa di "post holes".
In epoca etrusca non vi furono insediamenti di particolare rilievo fino a quando, nel IV secolo a.C. in occasione della guerra mossa da Roma per la conquista di Tarquinia, l'altura fu fortificata ed ospitò probabilmente un presidio militare.
Sul Pian di Luni vi è anche una piccola chiesa cristiana, impiantata in una struttura monumentale dell'età del bronzo finale e circondata da tombe a fossa.
L'Istituto Svedese di Studi Classici di Roma vi ha condotto campagne di scavo archeologico nei primi anni sessanta del 1900 quando il sostegno alle ricerche proveniva dal diretto coinvolgimento del sovrano Gustavo VI Adolfo, appassionato di archeologia fin da età giovanile.

Lazio - Antiquarium di Lucrezia Romana, Roma


L'Antiquarium di Lucrezia Romana è un piccolo museo archeologico collocato nel quadrante sud-est della Capitale, in una zona che prende il nome di Lucrezia Romana, tra via Tuscolana, via delle Capannelle e il Grande Raccordo Anulare. Fu inaugurato al pubblico il 28 marzo 2015 dall'allora Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l'Area Archeologica di Roma, e dedicato all’archeologo Giuseppe Vitale, prematuramente scomparso nel 2004 a soli trentasette anni. Successivamente è stato annesso al Parco archeologico dell'Appia Antica.
Il museo espone i materiali provenienti dalle indagini archeologiche preventive effettuate negli ultimi venticinque anni nel territorio compreso tra le antiche via Latina e via Castrimeniensis dove la recente urbanizzazione ha portato alla scoperta di siti archeologici databili a partire dalla preistoria.
Gli scavi sono stati effettuati nel territorio dell’attuale VII Municipio, in particolare nelle zone di Osteria del Curato, Lucrezia Romana, Tor Vergata, Morena, Romanina, Centroni, Cinecittà, Anagnina, Quadraro, quartieri Appio e Tuscolano. Le indagini archeologiche hanno permesso di individuare siti preistorici, eneolitici, dell'età del Bronzo, necropoli di età medio repubblicana e imperiale oltre che lussuose ville.
L’Antiquarium espone una piccola ma interessante collezione che offre una panoramica sulla vita quotidiana dei nostri antenati, facendo ripercorrere le tappe fondamentali che hanno portato a cambiamenti significativi del paesaggio antico e delle modalità di utilizzo del territorio. Nel Museo è possibile usufruire di un percorso di visita attraverso codice QR realizzato dagli studenti dell'Istituto Ferrari-Hertz nell'ambito di un progetto di alternanza scuola-lavoro in collaborazione con il Servizio Educativo del Parco.

L’Antiquarium si articola in due edifici: un’antica cisterna e un casale databili ai primi del Novecento, restaurati e adibiti a spazio museale.
All’interno della ex-cisterna (sala A) la collezione è esposta con ordinamento cronologico in senso antiorario, a partire dalle prime vetrine sulla destra che ospitano reperti databili tra Neolitico finale (4170-4040 a.C.) ed Eneolitico finale (2580-2470 a.C.), fino alle ultime vetrine sulla sinistra, con reperti di età medievale e rinascimentale.
I reperti databili in epoca preistorica provengono sia da abitati che da tombe, nelle quali costituivano elementi del corredo. Tra gli utensili sono presenti le punte di freccia in selce e le lame di ossidiana, vetro di origine vulcanica. I frammenti di vasi in ceramica, realizzati a mano, sono pertinenti a scodelle e a olle, di forma molto semplice nelle fasi più antiche e dal profilo più articolato nelle fasi più recenti.
Passando alla Protostoria sono presenti reperti dell’età del Bronzo antico (2300-1700 a.C.) e del Bronzo finale (1200-950 a.C.), da abitati e necropoli, nelle quali costituivano oggetti del corredo del defunto: fibule, rasoi, anelli e anche un pettine in avorio.
Seguono i reperti provenienti dalle tombe di età Orientalizzante (fine dell'VIII - inizi del VI secolo a.C.), periodo di grande fermento culturale caratterizzato da frequenti contatti commerciali tra le popolazioni del Mediterraneo, del vicino Oriente e dell’Europa centrale. Ricchi corredi funerari riproducevano il servizio da banchetto aristocratico con vasi che si distinguono per raffinatezza ispirandosi a modelli greci con ricca decorazione dipinta: aryballoi (piccoli vasi a corpo ovoide o globulare) e oinochoai (brocche con orlo trilobato). Sono anche presenti anforette, coppe e kyathoi in bucchero, distintivo della cultura etrusca e ottenuto dalla cottura in atmosfera riducente, ossia senza l’immissione di aria nella camera di cottura delle fornaci.
Da contesti funerari, abitativi e sacri, compresi tra l’età arcaica e l’età repubblicana (tra fine VI secolo e fine I secolo a.C.) provengono ornamenti personali, decorazioni architettoniche, oggetti di culto che testimoniano la persistenza della tradizione etrusco-italica nell’arte romana e contemporaneamente l’adozione di tecniche, gusti e tradizioni proprie dell’arte greco-ellenistica. Nella tarda età repubblicana le numerose fattorie che popolavano il suburbium di Roma si trasformano in impianti produttivi, le villae rusticae, adibiti alla produzione su vasta scala di vino e olio. Queste ville erano articolate in pars rustica, dedicata alla produzione, e pars urbana o dominica, ossia la zona residenziale riservata ai proprietari, da cui provengono le decorazioni più ricche come affreschi, stucchi, mosaici. Il suburbio era interessato anche da luoghi di culto dei quali restano tracce nei depositi di ex voto di terracotta, che riproducono in maniera molto realistica ritratti degli offerenti o elementi anatomici per la cui guarigione si chiedeva l’intercessione divina.
Ad epoca giulio-claudia (fine I secolo a.C.- fine I secolo d.C.), risalgono oggetti provenienti dalle fiorenti villae rusticae, appartenenti alle famiglie più ricche del patriziato e della nobiltà, che popolavano il suburbio. Seguono alcuni esempi di corredi funerari in uso presso le classi sociali medio-basse dei primi due secoli dell’Impero. Il corredo di una tomba rinvenuta presso la via Tuscolana con un bracciale in bronzo “a serpentina” e vasellame in ceramica africana: un guttus, ossia un “vaso da cui il liquido fuoriusciva a goccia a goccia”, dotato di un beccuccio e che poteva anche essere usato come biberon e un askòs, ovvero un vaso che conteneva liquidi pregiati.
Il corredo di una tomba trovata presso via S. Giorgio Morgeto conserva uno specchio in bronzo, un vago di collana in pasta vitrea, un dente di animale in osso, un balsamario in vetro e una figurina femminile. Curiosa è la presenza di un ex voto all’interno di una sepoltura: forse era indossato dalla defunta a ricordo o a ringraziamento di una malattia risoltasi positivamente.
Da una tomba infantile della necropoli di Osteria del Curato proviene una statuetta in terracotta di Arpocrate, divinità popolare tra i ceti più modesti, identificato anche con Horus, figlio di Iside e Osiride.
Le sepolture conservano spesso oggetti della vita quotidiana dei defunti, ad esempio gioielli o elementi di vestiario, che erano indossati al momento della sepoltura o deposti come corredo funebre. Sono presenti collane in pasta vitrea e oro, in ambra (resina fossile che in antico era considerata di grande pregio) e orecchini in oro e pasta vitrea di un tipo chiamato in antico crotalia, perché le perle nel muoversi urtavano tra di loro tintinnando come i crotali che erano strumenti musicali simili alle nacchere.
Altri oggetti appartenenti al mondo della bellezza femminile sono il contenitore per cosmetici, gli specchi in bronzo, le pinzette, gli aghi crinali o spilloni, gli unguentari o balsamari e i tintinnabula, cioè campanelli e sonagli in bronzo deposti nelle tombe per allontanare gli spiriti malvagi.
L’ultima vetrina della sala espone oggetti rinvenuti in sepolture tardo antiche e alto medievali della zona (che mostrano corredi molto semplici spesso composti solo da recipienti ceramici o in vetro e lucerne) oltre a ceramiche rinascimentali come i piatti o la ciotola dai vivaci colori datati al XVI secolo.
Nel casale (con le sale B, C e D) sono esposte statue, elementi architettonici, sarcofagi, arredi marmorei, frammenti di pavimenti in mosaico e affreschi, provenienti dalle tante ville rustiche di età repubblicana e imperiale scoperte durante le indagini archeologiche tra cui anche la Villa dei Sette Bassi.
Notevole è la pregevole vasca rinvenuta al VI miglio della via Latina antica e databile al II secolo d.C.. Ricavata in un unico blocco di alabastro “cotognino”, di provenienza egiziana, è stata ritrovata in frammenti e pazientemente ricomposta dai restauratori del MIBAC. Questo tipo di vasca in epoca antica decorava generalmente giardini o peristili (cortili porticati) di ville oppure ambienti termali. L’esemplare qui visibile, invece, proviene da un’area funeraria ed era probabilmente utilizzata per lo svolgimento di riti religiosi o funebri.
I mosaici esposti, databili tra la fine II e gli inizi del III secolo d.C., sono realizzati con tessere bianche e nere e provengono dalla cosiddetta Villa del Casale di Marzio, non lontana dall’Antiquarium.
Le due statue acefale (prive di testa), rinvenute in un’area funeraria di via Lucrezia Romana ed esposte a sinistra dei mosaici, ritraggono, secondo alcune ipotesi, i proprietari della Villa del Casale di Marzio nella fase di età augustea. Il personaggio maschile, in particolare, indossa la toga, che era l’abito tipico del cittadino romano.
L’interessante affresco con prospettive architettoniche (della fine del I secolo a.C.), inquadrabile nel cosiddetto Secondo Stile Pompeiano, caratterizzato da vedute prospettiche che tendono ad ampliare illusionisticamente lo spazio della parete dipinta, è stato rinvenuto fuori contesto, a ridosso di un mausoleo di età imperiale e non nella dimora in cui originariamente doveva essere collocato.
Numerosi esemplari di statuaria dell’età imperiale si conservano nell'’Antiquarium: statue di Ermafrodito e di Priapo, una testa di fanciullo o Eros, una testa maschile, forse Dioniso, una testa femminile con una pettinatura tipica della seconda metà del II secolo d.C., una testa femminile con copricapo statue di Eros e di un Barbaro morente, una piccola statua di Ercole e un’erma maschile acefala.
Una delle opere più belle conservate nell’Antiquarium è la Nereide su mostro marino databile nella metà del I secolo a.C. e proveniente dal IV miglio della via Latina, in località Quadraro. Le Nereidi, secondo il mito, erano delle divinità marine figlie di Nereo ed erano spesso raffigurate sedute su mostri o cavalli marini.
Nel giardino e nel piazzale dell’Antiquarium sono collocati cippi ed epigrafi; alcune iscrizioni si riferiscono agli acquedotti, che caratterizzavano, e caratterizzano ancora oggi, il paesaggio di questo settore del suburbio sud-orientale di Roma, basti pensare al Parco degli Acquedotti, dove ancora oggi si stagliano le imponenti arcate.Nelle vicinanze dell’Antiquarium è possibile visitare alcune aree archeologiche di grande valore.
Alle spalle del museo è conservato un tratto di strada antica, la via Castrimeniensis, fiancheggiata da strutture in laterizio che avevano la funzione di pozzi di ispezione dell’Acquedotto Claudio. Quest’opera di alta ingegneria romana, che in questo tratto corre sotterranea, è caratterizzata da poderose arcate nell’area del Parco degli Acquedotti, raggiungibile da via di Capannelle.
Percorrendo via Lucrezia Romana in direzione nord e girando a destra per via Broglio, prima dell’incrocio con via del casale Ferranti si giunge a un parco pubblico che conserva un’area archeologica di grande valore, risparmiata dall’urbanizzazione. Sono oggi visibili resti di sepolcri e un tratto di strada basolata, identificabile con l’antica via Latina.



Lazio - Museo archeologico nazionale di Palestrina

 

Il Museo archeologico nazionale di Palestrina, anche conosciuto come Museo archeologico prenestino, è un museo archeologico ospitato nel palazzo Colonna Barberini di Palestrina (antica Praeneste), che occupa le terrazze superiori del santuario della Fortuna Primigenia. Il museo è stato inaugurato nel 1956 e rinnovato nel 1998: nel 2014 ha contato 20 776 visitatori. Nel 2015 ha aumentato il numero di visitatori a 22 586.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali gestisce santuario e museo tramite il Polo museale del Lazio, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Piano terreno

Il percorso di visita inizia nelle sale che si aprono a sinistra dell'atrio di ingresso. L'ultima sala in fondo (sala I) ospita le testimonianze del culto della dea Fortuna, alla quale era dedicato il santuario della Fortuna Primigenia. Vi sono esposte una statua di Iside-Fortuna (foto a sinistra), proveniente dall'iseo presso la basilica nel foro cittadino, datata al II secolo a.C., con veste in marmo grigio dell'isola di Rodi, e una testa di Fortuna rinvenuta nel pozzo della terrazza degli emicicli del santuario della Fortuna Primigenia e pertinente probabilmente alla statua di culto.
Le sale II e III ospitano sculture di epoca ellenistica provenienti dalla città, tra cui una testa femminile velata composta da due pezzi di marmo differente, ritratti di epoca repubblicana e basi marmoree con iscrizioni.
Ritornati all'atrio di ingresso, la sala IV ospita copia dei Fasti Prenestini il calendario elaborato tra il 6 e il 10 d.C. dal grammatico ed erudito Verrio Flacco, che fu educatore dei nipoti dell'imperatore Augusto, e due meridiane di recente ritrovamento, che completano l'illustrazione dei sistemi di misurazione del tempo in epoca romana.
Si passa quindi nelle sale dell'ala a destra. Le sale V e VI ospitano le sculture di epoca imperiale romana, tra le quali:
  • rilievo con cinghialessa che allatta i piccoli della serie delle "lastre Grimani", pertinenti alla decorazione di una fontana e reimpiegati in un edificio tardo-antico nella città bassa;
  • altare dedicato al divo Augusto, con busto di Augusto divinizzato dopo la morte tra cornucopie che sorreggono una ghirlanda;
  • due altari dedicati alla Pax ("Pace") e alla Securitas ("Sicurezza"), con bucrani e ghirlande;
  • rilievo con la raffigurazione del trionfo di Traiano, conservato nella metà sinistra, nel quale la raffigurazione è resa con schemi compositivi comuni nell'arte ufficiale, ma con un linguaggio artistico caratterizzato dalle proporzioni alterate in base all'importanza dei personaggi e dalla mancanza di profondità, proprio dell'arte plebea
Nelle successive sale VII e VIII sono ospitate le iscrizioni, sia di carattere pubblico che funerario, che religioso. Sono inoltre presenti un fregio con scena di battaglia, con schema compositivo ellenistico, della fine del I secolo a.C. e un frammento di sarcofago attico decorato con scene dionisiache, datato al 170-180 d.C..
Primo piano

Salendo al piano superiore, le sale dell'ala destra sono dedicate alle necropoli cittadine (foto a sinistra). Nella sala IX sono presenti vetrine che ospitano i corredi delle tombe dal V secolo a.C. al III secolo a.C., sia da contesti noti, sia, fuori contesto, provenienti dalla collezione dei Barberini, proprietari del palazzo dal Seicento. Si notano in particolare le ciste in bronzo, di cui Praeneste fu nel IV secolo a.C. uno dei principali centri di produzione, e specchi, sempre in bronzo, decorati da scene incise.
Nella sala X sono esposti i caratteristici cippi a forma di pigna o di busto femminile, che erano utilizzati come segnacolo per le tombe e spesso recano un'iscrizione con il nome del defunto.
Nella sala XI è esposto un coperchio di sarcofago a tetto, con frontone e fregio scolpito, datato agli inizi del IV secolo a.C..
Ritornando indietro, la grande sala centrale (sala XII), utilizzata per mostre temporanee ospita esempi di pavimentazioni di epoca repubblicana, tra cui un pavimento in opus scutulatum, appartenente al santuario e datato tra la fine del II secolo a.C. e gli inizi del secolo successivo.
Attualmente è possibile vedere in una teca di questa stanza, sul lato delle finestre, i ritrovamenti degli scavi ritrovati al X miglio della via Latina, ovvero presso l’antica località di Ad Decimum, a breve distanza da Grottaferrata, ove si scoprirono per caso tra 1999 e 2000 un piccolo ipogeo in blocchi squadrati di peperino detto “delle ghirlande”, dentro cui sono disposti, a formare una L, due bei sarcofagi in marmo. 
Un ritrovamento molto particolare da vedere nel museo è proprio l'Anello di Carvilio (foto a sinistra), un bellissimo anello in oro con gemma ovale in cristallo, sulla cui superficie esterna, convessa e lucidata, è incavata per dare un effetto lenticolare. Sul fondo della pietra spicca, come attraverso un "oblò", il ritratto assai realistico di un giovane dal volto asciutto e dallo sguardo trasognato, incorniciato da folti ricci ottenuti a cesello e bulino, scolpito a tuttotondo in oro massiccio con la tecnica a cera persa.
Nel fondo della sala, sotto un pavimento in vetro, sono state lasciate visibili le fondazioni del thòlos (tempietto circolare) che costituiva la terminazione superiore del santuario e che ospitava la statua di culto.
Nell'ala sinistra, nelle sale XIII e XIV, sono esposti i doni votivi rinvenuti nel santuario di Ercole, che sorgeva fuori dalle mura della città bassa, in corrispondenza degli incroci delle principali vie di comunicazione, e degli altri luoghi di culto della città, soprattutto in terracotta.
Nella sala XV sono esposti i frammenti di decorazione architettonica fittile, provenienti da aree sacre arcaiche cittadine (San Rocco e Santa Lucia, in prossimità di due dei principali accessi alla città). Tra questi un fregio con processione di carri di una sima (VI secolo a.C. e un fregio con grifomachia (lotta con grifoni, fine del IV - inizi del III secolo a.C..
Secondo piano

Salendo al terzo piano si raggiunge la sala XVI che ospita il celebre Mosaico del Nilo (nella foto a sinistra), scoperto e distaccato agli inizi del Seicento dall'aula di culto isiaca che fiancheggia la basilica nel foro cittadino.
Il mosaico, scomposto in pezzi, venne portato a Roma e quindi, donato al cardinale Francesco Barberini, venne riportato a Palestrina per essere ospitato nel palazzo Colonna Barberini, dove era stata appositamente allestita una sala. Danneggiato durante il trasporto venne restaurato con alterazioni. Vi è raffigurata una carta geografica del corso del Nilo dai confini con l'Etiopia (con cacce ad animali i cui nomi sono scritti in greco) al Mediterraneo, verso il basso. Sono presenti templi e raffigurazioni di città, tra cui il porto di Alessandria d'Egitto, in basso a destra. Il mosaico è stato realizzato direttamente sul posto con tecnica raffinata (tessere di piccole dimensioni), probabilmente da artisti alessandrini, di cui è nota nel II secolo a.C. la presenza in Italia.
Nella stessa sala sono ospitati anche due frammenti di un obelisco in granito rosso con geroglifici di imitazione e attribuibile all'epoca di Claudio, probabilmente sempre pertinente alla medesima aula isiaca. Vi si trova inoltre il plastico ricostruttivo del santuario della Fortuna Primigenia.
Criptoportico

Il piano terra del palazzo occupa nella sua parte anteriore il portico di fondo della grande "terrazza della cortina", che oggi è tagliata dalla strada moderna; il cui tratto centrale passa, come criptoportico, sotto la cavea teatrale che oggi costituisce la scala di accesso al museo. Vi si conservano alcune delle colonne della fila intermedia, con i relativi capitelli corinzi (nella foto a sinistra).
Nel criptoportico sono ospitati frammenti architettonici, sculture ed iscrizioni provenienti da varie zone della città

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...