domenica 6 luglio 2025

Sardegna - Cagliari, Anfiteatro romano

 


L'anfiteatro romano di Cagliari è un edificio di epoca romana, situato a Cagliari. L'anfiteatro è per metà scavato nella roccia mentre la parte restante era in calcare bianco, e la facciata sud, oggi scomparsa, doveva superare i 20 metri d'altezza. L'anfiteatro ospitava combattimenti tra animali, tra gladiatori e tra combattenti specializzati che venivano reclutati anche fuori dalla Sardegna. In egual misura venivano eseguite le pene capitali davanti alla folla esultante nonché spettacoli teatrali.
Poteva contenere 8 000 o 10 000 spettatori circa, quasi 1/3 degli abitanti della Carales romana. Sopra l'arena vi era il podium, riservato ai personaggi di spicco. I cittadini liberi prendevano posto, a seconda del rango, nell'ima, media, summa cavea. Alle donne e agli schiavi era invece destinata l'ultima gradinata coperta.Venne edificato tra il I e il II secolo d.C., quando la Sardegna, assieme alla Corsica, era sottoposta, ormai da secoli, alla dominazione romana (Sardinia et Corsica).
A seguito della diffusione del cristianesimo nei territori dell'Impero romano, le lotte gladiatorie divennero sempre più impopolari tant'è che nel 438 d.C. l'imperatore Valentiniano III le proibì per legge.
L'anfiteatro cadde così in disuso e a partire dal periodo altomedioevale fino al medioevo venne utilizzato come cava dai vari conquistatori (bizantini, pisani, aragonesi ecc.) che necessitavano di materiali a buon mercato per la costruzione di nuove fortificazioni.Nel XIX secolo l'area venne acquisita dal comune di Cagliari che affidò gli scavi archeologici al canonico Giovanni Spano.
Nei primi anni 2000 l'anfiteatro fu ricoperto da una struttura in ferro e legno che permetteva di ospitare spettacoli e concerti durante la stagione estiva. Queste strutture vennero poi rimosse dalle successive amministrazioni comunali per riportare l'anfiteatro alla sua originaria funzione di sito archeologico.

Sardegna - Cagliari, Grotta della Vipera

 

La grotta della Vipera è un ipogeo funerario romano che si trova nel viale Sant'Avendrace, nella necropoli di Tuvixeddu, a Cagliari.
Venne costruito dal romano Lucio Cassio Filippo in onore di sua moglie, la matrona Atilia Pomptilla, nel II secolo.
In base alle iscrizioni metriche latine e greche incise sulle pareti del pronao (CIL X 7563-7578, oggi scarsamente leggibili o distrutte), si può ricostruire la vicenda dei due coniugi, esiliati in Sardegna: Atilia sarebbe morta dopo aver offerto in voto agli dei la propria vita in cambio di quella dell'amato.
«Che le tue ceneri, o Pomptilla, fecondate dalla rugiada, si trasformino in gigli e in un verde fogliame dove risplenderanno la rosa, lo zafferano odoroso e l’imperituro amaranto. Possa tu diventare ai nostri occhi il fiore della bianca primavera, affinché, come per Narciso e Giacinto, quest’oggetto di lacrime eterne, un fiore, trasmetta il tuo nome alle generazioni a venire. Quando Filippo sentiva già la sua anima abbandonare il suo involucro mortale, e già le sue labbra avvicinarsi al Letè, tu ti sacrificasti, o Pomptilla, per lo sposo morente, e riscattasti la sua vita a prezzo della tua. Così un dio ha spezzato questa dolce unione; ma se Pomptilla si è sacrificata per salvare lo sposo amato, Filippo, vivendo nel rimpianto, chiede ardentemente di riunire presto la sua anima a quella della più tenera delle spose.»
(Traduzione dell'iscrizione in lingua greca dal sepolcro)
Questo monumento è stato salvato dal generale e studioso Alberto Della Marmora, che durante i lavori di costruzione della strada reale Cagliari-Porto Torres nel 1822 ne impedì la distruzione, come era avvenuto per una tomba li vicino (sono ancora visibili nella parete rocciosa i fori per le mine, poi rimasti inutilizzati).
La tomba, decorata all'esterno da una facciata con due colonne (ne è superstite un capitello) e frontone, è composta da un pronao e due camere funerarie.
Nella decorazione del frontone, accanto ai girali fioriti che simboleggiano la iuno di Atilia, si possono notare due serpenti, simbolo del genius di Cassio Filippo: da essi deriva il nome popolare di grotta della Vipera.
L'accesso alla grotta della Vipera è consentito al pubblico, che può osservare la tomba dal cortile esterno.


Sardegna - Cagliari, Villa di Tigellio

 


La cosiddetta Villa di Tigellio è un complesso di rovine di epoca romana situato nel quartiere di Stampace, a Cagliari, che prende erroneamente il nome da Tigellio, musicista e poeta originario di Caralis. Dopo alcuni studi archeologici è stato verificato che non si tratta di una sola abitazione ma di ben tre edifici, due dei quali hanno ancora le basi strutturali ben visibili. La prima è denominata Casa del Tablino dipinto, per i suoi numerosi affreschi che circondano la zona di ricevimento; la seconda, invece, è nota come Casa degli Stucchi, per i suoi notevoli abbellimenti di cui è rimasta traccia.
Queste costruzioni sono una delle presenze di edilizia privata romana a Cagliari.
Per questa zona archeologica di Cagliari le attività di scavo si possono suddividere nei tre più importanti interventi:
  • la prima campagna di scavo fu avviata dal presbitero ploaghese Giovanni Spano. L'archeologo decise di intraprendere i lavori sulla base di una pubblicazione di Pietro Martini risalente al 1865 dove veniva menzionata una "Villa di Tigellio", ritenuta ubicata ai piedi del colle di Buon Cammino, vicino all'anfiteatro romano della città. Questo il motivo dell'erronea attribuzione dell'area archeologica romana alla Villa di Tigellio.
  • la seconda importante campagna di scavo fu voluta e condotta da Gennaro Pesce a cavallo fra 1963 e 1964.
  • Terze indagini furono attivate nel 1982 e nel 1983 dalla collaborazione fra l'Istituto di Antichità, Archeologia e Arte dell'Università degli Studi di Cagliari e la Soprintendenza Archeologica per le Province di Cagliari e Oristano.

Sardegna - Cultura di Bonu Ighinu

 

La cultura di Bonu Ighinu è una cultura prenuragica sviluppatasi in Sardegna durante il IV millennio a.C. (4000-3400 a.C. o 4900-4400 a.C.). Prende il nome da una località situata nel territorio del comune di Mara, in provincia di Sassari, in cui si trova la grotta di Sa Ucca de su Tintirriolu (la bocca del pipistrello), nella quale furono osservate per la prima volta, da Renato Loria e David H. Trump, nel 1971 testimonianze archeologiche riconducibili a questa cultura.
È considerata la prima cultura in Sardegna ad aver utilizzato le cavità naturali come sepolcri, che costituirono poi piccole necropoli. I morti erano sepolti in tombe a fossa ed in piccole grotte artificiali, di forma ovale e con soffitto a volta.
Le popolazioni che svilupparono questa cultura praticavano l'agricoltura e preferivano abitare vicino alle coste. Sono stati fatti vari ritrovamenti, riconducibili a questa cultura, anche in zone dell'interno, quando queste popolazioni occuparono siti che furono abitati da culture precedenti. Si diffuse poi nella pianura di Oristano, non lontano dai giacimenti di ossidiana e dai porti di quelle coste. Le case erano prevalentemente interrate, con armatura di pali e coperture realizzate con erbe palustri.
Il versante occidentale della Sardegna è caratterizzato da un alto numero di testimonianze della cultura di Bonu Ighinu, in contrasto con quello orientale nel quale le uniche attestazioni relative a questo periodo ci giungono dalla "grotta rifugio" e dalla grotta Corbeddu, entrambe situate nel territorio del comune di Oliena, in provincia di Nuoro. La maggiore densità di insediamenti nella parte occidentale dell'isola potrebbe essere stata determinata anche dalle caratteristiche geografiche di questa zona, che presenta stagni, lagune e spazi pianeggianti di un certo rilievo che costituiscono una fonte di risorse naturali che favorivano gli insediamenti.
I siti di insediamento sono costituiti per la maggior parte da grotte naturali o da ripari posti sotto le rocce. I siti all'aperto sono invece meno numerosi ed hanno restituito solo reperti per lo più sporadici; probabilmente costituivano agglomerati di capanne di forma circolare o ellissoidale, dei quali però non è rimasta alcuna traccia. La ripartizione degli insediamenti della cultura di Bonu Ighinu sovente riproduce quella del Neolitico antico. Sono infatti occupate zone pianeggianti, colline, altipiani e la montagna. La maggior parte degli insediamenti sorge in prossimità di corsi d'acqua, di stagni o del mare.
L'analisi dei reperti archeologici della cultura materiale ha permesso di evidenziare i caratteri peculiari di questa cultura e di evidenziare le analogie con la successiva cultura di Ozieri.
Le testimonianze fittili relative alla cultura di Bonu Ighinu provengono in prevalenza dai siti in grotta o dai ripari sotto roccia. Una grande quantità di ceramiche attribuibili al neolitico medio è stata restituita dalla necropoli ipogeica di Cuccuru s'Arriu. In alcuni casi, invece, reperti fittili sono stati rinvenuti in modo casuale e non legati ad alcun tipo di contesto, ma per i caratteri generali della struttura, per il tipo di impasto e soprattutto per la decorazione possono essere riferiti all'orizzonte culturale di Bonu Ighinu.
Le varie classi di impasti
La produzione ceramica comprende tre classi di impasti: grossolano, semi-fine, fine.
I vasi ad impasto grossolano e semi-fine, di colore vivo e rosso, hanno le superfici poco lisciate, e non sono decorati.
Le forme vascolari che prevalgono sono molto semplici e consistono in scodelle emisferiche e vasi a collo. Sono assenti le grandi anse e la presa è assicurata da piccole anse con perforazione orizzontale.
La terza categoria è caratterizzata da un impasto duro, molto depurato, ben cotto, a superficie sempre molto lisciata, quando non levigata e brillante, generalmente di colore grigio, grigio-rosso o grigio bruno, a volte nero.
Le forme vascolari predominanti sono: scodelle emisferiche a calotta bassa o profonda, aperte o ad orlo rientrante; ciotole carenate, alte o basse, a spigolo angolare o arrotondato, con innesto anche a gradino di colli sia brevi che sviluppati, spesso estroversi; olle a collo fuso o distinto; vasi globulari biansati, con corte spalle rientranti e collo cilindrico. Sono inoltre presenti microvasetti, mestoli e cucchiai.
Tutte le fogge hanno generalmente la base convessa e recano anse modellate e decorate con piccole figure umane o con protomi zoomorfe.
La decorazione costituisce il carattere distintivo della cultura di Bonu Ighinu. Essa appare sulla superficie esterna delle ceramiche ad impasto depurato (su due esemplari provenienti da Sa Ucca de su Tintirriolu appare anche su quella interna), predilige i bordi, la carena e le prese. Si possono distinguere diversi tipi di tecniche decorative, che raramente sono tra loro associate:
  • l'impressione con bulino a punta fine che lascia dei piccoli punti circolari o triangolari, disposti in file orizzontali e parallele, sotto il bordo o alla base del collo, o organizzati in forme di triangolo, d'arco e di scacchiera;
  • l'incisione a crudo di tacche molto piccole e ravvicinate, poste sulla superficie esterna, sulla carena dei vasi e alla base del collo dei vasi a collo;
  • l'incisione a crudo di triangoli riempiti da un fitto reticolo di rombi, di linee o di zig-zag;
  • l'incisione a crudo di triangoli riempiti da trattini;
  • l'incisione sull'impasto cotto o graffito, solamente sui vasi carenati o sui vasi a collo, di motivi a stella (Sa Ucca de su Tintirriolu, grotta dell'Inferno);
  • l'impressione di file di grossi punti (monte Majore);
  • bande incise e punzonate (monte Majore);
  • bande tratteggiate (sono molto rare, si trovano a monte Majore ed a contatto di strati epicardiali);
  • piccoli bottoni a pastiglie, cordoni impressi, file di unghiate.
Le prime due tecniche di esecuzione sono quelle dominanti e caratteristiche della cultura.
Le notizie sull'industria litica sarda riferibili alla cultura di Bonu Ighinu non sono abbondanti. Infatti i ritrovamenti di oggetti in pietra scheggiata e levigata sono molto poveri e limitati. Anche in questo caso, come per la ceramica, la maggior parte delle informazioni in nostro possesso, giungono dagli insediamenti in grotta o dai ripari.
L'industria litica scheggiata continua la tradizione del Neolitico Antico. Essa presenta trapezi a ritocco erto e piatto, semilune a ritocco erto e dorsale, bulini, grattatoi, punte foliate. Un nucleo in selce ed uno in ossidiana provengono dalla grotta di Sa Ucca de su Tintirriolu ed altri piccoli nuclei in ossidiana sono stati rinvenuti a Cuccuru s'Arriu e nella grotta rifugio di Oliena.
La materia prima che prevale è l'ossidiana. In alcuni siti, come il riparo sotto roccia di Cala di Villamarina e Su Carroppu, l'industria litica è esclusivamente in ossidiana. Solo nella grotta di Filiestru la pietra di gran lunga più usata era la selce, perché era più abbondante sul posto.
In questo periodo si rivela una crescita del commercio dell'ossidiana con ben documentate esportazioni in Corsica, Italia centrale e settentrionale e Francia meridionale.
L'industria su pietra levigata annovera: asce e accette levigate, che hanno forma trapezoidale nella grotta di monte Majore, macine e macinelli ellissoidali, levigatoi, pestelli in porfido, quarzo e granito.
Una svolta rispetto al Neolitico Antico avviene nella produzione di oggetti ornamentali in pietra, che sembrerebbe essere la conseguenza dell'aumentata domanda rispetto al periodo precedente. Il rinvenimento nel livello 5 della trincea D nella grotta di Filiestru (uno strato sicuro di cultura di Bonu Ighinu) di un frammento di un anellone in pietra grigio scura di sezione ellittica ha permesso di riferire al Neolitico medio anche altri anelloni litici, ben levigati, rinvenuti casualmente, in altre zone della Sardegna: Monte d'Accoddi, Sa Binza Manna, monte Majore, grotta Bariles ed altri. Gli esemplari di grotta Bariles e di Sa Binza Manna erano in associazione con altri materiali ben inquadrabili nell'orizzonte culturale di Bonu Ighinu.
Interessante è la tecnica di esecuzione degli anelloni. Tutti i tipi presuppongono un disco cilindrico in pietra, di forma non necessariamente regolare, levigato in modo più o meno accurato. Su di esso veniva eseguito un foro in posizione centrica oppure eccentrica. Gli strumenti e le tecniche per eseguire il foro sono varie: si pensa che in alcuni casi si usasse un trapano cavo, con il quale si realizzava un unico foro, oppure diversi fori tangenti tra loro e disposti in forma circolare in modo da ottenere così un foro unico ed ampio. Un altro sistema usato era quello di incidere il disco cilindrico con bulino su una sagoma circolare approfondendone poi l'incisione fino ad ottenere il foro. Una volta ottenuto il foro in alcuni casi la superficie esterna veniva lasciata intatta, altre volte invece veniva modificata e tagliata in vari modi. Infine l'anellone veniva levigato in modo più o meno accurato. Le ipotesi sull'uso degli anelloni sono numerose. Gli studiosi che si sono occupati di questi particolari reperti hanno indicato queste funzioni:
  • arma da getto
  • oggetto ornamentale: bracciale, pendaglio, anello da naso
  • oggetto simbolico, segno di comando
  • oggetto che serviva per tagliare
Per i frammenti viene inoltre ipotizzata la possibilità di un riuso come spianatoio delle cuciture o lisciatoio delle superfici interne dei vasi. Tra queste ipotesi la 2 e la 3 sembrano le più accreditate; la 2 si riferirebbe all'uso degli anelloni più piccoli, mentre la 3 a quelli di maggiori dimensioni.
Oltre che in Sardegna, anelloni litici sono stati rinvenuti anche in zone dell'Italia, specialmente in Italia settentrionale. Gli anelloni litici, rinvenuti in queste zone, in tempi relativi al Neolitico antico, vengono attribuiti alle varie facies culturali proprie dell'area padana: ceramica impressa ligure, facies del Vhò, gruppi friulani, cultura di Fiorano. Anelloni litici sono presenti in alcune culture del neolitico medio della penisola, per esempio nella cultura di Ripoli. Sempre nel livello 5 della trincea D della grotta di Filiestru sono stati rinvenuti anche vasi in pietra di varia forma, decorati e lisci. Un esemplare di vaso in pietra proviene anche da Sa Ucca de Su Tintirriolu ed è stato rinvenuto in uno strato puro di cultura di Bonu Ighinu; questo vaso è completamente decorato da file graffitte di nastri a zig-zag. Vasi in pietra che trovano confronti con questi sono stati rinvenuti anche in altre zone della Sardegna. Si pensa che questi oggetti fossero di uso domestico riservati alla mensa in particolari occasioni e per ceti distinti, oppure che servissero per atti di culto. La materia prima di cui sono fatti (marna, calcare e trachite) proviene dalle zone in cui sono stati ritrovati.
Sono state inoltre trovate numerose statuette di figura femminile adiposa, sicuramente raffiguranti la Dea Madre ed il cui culto era diffuso in gran parte dell'Europa neolitica.
Le ricerche archeologiche hanno evidenziato la presenza di un originale culto dei defunti, con un corredo funerario costituito da materiale litico, ceramico od osseo.

(nelle foto, dall'alto in basso:
- Neolitico, cultura di Bonu Ighinu, statuetta della Dea Madre, 4000-3500 a.C., da Santa Mariedda, Olbia;
- elementi di collana in Dentalium, Tomba 385, Cuccuri is Artius
- tazza carenata i cultura Bonu Igninu, dal sito di Bau Angius-Terralba.
- betilo con tratti antropomorfi proveniente da Sa Mandara Samassi, Medio Campidano)




Il betilo proveniente da Sa Mandara Samassi nel Medio Campitano (foto Graziano Tavan)

Sardegna - Cultura di Monte Claro

 

La cultura Monte Claro è una cultura prenuragica diffusasi in tutta la Sardegna intorno alla seconda metà del III millennio a.C.. Prende il nome dall'omonimo colle di Cagliari dove sono stati fatti importanti ritrovamenti, chiamato appunto di Monte Claro. Sul finire del millennio venne succeduta dalla cultura del vaso campaniforme.
Non vi sono analogie con le precedenti culture isolane né con quelle parzialmente contemporanee come la cultura di Abealzu-Filigosa e pertanto viene considerata, da alcuni studiosi, come una cultura importata dall'esterno da genti immigrate. La sua diffusione, che nella prima fase fu forse segnata da scontri con le popolazioni locali, sembra essere avvenuta attraverso una lenta espansione, partita dal sud verso il nord dell'isola.
Viene suddivisa in quattro facies: Sassarese, Nuorese, Campidano, Oristanese. All'interno di ciascuna facies sono riconoscibili delle peculiarità che riguardano non solo la cultura materiale (ceramica, metallurgia ecc.) ma anche l'ambito religioso ed insediativo.
Caratteristiche della Sardegna meridionale sono una certa varietà di tipologie tombali, tra cui le tombe a forno, mentre nella Sardegna settentrionale vengono innalzate per la prima volta sull'Isola grandi muraglie megalitiche, una delle quali si trova nel complesso prenuragico di Monte Baranta ad Olmedo.
Sulla base di quanto ritrovato, gli archeologi sostengono che le popolazioni che svilupparono questa cultura si concentrarono in quei territori a chiara vocazione agricola, pastorale e mineraria in particolare nelle vicinanze dei fiumi e nelle pianure dove si stabilirono in villaggi di capanne rettangolari all'aperto, come dimostrano i ritrovamenti effettuati nella Marmilla, e dove a Corti Beccia (Sanluri), si contano 40 capanne, alcuni silos ed una stalla.
Colpisce la difesa con muri e fortificazioni che anticipano quelle dell'età del bronzo. I ritrovamenti di questo tipo, concentrati nella parte centro-settentrionale dell'isola, evidenziano la costruzione di villaggi fortificati con mura megalitiche: questa necessità era sicuramente dovuta alla difesa in eventuali conflitti tribali con altre popolazioni. Analoghi insediamenti fortificati si trovano nello stesso periodo anche nel Midi francese.
Le tombe sono di vario tipo. Spesso si ricorre ad un ingresso costituito da un pozzo profondo all'incirca tre metri dove all'estremità, ai lati disposta a trifoglio venivano scavati nella roccia tre loculi individuali a forma di forno chiuso con muri a secco spessi all'incirca 0,50 m (il morto veniva appoggiato sul lato sinistro in posizione fetale, accanto ad esso venivano lasciate dei vasi o scodelle, forse con del cibo e delle bevande, usanza connessa ad una credenza di un risveglio del morto all'aldilà). Questa tipo di tomba è stata rinvenuta a Cagliari in seguito a scavi per fognature in via Basilicata.
Altre tombe sotterranee venivano delimitate e coperte con lastroni. Quest'ultimo è il metodo seguito nella tomba di Su Quaddu de Nixias (Lunamatrona), ottenendo una costruzione che si chiama olla o cista. Gli oggetti di materiale deperibile non ci sono pervenuti. Dall'esame degli scheletri, gli uomini che vissero in questo periodo avevano un'altezza media di 1,60 m circa e le donne di 1,50 m circa.
La metallurgia ci ha lasciato reperti notevoli: un crogiolo manicato, pugnali con lama a foglia e punteruoli di rame, grappette di piombo per aggiustare i vasi di terracotta. Le ceramiche permettono di riconoscere lo status sociale dei proprietari.
Le decorazioni sono ottenute per impressione, incisione, ritaglio e brunitura. Resti databili al 2500 a.C. indicano una notevole produzione di otri e grandi vasi di forma cilindrica, decorati in modo semplice, a testimonianza di un'importante attività agricola che necessitava sicuramente la conservazione dei prodotti. In generale il repertorio vascolare Monte Claro mostra somiglianze con quello della cultura di Fontbouisse della Francia meridionale e con quello della cultura siciliana di Piano Conte.
La religione è basata su concezioni astratte, mancano le rappresentazioni antropomorfe. Fra i luoghi di culto conosciuti vi è il sito di Biriai di Oliena, composto da un circolo megalitico segnato da 12 menhir.

Nelle foto, dall'alto in basso:
Ceramica tipica della cultura di Monte Claro, Museo archeologico nazionale di Cagliari
Situla della Cultura di Monteclaro, dalla domu de janas di Scab’e Arriu – Siddi
Monte Baranta, Olmedo
Statuetta della Dea Madre risalente alla Cultura di Monteclaro

Sardegna - Cultura del vaso campaniforme in Sardegna

 

La cultura del vaso campaniforme in Sardegna apparve nel 2100 a.C. circa (o nel 2300 a.C. o prima), durante l'ultima fase del calcolitico, sostituendosi o amalgamandosi alla precedente cultura di Monte Claro, e si sviluppò fino all'antica età del bronzo nel 1900-1800 a.C. circa, fino a sfociare nella cultura di Bonnanaro, considerata il primo stadio della civiltà nuragica.
Il vaso campaniforme, che dà il nome alla cultura, comparve per la prima volta nei contesti calcolitici del Portogallo centrale presso i siti di Zambujal e di Vila Nova de São Pedro, agli inizi del III millennio a.C. (2900 a.C. circa). I dati in possesso degli archeologi sembrerebbero indicare che una prima espansione del vaso campaniforme partì dalla costa atlantica portoghese (estuario del Tago) verso il nord raggiungendo il delta del Reno e l'Europa centrale, da qui successivamente il campaniforme si fuse con la cultura della ceramica cordata (che si estendeva a gran parte della Scandinavia e dell'Europa centrale e orientale fino alla Russia) e ripartì in un movimento migratorio detto di "riflusso" (Ruckstorm in tedesco) verso il nord-ovest (Isole britanniche) e verso il sud-ovest raggiungendo nuovamente la penisola iberica dalla quale, in questa seconda ondata, si diffuse anche in Sardegna.
Tramite la Sardegna il bicchiere campaniforme fece poi la sua comparsa nella Sicilia occidentale dove si registra inoltre l'introduzione di forme architettoniche megalitiche.
«Tra la fine del III e l'inizio del II millennio a.C. la Sicilia fu invasa da un gruppo di genti forse provenienti dalla Sardegna. Queste furono le persone che introdussero nell'isola la cultura del vaso campaniforme» (Sebastiano Tusa, Sicilia terra di frontiera tra la fine del III e gli inizi del II millennio a.C., 2020)

La cultura del vaso campaniforme in Sardegna è caratterizzata dal classico bicchiere a forma di campana. Lo stile e la decorazione delle ceramiche (inizialmente a decorazione impressa a pettine, successivamente ad incisione ed infine inornate) consentono di suddividere il campaniforme sardo in tre fasi cronologiche principali:
A1 o Facies del campaniforme marittimo-internazionale (2100-2000 a.C.)
A2 o Facies italiana-sulcitana (2000-1900 a.C.)
B o Facies del campaniforme inornato / Padre Jossu (1900-1800 a.C.)
Le varie fasi del campaniforme sardo mostrano l'avvicendarsi di due componenti: la prima "franco-iberica" e la seconda "centro-europea":
«I primi bicchieri del Campaniforme sardo, come quelli di Marinaru presso Sassari, mostrano decorazioni di tipo internazionale e sono accompagnati da forme ceramiche mediate dall’area iberica e francese quali basse ciotole, motivi decorativi ad incisione semplice, triangoli campiti da trattini ottenuti con un pettine, motivi a denti di lupo, zig-zag,rombi lisci ottenuti da bande contrapposte di triangoli campiti a pettine. Compaiono, inoltre, forse successivamente, anse su bicchieri, ciotole e vasi tripodi o tetrapodi su vasca emisferica e con piedi cilindrici, di derivazione centroeuropea. Nella fase più tarda domina la componente dell’Europa centrale: si intensificano i contatti lungo le direttrici che dal centro Europa arrivano in Sardegna passando dall’Italia settentrionale, tramite le coste della Toscana»
(Ceramiche. Storia, linguaggio e prospettive in Sardegna, Maria Rosaria Manunza, p.26)

Quasi tutti i reperti campaniformi provengono da sepolture (generalmente domus de janas esistenti dal neolitico e riutilizzate, ma è documentata anche l'inumazione individuale entro cista litica a Santa Vittoria-Nuraxinieddu) che hanno restituito corredi funerari tra i quali figurano i caratteristici brassard (generalmente in pietra) per la protezione degli avambracci degli arcieri e vari oggetti ornamentali tra cui le collane di conchiglie o zanne di animali e i bottoni con perforazione a V.
Fra gli oggetti in metallo si segnalano i pugnali a lama triangolare e gli spilloni ma compaiono anche per la prima volta sull'isola manufatti in oro (collier dalla tomba di Bingia 'e Monti di Gonnostramatza). In selce venivano realizzate invece le punte delle frecce.
In totale sono circa settanta i siti interessati dal campaniforme in Sardegna, concentrati perlopiù lungo tutta la costa occidentale, dalla Nurra al Sulcis-Iglesiente, e nel Campidano, con qualche stanziamento ad est, nel Dorgalese e nel Sarrabus.
Spariscono quasi del tutto gli antichi villaggi all'aperto delle genti Monte Claro che vengono abbandonati dopo secoli di occupazione (forse a causa di cambiamenti climatici o scontri tribali con i nuovi arrivati) mentre sono noti solo tre insediamenti attribuibili specificatamente a questa cultura (Monte Ossoni di Castelsardo, Monte Ollàdiri di Monastir e Palaggiu di Samassi), ciò ha fatto pensare che i suoi portatori fossero genti nomadi probabilmente dimoranti in tende o grotte.
«...È evidente che in Sardegna c’è una vistosissima riduzione delle aree abitative rispetto a quelle note nella facies di Monte Claro e il mutamento del quadro culturale appare repentino [...] Ci si trova di fronte non a invasioni di massa ma all’immigrazione di gruppi minoritari che impongono la loro cultura (campaniforme), almeno in apparenza inferiore, attraverso la loro superiore forza militare e aggressività, come si evince dal complesso delle armi che accompagnano con frequenza le inumazioni: il pugnale, le cuspidi di freccia e il brassard per l’arco» (Giovanni Ugas in La Sardegna preistorica. Storia, materiali, monumenti. Carlo Delfino editore p.229)

Secondo Gary e Maud Webster a seguito di incursioni dei campaniformi furono abbandonati anche l'altare di Monte d'Accoddi e la fortificazione di Monte Baranta, nel nord-ovest. Entità portatrici del bicchiere campaniforme potrebbero aver indotto la migrazione forzata della cultura Monte Claro in insediamenti di rifugio come Sa Sedda de Biriai (Oliena).
Un unicum in Sardegna è rappresentato dal sito di Guardiole, nell'isola di Caprera. Il complesso, costituito da un grande recinto megalitico rettangolare e da altre costruzioni, mostra evidenti similitudini con l'insediamento campaniforme di Ferrandell Olleza, nell'isola di Maiorca.
Sconosciuti i luoghi di culto in cui le popolazioni del vaso campaniforme esplicavano le loro funzioni religiose; i resti di animali dell'ipogeo di Padru Jossu fanno pensare a sacrifici in onore di una divinità.
«...si deve pensare che l'introduzione della Cultura del vaso campaniforme sia dovuta all'arrivo di un nuovo gruppo etnico che, sia pure numericamente minoritario, determinò profondi mutamenti nella realtà politica, economica e religiosa dell'isola. I nuovi uomini venuti dal mare sono legati ad esperienze pastorali, si trascinano appresso un culto lunare e cercano di imporre, in parte riuscendovi, la loro concezione patriarcale e ad un tempo gerarchica della società» (Giovanni Ugas, Facies campaniformi dell'ipogeo di Padru Jossu (1998))

Le genti campaniformi per il loro sostentamento dipendevano principalmente dalla cerealicoltura (grano) e dell'allevamento di ovini e caprini.
Le genti del vaso campaniforme, a differenza di quelle indigene caratterizzate dalla dolicomorfia (cranio allungato), erano perlopiù brachimorfe (cranio corto), forma cranica quasi inesistente in Sardegna nelle epoche precedenti che aumenta numericamente nel periodo campaniforme (15% circa) ed in particolar modo durante l'epicampaniforme (cultura di Bonnanaro), rimanendo tuttavia in minoranza e venendo rapidamente riassorbita geneticamente.
La lingua parlata da queste popolazioni è sconosciuta, tuttavia alcuni studiosi hanno teorizzato che si trattasse di un qualche dialetto indoeuropeo di tipo centum possibilmente protoceltico.
È stato ipotizzato che queste genti, migrate dall'area franco-iberica in Sardegna tra III e II millennio a.C., fossero in qualche modo antenate, almeno in parte, dei Balari, antica etnia che occupava in epoca nuragica gran parte della Sardegna settentrionale per poi ritirarsi all'interno durante l'occupazione punica-romana.
Gli individui protosardi di cultura campaniforme finora analizzati si differenziano da quelli dell'Europa continentale per la quasi totale assenza di geni legati ai pastori delle steppe occidentali dalle steppe pontico-caspiche, mentre non si escludono apporti dai primi campaniformi della penisola iberica (pre-2000 a.C.), anch'essi privi della componente steppica.
«Sebbene non possiamo escludere influssi da parte di popolazioni geneticamente simili (es. i primi campaniformi iberici), l'assenza della componente steppica suggerisce un isolamento genetico da molte popolazioni continentali dell'età del bronzo - inclusi i tardi campaniformi iberici.»
(Marcus, Joseph H.; et al. (Febbraio 24, 2020). "Genetic history from the Middle Neolithic to present on the Mediterranean island of Sardinia")
Secondo uno studio del 2022 di Rémi Tournebize et al., l'apparizione del campaniforme coincide con un effetto del fondatore sull'isola (4114 ± 366 anni fa).
Un altro studio del 2022 di Manjusha Chintalapati et al., ha rilevato in alcuni individui protosardi una moderata ascendenza steppica che sarebbe giunta sull'isola nel 2600 a.C. circa.

(le foto, dall'alto:
- vaso tetrapode dalla Necropoli di Santu Pedru di Alghero;
- vaso della prima facies Padre Jossu
- vasi della facies Marinarus
- collier in oro dalla tomba di Bingia 'e Monti
- brassard di Is Loccis Santus, Museo Archeologico di Cagliari
- collana dal Museo di Villa Abbas, Sardara)


Sardegna - Cultura di Abealzu-Filigosa

 

La cultura di Abealzu-Filigosa è una cultura prenuragica sviluppatasi in Sardegna nell'età del rame, tra il 2700 e il 2400 a.C. Prende il nome dalle località in cui sono stati fatti i più importanti ritrovamenti: Abealzu presso Sassari e Filigosa presso Macomer.
Le popolazioni vivevano nell'area sassarese ed in altre zone del centro sud della Sardegna. Costruirono villaggi di capanne con muri rettilinei, organizzati per il controllo del territorio.
Le tombe vennero ricavate in caverne, ripari sotto roccia, tombe a corridoio, ciste, domus de janas. Gli scheletri trovati a Filigosa presentano scalfiture profonde dovute a scarnificazione prima della sepoltura definitiva
Erano dediti principalmente alla pastorizia e all'agricoltura. Usavano l'ossidiana, ma iniziarono ad apparire durante questo periodo i primi oggetti di fusione del rame e del piombo galena, soprattutto pugnali come quelli rappresentati nelle statue menhir di Laconi e Nurallao.
Le ceramiche di questa cultura (in particolare della fase di Abealzu) e le asce di pietra a martello, presentano similitudini con quelle della cultura del Rinaldone e del Gaudo dell'Italia peninsulare.
Sono divinizzati gli antenati guerrieri e innalzarono i primi monumenti megalitici, come l'altare di Monte d'Accoddi, nei pressi di Sassari, su un rilievo a base quadrangolare alto dieci metri, ma che in origine superava i 36 metri, molto probabilmente consacrato al dio Sole e che richiama per la sua disposizione su una terrazza sopraelevata i templi ziqqurat della Mesopotamia. Alla religione materna subentra il culto del padre eroe.

Sardegna - Cultura di Arzachena

 

La cultura di Arzachena (conosciuta anche come cultura dei circoli megalitici o facies gallurese o corso gallurese) è stata una cultura megalitica sviluppatasi nel V millennio a.C. nella regione storica della Gallura, nella Sardegna settentrionale.
Questo aspetto culturale è noto soprattutto per aver edificato importanti strutture megalitiche come quelle di Li Muri ad Arzachena.
Nel passato le diverse interpretazioni degli studiosi sui ritrovamenti archeologici galluresi hanno sostenuto che i circoli megalitici e i menhir furono eretti da genti della cultura di Ozieri, confermando la disparità culturale esistente al suo interno.
Recenti studi hanno però dimostrato che le tipiche produzioni ceramiche come la coppa in steatite verde a Li Muri, sarebbero da attribuire alla facies San Ciriaco inserita in un periodo di transizione tra la Cultura di Bonu Ighinu e la Cultura di Ozieri.
La caratteristica struttura morfologica della Sardegna - in particolare la parte nord-est - costituita dalla catena montuosa del monte Limbara, forma una barriera fisica non indifferente, separando questa parte settentrionale dal resto dell'isola, mentre le ampie vallate del massiccio granitico, scendenti a nord, si aprono verso il mare in direzione della vicina Corsica, formando con questa quasi un unicum, separato soltanto da un esile braccio di mare.
Questa vasta area, conosciuta come Gallura, insieme alla Corsica ha costituito - per la sua particolarità geografica - il punto di transizione e di incontro per i popoli che risalivano dal Mediterraneo orientale e quelli che si affacciavano sul continente tosco-ligure-provenzale (le isole dell'Arcipelago Toscano distano 30 kilometri circa).
Tutta la zona era abitata sin dai tempi più remoti da popolazioni di pastori-guerrieri di etnia corsa, il cui nucleo principale si suppone stanziasse prevalentemente nelle Gallure.
Tale particolarità geografica ha avuto una sua importanza nel determinare la singolarità di questo aspetto culturale all'interno della cultura di Ozieri, e - secondo l'archeologo Giovanni Lilliu - testimonia la diversa origine delle varie popolazioni preistoriche sarde.
Sempre secondo lo studioso, queste differiscono tra loro sia nella costituzione sociale ma anche nella componente etnica: più antiche e forse discendenti dalle popolazioni neolitiche sarde quelle appartenenti all'aspetto culturale dei circoli megalitici, più moderne e di forte caratterizzazione cicladico-minoica quelle appartenenti al ramo principale - ossia a Cultura Ozieri.
Le genti di appartenenti alla facies Arzachena, principalmente di origine guerriera e pastorale, erano organizzate in gruppi chiusi e di élite, costituiti in una società a sfondo aristocratico ed individualistico, con una netta distinzione dei clan nel contesto tribale.
Questa differenziazione si esplicita non tanto nelle abitazioni, quanto nella forma dei sepolcri e nei riti funebri. I gruppi aristocratici seppellirono i loro morti in monumenti megalitici a forma di circolo, con una camera centrale contenente un solo individuo, e questa singolare usanza fa ben comprendere come sia stato molto importante per queste genti definire chiaramente la superiorità del capo rispetto agli altri individui.
I corredi funebri comprendevano oggetti finemente lavorati come coppette in steatite, lame in selce, piccole accette triangolari in pietra dura levigata e grani di collana di steatite verde a forma di piccole olive.


Sia l'architettura sepolcrale sia la cultura materiale delle genti di questo aspetto culturale trovano puntuali riscontri nell'area pirenaica (Catalogna, Linguadoca, Provenza) oltre che nella stessa Corsica.
Se le popolazioni della facies gallurese erano guidate da una forte aristocrazia pastorale e guerriera seguendo un rigido schema gerarchico, quelle appartenenti alla cultura principale di Ozieri si riunivano in villaggi organizzati in un ampio contesto tribale e sviluppati secondo un assetto urbanistico di tipo collettivo, facendo intuire agli studiosi una cultura tendenzialmente democratica. Tale tendenza appare nella disposizione dei sepolcri e nei riti funebri: così come le capanne sono raggruppate in villaggi, così le tombe sono concentrate in piccole necropoli. I defunti venivano sepolti con il rito della deposizione collettiva in domus de janas, cioè tutti insieme i membri della stessa famiglia e forse anche del clan, in netto contrasto con quanto avveniva invece tra le genti della facies gallurese.
Secondo lo studioso Giovanni Lilliu, anche in epoca preistorica in Sardegna si delineavano già abbastanza chiaramente le due anime complementari della società isolana: i pastori guerrieri degli altopiani centrali e i guerrieri raccoglitori delle pianure. Anche se i dati antropologici sinora conosciuti non ne forniscono chiaramente la prova non sembrano prive di valore e di significato alcune differenziazioni comportamentali proprie dei galluresi e dei corsi moderni, rispetto alle altre popolazioni sarde.
Per tutto il tempo della sua durata, la caratterizzazione culturale gallurese non si è omologata alle più ricche espressioni della cultura di Ozieri, ma ha opposto una certa resistenza. Si suppone che questo sia avvenuto principalmente perché conteneva al suo interno una forte componente aristocratica che si oppose con tenacia alle novità proposte dalle altre correnti culturali, respingendole e riproponendo in continuazione sempre lo stesso modello culturale primordiale.
In pratica - secondo lo studioso Giovanni Lilliu - il modello gallurese si è riprodotto in maniera sempre uguale dal III millennio a.C., attraverso il II millennio a.C. con la nascita della civiltà nuragica (diffusasi anche in Corsica dove è stata chiamata torreana), sino alla conquista romana (sopravvivendo ad essa) e fornendo agli archeologi un incredibile esempio di struttura culturale e sociologica congelata.
I monumenti più significativi di quel periodo sono le cosiddette tombe a circoli, ossia quelle particolari strutture nelle quali i defunti erano sistemati all'interno di circoli litici concentrici.
Questo tipo di costruzione - molto particolare - è costituita da pietre infisse verticalmente nel terreno seguendo la circonferenza di un cerchio e con al centro una cassetta in pietra di forma quadrangolare. Nel territorio di Arzachena, in una località chiamata Li Muri, si trova il complesso megalitico meglio conservato.
Secondo lo studioso Giovanni Lilliu questo circolo funerario-rituale serviva per la scarnificazione dei cadaveri i quali venivano deposti nelle pietre scanalate che costituivano la circonferenza e lasciati al sole per un lungo periodo. Successivamente le ossa venivano raccolte e riposte nella cassetta al centro del circolo.
Esempi di simili sepolture sono presenti anche all'isola d'Elba, nelle necropoli delle Piane alla Sughera (nella foto qui sopra) e della Forca.

Sardegna - Cultura di San Ciriaco

 
La cultura di San Ciriaco fu una cultura del tardo neolitico apparsa in Sardegna attorno al 4400 a.C. e protrattasi fino al 4000 a.C. Prende il nome da una località in territorio di Terralba, nella provincia di Oristano.
L'economia delle genti di San Ciriaco era prevalentemente agricola; producevano ceramiche di buona qualità, inornate e di colore rosso-bruno o grigio e giallo. Adoravano la Dea Madre, il cui culto è testimoniato dalla presenza nelle sepolture di statuette in "stile volumetrico", e appare per la prima volta la simbologia del Toro (corna taurine).
In questo periodo vengono introdotte sull'isola le tipiche tombe scavate nella roccia note in sardo come domus de janas che saranno utilizzate fino alla prima età del bronzo.



(la statuetta femminile nell'immagine proviene da Santadì ed è esposta al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari)

Sardegna - Bronzetti nuragici


bronzetti sardi o nuragici (brunzitu sardu nuragicu o nuraghesu / nuraxesu in lingua sarda) sono statue miniaturistiche in bronzo tipiche della civiltà nuragica (Sardegna)
Furono realizzate tra la fase finale dell'età del bronzo e l'età del ferro e la loro funzione era quella di ex voto.
Durante gli scavi archeologici sono stati ritrovati più di cinquecento bronzetti, soprattutto presso i luoghi di sepoltura e di culto come tombe dei giganti, pozzi sacri e templi (megara) nonché nei villaggi e nei nuraghi.
Numerosi bronzetti sardi sono state scoperti anche in scavi effettuati nell'Italia centrale (Lazio settentrionale e Toscana), nelle tombe villanoviane del IX secolo a.C.
Si è pensato per lungo tempo che fossero state realizzate tra il IX secolo a.C. e il VI secolo a.C., ma alcuni ritrovamenti di frammenti risalenti al XIII secolo a.C., a Orroli e Ballao, hanno permesso di datare ad un'epoca anteriore la loro realizzazione.
L'archeologo Ralph A. Gonzalez data le statuette più antiche, come quelle in stile Uta, al periodo tra il XII e il VI secolo a.C.
Misuranti fino a 35-40 cm e ottenuti con la tecnica della cera persa, ritraggono persone di varie classi sociali, guerrieri, capi tribù, divinità, animali ma anche oggetti della vita quotidiana delle popolazioni protosarde come vasi, armi in miniatura e carri o modelli di nuraghe. I soggetti rappresentati sono altresì importanti anche per le implicazioni culturali che ne scaturiscono. Per esempio le rappresentazioni di cane col collare, carro a due ruote, vagonetto a quattro ruote con coperchio o l'arciere che cavalca in piedi.
Tra le statuette spiccano per quantità e per raffinatezza le navi (cosiddette navicelle nuragiche), che formano il più grande numero di copie in scala di vere e proprie barche antiche, sia in confronto alle popolazioni della stessa epoca che degli altri periodi, a dimostrazione della grande familiarità delle popolazioni nuragiche con il mare e la navigazione.
Nelle varie sculture, secondo alcuni studiosi, si possono distinguere tre diversi stili:
  • stile mediterraneo,
  • stile Uta,
  • stile Abini-Teti.
Non è ancora stato verificato se questi stili siano contemporanei fra loro o se si siano succeduti uno dopo l'altro nel tempo.
Le più belle collezioni si possono ammirare nel Museo archeologico nazionale di Cagliari, nel museo nazionale archeologico ed etnografico G. A. Sanna di Sassari, e nei musei di Nuoro e Oristano oltre che nei musei locali dove si trovano i principali siti archeologici dell'Isola.
Numerosi esemplari sono stati ceduti al tempo degli scavi a collezioni private e a musei italiani ed esteri e si trovano in città quali Torino, Roma (museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini, museo nazionale etrusco di Villa Giulia), Firenze, Crotone (museo archeologico nazionale di Crotone), Londra (British Museum), New York e Los Angeles (Getty Museum). Al momento non è stato ancora effettuato un censimento delle opere degli antichi sardi presenti nei musei esteri.
Diversi sono anche i casi di bronzi sardi messi all'asta da famose case come Sotheby's o Christie's.

Nelle foto, bronzetti della Prima età del ferro:
Navicella con protome di cervo e cani (da Is Argiolas o Bonotta, Bultei)
Arciere dal Santuario di Albini, Teti (MNA Cagliari)
Grande capotribù con mantello e bastone (MNA Cagliari)

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...