mercoledì 2 aprile 2025

Lazio - Museo civico archeologico Lavinium

 

Il Museo civico archeologico Lavinium di Pomezia è situato in località Pratica di Mare, nei pressi del borgo medievale dall'omonimo nome. Creato nel 2005 come mostra permanente dal titolo “Hic Domus Aeneae”, il museo raccoglie una parte dei numerosi reperti provenienti dagli scavi dell'antica città di Lavinium, la cui esplorazione sistematica, avviata nel 1958 grazie all'operato del prof. Ferdinando Castagnoli e poi proseguita nei decenni successivi, ha permesso di ricostruire le vicende della città fondata da Enea e «madre di Roma», Civitas religiosa dei popoli latini.
Il percorso museale, allestito con l'impiego di strumentazione multimediale, è suddiviso in 5 sale:
Sala Tritonia Virgo;
Sala Mundus Muliebris;
Sala Hic Domus Aeneae;
Sala Civitas Religiosa;
Sala Aeneas Indiges.

Sala Tritonia Virgo

Il nome della sala è dato dalla statua di Minerva Tritonia posta all'ingresso del Museo. Probabile statua di culto del Santuario di Minerva localizzato su un pianoro al limite orientale della città di Lavinium, la grande statua è una della poche raffigurazioni della dea accompagnata dal Tritone (da cui l'appellativo).
Nello spazio dedicato al Santuario è esposto uno dei più interessanti contesti votivi dell'antico Lazio per la qualità e l'unicità dei reperti. Si tratta di statue in massima parte femminili, databili tra il V e il III secolo a.C., realizzate in terracotta con la tecnica a stampo (molte a grandezza naturale) e originariamente policrome. Appartenenti a un gruppo di settanta – cento esemplari, rinvenute in un deposito votivo (la favissa riconducibile al III-II secolo a.C.), le statue sono per lo più raffigurazioni simboliche dell'offerente nell'atto di offrire alla divinità doni di vario genere (giochi dell'infanzia, colombe, melegrane, etc.), a testimonianza dell'importanza raggiunta a Lavinium dal culto di Minerva in special modo per quel particolare cerimoniale costituito dal rito di passaggio.
Sala Mundus Muliebris

Ancora dal deposito votivo del Santuario di Minerva provengono le teste e i busti, per lo più femminili, esposti nella sala Mundus Muliebris. La coroplastica lavinate dà qui prova dell'altissimo livello esecutivo raggiunto nella tecnica a stampo, attraverso la quale gli artigiani riproducevano modelli artistici circolanti in Etruria, Magna Grecia e in area falisca tra il IV e il III secolo a.C. Caratteristici in questi manufatti sono le pettinature (in particolare quelle riconducibili alle “nubendae”, fanciulle in procinto di sposarsi) e i gioielli, riproduzioni di esemplari veri ricavati da calchi e applicati successivamente agli ex voto. Dalla necropoli meridionale della città provengono inoltre i corredi funebri femminili di VIII-VII secolo a.C., costituiti da monili (collane d'ambra a pasta vitrea, amuleti, fermatrecce, parure da toletta, fibule bronzee ad arco a dischi d'ambra, pendenti, bullae e catenelle) e da strumenti di lavoro legati alle attività di filatura e tessitura (fuso, fusaiole e rocchetti).
Sala Hic Domus Aeneae

Seguendo le tracce del poema di Virgilio, questa sala tratta in maniera innovativa il tema del viaggio di Enea: lo sfondo blu delle pareti, la scenografia che ripropone lo scafo di una nave, la vela quadrata su cui sono proiettati i filmati, hanno lo scopo di "avvolgere" il visitatore nell'atmosfera di un viaggio per mare. Infatti si prosegue con un video che rievoca in maniera vivida le tappe del viaggio dell'eroe troiano dalle coste dell'Asia Minore a quelle del Lazio, combinando filmati cinematografici e ricostruzioni grafiche. Un momento fondamentale per comprendere la navigazione in età così antica è costituito dalla ricostruzione tridimensionale di una nave della fine dell'età del Bronzo, epoca in cui i Micenei solcavano il Mediterraneo seguendo rotte commerciali a lungo raggio. In posizione centrale è esposto un modello in scala, di legno, di questo tipo di imbarcazione, ricostruito grazie agli studi sulle fonti letterarie antiche e su alcuni relitti del XIV e del XIII secolo a.C.
Sala Civitas Religiosa

L'importanza che la città di Lavinium assunse grazie ai suoi culti è confermata dal santuario meridionale, detto anche delle "Tredici Are" dal numero degli altari rinvenuti. Individuato e scavato grazie ad accurate indagini archeologiche, il santuario ha restituito una straordinaria serie di oggetti votivi tra cui si annoverano ceramica d'importazione greca, bronzetti votivi, una lamina bronzea con dedica ai Dioscuri in latino arcaico, statue ed ex-voto in terracotta.
Per adattare alla realtà del Museo le caratteristiche di un sito così importante sono state adottate delle soluzioni particolari che permettessero di ricreare un contesto sacrale: partendo dal tema delle libagioni, per cui venivano utilizzati i vasi per il vino (come il cratere e le coppe provenienti dalla Grecia) nei banchetti e nei rituali sacri, si prosegue con uno spazio dedicato alla struttura del santuario ed alla ricostruzione grafica delle varie fasi architettoniche.
Un'originale esposizione degli ex voto anatomici, che testimonia l'importanza del rituale della guarigione, precede l'installazione scenografica e sonora del teatro ottico, attraverso cui prende vita un antico sacerdote che illustra il culto ed i riti praticati nel santuario. L'importanza dello spazio del sacro non riguarda solo i vivi, ma si riflette anche nel momento del trapasso: il costume funerario di epoca protostorica è esemplificato dalla ricostruzione di due sepolture: la tomba 21, una tomba ad incinerazione datata al X secolo a.C., e la tomba 33 ad inumazione.
Sala Aeneas Indiges

Nella sala è esposto il ricco corredo del monumento funebre noto come “Heroon di Enea”. Il sepolcro, datato al VII secolo a.C., era costituito da un cassone contenente il defunto e i suoi oggetti personali, all'esterno del quale erano deposti gli altri elementi del corredo costituito da vasi, oggetti metallici e un carro, il tutto ricoperto da un tumulo circondato da alberi. La tomba, riconosciuta dai latini quale sepolcro di Enea, subì nel VI secolo a.C. un'ispezione con l'aggiunta al corredo, per espiazione, di un'anfora vinaria etrusca e di una oinochoe in bucchero pesante. Proprio in questa circostanza avvenne la riconsacrazione della tomba al mitico progenitore Indiges Numicus, e poi ad Enea. Nel corso del IV secolo a.C. il tumulo subì un intervento di monumentalizzazione con la costruzione di una cella inaccessibile, chiusa da due porte in tufo (conservate al Museo), davanti alla quale si apriva uno spazio scoperto destinato alle offerte.

Lazio - Museo archeologico nazionale di Formia

 

Il Museo archeologico nazionale di Formia è un sito museale situato nella città di Formia, al piano terra dell'ala meridionale del Palazzo Municipale negli ottocenteschi ambienti conosciuti come “Stalloni dei Borbone”.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale del Lazio, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Istituito nel 1968, è stato ampliato e allestito negli attuali locali nel 1997. La collezione, costituita perlopiù da reperti scultorei, molti dei quali rinvenuti nell’area monumentale del Foro e nel territorio circostante, è stata ampliata con nuovi reperti rinvenuti nella villa marittima di Gianola.
Il percorso di visita inizia nell'atrio di ingresso dove un pannello mostra un’ipotesi ricostruttiva di Formiae in età imperiale. È presente, inoltre, una selezione di anfore, provenienti da recuperi sia terrestri che subacquei, la maggior parte delle quali appartiene al tipo Dressel 1, che tra il II e il I secolo a.C. costituivano il recipiente più utilizzato per il trasporto del vino dell’Italia centro-meridionale in tutto il bacino del Mediterraneo.
Nella prima sala reperti formiani documentano generi diversi in voga nella ritrattistica romana di prima età imperiale (fine I secolo a.C.- I secolo d.C.). Il primo, ispirato a originali della statuaria greca creati da maestri del V e IV secolo a.C., soprattutto Policleto, è caratterizzato da figure nude maschili sulle quali si pongono teste-ritratto fortemente individuali. Due varianti contraddistinguano questo genere, una caratterizzata dal corpo atletico appena coperto da un mantello, clamide, posato sulla spalla e avvolto intorno al braccio; l’altra, di cui due esempi sono visibili nella sala successiva, presenta sempre il corpo nudo, avvolto nella parte inferiore da un ampio mantello che sale a raccogliersi sul braccio proteso. La scultura che conserva ancora la testa ricorda nei tratti del volto alcune immagini ufficiali della famiglia augustea e in particolare, secondo alcuni studiosi, Gaio Cesare (Coarelli), nipote ed erede designato da Augusto prematuramente scomparso nel 4 d.C.
Sono inoltre presenti cinque ritratti maschili provenienti dalla villa marittima di Gianola. Due di essi hanno somiglianze nel largo naso adunco e nel taglio della bocca, e sono databili poco oltre la metà del III secolo d.C. Un quarto ritratto riproduce il tipo del “filosofo” con lunga barba e sguardo pensoso; è il più recente del gruppo e si data agli inizi del IV secolo d.C. Il più antico presenta somiglianze con le immagini giovanili dell’imperatore Commodo, con folta chioma a riccioli, baffi sottili e barba leggera che ricopre guance e mento.
Nella seconda sala seguono le due statue in nudità eroica con mantello che cinge i fianchi e sculture appartenenti al genere del togato di carattere più fortemente romano espressione di dignitas e del possesso dei pieni diritti del civis. Due sculture in atteggiamento di “sacrificante” hanno la figura interamente avvolta nella toga e presentano un lembo riportato fin sul capo (capite velato). Sono presenti tracce di pitture sulle toghe e gli occhi con le pupille e le ciglia dipinte in bruno. Queste tracce di colore sono una testimonianza di come le statue anticamente erano completate nei dettagli attraverso l’uso della pittura. Inoltre il colore rosso della toga e l’anello all’anulare sinistro indicano l’alto rango del personaggio raffigurato, forse un magistrato locale. Tale iconografia, adatta a sottolineare la pietas e la moralità del soggetto, mostra il clima di sobrietà e di rinnovamento dei costumi voluto da Augusto che in questa posa si fa ritrarre come Pontefice Massimo come nella famosa statua rinvenuta in via Labicana. Questo modello viene largamente adottata da imperatori, magistrati e comuni cittadini come testimoniato anche a Formia.
Nella terza sala esempi di statuaria femminile mostrano influssi di modelli classici. Tra questi, due esemplari del tipo detto della “Piccola Ercolanese”, chiamato così dall’esemplare più famoso rinvenuto nel teatro di Ercolano, che si ispira a un originale greco del IV secolo a.C. usato per rappresentazioni di giovani nubili. Indossano un’ampia e lunga tunica, di tessuto sottile, fittamente pieghettata e, sopra un mantello che fascia strettamente la figura, il braccio destro è nascosto nel panneggio emerge solo la mano che poggia delicatamente un lembo del mantello sulla spalla opposta. Ai piedi sandali (solae). Tra i reperti di questa sala un aristocratico ritratto di donna matura dall’elaborata acconciatura, forse l’imperatrice Livia. Come di consueto la testa era scolpita a parte e poi inserita nell’incavo. Per questa ragione la base del ritratto è tagliata a cuneo per poi essere inserita in un busto o in una statua.
Nella galleria interna il gruppo di Leda e il cigno è posto davanti a una porzione di affresco in quarto stile, entrambi provenienti dai criptoportici di Piazza della Vittoria. Copia di un originale greco del 370-360 a.C. attribuito a Timotheos, la scultura riproduce il mito dell’amore tra Leda e Zeus nelle sembianze di un cigno, datata al I secolo d.C. e mostra la giovane regina, oggi priva della testa, su una roccia, in posizione semiseduta, che accoglie il volatile in grembo in atto di protezione. Segue un affresco con soggetto di giardino; tra la fitta vegetazione si scorge un volatile, forse una quaglia. L’affresco, che si ispira alla decorazione della villa suburbana di Livia detta ad Gallina Albas, è datato al I secolo d.C. e proveniente dall’edificio identificato probabilmente con la basilica del Foro. La collezione dispone di un'erma bifronte raffigurante Apollo; i due volti dall’aria solenne, identici, sottolineano l’ambiguità tipica della personalità del dio.
Nella galleria esterna sono riuniti reperti riferibili alla sfera funeraria, come sculture femminili e maschili e due are funerarie dedicate a due donne Iulia Faustilla e Victorina, ed elementi architettonici, soprattutto capitelli, appartenenti a contesti pubblici e privati. 

Lazio - Tarquinia, Museo archeologico nazionale

 

Il Museo archeologico nazionale di Tarquinia (o anche tarquiniense) è un ente museale specializzato del Lazio settentrionale, dedicato principalmente all'arte e alla civiltà etrusca. È ospitato all'interno del Palazzo Vitelleschi, in Piazza Cavour, nel centro storico della città medievale.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale del Lazio, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Le collezioni comprendono, oltre a ben documentati reperti romani ed etruschi, ricostruzioni di tombe, ripristino degli affreschi originali di tombe trasferiti dalla necropoli dei Monterozzi, compresi quelli provenienti dalla tomba della Nave, dalla tomba del triclinio, dalla tomba della biga, dalla tomba dei Leopardi, dalla tomba delle Olimpiadi; personaggi famosi come quelli illustrati dal tema del Sarcofago dell'Obeso. È uno dei musei più importanti dedicati al mondo etrusco.
Il museo è articolato su tre piani :
Il piano terra ospita una collezione di sarcofagi in pietra risalenti alla metà del IV secolo a.C. Nella sala 10 si possono ammirare i sarcofagi più importanti : Laris e Velthur – della famiglia Partunus – del Magistrato, del Sacerdote, dell’Obeso e del Magnate.
Al primo piano si trova una interessante collezione di reperti che vanno dal periodo Villanoviano a quello Romano, con particolare attenzione all’evoluzione della pittura greca ed etrusca. In questa sezione del museo è possibile ammirare il celebre Vaso di Bocchoris, risalente al VII-VI secolo a.C., ed alcuni interessanti vasi di origine greca, VI secolo a.C., raffiguranti figure nere e attici con figure rosse. Il modo migliore per visitare questo piano del museo è partire dall’ultima stanza ammirando i reperti più antichi, quelli del periodo Villanoviano, IX-VIII secolo a.C. e proseguire in ordine cronologico nelle sale successive ammirando le collezioni provenienti dalla Fenicia e dall’Egitto, VIII-VII secolo a.C., i vasi greci provenienti da Corinto, VII-VI secolo a.C. ed i bucheri, ceramica tipica della civiltà etrusca. 
Degne di nota anche le collezioni di ceramiche dell’Attica, VI secolo a.C. e di monete etrusche in bronzo e oro, risalenti al periodo tardo imperiale e rinvenute durante gli scavi nella colonia di Gravisca. Proseguendo nelle successive sale si possono ammirare alcuni pregevoli manufatti di produzione locale in ceramica e metallo (specchi, suppellettili e balsamari), ed infine una bellissima collezione di ex voto provenienti dagli dall’Ara della Regina.
Al secondo ed ultimo piano si trovano le sale climatizzate che custodiscono le tombe dipinte e gli affreschi – Tomba del Triclinio, Tomba delle Biche, Tomba della Nave e Tomba delle Olimpiadi -. In questa sezione si trova il pezzo più famoso di tutto il museo, un’opera unica al mondo, l’altorilievo dei Cavalli Alati, anch’esso provenienti dall’Ara della Regina

Lazio - Roma, Domus Tiberiana

 


La Domus Tiberiana fu un palazzo imperiale sul Palatino edificato dall'imperatore Tiberio su lato occidentale della collina, su una vasta area tra il tempio della Magna Mater e le pendici del Foro Romano. Sopra di esso si estendono i cinquecenteschi Orti Farnesiani e ad oggi è stato scavato solo nelle zone marginali del perimetro, mentre il nucleo centrale, interessato solo da saggi alla metà del XIX secolo, è ancora fondamentalmente inesplorato.
Forse Tiberio scelse come sito quello dove si trovava la sua casa natale, che era sul colle. La fase iniziale del palazzo doveva essere limitata alla parte centrale degli odierni giardini, mentre Caligola lo ampliò verso il Foro e Domiziano lo fece restaurare. In questo restauro fu creato l'ingresso monumentale sul Foro, dove doveva avere sede anche la guardia pretoriana; qui poi sorse la chiesa di Santa Maria Antiqua.
La zona centrale del giardino fu sondata dal Rosa tra il 1861 ed il 1863.
Della parte centrale si conosce solo un grande peristilio circondato da stanze e dal quale si staccava un corridoio che finiva probabilmente presso gli ambienti scavati nei pressi del tempio della Magna Mater; altri corridoi dovevano sbucare poi nel criptoportico della Domus Transitoria neroniana, dove si vedono alcuni passaggi.
Il lato sud, verso il tempio e la più antica Casa di Livia, è stato scavato a fondo ed ha dato alla luce una fila di diciotto stanze rettangolari coperte da volta a botte. L'ottava da destra conserva un tratto di volta dipinta con riquadri che contengono scene figurate (una figura femminile, una pantera e degli uccelli), databili al III secolo d.C., mentre le pareti in laterizio sono databili alla ricostruzione neroniana dopo l'incendio del 64. Sempre su questo lato, all'angolo sud, si trova una vasca ovale con gradini, forse un vivarium dove erano tenuti pesci.
Il lato est è delimitato dal lungo criptoportico attribuito all'età neroniana. Vi si aprono finestre su un lato e conserva resti di pitture e dei pavimenti a mosaico. Un frammento del soffitto in stucco è decorato da cassettoni, elementi vegetali e un pannello con quattro Eroti (all'Antiquarium del Palatino). Da qui si può accedere alla Domus Augustana.
Il lato nord verso il Foro è quello meglio visibile, disposto lungo una via in salita identificata con il Clivus Victoriae. Alcuni ambienti orientati a nord-est/sud-ovest sono più antichi (domizianei) e sopra di essi si appoggiarono altre strutture adrianee orientate nord/sud che scavalcano la via antica con archi. In questi ambienti sono stati scoperti graffiti con liste di conti e nomi di monete, il che ha fatto pensare alla sede del fisco imperiale, forse dove veniva decisa la diffusione di nuovi coni. In seguito queste strutture vennero usate come magazzino.
Le fonti riportano che la Domus Tiberiana comprendeva almeno una biblioteca, sede anche dell'archivio imperiale, che subì un incendio al principio del 192 d.C., sotto Commodo.


Lazio - Roma, Musei / Mummia di Grottarossa, Palazzo Massimo


La 
mummia di Grottarossa è una mummia romana di una bambina di otto anni, risalente alla metà del II secolo d.C.
È conservata in una sala del piano interrato del Museo nazionale romano di Palazzo Massimo, in una teca a temperatura e umidità controllate, illuminata con luce attenuata e filtrata dalle radiazioni dannose, per garantirne la conservazione. La mummia è conosciuta con il nome di "mummia di Grottarossa" perché fu ritrovata, il 5 febbraio 1964, appunto in prossimità di Grottarossa (a nord di Roma), all tredicesimo km e 600 circa della Via Cassia in quella che successivamente verrà chiamata "Via dei Martiri de La Storta", in una discarica dove era stata gettata con tutto il sarcofago, assieme ad elementi del suo corredo funerario, anch'esso esposto nel museo.
La fanciulla romana, caucasica era probabilmente originaria dell'Italia settentrionale o centrale. Il corpo fu mummificato, senza asportare cervello e le viscere (che si possono ancora osservare mediante indagini di tomografia computerizzata) e utilizzando bende di lino impregnate di sostanze odorose e resinose (una pratica diffusa in Egitto ma raramente attestata a Roma).
Dalle analisi effettuate risulta che la fanciulla avesse avuto diverse infezioni e soffrisse di carenze nutrizionali, ma a causarne la morte fu una fibrosi pleurica bilaterale. Nonostante la malnutrizione,
la bambina non apparteneva a una famiglia povera, ma anzi, faceva parte di una famiglia romana, forse convertita al culto della dea egizia Iside, benestante e agiata.
Il corpo della bambina era avvolto, infatti, in una pregiata tunica di seta cinese ed era ornato da una collana in oro e zaffiri, inoltre aveva due orecchini di filo d'oro e un anello con castone aureo sul quale era incisa una vittoria alata. Un filo avvolgeva parte dell'anello per ridurne il diametro. 
Accanto al corpo fu trovata anche una bambola in avorio con braccia e gambe articolate. Completavano il corredo funerario alcuni vasetti di ambra rossa, piccoli amuleti ed un minuto busto femminile, sempre di ambra.
Il sarcofago che la racchiudeva, in marmo bianco, con mascheroni angolari, era decorato con scene di caccia al cervo ispirate all'episodio di Enea e Didone, descritto nel IV libro dell'Eneide.

Lazio - Piramide della via Appia

 

La Piramide della via Appia è una tomba romana a forma di piramide di Roma, edificata lungo la via Appia. Della tomba a piramide lungo la via Appia non si conosce il nome del proprietario: questa poteva appartenere o alla famiglia dei Quintili, trovandosi nei pressi dell'omonima villa e testimoniato dal ritrovamento di una epigrafe, oppure a Quinto Cecilio Metello, il quale aveva una proprietà lungo il V miglio della strada. Persa la sua funzione di sepolcro, la piramide venne depredata e spogliata del suo rivestimento in marmo: ne sono testimonianza i numerosi chiodi quadrati ritrovati, utilizzati per arrampicarsi e legare le corde; allo stesso tempo gran parte delle decorazioni venne distrutto, come ad esempio una statua colossale, di cui rimangono alcuni frammenti sparsi nei dintorni, probabilmente a seguito della lotta al paganesimo. Nel XVIII secolo Giovanni Battista Piranesi ne fece un'incisione, mentre nella prima metà del XIX secolo fu oggetto di una campagna di scavo da parte di Luigi Canina durante la quale vennero recuperati i bassorilievi di grifoni e sfingi.
Ubicata lungo il IV miglio della via Appia, nei pressi del tumulo degli Orazi e dei Curiazi e della villa dei Quintili, la tomba è la seconda piramide per grandezza di Roma dopo quella Cestia. Alterata rispetto al suo aspetto originario, con la totale perdita del rivestimento in marmo e delle quattro sfingi che la circondavano, ne rimane un blocco di pietra calcarea, malta pozzolanica e pietra lavica, alto circa 20 metri per un diametro di 15, dalla forma a fungo.

Lazio - Sepolcro di Priscilla

 

Il sepolcro di Priscilla è una tomba monumentale eretta nel I secolo a Roma sulla via Appia antica, situata di fronte alla chiesa del Domine quo vadis.
La tomba apparteneva a Priscilla, moglie di Tito Flavio Abascanto, liberto dell'imperatore Domiziano. Abscanto era dotato di ingenti mezzi, poiché aveva la importante e delicata carica di segretario "ab epistulis" (addetto alla corrispondenza imperiale). Il liberto nelle vicinanze del fiume Almone possedeva dei terreni ed un edificio termale e probabilmente acquisì un sepolcro già esistente in quei terreni per riadattarlo alle proprie esigenze.
Sopra un basamento quadrangolare, rivestito da blocchi in travertino, si elevavano anticamente due tamburi cilindrici sovrapposti, costruiti in opera reticolata, quello superiore dotato di 13 nicchie destinate ad ospitare le statue della defunta divinizzata.
Alla cella funeraria coperta da una volta a botte (a sinistra) si arriva da un corridoio, attualmente accessibile dai sotterranei di uno dei casali che si sono addossati al monumento. L'ambiente era rivestito all'interno in blocchi di travertino e comprendeva tre nicchie destinate ad ospitare sarcofagi.
Il monumento è stato identificato con certezza grazie alla descrizione precisa che ne fa il poeta romano Publio Papinio Stazio nel libro quinto dell'opera "Silvae", dove è collocato l'"Epicedion in Priscillam Abascanti Uxorem" (canto funebre in onore di Priscilla, moglie di Abscanto). Il poeta celebra i solenni funerali della giovane Priscilla, un'amica della moglie, morta prematuramente. Stazio precisa che Priscilla non venne cremata secondo l'uso romano, ma imbalsamata su ordine di Abascanto. La mummificazione era una pratica rara, ma non assente nel mondo romano: un altro esempio del secondo secolo d.C. è la giovane mummia di Grottarossa.
Il corpo di Priscilla fu avvolto in vesti di porpora di Tiro, coperto di profumi e deposto in una preziosa lettiga posta in un sarcofago di marmo, in un mausoleo posto sulla via Appia, subito dopo il fiume Almone. Il mausoleo, destinato anche al marito, era adornato come una domus all'interno, con nicchie e statue di bronzo di eroine e divinità femminili con il volto dell'amata Priscilla. A conferma dell'identificazione, nel 1773 venne scoperta presso il mausoleo una lastra di marmo di epoca dioclezianea, dedicata alla sepoltura del giovane schiavo Afrodisio, posta da Tito Flavio Epafrodito, custode del sepolcro per conto dei propri patroni Abascanto e Priscilla.
Il sepolcro fu saccheggiato in epoca ignota, spogliato dei rivestimenti e dei bronzi e ridotto a rudere; fu riutilizzato a partire dall'XI secolo come fortificazione: sul cilindro superiore venne costruita con materiale da recupero una torre cilindrica ("torre Petro"). Appartenne ai conti di Tuscolo, dai quali passò in seguito ai Caetani. Nel Settecento era creduto erroneamente il sepolcro della famiglia degli Scipioni. Giovanni Battista Piranesi ne studiò la pianta e lo raffigurò in una celebre incisione.
In epoca moderna vi furono addossati due casali, uno dei quali era l'"osteria dell'Acquataccio" e la camera funeraria era stata adibita a deposito per la stagionatura dei formaggi. Di recente è stato restaurato dalla Sovrintendenza; è visitabile solo in occasioni particolari.


Lazio - Roma, Sedia del Diavolo, o Tomba di Elio Callistio

 
La cosiddetta "Sedia del Diavolo", più propriamente la tomba di Elio Callistio, è un'architettura funebre di Roma antica che si trova in piazza Elio Callistio nel quartiere Trieste a Roma. Sorgeva su una collinetta lungo la via Nomentana antica. La stessa piazza si chiamava fino agli anni Cinquanta piazza della Sedia del Diavolo.
Elio Callistio era un liberto di Adriano e il suo sepolcro è tipico nella tipologia a tempietto (naiskos) della prima metà del II secolo d.C., paragonabile al cenotafio di Annia Regilla sull'Appia antica.
Il nome popolare deriva dalla forma del rudere, che con il crollo della facciata ha preso la curiosa forma di una monumentale cattedra del tipo vescovile, che accese la fantasia popolare, essendo all'epoca ben visibile da lontano e isolato nella campagna. Fu infatti usato spesso come rifugio da pastori e vagabondi e nel periodo romantico venne rappresentato in moltissimi disegni e pitture. Il richiamo alla figura del Diavolo pare derivi dall'aspetto dato al rudere dai bagliori rossastri dei fuochi notturni che venivano accesi all'interno di essa.
Nel 1882, all'altezza dell'odierna piazza Addis Abeba, grazie alle ricerche di Romolo Meli, venne rinvenuto un giacimento preistorico antico di oltre 200 000 anni[.
Nel 1958, su richiesta degli abitanti, la piazza intorno al monumento abbandonò il nome ufficiale di "piazza Sedia del Diavolo", che seguendo l'uso popolare aveva assunto anche formalmente dal 1950, assumendo quello attuale di Piazza Elio Callistio (in precedenza era stata denominata "piazza Adua", nome scartato nel 1958 per evitare confusione con la via omonima).
Il sepolcro è del tipo a tempio, come il Sepolcro di via Bisignano, su due piani, in laterizio, databile alla metà circa del II secolo d.C. (età Antonina). I lati presentano specchiature e piccole finestre inquadrate da paraste corinzie e sormontate da un originale fregio in cotto, dove mattoni di vario colore, disposti di piatto e per coltello, ottengono l'effetto di una struttura lapidea isodoma.
Una scala ricavata nel podio conduceva alla camera inferiore, semisotterranea, con due arcosoli in ognuna delle pareti. Gli arcosoli sono sormontati da cinque nicchie sopra le quali si aprono piccole finestre a strombo. Il pavimento è in mosaico bianco. Le pareti, in opus vittatum mixtum (testimonianza di un tardo restauro), sorreggono una volta a vela, un sistema architettonico usato raramente nell'architettura romana di questo periodo.
La camera superiore, utilizzata per i riti funerari, è coperta da una calotta su pennacchi sferici (in gran parte crollata); sulla parete di fondo ha una grande nicchia ad arco inquadrata da due colonnine laterizie e al centro un avancorpo con nicchia più piccola a calotta in forma di conchiglia, in stucco; sulle pareti laterali si aprono nicchie rettangolari, sormontate da un timpano e un davanzale su mensole.

Lazio - Roma, Musei / Sarcofago di Portonaccio, Palazzo Massimo

 

Il cosiddetto sarcofago di Portonaccio è un sarcofago romano rinvenuto nel 1931 in via delle Cave di Pietralata, nei pressi di Portonaccio, un quartiere di Roma, ed oggi conservato al Museo Nazionale Romano (palazzo Massimo alle Terme). È alto 1,53 metri ed è databile attorno al 180 circa.
Il sarcofago doveva essere la tomba di un generale romano impegnato nelle campagne germano-sarmatiche di Marco Aurelio degli anni 172-175 d.C. ed è forse il più bell'esempio di scultura privata del II secolo, con influenze legate alle tendenze della Colonna aureliana.
La cassa è molto alta, con tutta la parte frontale coperta da altorilievi di combattimento tra Romani e barbari. La complessa battaglia è articolata in quattro piani diversi: due superiori, con cavalieri romani alla carica, uno con fanti romani e un ultimo, più in basso, con i barbari che vengono travolti. Al centro, evidenziato da linee di forza che convergono sulla sua figura, si trova il generale a cavallo in posizione di assalto, che non ha le sembianze scolpite.
A destra e a sinistra la scena è delimitata da trofei di armi, con due coppie di capi barbari prigionieri (uomo e donna). Il barbaro di destra è certamente un suebo (marcomanno, quado o forse anche dei Buri), per la tipologia della pettinatura (nodo suebo); il barbaro sulla sinistra è un altro germano o un sarmato-iazigio.
Il coperchio, con due grandi acroteri raffiguranti mascheroni di barbari, è decorato da un fregio a rilievo più basso, con la Storia della vita di un personaggio (la presentazione alla madre ancora neonato; la sua educazione; il matrimonio e la clementia riservata ai barbari in un atto di deditio) la cui testa, come sulla cassa, non è lavorata (forse Aulus Iulius Pompilius Titus Vivius Laevillus Piso Berenicianus):
Il volto del defunto non è lavorato, forse perché le officine, dopo aver prodotto la scultura base, attendevano l'acquirente per poterlo ritrarre. Nel caso di Pompilio Bereniciano potrebbe essere mancato il tempo per ritrarlo oppure il suo volto non era noto allo scultore. Qualche studioso moderno ritiene che l'illustrazione delle vicende biografiche del protagonista fossero state riassunte in scene valide per chiunque.
Fin dell'epoca Flavia e poi per tutto il II secolo d.C. fino alla dinastia degli Antonini, uno dei temi principali dell'arte romana sono le vittorie ottenute dai suoi generali sulle genti barbare, lungo i confini imperiali (limes). Si sviluppano così in questo periodo una serie di rilievi storici che celebrano le campagne militari degli imperatori sia in ambito pubblico, dagli archi di trionfo, alle colonne (come la Colonna Traiana e quella di Marco Aurelio) e templi, a privato (come i rilievi funerari o i sarcofagi).
In questo sarcofago, rispetto a esempi analoghi del venticinquennio precedente (come il cosiddetto sarcofago Amendola) si nota il superamento dei modi ellenistici, con una composizione molto più frenetica e articolata, su vari registi, a differenza delle monomachie. Straordinario è il senso di movimento dell'insieme, accentuato dal chiaroscuro provocato dagli stacchi profondi, scavati dal trapano tipico anche della Colonna di Marco Aurelio. Molte parti di figure emergono a tutto tondo, mentre lo sfondo è ovunque occupato, mai neutro. I volti sono espressionistici, i corpi dei vinti drammaticamente aggrovigliati, le lance e le insegne fluttuano nello spazio realisticamente, mai appiattite su un unico piano.
Il coperchio ha caratteristiche analoghe ma una perizia tecnica e inventiva senz'altro inferiore, anche se vi si possono leggere alcune caratteristiche "plebee e provinciali" quali la narrazione ininterrotta e l'innaturale trama sinuosa dei panneggi, che aumentano l'espressività a danno del naturalismo.
Come nella Colonna di Marco Aurelio, forse dello stesso artista, non vi è pietà per i vinti e per il loro valore, anzi sono raffigurati come sguaiati, disprezzabili, schiacciati dall'inesorabile superiorità romana.
Con l'arrivo del III secolo la classe senatoria romana perse ogni potere militare, per cui scomparvero le scene di battaglia dai sarcofagi, sostituite da raffigurazioni di filosofi e muse o altri soggetti.

Lazio - Roma, Musei / Statua colossale di Costantino I, Musei Capitolini

 


La statua colossale di Costantino I, opera composita in marmo e bronzo dorato, fu una delle opere più importanti della scultura romana tardo-antica, alta ben 12 metri.
Databile tra il 313 (anno in cui la basilica venne dedicata a Costantino I) e il 324 (quando nei ritratti dell'imperatore romano comincia ad apparire il diadema), la statua era collocata nella basilica di Massenzio, ove nel 1486, sotto papa Innocenzo VIII, ne furono rinvenuti resti, oggi nel cortile di Palazzo dei Conservatori, ai Musei Capitolini.
La statua era collocata in origine nell'abside occidentale della basilica di Massenzio, dove furono poi trovati alcuni resti; la mancanza del corpo ha fatto supporre che fosse un acrolito, costruito parte in marmo e parte in bronzo dorato su una struttura portante in legno e mattoni, per un'altezza complessiva che doveva raggiungere i 12 m. La sola testa misura 2,60 m e il piede 2.
Una ricostruzione a grandezza naturale della statua è stata realizzata nel 2022 ed esposta a Milano in occasione della mostra Recycling Beauty curata da Salvatore Settis, Anna Anguissola e Denise La Monica alla Fondazione Prada.
A Palazzo dei Conservatori si trova anche una testa bronzea colossale (nella foto a sinistra) raffigurante sempre Costantino o un altro imperatore della sua casata (secondo alcuni il figlio Costanzo II).
Della statua restano: la testa, la mano destra, il gomito destro, entrambe le ginocchia, la caviglia sinistra ed entrambi i piedi. Si presume che Costantino fosse rappresentato seduto, avvolto nel paludamentum che lasciava scoperti il petto così come le parti sopravvissute; in mano, sollevata sul braccio destro, doveva tenere lo scettro, che terminava con una croce.
La testa, che originariamente era ornata da una corona metallica, è grandiosa e solenne. Presenta i caratteri dell'arte romana di quell'epoca, con le tendenze di stilizzazione e semplificazione delle linee: la plastica del volto è più squadrata, con capelli e sopracciglia resi con incisioni nel marmo molto raffinate e "calligrafiche", ma del tutto innaturali; gli occhi sono grandi, quasi smisurati, con la pupilla ben marcata mentre guarda verso l'alto, e sono il punto focale dell'intero ritratto; lo sguardo fisso dell'Imperatore sembra scrutare l'ambiente circostante e dà al ritratto un'apparenza di austerità ultraterrena. I capelli sono trattati come un'unica massa rigonfia solcata profondamente dalle striature che separano alcune ciocche. Il naso è aquilino, le labbra lunghe e sottili, il mento prominente.
A differenza del curato realismo della ritrattistica romana anteriore, la statua mostra un volto idealizzato, nonostante l'impostazione classica, che cerca di rendere un'aura di santità: vi si possono leggere le influenze delle antiche monarchie orientali (Egitto, Persia) per tramite dell'ellenismo nell'iconografia imperiale (l'imperatore - che conserva la carica repubblicana di pontefice massimo - visto come un'emanazione divina, ossia Figlio di Zeus/Osiride), ma anche le tendenze "provinciali" e "plebee" che dal IV secolo divennero molto forti nella cultura romana (funzionari, senatori, ma anche gli stessi imperatori provenivano ormai largamente dalle province).


ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...