domenica 13 aprile 2025

Lazio - Roma, Musei / Sarcofago "Piccolo Ludovisi", Palazzo Altemps

 

Il sarcofago "Piccolo Ludovisi" è un sarcofago romano della fine del II secolo conservato a palazzo Altemps a Roma, proveniente dalla collezione del cardinale Ludovico Ludovisi degli inizi del XVII secolo. Si tratta di un'opera famosa della scultura romana. Prima del suo restauro, il sarcofago era divenuto la base di una fontana, come è possibile notare da un foro praticato nella parte sinistra dello stesso.
La cassa, tratta ad altorilievo, è decorata da una grandiosa scena di battaglia tra Romani e barbari (forse i Sarmati Iazigi o i Quadi ed i Marcomanni, a giudicare dall'abbigliamento). La convulsa scena è organizzata su due piani: quello inferiore è occupato dai barbari a cavallo o a piedi, feriti, morenti o morti; quello superiore da soldati o cavalieri romani impegnati a finire gli avversari o a combattere i nemici residui, sul loro stesso piano.
La superficie è animata da un groviglio di figure, tra le quali vi è un vero e proprio duello (una "monomachia", come nel sarcofago Amendola), al centro del sarcofago, dove la figura dal condottiero romano a cavallo, con corazza, elmo e paludamentum, si scontra con un presunto capo dei barbari sulla destra, alle cui spalle vi è un altro soldato romano pronto a colpirlo. Il personaggio è ritratto in maniera precisa, in uniforme militare con elmo, la testa barbuta è però rovinata. Potrebbe trattarsi di uno dei tanti comes, legati imperiali, che accompagnarono l'Augusto Marco Aurelio durante le guerre contro i barbari del Nord, lungo le frontiere danubiane, in modo assai simile al sarcofago di Portonaccio.
L'opera è caratterizzata da una sapiente composizione che si avvale di linee orizzontali e verticali, che si intersecano su tutto il campo, con poche zone vuote. Inoltre il rilievo delle figure crea un effetto di chiaroscuro, con variazioni di effetti a seconda dei materiali scolpiti (panneggi, capigliature, criniere, corazze e cotta di maglia del soldato all'estrema destra), con un frequente uso del trapano.
Confronti si possono fare con opere attiche coeve, come il sarcofago Amendola, anche se il soggetto e la composizione può definirsi peculiarmente romana, propria dell'età antonina, in linea con quanto rappresentato sulla Colonna di Marco Aurelio.

Lazio - Roma, Musei / Acrolito Ludovisi, Palazzo Altemps



L'Acrolito Ludovisi (o Afrodite Ludovisi) è una testa femminile colossale in marmo insulare, con l'altezza della testa di 83 cm, del IV secolo a.C., esposta a palazzo Altemps (una delle sedi del Museo Nazionale Romano) a Roma. La testa apparteneva a un acrolito ed è interpretata come una raffigurazione della dea Afrodite, o, più recentemente, in particolare di Venere Ericina.
Fu rinvenuta nei pressi del Tempio di Venere Ericina al Quirinale. La grande testa femminile potrebbe rappresentare quello che rimane della grande statua di culto, alta circa tre metri. Si ritiene fosse opera originale della Magna Grecia (databile forse attorno al 480 a.C.) prelevata, insieme al Trono Ludovisi, dal Tempio ionico di Afrodite di Locri Epizefiri, in Calabria e collocata nel santuario appositamente costruito a Roma come nuova casa per la divinità. Alcuni studiosi, tra cui l'archeologa Margherita Guarducci, hanno messo in rilievo le notevoli analogie e somiglianze tra l'Acrolito e alcune teste di Afrodite effigiate sui famosi pìnakes locresi.
Secondo un'altra ipotesi la provenienza sarebbe il santuario della dea di Erice.
Ritrovato nel 1733 negli Horti romani, dal 1773 fece parte della collezione Ludovisi, fino al 1901 quando fu ceduta allo Stato, ed esposta al Museo Nazionale Romano.

Lazio - Roma, Musei / Apollo del Tevere, Palazzo Massimo


L'Apollo del Tevere è una statua in marmo, più grande della grandezza naturale, raffigurante Apollo. Si tratta di una copia romana di epoca adrianea o antonina di un originale greco del 450 a.C., ripescata a Roma dal Tevere durante i lavori di costruzione del Ponte Garibaldi (avvenuti tra il 1885 e il 1888). Attualmente è conservata al Museo Nazionale Romano presso il Palazzo Massimo alle Terme di Roma. Dallo stile dell'opera traspare l'influenza della scuola di Fidia, forse si tratta di un'elaborazione dello stesso Fidia, nei suoi anni giovanili, così come suggerisce Jiří Frel; Kenneth Clark afferma che "se questa rappresentazione, al posto dell'Apollo del Belvedere, fosse stata nota al Winckelmann, la sua intuizione e il suo bellissimo dono di ri-creazione letteraria sarebbero stati sostenuti meglio dalle qualità scultoree del soggetto."Di quest'ultimo, inoltre, Brian A. Sparkes ricorda che "l'effetto generale delle copie tende sempre alla dolcezza, ed è così anche qui."
La figura, con i suoi ricci femminili, potrebbe aver avuto un ramo di alloro e l'arco, considerando che non si tratta di un citarista. La pensierosa, malinconica riservatezza di questo Apollo servì da ispirazione per il modello iconografico delle teste raffiguranti Antinoo, soggetto simbolo dell'arte adrianea del secolo successivo.

Un'altra versione della stessa tipologia è stata scoperta nelle rovine di Cherchell, in Algeria, nella provincia romana di Mauretania.
Una copia era presente in passato nei giardini di Villa Borghese.

Lazio - Roma, Musei / Principe ellenistico, Palazzo Massimo

 
Il cosiddetto principe ellenistico è una statua in bronzo conservata presso il Palazzo Massimo alle Terme (una delle sedi del Museo nazionale romano). Fu ritrovata, insieme al Pugilatore in riposo, su un versante del Quirinale, probabilmente nei resti delle Terme di Costantino nel 1885, durante i lavori di costruzione del Teatro Drammatico Nazionale; le due sculture, che a quanto pare furono seppellite in antichità con cura, non sono comunque correlate tra loro, appartenendo a due periodi differenti di esecuzione.
La scultura fu realizzata in bronzo con la tecnica detta "a cera persa". Gli occhi, ora perduti, erano inseriti separatamente. Probabilmente recava sul capo una corona o un diadema che si è perduto.
Rappresenta un giovane nudo, con un lieve velo di barba, in posa eroica; è appoggiato enfaticamente con la mano sinistra su una lunga asta, sul modello dell'Eracle del greco Lisippo. Il soggetto è di difficile attribuzione. Taluni studiosi hanno ritenuto che sia il ritratto di un principe ellenistico (Attalo II), altri di un generale romano (Tito Quinzio Flaminino, Quinto Cecilio Metello Macedonico, Publio Cornelio Scipione Emiliano).
Sulla base di nuove ricerche scientifiche e archeologiche, il Liebieghaus Polychromy Research Project ha creato una ricostruzione sperimentale che riproduce il cosiddetto “Principe ellenistico” e il cosiddetto “Pugile in riposo“ come elementi di un gruppo statuario. Questo gruppo mostra presumibilmente il Dioscuro Polluce e il re Amico, figlio di Poseidone, dopo il loro sanguinoso incontro di combattimento. Questa proposta di ricostruzione era già stata sviluppata nel 1945 da Phyllis Lehman Williams e Rhys Carpenter .

Lazio - Roma, Musei / Ritratto di Adriano, Palazzo Massimo

 
Il ritratto di Adriano del Museo Nazionale Romano di Roma è, secondo lo storico dell'arte Ranuccio Bianchi Bandinelli, una delle più belle e fresche repliche del ritratto ufficiale dell'imperatore, eseguito dopo la sua presa di potere del 117 d.C.
L'effigie, della quale si conoscono numerose copie e riadattamenti anche postumi, faceva parte di un busto ufficiale. L'esempio del Museo Nazionale romano ha perduto le spalle, tranne una parte di quella destra dove si vede il paludamentum, mentre il volto presenta una scheggiatura sul naso, ma per il resto è quasi intatto.
Adriano fu il primo imperatore romano a portare la barba, alla maniera dei filosofi greci, e in quest'opera ha il capo leggermente reclinato a sinistra, con una lieve torsione verso l'alto, che conferisce un tono di decisione e fermezza.
Le superfici sono trattate con grande cura, levigate e uniformi per le guance e la fronte, con passaggi senza rottore alle delicate infossature degli occhi. Anche la barba e i capelli sono trattati con ciocche mosse e striate con finezza, mentre le sopracciglia sono accennate con piccoli tratti.
Vi si possono rintracciare due influenze:
- una dall'arte traianea, riguardo all'essenzialità dei tratti che superano il mero verismo e danno un tono fermo e pacato, indice di dignità e autorevolezza del leader; inoltre il ritratto è privo del pathos teatrale tipicamente ellenistico, in favore di un aspetto umano e reale.
- una dal classicismo, secondo le inclinazioni filoellene del nuovo imperatore, nella levigatezza delle superfici e nell'assenza di profondi passaggi di luce nel volto.

Lazio - Roma, Musei / Ares Ludovisi, Palazzo Altemps

 

L'Ares Ludovisi è una scultura romana di epoca antonina, raffigurante Marte. La statua è una copia marmorea del II secolo d.C., di un originale greco del IV secolo a.C. attribuibile a Skopas o Lisippo. Per tale motivo, il dio romano è stato rinominato con il suo corrispondente greco, Ares.
Ares/Marte è ritratto giovane, senza barba e seduto sulle armi deposte, mentre Eros gioca ai suoi piedi, focalizzando l'attenzione sul fatto che, in un momento di riposo, il dio della guerra è presentato come oggetto di amore. Nel XVIII secolo l'archeologo e storico dell'arte Johann Joachim Winckelmann, teorico della nobile semplicità e quieta grandezza, quando si stava occupando della collezione Ludovisi ritenne che l'Ares Ludovisi fosse la miglior rappresentazione di Marte dell'antichità.
Riscoperta nel 1622, la scultura era, con molta probabilità, originariamente parte del tempio di Marte (eretto nel 132 a.C. nella parte meridionale del Campo Marzio), del quale non restano che poche tracce; a tal proposito, la statua fu riscoperta nei pressi della chiesa di San Salvatore in Campo. Pietro Santi Bartoli scrisse che l'opera fu trovata nei pressi del Palazzo Santacroce mentre si stava scavando uno scarico. L'Ares Ludovisi entrò a far parte della collezione del cardinale Ludovico Ludovisi (1595-1632), nipote di Papa Gregorio XV; la collezione era conservata nella magnifica villa Ludovisi che il cardinale fece costruire nei pressi di Porta Pinciana, nello stesso luogo dove Giulio Cesare e il suo successore Ottaviano Augusto, avevano la loro villa. La scultura fu restaurata da un giovane Gian Lorenzo Bernini, che ne rifinì la superficie e realizzò con discrezione il piede destro; Bernini fu, con grande probabilità, responsabile del cupido ai piedi dell'Ares, che gli storici dell'arte Francis Haskell e Nicholas Penny notarono omesso dalla copia della statua in bronzo, realizzata da Giovanni Francesco Susini, così come dalle stampe di Scipione Maffei.
Il ritrovamento della statua fu una scoperta eccezionale. Una copia bronzea in scala ridotta fu realizzata da Giovanni Francesco Susini, successore e assistente dello zio Antonio Susini, quando visitò Roma negli anni trenta del XVII secolo, copiando diversi marmi dalla collezione Ludovisi; una replica in bronzo è conservata all'Ashmolean Museum di Oxford. In seguito, l'Ares Ludovisi fu considerata una delle opere di punta, da ammirare necessariamente nel percorso del Grand Tour. Ad esempio, Pompeo Batoni, nel suo ritratto di John Talbot, raffigura quest'ultimo accanto alla statua, con l'intento di esaltarne la cultura e la familiarità con tali opere d'arte. Un'ulteriore rappresentazione può riscontrarsi nell'incisione del 1783 di Villa Ludovisi ad opera di Francesco Piranesi, figlio del noto Giovanni Battista Piranesi. Calchi dell'Ares Ludovisi si diffusero nelle prime collezioni museali, come la Gliptoteca di Copenaghen e la statua è stata in grado di influenzare intere generazioni di studenti e di artisti neoclassici.
Nel 1901, il principe Boncompagni-Ludovisi decise di mettere all'asta le antichità della collezione Ludovisi. Lo Stato italiano acquistò 96 pezzi d'arte, mentre gli altri si dispersero nei musei in Europa e negli Stati Uniti. L'Ares è conservato presso il Palazzo Altemps, sede del Museo nazionale romano.
Una rappresentazione della statua è utilizzata come emblema del club sportivo greco Aris Thessaloniki.

Lazio - Roma, Musei / Fanciulla di Anzio, Palazzo Massimo

 
La fanciulla di Anzio è una scultura in marmo (h. 170 cm) proveniente dalla villa di Nerone ad Anzio, oggi conservata al Museo nazionale romano di palazzo Massimo a Roma. Era di creazione ellenistica, probabilmente del III secolo a.C., accomunata forse a qualche opera di Doidalsa. Le vesti, particolarmente increspate, lasciano supporre che la statua possa essere un'opera originale ellenistica e non una copia. La statua fu rinvenuta nel 1878 in una nicchia del doppio porticato che dava sul mare della villa di Nerone ad Anzio.
La statua è stata fatta con due differenti marmi: pario per la spalla nuda e pentelico per i vestiti. La statua si appoggia sulla gamba sinistra e sostiene un vassoio, che la fanciulla osserva. Il movimento della giovane ha scoperto la parte superiore del seno. La giovane ha inoltre arrotolato un pesante mantello per non inciampare. Al centro della composizione troviamo il vassoio, dove troviamo un rotolo (volumen) semiaperto, un ramo d'alloro e un oggetto del quale rimangono solo due piedi a forma di zampa felina.
Il ramo d'alloro ha probabilmente il significato, in quanto questa pianta era sacra ad Apollo, di essere stata utilizzata per un rito dionisiaco. Alcuni studiosi l'hanno pertanto identificato con la Pizia, vale a dire la sacerdotessa delfica di Apollo, oppure con una giovane fanciulla preposta a portare gli oggetti rituali del culto dionisiaco. L'opera, dopo un'accesa campagna pubblica sostenuta in particolare dallo scultore Leonardo Bistolfi, fu acquistata dallo Stato nel 1908 grazie ad un apposito voto del Parlamento, salvandola così da una sicura esportazione all'estero, non essendovi ancora efficaci leggi di tutela del Patrimonio artistico (prima della legge Rava del 1909).

Lazio - Roma, Musei / Niobide degli Horti Sallustiani, Palazzo Massimo

 

La Niobide degli Horti Sallustiani, è una scultura romana in marmo (h. 149 cm) datata al V secolo a.C., oggi conservata al Museo nazionale romano di palazzo Massimo di Roma.
La statua fu rinvenuta negli Horti Sallustiani durante gli scavi del 1906, in un cubicolo a ben 11 metri sotto il livello del suolo, forse nascosta per proteggerla dalla furia distruttrice dei barbari durante le invasioni del V secolo d.C..
Raffigura una delle figlie di Niobe nell'atto di cadere a terra, dopo essere stata ferita da una freccia conficcata tra le scapole, e che la stessa cerca invano di estrarre. Il mito racconta che Apollo o Artemide avevano scoccato la freccia per vendicare la propria madre, Leto. Costei era irata per l'offesa ricevuta da Niobe che, superba, l'aveva derisa perché aveva soltanto due figli, vantandosi della propria prolificità. Per ordine di Leto tutti i Niobidi vennero uccisi da Apollo e Artemide.
L'opera è originale e ascrivibile al V secolo a.C., in quanto è ritenuta appartenente o comunque analoga alle figure del frontone del tempio di Apollo a Eretria, trasferite a Roma per volere di Augusto da cui, quasi sicuramente, provengono anche il Niobide morente e la Niobide che corre della Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen.
Non è invece assimilabile alla Niobe degli Uffizi, copia di originale ellenistico ritrovata a Roma nel 1582 nel giardino di Villa Medici e da lì portata agli Uffizi.
La Niobide degli Horti Sallustiani sarebbe dunque una delle numerosissime opere portate a Roma dalla Grecia come bottino di guerra, che tanta parte ebbero nell'evoluzione del gusto e dello stile della produzione artistica romana.

Lazio - Roma, Musei / Pothos, Centrale Montemartini

 

Il Pothos è una scultura di Skopas, databile al 330 a.C. circa, conosciuta da una serie di repliche marmoree dell'epoca romana; la migliore (altezza 180 cm) è considerata quella di via Cavour nella Centrale Montemartini dei Musei Capitolini a Roma.
Alla Centrale Montemartini se ne conservano due copie: oltre a quella principale, è esposta anche una versione acefala. Altre copie sono quella frammentaria del Louvre (senza le gambe), le due degli Uffizi, e quella dei Musei Capitolini, restaurata con altri frammenti a formare un "Apollo con cetra".
La statua rappresenta Pothos, una divinità minore del corteo di Venere che rappresentava il desiderio amoroso.
L'opera è datata in via ipotetica all'ultima fase produttiva dell'artista. Fra le poche opere certe attribuite al celebre maestro e di cui ci raccontano Pausania e Plinio, faceva parte sia di un gruppo con Eros e Imero dedicato a Megara, sia di un altro complesso statuario, con Afrodite e Fetonte, a Samotracia.
In questo complesso statuario si possono notare i caratteri espressivi di una nuova corrente, tipici del IV secolo a.C., ovvero il ripiegamento intimista, che si traduce nel raffigurare le divinità olimpiche in momenti intimi e carichi di pathos.
Oggi è possibile risalire all'originale grazie ad una quarantina di repliche di epoca romana ed ellenistica, alcune delle quali per la prima volta definitivamente individuate da Adolf Furtwängler, nella seconda metà dell'Ottocento, quali copie del Pothos di Skopas.
Su una base si trova il ragazzo nudo dalle forme sinuose e delicate, appoggiato a qualcosa alla sua sinistra: l'anca sinistra è prominente a quella destra e forma una linea curva con la coscia; il braccio sinistro (perduto) è disteso lateralmente, con l'avambraccio, in alto; invece il destro un tempo stringeva un tirso dionisiaco ossia un bastone cinto di edera e pampini.
La testa, piccola e coi capelli ben segnati, ha un'espressione trasognata e guarda verso l'alto, a simboleggiare il desiderio per un amore lontano. Gli occhi infossati e profondi sono tipici dello stile del maestro. La figura è inclinata verso sinistra e sorretta dall'appoggio della veste che cade dalla spalla sinistra; punti di appoggio che sono una caratteristica sempre presente nelle sculture di Skopas e Prassitele spesso rappresentati da una pianta o un sostegno artificiale; altra caratteristica di entrambi gli scultori è la particolare levigazione della superficie marmorea restituendole un completo realismo umano.


Lazio - Roma, Musei / Satiro in riposo - Musei Capitolini

 
Copia romana di epoca imperiale, tratta da un originale greco del tardo classicismo. Risalente ca. 130 d.C. (la copia), al IV secolo a.C. (l'originale di Prassitele). Il Satiro in riposo, noto anche come Satiro anapauomenos (dalla lingua greca ἀναπαυόμενος, ἀναπαύω-a riposo) è una tipologia di statua generalmente attribuita originariamente all'antico scultore greco classico Prassitele. A tutt'oggi ne sono noti 115 esempi, di cui la copia più famosa è quella conservata ai musei capitolini a Roma.
Viene rappresentato un giovane sileno, identificabile chiaramente dalle orecchie equine a punta (presenta anche una posa a chiasmo talmente accentuata che ha bisogno di un appoggio per risultare armonico) e dalla pardalide o "pelle di pantera" indossata: drappeggiata casualmente sulla spalla destra, attorno alla vita sinistra e dietro la schiena, di modo che la testa dell'animale selvaggio ricada sulla spalla destra e finisca col coprire parte del petto. L'espressione della testa animale è calma, come se dormisse.
Il corpo dell'adolescente è leggermente paffuto, emanante un senso d'inesperienza ma estremamente affascinante. La testa è leggermente inclinata verso sinistra rivolgendo verso lo spettatore un'espressione dolce, seria ed introversa ma con, al contempo, un accenno di sorriso.
Appoggia in atto di riposo il gomito destro su un tronco d'albero ed in una posizione alquanto instabile, mantenendo come supporto solamente la gamba sinistra. La sua gamba destra rimane piegata, col piede incuneato all'indietro fino a sfiorare il tallone sinistro.
In una serie di copie successive gli autori hanno aggiunto un oggetto che viene tenuto nella mano destra, solitamente un flauto di Pan, mentre quella sinistra si trova appoggiata al fianco tenendo così premuta la pelle di pantera.
I tratti del viso sono ben definiti ed il naso è leggermente arricciato e appiattito; i capelli sono folti, ricciuti e molto curati (ricordando in questo l'iconografia inerente alle divinità fluviali (di Fauno e Silvano), trattenuti sulla fronte da un cordoncino o da una corona, le orecchie ed il collo.
Il "Satiro in riposo" (riposo del satiro) è tradizionalmente identificato con il satiro periboêtos di cui parla Plinio il Vecchio nella sua Historia naturalis XXXIV, 69: Prassitele ha prodotto una scultura in bronzo di Liber, famosa divinità ebbra che i greci denominano satiro periboetos.
Lo studioso tedesco del XVIII secolo Johann Joachim Winckelmann l'ha intesa come celebre e famosa e ciò difatti spiegherebbe il gran numero di esempi esistenti di essa, che ne hanno fatto uno dei tipi più popolari nell'intera area del Mediterraneo, più di un centinaio di cui quindici presenti solamente a Roma ed otto in Grecia.

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...