lunedì 7 luglio 2025

Marche - Museo Civico Archeologico Monte Rinaldo

 

Il Museo Civico Archeologico Monte Rinaldo ha sede nella ex chiesa del SS. Crocefisso di Monte Rinaldo dal 2008 ed è parte della Rete Museale dei Sibillini.
Raccoglie alcuni dei reperti provenienti dal santuario ellenistico-romano situato in località La Cuma, portati alla luce nelle campagne di scavo effettuate tra gli anni '50 e '60 del 1900. Altri reperti sono esposti al Museo archeologico nazionale delle Marche ad Ancona.
Il piccolo percorso espositivo è stato organizzato sulla base di una sequenza tipologica e cronologica, per proporre il legame dei pezzi conservati con il luogo di rinvenimento.
I reperti sono testimonianza dell'importanza che il santuario di Monte Rinaldo svolge in un periodo di alleanza tra Roma e le popolazioni dell'area adriatica, i Piceni, e della vita in un luogo di culto extraurbano dell'Italia centrale.
Fanno parte delle collezioni i rivestimenti in terracotta del santuario, pezzi che svolgevano un fondamentale ruolo estetico e decorativo degli edifici, testimoniato dalle tracce di colori vivaci ancora presenti sui reperti che li denotano come documentazioni di fondamentale importanza.
Le lastre, destinate a proteggere gli architravi, gli spioventi e le testate delle travi, indicano il susseguirsi di differenti fasi di vita della struttura. Le lastre decorate con motivi vegetali a bassorilievo sono datate al II secolo a. C. e sono confrontabili con esemplari diffusi nei santuari di area adriatica, quelle invece decorate ad altorilievo o bassorilievo con decorazioni floreali sono paragonabili a quelle provenienti dall'area centro-italica e sono datate al I secolo a. C. Tra queste ultime spicca la lastra decorata con fiori a campana su cui si posa una colomba, evidente esempio di esecuzione a mano rispetto alle altre, realizzate con uno stampo.
Le antefisse (elementi architettonici della copertura dei tetti) rappresentano figure di Ercole e Potnia Theròn.
Ercole è riconoscibile dalla leontè che gli copre il capo e le spalle, attributo tipico dell'eroe che rappresenta la sua forza.
Potnia Theròn è chiamata anche Signora degli animali, è una divinità femminile ritratta con grandi ali e una lunga veste mentre tiene le
zampe di due pantere: iconografia diffusa nel Lazio e in Abruzzo dal III al II secolo a. C.
Un ruolo centrale hanno anche i reperti relativi alle sculture a tutto tondo che decoravano il frontone del tempio. Tra queste sono presenti diverse teste sia maschili che femminili, frammenti di panneggi e di membra di notevole qualità artistica, datati al II secolo a. C. e confrontate con i rilievi dell'altare di Pergamo, uno delle massime espressioni dell'arte ellenistica ora conservati al Pergamonmuseum di Berlino. I modelli sono stati introdotti in Italia centrale tramite la scuola etrusca che li ha adeguati al gusto della popolazione locale.
Molte sono le testimonianze relative al luogo di culto espresse nelle offerte dedicate agli dei per richiedere una guarigione o una protezione per la propria salute. Degne di nota sono alcune ceramiche di differenti epoche come piatti, contenitori e coppe, tra cui una recante un'iscrizione dedicata a Giove che alcuni studiosi pensano sia in connessione con la divinità a cui era dedicato il tempio.
Il culto praticato all'interno del santuario non è ancora noto, anche se i ritrovamenti sarebbero riconducibili ad un culto salutistico.
Nell'ultima parte del percorso museale sono presenti: monete romane di cui una di Cornelius Scipio Asiagenus, una lucerna definita di tipo Esquilino per l'assenza della vernice e la forma cilindrica, fibule in bronzo, tegole con lo stampo di fabbrica sul retro e statuette femminili tipo tanagrina, chiamate così perché riconducibili a modelli prodotti a Tanagra, in Beozia, e caratterizzate dalle piccole dimensioni e numerosi dettagli.


Marche - Museo archeologico nazionale delle Marche


Il Museo archeologico nazionale delle Marche si trova ad Ancona, all'interno del cinquecentesco palazzo Ferretti. Documenta in modo pressoché completo la preistoria e la protostoria del territorio marchigiano; comprende ricche collezioni relative alla civiltà greca, romana e a quella dei Galli Senoni. I reperti relativi alla civiltà picena formano la più completa raccolta esistente; per la ricchezza delle sue collezioni il museo è uno dei più importanti musei archeologici d'Italia. Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite la Direzione regionale Musei.
Il museo, con il nome di "Gabinetto paleoetnografico ed archeologico delle Marche", fu istituito nel 1863 dalla Regia Commissione Conservatrice delle Marche.
Successivamente le collezioni archeologiche furono ampliate da Carisio Ciavarini, dal maggio 1876 Ispettore degli scavi e dei monumenti del Regio Commissariato per i Musei e Scavi di Antichità per l'Emilia e le Marche, e sistemate nel fabbricato delle Regie Scuole Tecniche in via San Martino, dove Ciavarini insegnava e dove il museo fu ospitato dal 1868 al 1877. Fu quindi trasferito nella sede del Palazzo degli Anziani e da qui, nel 1884, passò nell'ex Convento di San Domenico. Fu di nuovo trasferito nel 1898 nelle più ampie sale dell'ex convento degli Scalzi, in via Duomo n.12, dove rimase fino al 1923.
Nel 1906, grazie alla ricchezza e alla rappresentatività delle sue collezioni, l'istituzione ottenne il riconoscimento statale e assunse la denominazione di Museo Archeologico Nazionale delle Marche. Il riconoscimento dell'interesse nazionale non va sottovalutato poiché all'epoca i musei archeologici nazionali italiani erano pochi, tra cui i tre di Roma (Museo nazionale romano, Museo nazionale preistorico, Museo nazionale etrusco) e quelli di Napoli, Firenze, Cagliari, Taranto, Parma e di Portogruaro. Dopo l'apertura del museo di Ancona e di quello di Matera (1911), il numero dei musei archeologici rimase stabile sino agli anni settanta del Novecento.
Il museo rimase al convento degli Scalzi fino al 1923, quando fu trasferito negli spaziosi locali del convento di San Francesco alle Scale ed inaugurato il 9 ottobre 1927 alla presenza del re Vittorio Emanuele III di Savoia. Secondo i criteri dell'epoca, i chiostri furono trasformati in fiorenti giardini, gli arredi vennero realizzati da esperti ebanisti, i sostegni delle vetrine furono ispirati ai trapezofori pompeiani; tutto ciò rendeva l'ambiente del museo all'altezza delle collezioni ospitate. Le sezioni erano tre: preistorica, picena e gallica, mentre specifici settori erano dedicati alla collezione numismatica e alle ricche raccolte provenienti dalla necropoli picena di Numana e da quella greco-romana di Ancona.
Durante la Seconda Guerra Mondiale l'edificio fu pesantemente danneggiato dai bombardamenti, con conseguenti danni alle collezioni che improvvidamente non erano state inviate nei depositi allestiti dal soprintendente Pasquale Rotondi a Sassocorvaro; nel dopoguerra non fu dunque possibile riaprire subito al pubblico le raccolte.
Per la riapertura del Museo Archeologico Nazionale delle Marche si dovette attendere il 1958, quando fu allestito nell'attuale prestigiosa sede di Palazzo Ferretti. Il forte terremoto che colpì Ancona nel 1972 costrinse ad una nuova chiusura, protrattasi fino al 1988. A partire da quella data il museo ha gradualmente riaperto le sue sezioni, iniziando da quelle protostorica e preistorica, per proseguire con quelle dell'Età del Rame e del Bronzo, a quella ellenistica e infine (parzialmente) quella romana. Nel 2022 devono ancora essere riaperte la sezione altomedievale e la ricchissima collezione numismatica; deve inoltre essere completata la riapertura della sezione romana. Il Museo Nazionale ha sempre svolto un attivo ruolo nel contrastare il fenomeno della vendita illegale all'estero di reperti che, come in tutta Italia, è presente anche nelle Marche. Esemplare in questo senso fu il recupero dei Bronzi dorati da Cartoceto di Pergola: nel 1946, nonostante i disagi derivati dai bombardamenti che avevano semidistrutto la sede del Museo, l'unico dipendente ancora in servizio si recò sul luogo del ritrovamento e prese possesso dei frammenti di bronzo dorato che erano appena stati scavati, mentre il proprietario del terreno si era recato urgentemente a Roma; sospettando che il viaggio improvviso fosse dovuto all'intenzione di contattare il mercato antiquario clandestino, il dipendente sequestrò i reperti nel nome dello Stato e fece in modo di farsi consegnare altri frammenti precedentemente occultati. Fu così che fu possibile, dal 1959, esporre al pubblico il celebre gruppo statuario.
In negativo, il ruolo del Museo è deducibile dal fatto che, prima della sua istituzione, preziosi reperti trovati nelle Marche finirono all'estero; valgano i seguenti esempi.
alcuni crateri monumentali da Numana, capolavori della ceramica greca, che finirono al Metropolitan Museum di New York:
- il cratere a calice con Amazzonomachia attribuito al pittore dell'hydria di Berlino;
- il cratere a campana con satiri e menadi, attribuito al pittore di Methyse;
- il cratere a volute con centauri e lapiti, attribuito al pittore dei satiri villosi;
- la statuetta di bronzo del IV secolo a.C. raffigurante Poseidon, proveniente da Ancona ed ora conservata al Museum of Fine Arts di Boston
- la statuetta in ambra intagliata con Afrodite ed Adone, proveniente da Falconara ed ora al Metropolitan Museum of Art di New York, di arte etrusca, risalente al 500 a.C. circa. In tale scultura Afrodite fa innamorare Adone facendogli odorare un profumo contenuto in un alabastron, come narra il mito (foto qui in alto a destra).
- la lekythos con Amimone insidiata da Poseidon, del pittore della phiale, datata al 430 a.C. circa, reperto testimoniante la fase più antica di Ancona greca; proveniente da Ancona, anch'essa è conservata al Metropolitan Museum of Art di New York.

Sezione preistorica
La sezione preistorica comprende quattro settori, dedicati al Paleolitico, al Neolitico, all'Età del Rame e all'Età del Bronzo.
Paleolitico

- Sala 1 - Prima dell'inizio del percorso cronologico, si trova la sala della Venere di Frasassi (foto in apertura, in alto); venne ritrovata nel 2007 all'interno della Grotta della Beata Vergine di Frasassi, poco distante dalla Grotta Grande del Vento; è stata realizzata utilizzando una stalattite. Si tratta di una figura femminile dalle forme generose, con gli avambracci piegati in avanti e con le mani congiunte, in un gesto di preghiera e di offerta; il ventre mostra che la donna è incinta. Il reperto è una venere paleolitica; in Italia esistono solo altri dieci esemplari simili. Risale a circa 20.000 anni fa (Paleolitico superiore, periodo Gravettiano o Epigravettiano antico).
- Sala 2 - Sono qui esposti i reperti più antichi mai rinvenuti nelle Marche: quelli della zona sommitale di Monte Conero, risalenti a circa 300.000 anni fa (Paleolitico inferiore). Si tratta di bifacciali e di manufatti su scheggia di cultura acheuleana. Più recenti sono i reperti realizzati con la tecnica Levallois.
- Sala 3 - Sono esposti oggetti realizzati con tecnica microlitica. Reperto specificatamente artistico è il ciottolo graffito con la figura femminile avente testa di lupo (foto a sinistra).
Neolitico (sale 4, 5 e 6). La sezione illustra esaurientemente la Rivoluzione neolitica, verificatasi nelle Marche nel VI millennio a.C. Espone infatti le prime testimonianze dell'agricoltura (macine e macinelli), dell'addomesticazione e dell'allevamento (ossa di animali domestici), del commercio (oggetti realizzati con ossidiana e steatite), della divisione del lavoro (vasi fittili), della costruzione di villaggi (resti di intonaco e di focolari domestici). Presenti anche i primi manufatti in pietra levigata.
Età del Rame (sala 7). La sezione presenta i primi, rari esempi di uso e di manipolazione dei metalli, oltre a splendide asce-martello in pietra levigata. I reperti testimoniano come le comunità diventino sempre più dipendenti dall'approvvigionamento dei metalli, disponibili solo in alcune zone geografiche. Questa sezione al Museo è indicata con il nome di "Prima Età dei Metalli", in quanto il rame usato in questo periodo era sempre impuro e in lega con altri elementi.
Età del Bronzo (sale 8 e 9). Sono esposti in questa sezione reperti provenienti dal più antico villaggio sorto nella zona di Ancona, al Campo della Mostra. Interessanti sono gli insiemi di pugnali di bronzo ritrovati in nascondigli (produzione locale dell'inizio del II millennio a.C.) e i frammenti di ceramica micenea (della fase neo-palaziale) provenienti da Ancona, che testimoniano i primi contatti tra la zona in cui sorge la città e la Grecia.
Sezione protostorica
La sezione protostorica illustra le civiltà che interessarono le Marche nell'Età del ferro: quella picena, diffusa su tutto il territorio regionale dal IX al III secolo a.C. e quella dei Galli Senoni, che invasero il territorio piceno settentrionale nel corso del IV secolo a.C.
Civiltà picena

Le testimonianze della Civiltà picena sono esposte nelle sale dalla 10 alla 27 e nella sala 32. La collezione di reperti piceni del Museo costituisce la più completa testimonianza della vita e dell'arte del popolo che diede unità etnica alle Marche nell'Età del ferro e il cui totem (il picchio verde) è raffigurato nello stemma della regione. La collezione picena comprende anche una ricca raccolta di ceramica greca e alcuni pregevoli oggetti etruschi, frutto del commercio che i Piceni avevano con i Greci e gli Etruschi.
Oggetti piceni del percorso cronologico. Tra i reperti più interessanti si segnalano: i corredi di armi, per le quali i Piceni sono famosi, i pettorali bronzei e i dischi-corazza, oggetti figurati nel tipico stile sintetico piceno, un coperchio bronzeo con statuine di opliti e arcieri danzanti attorno ad un totem, le ceramiche picene, di originalissima foggia, una brocca realizzata con un uovo di struzzo graffito di fattura orientale (foto a sinistra), gli avori scolpiti orientalizzanti, gli anelloni a nodi oggetti di incerto uso presi a simbolo della civiltà picena, due appliques con il Signore degli animali, alcune ambre scolpite. A proposito di questi ultimi oggetti, si ricorda che il popolo piceno era stato soprannominato "popolo dell'ambra" per l'amore che mostrava nei confronti di questo materiale dal colore e dalla luminosità solare e che il Piceno era un terminale della "via dell'ambra" che partiva dal Mar Baltico ed arrivava al Mediterraneo.
Un raro esempio di scultura italica preromana è la testa di guerriero in calcare (foto a sinistra). Nella sala 32 si possono ammirare i vasi dello stile detto "alto-adriatico", prodotto dell'estremo periodo piceno, ispirato alla ceramica greca, ma in cui le figure, con la stilizzazione spinta dei profili e delle acconciature, tendono quasi all'arte astratta.
Sale tematiche. Lungo il percorso di visita, strettamente cronologico, sono presenti quattro sale tematiche. Le sale tematiche 11 e 12 sono allestite all'interno della suggestiva torre medievale del palazzo.
Nella sala 1 sono esposti i reperti del villaggio protovillanoviano e poi piceno di Ancona, legato alle attività della pesca, della caccia, dell'allevamento e dell'agricoltura.
Nella sala 4 sono visibili i reperti dell'isola culturale villanoviana di Fermo.
La sala 11 presenta la collezione delle epigrafi picene scritte nei due caratteristici alfabeti usati nella regione durante l'Età del Ferro, testimonianze fondamentali della lingua picena meridionale e di quella settentrionale.
La sala 12 espone testimonianze dei luoghi di culto; tra i reperti qui conservati si segnalano le allungatissime figure in lamina di bronzo, simili alle "ombre della sera" etrusche.
Tra i vasi greci acquistati dai Piceni tra IV e V secolo (sale 22-27) ci sono sia vasi a figure nere, sia vasi a figure rosse. Si segnalano soprattutto il cratere a calice di Bacco, Arianna, Edipo e la sfinge (foto a sinistra), il cratere a volute a tre fasce rappresentanti scene di guerra, corse di cavalli e un simposio, l'anfora di Zeus ed Hera, il dinos di Prometeo, l'idria bronzea con protome leonina, la pisside a fondo bianco con la nascita di Afrodite, il dinos bronzeo con statuine di toro e di leone, il rhyton con scene dionisiache, il piattello ad alto piede con Eracle giovane ricoperto dalla pelle del leone nemeo, tipologia prodotta appositamente per il Piceno, e numerosi altri.
Tra gli oggetti etruschi acquistati dai Piceni (sale 12, 15, 16, 29, 30) si segnalano i vasi bronzei, gli scudi, gli argenti e gli avori. Notevole è la testa bronzea esposta nella sala 12, capolavoro della bronzistica etrusca.
Civiltà gallica

I reperti della Civiltà gallica dei Senoni sono esposti nelle sale 28, 29, 30 e 31.
La collezione gallica è costituita dai reperti relativi all'invasione dei Galli Senoni nelle Marche settentrionali, molti dei quali in oro. Tra i pezzi più significativi ci sono le caratteristiche torque, alcuni elmi e spade celtiche. Molto ammirate dai visitatori della collezione sono le tre corone (a sinistra nella foto) di raffinatissima fattura realizzate con elementi vegetali in oro; esse rappresentano dei pezzi unici in Italia di una rara tecnica orafa che era invece diffusa nei contesti regali della Grecia.
Tra i numerosi oggetti che i Galli acquistarono dagli Etruschi, si segnala una teglia con anse raffiguranti guerrieri in duello ed alcuni oggetti di ornamento.
Dal 2015 sono nuovamente esposte al pubblico le sculture fittili del Tempio di Civiltalba, opera romana che rappresenta, tra le altre cose, alcuni guerrieri senoni.
Sezione greco-ellenistica

La sezione greco-ellenistica è esposta nella sala 33.
Sono esposti in questa sezione i ricchi materiali provenienti dalla necropoli ellenistica di Ankón (Ἀγκών in greco antico), ossia la città di Ancona durante la fase di colonia greca. Tra questi reperti si segnalano: una delle sei monete greche di Ancona conservate al Museo, oggetti in vetro, statuette, oggetti di oreficeria, servizi domestici in argento. Alcuni reperti sono testimonianze uniche nell'Adriatico a nord della Magna Grecia e mostrano lo stretto legame esistente in epoca ellenistica tra la Grecia ed Ancona, che era in questo periodo simile ad un'isola culturale.
Le stele funerarie figurate (a sinistra nella foto), con iscrizioni in greco, provengono dalla necropoli ellenistica di Ancona e sono reperti che trovano confronti solo delle isole Cicladi. I testi delle iscrizioni di ciascuna stele ed altri dettagli sono presenti nella voce "Scavi archeologici di Ankón", al capitolo "Le stele figurate e iscritte". Tra la sala ellenistica e quella romana è esposto il Bassorilevo con suonatrice di khitara danzante, risalente alla tarda fase ellenistica di Ankòn.
Oltre ai reperti greci provenienti dalla necropoli ellenistica di Ancona, il museo è ricco di notevoli esemplari di ceramica attica ritrovati nelle necropoli picene e che dunque non sono esposti nella sezione ellenistica, ma in quella protostorica, nelle sale che vanno dalla 22 alla 27.
Sezione romana
La sezione romana non è ancora visitabile completamente (2022), a 49 anni dalla sua chiusura; il 19 dicembre 2013 ne è stata però aperta una prima sala; oltre ai reperti in essa esposti, altre testimonianze romane sono visibili in allestimento provvisorio oppure nella sala della necropoli ellenistica di Ancona.
Reperti esposti nella prima sala della sezione romana. I reperti qui esposti provengono tutti da Ancona. Si segnalano: le decorazioni in avorio e in bronzo di tre letti funebri, il mosaico policromo raffigurante la testa di Oceano, il Sarcofago del Vinaio (foto 45), con bassorilievo raffigurante una scena di compravendita di vino (per il suo interesse ne è stata tratta una copia, esposta al Museo della Civiltà Romana), il bassorilievo della Musa citareda, il calco delle scene 58 e 59 della Colonna Traiana in cui l'imperatore e il suo esercito si imbarcano per la Dacia dal porto di Ancona, il modellino ricostruttivo dell'Arco di Traiano di Ancona, i reperti provenienti dagli scavi del porto traianeo di Ancona. Il pavimento della sala accoglie uno splendido mosaico proveniente da Helvia Recina, recante inserzioni di marmi colorati.


Dal 15 maggio 2015 sono finalmente esposte, nel panoramico corridoio che conduce alla sala 33, le pregevoli sculture fittili del Tempio di Civiltalba (qui in alto, nella foto), che raffigurano, tra l'altro, la scena del saccheggio del tempio di Delfi da parte di soldati celtici, avvenuto nel 279 a.C.
Reperti visibili in allestimento provvisorio. Nella galleria vetrata che corre intorno al cortile, si possono ammirare due magnifici esempi di sarcofagi romani: il sarcofago con scene del mito di Medea e quello con corteo marino di tritoni e nereidi; nella stessa galleria è presente un bell'esempio di cippo funerario figurato con iscrizione: la Stele del seviro Sesto Tizio Primo da Suasa.
Reperti romani esposti nella sala della sezione ellenistica
. Si segnalano: un affresco illusionistico con scene nilotiche e la testa marmorea dell'Imperatore Augusto (Augusto capite velato), trovata nei pressi della sede del Museo (foto a sinistra), il modellino ricostruttivo del Tempio di Venere di Ancona, i cui resti sono visitabili nell'area archeologica sottostante il Duomo, l'urna cineraria marmorea con volto dionisiaco, rinvenuta ad Ancona, in una sepoltura ancora visibile lungo Corso Matteotti.
A piano terra sono esposte inoltre le copie conformi dei Bronzi Dorati da Cartoceto; le loro copie ricostruttive svettano dal tetto di Palazzo Ferretti come simbolo dell'archeologia marchigiana. I Bronzi Dorati sono stati esposti nel museo dal 1959 al 1972 e nel 1988.
Sezione altomedievale
La sezione altomedievale non è ancora aperta (2022).
Comprende soprattutto le testimonianze lasciate nelle Marche dagli Ostrogoti (fine V secolo - inizi del VI secolo) e dai Longobardi (fine VI secolo - tutto il VII secolo). I reperti comprendono armi, accessori di abbigliamento e oggetti di oreficeria. È importante in quanto non sono molto comuni in Italia i ritrovamenti di questo periodo.
Collezione numismatica
La ricca collezione numismatica non è ancora aperta (2022).
Reperti paleontologici
Il Museo nazionale, pur avendo carattere archeologico, espone alcuni reperti paleontologici.
È esposto uno scheletro di orso trovato all'interno delle Grotte di Frasassi (in sala 1) e il calco dell'Ittiosauro di Genga (nella sala dei convegni).

Basilicata - Museo archeologico nazionale Domenico Ridola, Matera

Il Museo archeologico nazionale Domenico Ridola è un museo statale italiano, con sede nell'ex convento di Santa Chiara a Matera ed è una delle due sedi dell'attuale Museo Nazionale di Matera.
Fu istituito il 9 febbraio 1911 per volontà del senatore e medico Domenico Ridola, che donò allo Stato le sue importanti collezioni archeologiche, ed è pertanto il museo più antico della Basilicata. Espone numerose testimonianze archeologiche rinvenute in scavi nella provincia materana e nelle Murge, con reperti che spaziano dall'epoca preistorica al III secolo a.C..
Di proprietà del Ministero per i beni e le attività culturali, nel dicembre 2019 è stato unito al Museo d'arte medievale e moderna della Basilicata per creare un nuovo ente dotato di autonomia speciale, il Museo nazionale di Matera.
Il materiale conservato nel museo è suddiviso principalmente in
cinque diverse sale. Vi è innanzitutto la sezione preistorica, la più tipica. Qui troviamo materiale risalente al paleolitico, come ad esempio frecce, giavellotti ed asce, rinvenuto in diverse località della Murgia Materana, ed in particolare presso la grotta dei pipistrelli; successivamente vi sono le testimonianze provenienti dai villaggi trincerati di epoca neolitica rinvenuti nelle località di Tirlecchia, Murgia Timone, Murgecchia e Serra d'Alto. Quest'ultima località è nota per la presenza del tipo di ceramica detta appunto di Serra d'Alto, caratterizzata da vernice bruna e motivi geometrici complessi. La presenza di tali villaggi risalenti al neolitico testimonia l'introduzione dell'agricoltura e lo stabilirsi della popolazione, che in epoche
precedenti era nomade, in insediamenti stabili. Infine vi sono ritrovamenti risalenti all'età del bronzo, tra cui le tombe di Murgia Timone.
Vi sono poi due sale in cui sono esposti gli oggetti provenienti dai centri situati nelle valli dei due principali fiumi dell'area materana, la valle del Basento e la valle del Bradano: alla prima appartiene la documentazione proveniente dai centri antichi corrispondenti alle attuali Pisticci, Ferrandina, Pomarico, Garaguso e Calle di Tricarico; in particolare da quest'ultimo sito provengono materiali di una necropoli romana, da Pisticci i corredi delle tombe a tumulo dell'età del ferro e i materiali di necropoli arcaiche e del V secolo a.C., tra cui
i vasi a figure rosse del Pittore di Pisticci; dagli altri centri provengono materiali delle sepolture di un lunghissimo arco di tempo.
Nella sala della valle del Bradano vi sono invece le testimonianze relative ai centri antichi che corrispondono alle attuali Montescaglioso, Miglionico e Irsina; al primo centro corrispondono diversi corredi funerari che vanno dal VII secolo a.C. al IV secolo a.C. Da Miglionico provengono materiali dall'epoca geometrica fino al III secolo a.C. Vi sono infine diversi esemplari di ceramiche decorate.
In un'ulteriore sala sono esposti i materiali provenienti dagli scavi di Matera e dintorni; si tratta principalmente di testimonianze archeologiche di età arcaica, lucana e successivamente romana. Si trovano in questa sezione corredi funerari di epoca arcaica, monete, bronzetti italici fra i quali la figura di Ercole con la clava e con l'arco databili all'incirca tra il VI e il IV secolo a.C., suppellettili bronzee di età romana. La documentazione di maggior importanza è relativa
a Timmari, località a pochi chilometri da Matera. Dalla stipe votiva e dalla necropoli di Timmari, risalenti al IV secolo a.C., provengono infatti molte statuette votive in terracotta e corredi funerari con armature in bronzo e monumentali vasi a figure rosse.
Nella sala Ridola, infine, vi è un'esposizione di manoscritti, documenti e cimeli testimonianti l'attività di Domenico Ridola, fondatore del museo e studioso locale di storia e antichità, nonché medico e senatore. Dopo la sua morte avvenuta nel 1932, la ricerca paletnologica nel Materano è stata coltivata da altre figure, che hanno raccolto la sua eredità; tra queste Eleonora Bracco, direttrice del Museo subito dopo il fondatore e fino al 1961, e fautrice di un primo riordino e organizzazione del Museo.


Basilicata - Museo archeologico nazionale della Siritide

 


Il Museo archeologico nazionale della Siritide è un museo archeologico situato all'interno del sito archeologico di Heraclea (Herakleia), nei pressi di Policoro, in provincia di Matera.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale della Basilicata, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Venne inaugurato nel 1969, presenta i reperti rinvenuti ad Heraclea secondo un percorso cronologico dal neolitico all'età romana.
La prima sezione è dedicata alle testimonianze neolitiche, che provengono dalle grotte di Latronico e dal altre aree della zona e consistono in ceramiche dipinte a fasce rosse risalenti al VI-III millennio a.C.
La seconda sezione si centra invece sull'età del bronzo, a cui appartengono il corredo funerario di una tomba del 2000 a.C. rinvenuta a Tursi e le ceramiche micenee del 1200 a.C. Altri reperti provengono dagli scavi intorno all'antica colonia magnogreca di Siris con testimonianze del tempio arcaico e della necropoli consistenti in statuette votive, decorazioni e bassorilievi e elmi.
La terza sezione è tutta dedicata alla città di Heraclea: sono presenti anche qui statuette votive, laminette bronzee e anche monete mognogreche e romane, matrici per il vasellame, crateri, coppe, vasi e una matrice a rullo per decorare i vasi dei cortili delle case.
Nella quarta sezione sono situati i reperti delle necropoli magnogreche tra cui spicca la Tomba di Policoro con numerosi grandi vasi a figure rosse di tema mitologico.
La quinta e ultima sezione è dedicata alle popolazioni enotrie e lucane stanziate lungo i corsi dei fiumi Agri e Sinni. I reperti provengono dai corredi delle necropoli di Anglona, Chiaromonte, Tursi e Armento e Aliano con un corredo funebre di una principessa e circa mille tombe risalenti a circa VII-VI a.c.

Basilicata - Grumentum

 

Grumentum fu un'antica città romana della Lucania. Attualmente rimangono gli scavi del parco archeologico, situato ai piedi del colle che ospita il paese di Grumento Nova (PZ), nelle immediate vicinanze del lago di Pietra del Pertusillo, in località "Spineta".
I primi insediamenti abitativi nella zona si possono far risalire al VI secolo a.C., tuttavia la fondazione della città vera e propria risale al III secolo a.C. ad opera dei Romani, nell'ambito della creazione di una serie di avamposti fortificati in posizione strategica realizzati durante le guerre sannitiche: la città sorse infatti quasi contemporaneamente a Venusia (291 a.C.) e a Paestum (273 a.C.). Da Grumentum passava la via Herculea, tra Venusia e Heraclea, e un'altra strada conduceva alla via Popilia sul versante tirrenico, facendo della città un nodo di comunicazione strategicamente importante. Durante la seconda guerra punica, vi si svolsero due battaglie tra Romani e Cartaginesi (215 e 207 a.C.). Lo storico Tito Livio narra del primo scontro tra Annone (figlio di Bomilcare) e l'esercito romano condotto da Tiberio Sempronio Longo, e di come nel secondo Annibale si fosse accampato a ridosso delle mura della città e fosse quindi stato sconfitto e costretto alla fuga dai Romani, provenienti da Venosa e guidati da Gaio Claudio Nerone. Durante la guerra sociale la città si schierò con i Romani e venne distrutta e saccheggiata dagli Italici, attraversando un periodo di crisi e di calo demografico. A partire dalla seconda metà del I secolo a.C. la città venne ricostruita, e una serie di monumenti pubblici vennero edificati in epoca cesariana e augustea. A quest'epoca, o al successivo periodo giulio-claudio risale probabilmente l'attribuzione dello statuto di colonia. Nel 312 d.C. il giovane martire cristiano Laverio venne decapitato fuori le mura di Grumentum alla confluenza dei fiumi Agri e Sciaura, era il 17 novembre sotto il prefetto Agrippa. Grazie a San Laverio martire Grumentum nel 370 divenne sede episcopale, ma subito dopo iniziò un progressivo abbandono della città e del fondovalle, a causa delle continue incursioni saracene (IX e X secolo). Gli abitanti di Grumentum si sparsero per tutta la Val d'Agri fondando sulle alture circostanti nuovi centri fortificati, che divennero gli attuali paesi della zona: fra questi Saponara, ribattezzata poi Grumento Nova proprio in onore di Grumentum, fondata nel 954 sulla collina sovrastante l'antica città. Le prime indagini storico-archeologiche su Grumentum di cui si hanno notizie sono quelle ad opera di Giovanni Antonio Paglia che, tra il 1563 e il 1564, portò alla luce le prime epigrafi, dando inizio così al dibattito per l’identificazione e la collocazione del sito della colonia romana. I primi sterri vengono invece svolti nel Settecento da Carlo Danio, arciprete di Saponara di Grumento (l’attuale Grumento Nova). Importante fu il successivo lavoro di trascrizione delle epigrafi raccolte da Danio nella sua collezione ad opera di Sebastiano Paoli. Nella prima metà dell’Ottocento Andrea Lombardi ha fornito una descrizione dettagliata di ciò che era visibile nel sito di Grumentum, soffermandosi sull’anfiteatro, sulle terme, sull’acquedotto, sulla porta cosiddetta Aquilia. Riferiva che la porta era stata spogliata dei marmi che la decoravano, utilizzati per decorare la Porta di Saponara di Grumento. L’autore ha descritto anche tutti i reperti ritrovati nell’area e ancora presenti nel giardino che era stato di Carlo Danio, fornendone un elenco assai lungo e dettagliato, lamentando la dispersione della collezione. Theodor Mommsen nel 1846 giunse a Saponara di Grumento per raccogliere le testimonianze epigrafiche grumentine: egli si era recato sul posto per vedere sia le epigrafi contenute nel giardino del Carlo Danio, sia quelle sparse nel territorio. Con la nascita del Regno d’Italia l’area archeologica venne assegnata in gestione al Ministero della Pubblica Istruzione, ma non fu ancora scavata sistematicamente: i ruderi degli edifici venivano ancora rinvenuti occasionalmente. Alla fine dell’Ottocento, Giovanni Patroni riporta numerose notizie sul patrimonio epigrafico grumentino e sulla piccola collezione civica che si stava accumulando nella Biblioteca Comunale. Michele Lacava e più tardi Vittorio Di Cicco proseguirono le indagini sul campo per conto del Museo Provinciale di Potenza.
Agli inizi del secolo l’ispettore Francesco Paolo Caputi pubblicò uno studio sistematico sui ritrovamenti archeologici e sugli studi eruditi relativi a Grumentum dei due secoli precedenti. Nel 1951 Pellegrino Claudio Sestieri avvia una campagna di scavi a partire dal teatro: dopo averne messo in luce una metà, per mancanza di fondi, dovette interrompere l’indagine. In quegli anni era stato anche costruito un piccolo antiquarium per accogliere i reperti rinvenuti a Grumentum. Nel 1961 il Ministero della Pubblica Istruzione dichiara di importante interesse archeologico la zona del teatro, delle terme e dell’anfiteatro. Nel 1964 fu istituita la Soprintendenza alle Antichità della Basilicata; l’indagine fu portata avanti dal primo soprintendente alle antichità della Basilicata, Dinu Adamesteanu, il quale tra il 1964 e il 1968 curò anche il restauro del teatro e pubblicò i risultati degli scavi.

L'impianto urbanistico della città, risalente alla fondazione del III secolo a.C. è di forma allungata, in dipendenza dalle condizioni orografiche della collina, e si articola su tre vie principali parallele, intersecate ad angolo retto da vie secondarie. La città era circondata da mura con sei porte, su un perimetro di circa 3 km e occupava una area di circa 25 ettari, di cui solo un decimo è stato riportato in luce.
Il Teatro è di epoca augustea, vicino al quale si trovano i resti di due piccoli templi di epoca imperiale e quelli di una ricca domus, denominata "Casa dei mosaici" per la presenza di pavimenti a mosaico del IV secolo in alcuni ambienti;
Il Foro è chiuso da portici e con resti di due templi sui lati sud e nord, identificati ipoteticamente con il capitolium (principale tempio cittadino) e con un Cesareum (tempio dedicato al culto imperiale). Sul lato ovest si trovano i resti di una basilica e forse di una curia (luogo di riunione del consiglio cittadino).
Nei pressi del foro, lungo il decumano orientale, si trovano anche i resti di un edificio termale di età repubblicana. Un’iscrizione menziona due praetores duoviri, Q. Pettius e C. Maecius che fecero edificare a spese pubbliche le terme. La struttura termale è in opus reticolatum. Il calidarium è diviso in due ambienti separati da sedili in muratura, entrambi pavimentati a mosaico, bianco e policromo. Quello policromo consiste in una larga cornice decorata a greche che racchiude un’altra cornice costituita da una treccia a due capi su fondo scuro. Essi poggiano su un pavimento con suspensurae. Sono stati rinvenuti anche i resti del forno per il riscaldamento della pavimentazione. Il frigidarium circolare, con sedili ai lati, è stato riutilizzato in età moderna e contemporanea per la costruzione di palmenti per la pigiatura dell’uva e la fermentazione del mosto. Il rifornimento d’acqua era garantito, oltre che dall'acquedotto di età augustea, da una cisterna, anch'essa riutilizzata. Gli stessi locali sono stati destinati ai servizi per i visitatori del Parco.
Le Teme imperiali furono ostruite in età augustea. Il mosaico in bianco e nero, decorato con creature marine, tritoni e Scilla e quello limitrofo con motivi geometrici sono stati datati al III-IV secolo a.C.

L’anfiteatro viene già menzionato dagli eruditi locali nel Settecento[: esso era rimasto visibile e riconoscibile all’interno del tessuto urbano della città romana ormai scomparsa. Le indagini vere e proprie del monumento ebbero inizio nel 1981, dopo che il terremoto del 1980 ne ebbe aggravato i pericoli di crollo. L’anfiteatro è datato al I secolo a.C.. Esso venne innalzato in una posizione periferica, lungo il limite nord-orientale del perimetro urbano, in prossimità di una via di accesso attraverso la quale gli spettatori provenienti dalla valle potevano affluire senza passare all’interno della città. Gli assi dell’anfiteatro risultano allineati agli assi stradali. Il dislivello tra la terrazza centrale e quella orientale della collina su cui sorgeva Grumentum venne sfruttato per addossarvi la parte occidentale dell’edificio. La parte orientale poggia su una sostruzione interamente artificiale. La tecnica costruttiva della fase iniziale, ovvero quella repubblicana, è l’opus incertum. Le parti in opus reticulatum regolare sono da ritenersi successive. L’anfiteatro ha due soli ordini di gradini, sostenuti da terrapieni e da un corridoio voltato nella parte occidentale e da sostruzioni artificiali in quella orientale. L’arena è stata ricavata tagliando e spianando la collina e non presenta ambienti sotterranei. Il corridoio che la circonda si interrompeva solo in corrispondenza degli ingressi principali, dove era sbarrato da cancelli in quanto destinato ad immettere animali attraverso le sei aperture chiuse da griglie di cui si conservano in parte le soglie. Fuori dalle mura si sono rinvenute tombe monumentali.

Le fonti letterarie ed epigrafiche di età tardoantica e altomedioevale disponibili per Grumentum sembrano indicare una continuità di vita del centro fino al V secolo d.C.: la Tabula Peutingeriana riporta un collegamento diretto con Taranto; nei pressi è attestata la via Herculia, documentata da un gruppo di miliaria che ne attestano ripetuti interventi di manutenzione almeno fino all'età di Arcadio; la sede vescovile è menzionata nel V e VI secolo dai pontefici Gelasio I, Pelagio I e Gregorio Magno; la necropoli indagata davanti alla chiesetta extraurbana di San Marco è stata datata al VII secolo; la menzione del territorio di Grumentum dall'Anonimo Ravennate alla fine del VII secolo[25] e da Guidone agli inizi del XII secolo. Nel XII secolo venne inoltre redatta l'agiografia di un martire grumentino, san Laviero. A partire dall'XI secolo si consolidano e si sviluppano insediamenti di altura: Saponara, Marsico Nuovo, Marsico Vetere, Moliterno, etc. Questo nuovo assetto poleografico dell'antico territorio grumentino è ancora attuale, modificato di recente dalla nascita di una rapida viabilità di fondovalle, che ha determinato l'immediato sviluppo di piccoli centri di pianura (Villa d'Agri, Sarconi, etc.). A partire dal XVI-XVII l’area archeologica venne nuovamente occupata per attività vitivinicole con la costruzione di case rurali.

La chiesa di Santa Maria Assunta era situata nella parte settentrionale dell’abitato romano, in prossimità dell'anfiteatro e orientata rispetto alla sua viabilità. Sul lato orientale sono state rinvenute nel 1978 alcune sepolture medievali, purtroppo prive di corredo. Non si hanno ancora certezze né sulla data d'impianto, né sulle successive fasi edilizie di questo edifici. Un esiguo frammento di affresco parietale, conservatosi nella navata centrale e raffigurante un volto di santa ai piedi di una Madonna dalle dimensioni sensibilmente maggiori, permette ipotizzare una sua utilizzazione come luogo di culto nel periodo altomedioevale.

Basilicata - Eraclea

 



Eraclea (in greco Ἡράκλεια, Herakleia; in latino Heraclea o Heracleia) fu un'antica città della Magna Grecia lucana, situata nei pressi dell'attuale Policoro, provincia di Matera.
Fu fondata dai coloni Tarantini e Thurioti intorno al 434 a.C., dopo una guerra che le aveva viste nemiche. La città è situata su un'altura tra i fiumi Agri e Sinni sui resti della città di Siris, e nel 374 a.C. fu scelta come capitale della Lega Italiota al posto di Thurii che era caduta in mano ai Lucani. Successivamente verrà creato un agglomerato urbano sulla costa con il nome di Siris, che però con l'antica Siri (Lucania) ha solo continuità onomastica ma non topografica. Secondo altre differenti interpretazioni storico-archeologiche[1], Siris si situava nello stesso territorio di Eraclea. Infatti, secondo tali ricostruzioni storico-archeologiche, la fondazione di Eraclea avvenne nei pressi dello stesso abitato della florida e ricca Siris. Queste nuove interpretazioni sono successive alle recenti ricerche archeologiche dirette dall'archeologo francese Stéphane Verger in collaborazione con l'Università degli Studi della Basilicata e l'École pratique des hautes études di Parigi.
Nel 280 a.C. la città fu teatro della battaglia di Eraclea tra Taranto e Roma. Sempre intorno al 280 a.C. i Romani proposero alla città di Eraclea uno speciale trattato di alleanza, riuscendo a sottrarla all'influenza di Taranto e facendola diventare città confederata di Roma. A questo periodo risalgono anche le tavole di Eraclea, attualmente conservate al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che sono tavole di bronzo con testi in greco riguardanti l'ordinamento pubblico e costituzionale della città. Sul retro di queste è trascritta, in latino, la lex Iulia Municipalis. Alla fine della guerra tra Romani e Tarantini, Eraclea, come tutta la Lucania e la Puglia, cadde sotto il dominio romano. Nel 212 a.C. la città fu assediata e conquistata da Annibale. Successivamente diventò nuovamente una città fiorente, e i suoi abitanti furono descritti come Nobiles Homines da Cicerone nel Pro Archia, l'apologia del poeta Aulo Licinio Archia, cittadino di Eraclea.
Nell'89 a.C. fu data agli Eraclidi la cittadinanza romana con la lex Plautia Papiria. Durante tutta l'età repubblicana, Eraclea viene turbata da tumulti sociali, giunti al culmine nel 72 a.C. con il passaggio di Spartaco. I recenti scavi archeologici, della missione italo-francese, hanno portato alla luce le testimonianze che attestano il passaggio di Spartaco ad Eraclea[2]. Dalle testimonianze archeologiche è emerso che la parte ricca dell'acropoli venne assediata attraverso l'utilizzo di armi da guerra[3]. Durante l'età imperiale cominciò invece la sua decadenza. Vi hanno risieduto il poeta Archia e il grande pittore Zeusi, forse originario della città.
Le rovine sono attualmente visitabili insieme al Museo archeologico nazionale della Siritide di Policoro che custodisce la maggior parte dei reperti lì trovati. Dell'antica città nella parte bassa si possono notare il Tempio di Atena, di cui restano le fondamenta, e il Tempio di Demetra. Sull'acropoli invece i resti della città si sono meglio conservati ed è visibile l'impianto urbano costituito da assi viari ortogonali. A ovest è situato il quartiere dei ceramista con le case con fornaci annesse. A sud e a ovest sono situate le necropoli.


Basilicata - Serra Lustrante, Armento

 

La zona archeologica di
Armento si trova nella contrada Serra Lustrante, precedentemente denominata Serra d'Oro. L'area del ritrovamento fu frequentata a partire dagli ultimi decenni del IV sec. a.C. come luogo di culto. A questo periodo si data un piccolo sacello quadrangolare con percorso pavimentato annesso: alle spalle sono stati individuati una vasca, una cisterna e un grande pithos (vaso di terracotta), che sottolineano il ruolo centrale dell'acqua nell'area sacra.
Nel III sec. a.C. il santuario venne monumentalizzato e impostato su due terrazze collegate da una scalinata e divise da un muro a blocchi squadrati di arenaria. Sulla terrazza inferiore venne realizzato un edificio sacro a pianta quadrata, in asse con un altare e due basi. Attorno all'edificio venne pavimentato un nuovo percorso cerimoniale. La cisterna raccoglieva le acque canalizzate dalla terrazza superiore e dalle sorgive sotterranee, mentre dietro l'altare dovevano trovarsi alcuni locali di servizio, con il tetto decorato da antefisse. Qui nel 1969 fu ritrovato un esemplare di testa di Gorgone.
Nella terrazza superiore si trovavano tre grandi ambienti: in uno dei tre vani sono state ritrovate due fosse con resti di animali sacrificali, un focolare e una banchina con tre patere con ossa di volatili. Il rito sacrificale doveva quindi iniziare nella terrazza inferiore, con il lavaggio dell'animale sacrificale con le acque sacre e con il sacrificio sull'altare, mentre la cerimonia si concludeva nella terrazza superiore, con la consumazione delle carni dell'animale.
La monumentalizzazione del santuario, con la realizzazione dell'impianto scenografico a terrazze, rientra in un quadro ellenistico: è probabile pertanto il contatto diretto tra le popolazioni dell'interno e le influenze magno greche. In un contesto abbastanza vicino, nella colonia greca di Heraklea, posta sul fondovalle dell'Agri, si trova una area sacra molto simile al Tempio in cui è stata trovata la Corona: pertanto non è improbabile l'influenza diretta della colonia.
L'ultima fase edilizia , alla quale si ricollega la realizzazione degli ambienti dell’alto sud del santuario, si data a fine III sec. a.C. Successivamente, nel II secolo a.C., con la definitiva romanizzazione della zona della Val Agri, si ha un abbandono graduale del territorio.
Il santuario doveva essere dedicato a Eracle, che si configura come il garante dei valori guerrieri e agonistici giovanili, nella doppia dimensione divina ed eroica. Inoltre, sono attestati sia nel centro che nel sud Italia culti a Eracle legati alla transumanza dei pastori e al culto delle acque. Dall'analisi dei materiali rinvenuti, si può sostenere che al culto di Eracle fosse associato il culto a una divinità femminile subalterna, che potrebbe identificarsi con quella Mefite protettrice delle acque particolarmente diffusa nel contesto lucano.
La rilevanza dei reperti riflette l'importanza di un'area archeologica che ricade all'interno del parco nazionale dell'Appennino Lucano Val d'Agri Lagonegrese: il santuario di Serra Lustrante dovette essere un luogo di riunione e di aggregazione delle aristocrazie locali dei centri indigeni della media valle, all'interno dell'organizzazione territoriale lucana.

Basilicata - Area archeologica di Notarchirico

 

L'area archeologica di Notarchirico è un sito archeologico preistorico, situato presso la città di Venosa, in provincia di Potenza.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali la gestisce tramite il Polo museale della Basilicata, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Il sito, scoperto nel 1979, successivamente è stato indagato dal 1980 al 1985. Dal 2016 gli scavi eseguiti da un team itnernazionale di ricercatori, sono condotti dal Museo nazionale di storia naturale di Parigi. 
L'area comprende un antico insediamento paleolitico. L'attività umana nella zona è testimoniata da diversi livelli stratificati, comprendenti un periodo da 600 000 a 300 000 anni fa (acheuleano medio), ma scavi più recenti potrebbero aver dimostrato che il sito fosse frequentato già da 700.000 anni fa da ominidi heidelbergensis.
Il sito è caratterizzato dalla presenza di numerosi utensili in pietra e dai resti di grossi animali come elefanti (nella foto in alto, elementi fossili di un elefante), bisonti, buoi e rinoceronti appartenenti a specie estinte,  depositati in sito dalle acque o da cacciatori.
È stato inoltre rinvenuto nella zona un frammento di femore di un individuo di sesso femminile di Homo erectus, chiamata Marpi, databile a circa 300 000 anni fa, il più antico resto umano dell'Italia meridionale.
La maggior parte dei reperti sono esposti al Museo archeologico nazionale di Venosa.

Basilicata - Catacombe ebraiche di Venosa

 

Le catacombe ebraiche di Venosa sono un complesso archeologico che documenta la presenza di una fiorente comunità ebraica locale tra la tarda antichità e alto Medioevo. La loro datazione, su base epigrafica, permette di collocarle in uso tra il III e il VII secolo. Si presentano come una serie di corridoi scavati sulla collina della Maddalena, in una zona periferica di Venosa, lungo i quali sono collocate le sepolture, adorne di iconografie ed epigrafie ebraiche. Furono scoperte nel 1853 e divennero oggetto di studio sistematico solo a partire dal 1974, grazie anche all'opera di Cesare Colafemmina.
In totale, hanno restituito una settantina di epigrafi, con epitaffi in latino, greco ellenistico ed ebraico, una delle quali datata esattamente al 521 d.C.
Costituiscono un'importante testimonianza archeologica dal momento che, secondo l'ebraista Giancarlo Lacerenza, forniscono il "miglior spaccato della società ebraica meridionale" di quei secoli e documentano il livello di integrazione e di partecipazione della comunità ebraica nella vita pubblica locale. Il grado di integrazione è testimoniato anche dalla "contaminazione" con l'onomastica della società non ebraica e dal livello sociale relativamente elevato occupato da alcune famiglie ebraiche di Venosa.
Accanto a tali catacombe, vi è un'altra struttura che ospita quelle cristiane, una prossimità che fornisce una testimonianza tangibile del clima di convivenza pacifica e tollerante tra ebrei e cristiani.
Questo sepolcreto tardo antico può essere messo in rapporto a un'altra necropoli ebraica venosina di IX secolo: in quest'ultimo caso, si nota la frattura consumatasi in questi secoli, testimoniata anche dalla quasi totale sparizione del latino e del greco in favore dell'ebraico.

Basilicata - Villa romana di Marsicovetere


La villa romana di Marsicovetere è una villa rustica scoperta nel 2006 in località Barricelle nel territorio comunale di Marsicovetere,in provincia di Potenza. La villa fu abitata dal II secolo a.C. al VII secolo d.C.. Fu monumentalizzata in età imperiale allorché fu di proprietà dei Bruttii Praesentes, una famiglia lucana che ha dato i natali fra gli altri all'imperatrice Bruttia Crispina, moglie di Commodo nel 178.
In seguito alla scoperta di giacimenti petroliferi in Basilicata, l'Eni avviò nel 1999 opere di infrastrutturazione per il trasporto di petrolio e altri idrocarburi realizzando condotte coincidenti con le linee che collegano i pozzi petroliferi al centro Oli Eni di Viggiano. Tali opere hanno permesso di analizzare il sottosuolo lucano a livello archeologico. Le ricerche si sono concentrate in modo particolare su una area di circa 44 km2 sul litorale sinistro del fiume Agri.
Durante le attività di scavo, sempre affiancate da un addetto della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Basilicata, è stata rinvenuta nel 2006 la villa di Marsicovetere, ritrovamento significativo per l'estensione e la rilevanza storica.
Lo scavo, ancora non del tutto terminato nel giugno del 2016, è proseguito per conto della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Basilicata.
La villa è situata ai piedi del monte Volturino ed è costeggiata dal torrente Molinara, affluente del fiume Agri. La posizione è considerata strategica in quanto estremamente vicina alla Via Herculia, che collegava l'area con le città di Potentia, Venusia e Grumentum (probabili mercati dei prodotti realizzati nella villa) e all'incrocio di quest'ultima con un percorso trasversale che giungeva in Campania. La felice posizione geografica ha fatto sì che la villa continuasse a essere occupata per tutta l’età tardoantica e fino agli inizi del VII sec. d.C., sia pur con profonde modifiche planimetriche e di destinazione d'uso, che interessarono principalmente la pars urbana.
Il rinvenimento, in corso di scavo, di dodici tegole bollate recanti la formula onomastica che rimanda ad un Caius Bruttius Praesens, ha reso possibile l'attribuzione della villa ai Bruttii Praesentes, noti alle cronache storiche per aver dato i natali a consoli e senatori, nonché a Bruttia Crispina “l'imperatrice lucana” sposa dell imperatore Commodo nel 178 d.C..
Caius Bruttius Praesens era nome sia del padre che del nonno di Crispina dunque la proprietà potrebbe essere stata, in origine, del Caius Praesens nonno, dal quale poi il figlio omonimo l'avrebbe ereditata o potrebbe esser stata costruita dal Caius Praesens padre, che l'avrebbe poi data in eredità a sua figlia. Probabilmente a seguito del matrimonio fra Crispina e Commodo, la proprietà passa dai Bruttii Praesentes alla famiglia imperiale. A conferma dello stretto legame fra la villa e la famiglia imperiale dell'epoca vi è il prezioso sigillo recante il nome di un liberto dell'imperatore Commodo, Moderatus, che, alla luce di quanto sappiamo sulle antiche forme di gestione delle proprietà imperiali, si può ipotizzare fosse incaricato di gestire l'impianto in nome e per conto dell'imperatore.
Al fine di fare chiarezza sulla tipologia dell'evento che ha portato al crollo della villa sono state fatte indagini di tipo geologico, geofisico e ingegneristico. Tali indagini operate nella superficie limitrofa allo scavo permettono di affermare che il crollo non può essere attribuito a fenomeni naturali come frane o alluvioni; si esclude anche un crollo dovuto al sovraccarico delle coperture in seguito a una copiosa precipitazione nevosa.
Sono molti invece gli esiti che depongono a favore di un terremoto. Come già noto per il bacino della Val d’Agri, gli studi sottolineano come i sedimenti presenti nella valle comportino l'amplificazione del moto sismico. Fatti importanti sono il ritrovamento di un corpo e la datazione del crollo.
All'interno della villa è stato rinvenuto lo scheletro di un individuo adulto di sesso maschile. La salma si trovava in un luogo decisamente inusuale per la sepoltura; in più la particolare posizione delle parti del corpo fa pensare che l'uomo sia stato colto da morte improvvisa. Il corpo è stato rinvenuto su un fianco con gli arti inferiori flessi e con uno degli arti superiori sul capo in una collocazione stratigrafica significativa, ovvero al di sopra del pavimento della villa e sotto ai calcinacci dovuti al crollo. Nella stessa collocazione stratigrafica è stata ritrovata una moneta attribuibile ad Antonino Pio che permette agli esperti di collocare il sisma in un periodo storico risalente alla fine del I secolo inizi del II sec d.C.. Tale data risale a circa 1700 anni prima del terremoto che devastò parte della Val d’Agri nel 1857, in accordo con i tempi di ricorrenza dei terremoti sulle faglie appenniniche.
Fino al gennaio 2012 sono stati messi in luce circa 2300 m2 di un vasto complesso edilizio corrispondente al modello di villa rustica residenziale e produttiva delineato da Catone e Varrone, ossia al modello di una costruzione comprendente tre aree:
- nella zona nord-orientale la pars rustica, destinata al personale di servizio;
- nella zona sud-orientale la pars fructuaria, comprendente gli impianti dedicati alla produzione soprattutto di olio di oliva e tessuti di lana;
- nella zona occidentale, la pars urbana, molto ampia e riccamente decorata, comprendente le residenze dei proprietari e degli amministratori della tenuta.
La villa si è sviluppata in un lungo periodo che va dall'età augustea all'alto medioevo (I sec a.C. – VII sec d.C.). Nel corso degli anni la villa ha subito varie trasformazioni sia sul piano della struttura sia per quanto riguarda la destinazione d'uso dei vari locali. Gli esperti tendono a suddividere l'avanzamento della villa in cinque periodi fondamentali.
Prima fase
Fine II – metà I sec a.C.
Nella prima fase la pianta della villa ha una forma rettangolare. I muri costruiti a secco con blocchi di pietra calcarea sono parzialmente visibili a causa delle successive ricostruzioni. Nella parte meridionale della villa, allo stesso livello di stratificazione, sono stati rinvenuti numerosi resti di ossa animali: ciò fa pensare all'esistenza di una fattoria.
Ad oggi mancano dati cronologici per il preciso inquadramento della struttura in questa prima fase, ma la presenza di ceramica a vernice nera e a pasta grigia testimonia il popolamento della villa negli ultimi anni del II secolo a.C. L'assenza di sigillata italica in questo strato induce a fissare la conclusione della prima fase intorno alla metà del I sec. a.C. e ad ipotizzare che il sito sia stato abbandonato in seguito alla guerra sociale.
Seconda fase
Età augustea – fine I - Inizi II sec. a.C.
In questa fase vi è una completa riorganizzazione degli spazi. Nella zona nord è presente una vasca di raccolta che era utilizzata per lo stoccaggio dell'olio ed era munita di pozzetto di decantazione. Il settore settentrionale era invece dedicato alla produzione di vino. In questa zona sono state rinvenute le buche per il torchio a vite, tre grandi contenitori per lo stoccaggio e una vasca di raccolta. Oltre a queste attività all'interno della villa era presente una zona destinata alla lavorazione della lana e nella parte nord-est era presente l'area utilizzata per l'allevamento costituita in gran parte dalle stalle. Nella villa erano previsti alcuni ambienti destinati alla servitù.
Terza fase
Prima metà II – seconda metà III sec. d.C
Il crollo sismico collocato temporalmente verso la fine del I - inizi II sec.d.C. è il punto di partenza della terza fase. La villa in questa fase sarà occupata ininterrottamente fino agli inizi III secolo d.C. La planimetria dello stabile in questa fase non subisce particolari variazioni. Gli ambienti sono collocati nei pressi del cortile e i muri della fase precedente vengono riutilizzati. Nella zona settentrionale della villa, tre ambienti vengono unificati costituendo, in questa fase, un unico ambiente di 54 metri quadrati.
Il pavimento è realizzato con tegole piane sistemate di piatto e fissate con terra. Il materiale ceramico e i resti di argilla cotta lasciano supporre che il nuovo locale fosse una cucina dotata di due piani cottura.
A questa fase appartengono reperti come coppe in terra sigillata africana, molte lucerne con becco tondo, un sigillo in bronzo e frammenti di tegola con bollo, che riconducono alla potente famiglia dei Bruttii Praesentes.
Quarta fase
Fine II-inizi III – metà IV sec. d.C.
Anche nella quarta fase avviene una la riorganizzazione di alcuni locali attraverso la realizzazione di un nuovo ambiente, a pianta rettangolare. Nel nuovo ambiente sono stati rinvenuti i resti del crollo. Il nuovo pavimento è stato realizzato con piccole pietre di malta biancastra e in un angolo a sud vi era un piccolo focolare dalla quale provengono delle ceramiche annerite. Ciò rafforza l'ipotesi che si tratti di un vano cucina.
A questa fase sono attribuibili le sepolture di due bambini rinvenute nel cortile: le tombe sono state collocate in uno strato al di sopra del crollo.
La costruzione dei muri in questa fase risulta differente rispetto alle precedenti poiché sono state utilizzare pietre calcare locali disposte in modo del tutto regolare.
Quinta fase
Seconda metà IV – metà V sec. d.C.
L'ultima fase di vita della villa ufficialmente è questa, databile al periodo compreso fra seconda metà del IV e la metà del V sec. d.C. In realtà gli archeologi che hanno lavorato allo scavo pensano che la villa sia stata popolata nell'alto medioevo e ipotizzano una sesta fase testimoniata dai resti di un villaggi a capanne comunemente costruiti in Italia tra il IX e il X sec.d.C. Fra questi materiali i più interessanti sono uno stilo in osso e un anello in bronzo con un serpente inciso nel centro.
La Villa Romana in Località Barricelle ha restituito numerosi reperti appartenenti alla vita quotidiana, a quella lavorativa e alla sfera funeraria. Di particolare importanza sono 12 tegole bollate, un signaculum in bronzo, un'epigrafe funeraria e un anulus signatorius; anche alcuni oggetti della vita quotidiana sono degni di nota. I resti appartengono a fasi cronologicamente diverse.
Tegole bollate
Nella prima parte dello scavo sono state rinvenute in primo luogo due tegole con bollo. Inizialmente la decodifica risultò ostica, in quanto i frammenti riportavano spezzoni della scritta che divenne più chiara con il prosieguo dello scavo e dopo il ritrovamento di altre 10 tegole. Su di esse è incisa la formula onomastica abbreviata “CBRVTTPRAE”. Tale formula conduce a identificare il personaggio indicato sulle tegole in membro della potente famiglia dei Brutti Praesentes, in particolare nell'imperatrice Bruttia Crispina.
L'epigrafe funeraria
L'epigrafe funeraria in questione molto probabilmente è stata riutilizzata come soglia in tarda epoca, infatti è così che è stata rinvenuta dagli archeologi. Questo tipo di lapide (arca lucana o cupa), particolarmente diffusa nell'Italia meridionale, ha forma quasi rettangolare. Sulla sua superficie è visibile un quadrato di circa 30 cm che contiene un testo organizzato su quattro righe. L'incisione riporta la dedica da parte di una probabile serva della villa al padre morto all'età di 40 anni. L'importanza dell'epigrafe risiede nel fatto che grazie ad essa, e ad un'altra lapide rinvenuta a Venosa, si sono potuti ricostruire i rapporti e le vicende della famiglia dei Bruttii Praesentes e dei loro servi nel territorio lucano. Ciò è stato possibile attraverso un incrocio di nomi e cognomi riportati sulle lapidi.
Il signaculum
Un altro ritrovamento che comprova ulteriormente l'appartenenza della villa alla famiglia dei Bruttii Praesentes è un sigillo in bronzo. Il sigillo di forma lunare apre nuove considerazioni sul passaggio di proprietà della villa. L'iscrizione presente sul sigillo ha un andamento sinistrorso, in rilievo è visibile la scritta "MODERATI AVG". L'Augusto in questione è probabilmente l'imperatore Commodo e Moderatus è il servo incaricato di gestire la villa per conto dell'imperatore stesso. Tale identificazione è possibile dal momento che Bruttia Crispina e Commodo nel 178 d.C. si strinsero in matrimonio. Si aggiunge a ciò il fatto che la tipologia di sigillo è compatibile con quelle di circolazione sotto Commodo che era solito fare uso di sigilli di questo tipo per firmare documenti e delegare ai suoi servi l'amministrazione dei suoi averi.
L'anulus signatorius
Tra i materiali rinvenuti nella villa è incluso un anello di bronzo probabilmente destinato ad un uomo considerate le dimensioni molto grandi. Su di esso è inciso un monogramma contornato da una doppia fila di perline laterali. Si tratta di un anello che aveva la particolare funzione di timbro per la cera che sigillava i documenti (anulus signatorius). In questo modo l'origine dei documenti risultava sempre chiara.
Si pensa che sia un anulus signatoris appartenente all'epoca repubblicana. Nonostante l'anello sembri testimoniare la continuità delle pratiche amministrative da parte della famiglia dei Bruttii Praesentes non ci è dato sapere se la villa sia entrata a far parte del patrimonio degli Antonini.
Altri oggetti di vita quotidiana e lavorativa
Numerosi sono gli oggetti di vita quotidiana rinvenuti nella villa:
- piatti, coppe, coppette in sigillata italica databili tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., decorate con motivi vegetali, animali o “a rotella” e spesso bollate sul fondo;
- le coppe in terra sigillata africana della fase Antonina, con decorazione vegetale;
- pettini in osso lavorato;
- lucerne per l'illuminazione dei vani, del tipo “a protomi di cigno”, a disco, con becco tondo;
- oggetti di ornamento come anelli e vaghi in ambra e in pasta vitrea;
- fibule in bronzo, del tipo “a cerniera” o a soggetto zoomorfo, riproducenti pavoni, colombe e cavalli;
- monete in bronzo e in argento.
Sepolture
Successive all'abbandono della villa sono sette sepolture, sei monosome e una bisoma. Un esempio è offerto da due tombe rinvenute all'interno della pars urbana: la prima accoglie una mamma deposta supina con un braccialetto in sottile verga di bronzo ancora indossato al polso e la seconda invece accoglie il suo bambino molto piccolo, forse morto subito dopo la nascita.
Queste due sepolture sono particolarmente interessanti per la presenza di una brocca posizionata verticalmente nel terreno, da interpretarsi come strumento utilizzato nell'antica pratica cristiana del refrigerium. Tale pratica consisteva in una serie di gesti volti a "refrigerare" il defunto per ottenerne la beatitudine eterna. Le due sepolture, pertanto, rappresentano una delle più antiche testimonianze della diffusione del cristianesimo in Basilicata.

L'importanza che la villa di Barricelle a livello archeologico riveste nel territorio della Lucania antica e più in dettaglio della Val d'Agri, unita alla cooperazione tra Eni e Ministero per i Beni e le Attività Culturali hanno portato all'ideazione del “Progetto di recupero, di valorizzazione di fruizione della Villa di Baricelle” avanzato nel luglio 2008.
Il progetto prevede l'inserimento del nuovo sito in località Barricelle nel tradizionale tour guidato al parco archeologico e al Museo della città Romana di Grumentum.
Eni e la Soprintendenza per i Beni archeologici della Basilicata nel 1999 hanno stipulato un accordo in occasione dell'avvio dei lavori per la costruzione dell'oleodotto che permette a Eni di costruire le condotte salvaguardando il territorio grazie alle attività di archeologia preventiva.
Il ritrovamento ha impedito di ultimare la costruzione della condotta e, vagliato l'alto livello di antropizzazione dell'area, non è stato possibile individuare un percorso diverso da quello originario. Dunque si è deciso di realizzare un microtunnel costruito a una profondità tale da passare sotto la villa e da non interferire con le ricerche future.


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