venerdì 11 luglio 2025

Sicilia - Monte Bubbonìa

 


Il monte Bubbonìa è una maestosa collina di 595 metri situata nel territorio del comune di Mazzarino, a 20 chilometri in linea d'aria della città di Gela. È composta da tre piattaforme digradanti da occidente verso oriente, delle quali la più occidentale è la più elevata. Vi si giunge dopo aver percorso per un tratto la SS 117 Gela-Catania, imboccando lo svincolo per Piazza Armerina. Percorsi 9 chilometri, un incrocio apre sulla sinistra al vecchio asse viario per Mazzarino, segnalato da un opportuno cartello turistico che specifica l'esistenza di questa strada su un'antica mappa stradale romana conosciuta col nome di Itinerarium Antonini.
La conformazione dei terreni della collina, sotto l'aspetto geologico, è relativamente recente, a parte l'impianto calcareo di base di età miocenica coperto nel Pleistocene inferiore da marne siltose e quarzareniti e, in ultimo, da sabbie rosse molto incoerenti che ne fanno un'altura parecchio friabile e polverosa. Sotto il ciglio di una strada sterrata che percorre il fianco orientale del monte e sale verso l'acropoli, si osserva un dolmen "a camera" della lunghezza di 2,20m. La forma del monumento ricorda analoghe architetture presenti in Sardegna e in Puglia.
Sulla sommità del monte fu scoperta da Paolo Orsi un'antica città che, successivamente, l'archeologo Piero Orlandini pensò di riconoscere come la sicana Maktorion (Erodoto VII,53). Le rovine di monte Bubbonìa, comunque, non sembrano essere anteriori al VI secolo a.C., e questo fatto pone dei vincoli sull'identificazione dell'antico abitato.

Sicilia - Necropoli paleocristiana di contrada Stefano

 


La necropoli paleocristiana di contrada Stefano è un sito archeologico che si trova in Sicilia, nei dintorni a est di Favara, nell'agrigentino, in un'area pianeggiante detta appunto "contrada Stefano".
Presenta testimonianze di vita risalenti alla prima età del bronzo, e dal periodo romano - bizantino a quello normanno. Comprende più di cento tombe scavate a cielo aperto nella roccia e risalenti ai secoli V e VI d.C., già note agli inizi del Quattrocento.
L'area è stata oggetto di numerosi scavi, tra cui quelli condotti dall'archeologo Giuseppe Castellana .
Sono presenti tombe a grotticella artificiale, della prima età del bronzo e una necropoli paleocristiana, che si trova tra due speroni di roccia dove sono ricavate le tombe.
A 300 m a nord ovest della necropoli sono stati rinvenuti i resti di una villa romana, risalenti alla fine del IV - inizi del V secolo. La villa comprende strutture absidali in opus caementicium e tracce di mosaici policromi, che fanno pensare a un uso residenziale.
Vicinissimi alla necropoli paleocristiana sono stati rinvenuti i resti di muri dello spessore di 1 m che delimitano un ambiente di 8 x 16 m, suddiviso in due parti da un muro interno. Questo edificio è strettamente collegato ad un casale medievale del XII secolo, come testimoniano alcuni ritrovamenti (ceramica invetriata e una moneta del periodo normanno). La struttura è stata interpretata come una torre rettangolare, che richiama per dimensioni e forma le altre torri dei secoli XII e XIII presenti nel territorio di Favara e nelle aree vicine.
Un documento del 1408 riporta nel luogo la presenza di un casale Stephani, suddiviso in diverse proprietà.


Sicilia - Rocca Pizzicata

 


Rocca Pizzicata è un complesso rupestre presso l'omonima rocca sito nella Valle dell'Alcantara, nel territorio tra i comuni di Roccella Valdemone, Mojo Alcantara e Randazzo.
Per quanto non esistano dei saggi di scavo archeologico appare evidente la presenza di diverse preesistenze archeologiche rupestri come delle tombe, abitazioni e persino un altare (foto sotto).
Recentemente si è sospettata la possibilità che esso sia, similmente al vicino altopiano dell'Argimusco un sito archeoastronomico, per cui siano presenti degli allineamenti legati ai cicli stagionali.
Il sito sorge su una proprietà privata ed è visitabile previa prenotazione.



Sicilia - Abaceno

 


Abaceno o Abacano (in latino: Abacaena o Abacaenum, in greco antico: Ἀβάκαινον o in greco antico: Ἀβάκαινα) era un'antica città della Sicilia.
La città, le cui origini sembra risalgano al periodo siculo, poi ellenizzata, sorgeva nel territorio dove Dionigi di Siracusa fondò la città di Tindari (396 a.C.), situata in prossimità dell'attuale cittadina di Tripi, comune italiano della città metropolitana di Messina, ove nel secolo XVI si scorgeva un largo campo di rovine antiche, in parte ancora esistenti.
In seguito alla progressiva colonizzazione greca della Sicilia anche Abacena si adattò alla nuova cultura ellenizzandosi. Partecipò assieme a tante altre città sicule alla sollevazione di Ducezio, ma in seguito alla sconfitta entrò nell' "Arcontato di Sicilia" di Dionisio I che aveva unificato sotto il proprio controllo, in una sorta di monarchia, tutta la Sicilia posta ad est del fiume Salso, inclusi pure molti centri abitati dai Siculi.. Durante questo periodo, ebbe una zecca con proprie emissioni monetali.
Diodoro Siculo scrive che il suo territorio venne in gran parte espropriato da Dionisio I, Tiranno di Siracusa, in seguito alla fondazione di Tyndaris avvenuta verso il 396 a.C., per lo stanziamento di soldati mercenari. In seguito a ciò la città decadde progressivamente, probabilmente a causa dell'espansione di Tindari, anche se era ancora in piedi nel II secolo d.C., dato che Claudio Tolomeo la cita nella sua opera Tetrabiblos (III, 4).
In seguito agli eventi della lotta tra Sesto Pompeo e Cesare Ottaviano (il futuro imperatore Augusto) Abaceno venne distrutta da quest'ultimo nel 36 a.C.
Testimonianze archeologiche suggeriscono che nella zona di Abaceno durante il medioevo ci fosse una qualche roccaforte montana di grande importanza strategica a causa dell'instabilità di alcuni periodi.
Esistono monete di Abacano sia in argento che in bronzo. Alcune presentano al rovescio un cinghiale e accompagnato, come simbolo da una ghianda, allusione, secondo Smith, alle foreste che circondavano la città durante la sua esistenza.


Sicilia - Mendolito

 

Mendolito è una contrada da cui prende il nome un importante sito archeologico in Sicilia, nei pressi dell'odierna Adrano.
La contrada, che appare abbandonata e sempre più spopolata, fino alla prima metà del XX secolo era caratterizzata da agrumeti, per lo più coltivati ad arance, di cui rimangono ancora i singolari terrazzamenti, perfettamente ortogonali e ottenuti con muretti a secco in rocce vulcaniche, alimentati da saie in terracotta e cemento. Sopravvivono delle antiche coltivazioni gli ulivi e pochi alberi da frutta.
Il sito archeologico, senza denominazione, è considerato particolarmente importante per il cospicuo ripostiglio bronzeo e per l'unica iscrizione in lingua sicula di carattere monumentale ad oggi pervenuta.
Il toponimo è da ricollegarsi al siciliano minnulitu 'mandorleto', derivato a sua volta da mènnula.
La frequentazione dell'area si è ipotizzata a partire dall'XI-IX secolo a.C., sebbene più a est e più in alto in quota si trovi la Grotta del Santo, frequentata già in età castellucciana (prima metà del III millennio a.C.).
Una serie di capanne relative alla facies etnea della cultura sicula iniziarono a costituire un villaggio certamente nel corso dell'VIII secolo a.C., periodo a cui appartengono i ritrovamenti più antichi rinvenuti negli scavi compiuti presso le aree abitative. La formazione di una cittadella si potrebbe ipotizzare quale conseguenza al sorgere delle prime poleis sicheloe, ossia le città fondate dai coloni greci in Sicilia durante la fine del secolo.
L'accrescimento del potere, la conquista di porzioni sempre più consistenti di territori e la fondazione di sub-colonie da parte delle città greche porta il villaggio alla realizzazione di una massiccia opera di fortificazione in emplekton nel corso della seconda metà del VI secolo a.C., di cui ci rimane una maestosa porta stretta tra due profonde torri "a ferro di cavallo", quasi certamente rifatta in più parti, come testimonia una parete della torre ovest da cui emerge una struttura precedente dagli angoli a blocchi ben squadrati, inglobata dal resto del fortilizio a grosse pietre poligonali. Il villaggio conosce l'abbandono nel corso del V secolo a.C., forse a seguito della fondazione di Adranon.
Nel corso dei secoli il sito, ormai spopolato, assume un carattere decisamente rurale: mai del tutto abbandonato - resti di tegole ellenistiche e frammenti di ceramica romana possono far pensare alla presenza di una comunità contadina - divenne tappa obbligata per il passaggio del fiume Simeto, mediante un ponte edificato originariamente in età romana.
Tale struttura venne ricostruita nel corso della dominazione normanna dell'Isola e prese il nome di Ponte dei Saraceni.
Poco più a sud in contrada Sciarone è invece attestata la presenza di un culto a Santa Domenica, in un tempio forse di epoca bizantina ricostruito al tempo del Conte Ruggero e di sua nipote Adelicia, e il culto di Santa Maria, forse tempio normanno che nel XVII secolo assumerà il titolo di Santa Domenica sostituendo definitivamente il precedente, nella contrada Santa Domenica. Relativo al periodo normanno il Mendolito è chiamato casale Bulichel e viene ceduto dalla contessa Adelicia con tutti i villani saraceni che lo popolavano al costruendo monastero di S. Lucia in Adernione nel 1158.
Nel 1631 viene fondato poco oltre il borgo rurale di Carcaci, in seguito parte del territorio di Centuripe, dove venne realizzato tra il 1765 e il 1777 il ponte acquedotto del principe di Biscari Ignazio Paternò Castello.
Tra il XVIII e il XIX secolo la contrada Mendolito viene lottizzata e vengono realizzati imponenti terrapieni disposti in filari ortogonali e regolari, alimentati da saie, mentre notevoli residenze rurali riempivano i campi coltivati. La campagna appare piuttosto popolosa se nel 1826 venne istituita con real decreto una fiera da tenersi per la ricorrenza di Santa Domenica presso la chiesa omonima, evento protratto fino alla metà del XX secolo. La metà meridionale del sito veniva acquistato dalla famiglia Sanfilippo, cui ancora appartiene.
Negli anni 1920 venne realizzata una piccola chiesetta che sostituiva il vecchio luogo di culto, ormai pericolante. Tra il XIX e il XX secolo iniziarono le prime indagini archeologiche in senso moderno della cittadella sicula.
Nel corso del XX secolo, come molte altre aree rurali della Sicilia, la contrada venne via via abbandonata e i terreni lasciati incolti. Nel corso del XXI secolo la zona Manganello, a ridosso con la contrada Mendolito, sebbene tutelata in qualità di SIC (79/409 CEE) è frequente vittima di discariche abusive.

La fondazione della città viene fatta risalire all'XI-IX secolo a.C., in un'ansa del fiume Simeto tra Adrano e Centuripe.
Il luogo ricco di vegetazione e al sicuro da attacchi da parte dei nemici era un luogo ottimale per far sorgere una città. Fu un importante centro per la lavorazione dei metalli. L'area archeologica si estende per circa 80 ettari tra le contrade Mendolito, Mendolitello, Polichello e Sciare Manganelli e comprende una serie di edifici rinvenuti nel corso degli anni 1960, 1980 e 2000, nonché una lunga porzione di mura perimetrale e la porta sud dell'abitato. L'area comprende diversi fondi privati non ancora soggetti ad esproprio.
Necropoli
La città aveva presso la contrada Sciare Manganelli la sua necropoli meridionale, a distanza non eccessiva dalla porta sud. Qui vennero alla luce durante le campagne di scavo di Orsi alcune tombe in pianta circolare definite dall'archeologo triestino tholoi. Dette tombe dovevano probabilmente essere chiuse da filari in pietra digradanti verso un centro in alto formando una pseudocupola.
Altre quindici tombe a tholos vennero scoperte dalla Pelagatti; queste erano formate da un unico ambiente ovoidale o circolare cui si accedeva da un piccolo dromos, mentre il pavimento era ricavato dal banco roccioso. Si è ipotizzato che fossero destinate ad accogliere più individui monofamiliari.
I corredi, differenziati, erano composti da ceramiche locali nello stile di Licodia, ceramiche di importazione greca, oggetti in bronzo e scarabei pseudo-egizi in faience. La necropoli non appare precedere la metà dell'VIII secolo a.C. e la sua frequentazione appare concentrata tra il VII e il V secolo a.C..
Nella proprietà Stissi rinvenne un tipo di sepoltura diversa dalle precedenti: una deposizione alla cappuccina di tipo greco databile al V secolo a.C.. Altri tipi di sepoltura, ancora, sono ad enchitrismos entro contenitori in terracotta sepolti al di sotto dei pavimenti delle abitazioni. Si tratta delle sepolture di bambini molto piccoli relative al VII secolo a.C..
Abitazioni
Il villaggio, circondato da una spessa cortina muraria (chiamata localmente u murazzu), era costituito da residenze in pianta quadrangolare di modeste dimensioni, datate al VI-V secolo a.C., e in un caso è venuto alla luce un lungo edificio di pianta rettangolare orientato in senso nord-sud, suddiviso in quattro ambienti più piccoli da tre serti murari.
Le abitazioni si presentavano tutte in muratura a secco, mediante l'uso di pietre vulcaniche di varia dimensione e nel caso dell'edificio maggiore fin qui ritrovato la copertura era a tegole di terracotta.
Tale copertura ha un valore sociale importante ed è indice di una notevole influenza da parte del mondo greco nei confronti delle realtà indigene le quali usavano in principio materiale deperibile come paglia e fango per la copertura delle capanne. Inoltre conferma quanto già era sospettato dal modello di tempietto da Sabucina, sebbene questi di contesto sicano, ossia che gli indigeni accolsero facendo proprie le innovazioni architettoniche alloctone adattandole alle proprie esigenze.
Gli edifici noti sono soprattutto residenze private e sebbene non siano ancora pervenuti edifici identificabili quali santuari di carattere pubblico, non mancano indizi concreti dell'esistenza di tali strutture, come gli originali capitelli in pietra lavica vagamente ispirati agli stili ionico e dorico o i frammenti di colonne a sezione ottagonale e le numerose antefisse (in numero maggiore a testa di menade, ma anche a protome leonina o gorgonica). Alcuni dei resti architettonici vennero rinvenuti all'"interno della porta", il che farebbe ipotizzare alla presenza di un edificio cultuale o di carattere pubblico presso la porta meridionale, di poco entro le mura.
Porta Sud

Nel biennio 1962-63 la Soprintendenza Archeologica di Siracusa identificò la porta cittadina sul lato meridionale della cortina muraria e nel liberarla venne alla luce nello stipite orientale un blocco in arenaria recante un'importante iscrizione in caratteri greci, ma in lingua anellenica (Siculo). Si tratta di una scriptio continua graffita da destra a sinistra sulla faccia esterna del blocco il cui significato è ancora indecifrato.
Alcune lettere sono state diversamente interpretate: ad esempio, anziché tento si dovrebbe leggere teuto interpretato come 'popolo', ma anche ricondotto al nome sicano Teùtos.
Il blocco venne asportato e custodito al Paolo Orsi. Negli ultimi anni 2000 si provò a riottenere per la città di Adrano il pezzo, ma la replica da parte dell'allora direttore del museo Beatrice Basile fu negativa, sebbene non negò la possibilità di farne un calco fedele mediante riproduzione virtuale a seguito di laser scanner.
La porta è formata da due lunghe torri culminanti a semicerchio tra cui è ricavato uno stretto corridoio che dava sull'unica apertura; la tecnica edilizia è ad emplekton e fa largo uso di pietre poligonali framezzate da cunei. Vi si accedeva mediante una gradinata a pendenza lieve e di passo lungo, mentre il rinvenimento di un crollo di tegole presso il punto più stretto tra le due torri fa pensare all'esistenza di una sorta di tettoia in prossimità dell'apertura.
Il resto della cinta muraria appare meno omogenea, probabilmente a seguito di restauri successivi alla sua prima erezione. La cinta probabilmente circondava i lati nord, est e sud, lasciando sguarnito il lato occidentale in quanto si trovava affacciato su scoscese pareti rocciose.
Ripostiglio
Il ritrovamento del celebre ripostiglio avvenne per opera di un contadino in modo casuale nel 1908: nel fondo Ciaramidaro egli rinvenne un dolio (vaso di grandi dimensioni), al cui interno erano ben conservati numerosissimi manufatti in bronzo databili tra la fine dell'VIII e la prima metà del VII secolo a.C.
Il grosso degli oggetti (circa 800 kg) era costituito da armi e pani di bronzo (veri e propri lingotti ottenuti con la rifusione di altri oggetti), mentre il resto del tesoretto consiste in cinturoni in lamina a sbalzo, asce, punte di lance, zappe, schinieri, coltelli, rasoi, anelli, pendagli, bracciali, fibule, usate come pagamento.
Parte del tesoretto venne disperso nel mercato antiquario e si deve alla certosina pazienza dell'archeologo Paolo Orsi il recupero di gran parte dei manufatti, raccolti poi nel nascente museo archeologico di Siracusa.
La presenza di un bottino così cospicuo, tale da essere per quantità di oggetti il secondo in Italia, ha portato alcuni studiosi a ipotizzare la presenza di una fonderia connessa ad un santuario o al tesoro di una corte principesca.
Dal sito provengono anche altri numerosi bronzetti non connessi al ripostiglio, ma testimoni del febbrile interesse per tale metallo da parte dei siculi che abitavano il villaggio.
Uno su tutti il Bronzetto o Efebo di Adrano, statuina di circa 19,5 cm in stile severo del 460 a.C. circa, ritrovato in contrada Polichello e raffigurante un atleta nudo offerente, attribuito da alcuni studiosi a Pitagora di Reggio, scultore autore di diverse statue di atletici, o anche ritenuto una copia in scala di una sua opera; detta statuina è esposta al Paolo Orsi di Siracusa.
Altra notevole opera è il Banchettante databile al 530 a.C. circa, trovato nel 1945, rappresentante una figura virile durante un banchetto e che trova confronti con analoghe tipologie in ambienti etruschi e magno-greci.
Nel 1962 l'archeologa Pelagatti rinvenne presso la parete orientale della porta della città un'epigrafe databile alla seconda metà del VI secolo a.C. su due righe da destra a sinistra in una lingua non ellenica. La lingua non è stata ancora decifrata e costituisce un'importante testimonianza oggi esposta al Museo Paolo Orsi di Siracusa.
Identificazione
L'identificazione della anonima città si tentò sin dalla sua scoperta e individuazione da parte del prevosto Salvatore Petronio Russo il quale battezzò il villaggio rinvenuto Simaethia.
Orsi preferì una prudente Città sicula del Mendolito, senza sbilanciarsi in congetture, mentre Jenkins propose l'identificazione con Piakos sulla base dei ritrovamenti numismatici e Bernabò Brea propose piuttosto l'identificazione con Paline, sede dell'antico culto del dio Adranos, seguendo la tradizione dettata da Diodoro Siculo.
Tuttavia ancora nessuna ipotesi ha trovato conferma archeologica e il sito prende genericamente il nome dalla contrada, seguendo la denominazione che diede Orsi.
A scoprire il sito, come detto, fu alla fine del XIX secolo il prevosto Salvatore Petronio Russo, studioso adranita che identificò parte delle mura e dell'abitato. Egli ritenne che il sito dovette chiamarsi Simaethia, traendo il nome dal vicino fiume Simeto, presso cui sorgeva la cittadella.
Negli anni 1898-1909 l'archeologo Paolo Orsi si occupò degli scavi in zona, ampliando le ricerche nell'abitato e a sud, presso le Sciare Manganelli, dove identificò una necropoli a tholoi. Nel periodo in cui egli si interessò alla contrada del Mendolito si rinvenne occasionalmente il grande ripostiglio da circa 800 kg in bronzo nel fondo Ciaramidaro; fu poi cura dell'archeologo acquistare i vari pezzi che erano stati dispersi dal luogo di rinvenimento. La pubblicazione dei suoi Taccuini di scavo avvenne settanta anni dopo per opera dell'archeologa Paola Pelagatti, la quale tornerà a scavare nel sito a partire dal biennio 1962-1963. In questi anni verranno alla luce la Porta Sud e la lastra in pietra calcarea incisa in caratteri greci e lingua sicula. Nel corso di tali scavi vennero alla luce anche altre sepolture ed abitazioni, nonché resti architettonici di un edificio di culto o pubblico.
Altri scavi vennero compiuti dalla Sovrintendenza di Catania sotto la conduzione dell'archeologa Gioconda Lamagna nel biennio 1988-1989. In questa occasione si ampliarono le conoscenze dell'abitato nel predio Sanfilippo e si identificò un grande edificio allungato a pianta rettangolare diviso da tre pareti interne in quattro ambienti di diversa dimensione.
Gli ultimi scavi compiuti sempre sotto la direzione della Lamagna vennero iniziati nel 2009 per concludersi nel mese di febbraio dell'anno successivo, grazie all'ausilio dei volontari di Siciliantica che vennero distribuiti in sei turni di quattro giorni ciascuno.

Sicilia - San Miceli

 

San Miceli è un sito archeologico che si trova nel territorio di Salemi, in una fertile conca ai piedi della collina su cui sorge l'odierna cittadina.
Nel 1893 Antonino Salinas, dopo alcuni fortuiti rinvenimenti che ne avevano preannunciato l'esistenza, effettuò un intervento di scavo riportando alla luce i resti di quello che a seguito di indagini più recenti si è rivelato essere uno dei più importanti insediamenti paleocristiani della Sicilia. Furono rinvenuti la muraglia di edifici, colonne marmoree, suppellettili varie, numerosi sepolcri, forniti di un vero e proprio arredo funebre e gli avanzi di una piccolissima basilica con pavimento a mosaici.
La prospezione archeologica ha fatto risalire il primo periodo di frequentazione della conca di San Miceli all’età ellenistica, III-II sec. a.C., su cui poi si sviluppò, per la sua favorevole posizione topografica, un modesto complesso rurale che in seguito, tra il IV ed il VI secolo, assunse maggiore rilevanza acquisendo probabilmente l’aspetto di un borgo rurale, vicus, con una piccola solidale comunità cristiana.
Nell'ambito del sito archeologico, particolare importanza assume la basilica, seppure di modeste dimensioni, posta nell'area del sepolcreto. Ha una pianta rettangolare, più larga che lunga, due file di cinque colonne, un'aula divisa originariamente in tre navate e una piccola abside centrale posta ad occidente, di fronte all'ingresso principale situato ad oriente. Le mura sono in opus incertum con un nartece o per lo meno un protiro e la copertura era con tetto di legno a spioventi, ricoperto da tegole, la cui esistenza è attestata dai resti bruciati di travi, coppi, tegole e carboni, rinvenuti nel manto terroso che ricopriva il pavimento. Di conseguenza si presume che la distruzione della basilica sia avvenuta a causa di un incendio che determinò anche il suo abbandono. Una volta distrutta la parte in elevazione il suolo ha conservato i tre strati di pavimento a mosaico, di diversa età e di differente valore stilistico. Nel primo strato fu rinvenuta un'epigrafe in lingua latina con lettere bianche su fondo rosso, le cui tessere di dimensioni più piccole rispetto a quelle degli altri strati sono ben squadrate e levigate. A circa 35 cm di profondità si trova lo strato intermedio di mosaico. Sebbene sia di fattura meno curata rispetto al precedente, è dei tre il più significativo sia per l’interezza di insieme, sia per l'importanza delle epigrafi dedicatorie in greco e in latino in esso contenute. Formato da tasselli di tre tinte: il bianco fatto con tipo di calcare rupestre in Sicilia chiamato lattimusa, il nero fatto con una pietra bluastra simile all'ardesia scalcinata, il rosso di terracotta. Malgrado la fattura delle tessere sia piuttosto irregolare e la gamma cromatica limitata a soli tre colori, i toni risultano equilibrati e le tinte raffinate. Sotto questo pavimento furono rilevate le tracce di un terzo strato di mosaico a decorazione lineare, formato da tasselli mal connessi e molto rozzi.
Dalla sovrapposizione dei tre strati risulta evidente che la basilica ebbe un lungo periodo di vita con vari rifacimenti subiti in epoche diverse. L’analisi cronologica dei manufatti porta a dedurre che la rovina sia avvenuta intorno al 550, al tempo delle incursioni barbariche guidate da Totila.
Nel 1966 i mosaici furono restaurati dalla Soprintendenza alle Antichità di Palermo e racchiusi in una moderna costruzione. Malgrado tutto furono oggetto di cieco vandalismo che tuttavia non riuscì fortunatamente a disperdere il patrimonio archeologico.

Sicilia - Area archeologica di Sofiana

 

L’abitato di Sofiana è in territorio del Comune di Mazzarino (CL); è stato inserito nel Parco Archeologico di Morgantina e della Villa Romana del Casale di Piazza Armerina in modo da agevolare sia la ricerca scientifica sia la fruizione, in rapporto alla vicina Villa del Casale di Piazza Armerina. Scavi archeologici sono stati condotti tra il 1954 e il 1961 e dal 1986 in poi. Inizialmente si era pensato a un insediamento rurale a servizio della vicina grande villa di Piazza Armerina; le indagini degli ultimi anni hanno portato a capire che si si tratta di un centro urbano di nuova fondazione sorto in seguito al riassetto della Sicilia in età augustea. La strada Catania-Agrigento è la sola che non ripercorre viabilità precedente; collega Catania, una delle colonie di nuova istituzione, con Agrigento, che mantiene la sua importanza per l’età imperiale: è chiaro che la nuova arteria incide sull’assetto del territorio; Sofiana è esattamente a metà del nuovo tracciato viario.
Dal tardo I secolo a.C. sorgono diversi insediamenti rurali soprattutto nell’area a sud del sito; interessante il fatto che lo spazio pianeggiante a sud-est sembra mostrare una divisione degli appezzamenti modulare, coerente con l’orientamento della maglia stradale urbana, possibile segno di assegnazioni di terra al momento della fondazione. La città, sin dal momento iniziale, mostra segni di ricchezza; ma non sono stati individuati segni di attività amministrativa e politica, edifici pubblici: è probabile che tale attività si concentrasse fondamentalmente nelle coloniae. La continua occupazione fino al XIII secolo fornisce importanti dati.
Una domus gentilizia a peristilio si data, nell’impianto originario, tra la fine del I secolo a.C. e il I secolo d.C. Le terme risalgono al 320-330 e si sovrappongono a un precedente edificio termale, con diverso orientamento. La basilica tardoantica, con annessa necropoli, presenta diverse fasi.

(da: Sicilia Archeologica, Il sistema dei Parchi)

Sicilia - Nave romana di Marausa

 

La Nave romana di Marausa è il relitto di una nave oneraria romana del III secolo d.C. recuperato a 150 metri dalla costa di Trapani.
Nel 1999 due subacquei dilettanti trapanesi, a poche decine di metri dalla spiaggia, a due metri sotto il livello del mare, sotto uno strato fangoso e di posidonia, rinvennero un relitto. Si trattava di una grossa nave romana del III secolo d.C., naufragata in un fondale di poco più di due metri, nei pressi del lido di Marausa, allora una frazione del comune di Trapani. L'operazione di recupero è stata completata nel 2011 dalla Soprintendenza del Mare, e il restauro eseguito dalla società "Legni e Segni della Memoria" di Salerno.
Si tratta di una nave da carico ben conservata, lunga circa 27 metri e larga 9 metri, ed è il più grande relitto dell'epoca mai tirato fuori nei nostri mari, affondato nei bassi fondali durante la manovra di ingresso nel fiume Birgi, che allora era una via navigabile.
È stato portato alla luce il doppio paramezzale centrale, l'aggancio dei madieri e si è potuta ipotizzare la struttura del pagliolato, costituito a tavole sfalsate a gradino. Le ordinate in legno di frassino erano, pertanto, inframmezzate tra il fasciame esterno in abete e il pagliolato. Il carico era costituito da anfore africane cilindriche 
Un secondo relitto di epoca romana è stato rinvenuto nel luglio del 2020 sempre davanti alla costa di Marausa, nel frattempo divenuta parte del comune di Misiliscemi. I lavori di recupero sono iniziati nel giugno 2023, sotto la direzione degli archeologi dalla Soprintendenza del Mare 
Gli oggetti recuperati sono esposti nella sezione archeologica del Museo Pepoli di Trapani, in particolare ceramiche e anfore.
La soprintendenza dei Beni culturali di Trapani aveva predisposto un progetto di conservazione e musealizzazione della nave presso l'isola della Colombaia dove verrà realizzata la sede espositiva contestualmente al recupero dell'omonimo castello. Il costo complessivo del progetto è di sette milioni e 300.000 euro, finanziato con fondi comunitari.
La decisione, nel settembre 2015, del governo regionale di trasferire la nave al museo archeologico Baglio Anselmi di Marsala, dove è già esposta una nave punica, ha generato dure prese di posizione del consiglio comunale di Trapani.
Dal 18 dicembre 2015 è conservata a Marsala, ed è esposta al pubblico dall'aprile 2019.

Sicilia - Relitto della nave punica di Marsala


Il relitto della nave punica di Marsala custodito nel Museo Archeologico Baglio Anselmi di Marsala è al 2007 l'unico esemplare di nave punica esistente. 
Per quanto riguarda la fabbricazione di navi, i punici erano famosi in tutto il mar Mediterraneo per l'abilità e la velocità con cui le costruivano. Questi infatti usavano una tecnica molto particolare che consisteva nel costruire pezzi singoli di nave, dei “prefabbricati”, che venivano segnati con lettere e segni particolari, creando una sorta di puzzle, che permetteva in modo semplice e veloce il riassemblaggio in un oggetto unico.
Nel 1969, durante i lavori di scavo da parte di una draga vennero scoperti dei vasi antichi e altri reperti nella zona di Punta Scario, al largo dell'Isola Grande, presso l'imboccatura nord della laguna dello Stagnone. Nel 1971 il movimento di un banco di sabbia fece emergere la poppa della nave a pochi metri sotto il livello del mare, nei pressi del canale artificiale punico (“fretum intraboream”) che oggi è andato perduto. Lo scavo iniziò immediatamente, affidato all'archeologa Honor Frost. Il recupero della nave è avvenuto tra gli anni 1971 e 1974.
Terminati gli scavi, i legni della nave vennero conservati in acqua dolce e successivamente montati e conservati in questo baglio, adibito per l'occasione a museo. Della nave punica di Marsala, purtroppo, si conservano solo alcune parti, che vengono comunque ammirate da molti studiosi e turisti di tutto il mondo.
Al momento della scoperta furono trovati, tra i resti dello scafo, anche altri oggetti che facevano comunque parte dell'imbarcazione o che appartenevano ai membri dell'equipaggio:
  • sassi usati per zavorra che, con molta probabilità, provenivano dalle coste laziali
  • ossa di animali tagliate a pezzi
  • noccioli d'oliva e gusci di noce (forse la nave affondò in un periodo autunnale o invernale, data l'assenza di resti di frutta fresca)
  • foglie di cannabis sativa (forse utilizzata per alleviare le fatiche dei marinai)
  • scopa in sparto (fibra vegetale utilizzata ancora oggi per fare i panieri)
  • corde “piombate”, ossia intrecciate e rinforzate grazie a uno strumento in legno terminante a punta e che ancora oggi viene utilizzato (la caviglia)
  • boccali, piatti, ciotole, un mortaio, tappi di sughero
  • un pugnale
Questi ed altri reperti sono stati analizzati con il carbonio 14 e concordano nel datare la nave alla metà del III secolo a.C..
A Marsala in un primo momento vennero esposti solo i pezzi di legno disassemblati, mentre la nave intera fu assemblata solo dopo che alcuni tecnici locali, i fratelli Bonanno, costruttori di barche e navi, riuscirono a ricostruire l'imbarcazione sotto la guida di Austin P. Farrar, un ingegnere navale della missione di scavo inglese, grazie alle lettere e ai segni presenti sul materiale recuperato.
Naturalmente va detto che non furono rinvenuti tutti i pezzi originari. Fu trovata solamente una parte di questi, ovvero la poppa e la fiancata di babordo, mentre altri pezzi sono stati montati su supporti appositi, visibili ad occhio nudo a causa del differente colore del legname. Dopo il rinvenimento, i legni vennero dapprima messi in vasche d'acqua dolce e, successivamente la nave venne reimmersa in una vasca con cera sintetica (polietelene glycol – PEG 4000 ad alta percentuale) dissolta in acqua a diverse concentrazioni e temperature.
La nave punica venne poi esposta nel museo nel 1978, ma per 21 anni rimase sotto un telone in quanto le condizioni architettoniche del museo non erano idonee per la sua corretta esposizione; infatti la si poteva ammirare soltanto tramite alcune finestrelle di plastica trasparente poste lungo le fiancate della copertura.
Nel maggio del 1999, ultimati i lavori che permisero la creazione di un clima adatto ad una conservazione ottimale, attraverso l'installazione di impianti di climatizzazione per mantenere umidità e temperatura costanti, venne tolto il telone e la nave fu esposta al pubblico.

La nave rappresenta un'importante testimonianza della Prima guerra punica, quindi è antecedente al 241 a.C.. Della nave punica si è conservata la parte poppiera e la fiancata di babordo, per circa 10 metri di lunghezza e 3 di larghezza. Rossella Giglio ipotizza che: «[...] ipoteticamente la lunghezza era di m. 35, la larghezza di 4,80, la stazza di tonnellate 120, con un possibile equipaggio di 68 vogatori, 34 per lato, che azionavano i 17 remi di ogni fiancata.».
La nave punica era costruita secondo la tecnica detta «a guscio portante», basata sulla realizzazione prima del fasciame e poi della struttura interna. La parte esterna era rivestita da lamiere di piombo, fissate con chiodi di bronzo, mentre un tessuto impermeabilizzante stava in mezzo tra il fasciame ed il rivestimento metallico. La parte interna, invece, era costituita da madieri e ordinate, rispettivamente costruite in quercia e acero le prime, e in pino e acero le seconde, mentre il fasciame era realizzato in pino silvestre e marittimo. I segni geometrici che si trovano sulla nave costituivano le linee-guida per la costruzione della stessa e costituiscono, già da soli, una testimonianza di grande importanza.Aveva un'àncora,una chiglia e un rostro.
Sono numerose le questioni ancora aperte sulla nave punica di Marsala. Prima di tutto ci si chiede ancora se fosse una nave da guerra o una nave oneraria (da carico) anche se addirittura c'è chi mette in dubbio che fosse effettivamente una nave punica.
Caratteristica importante di questo tipo d'imbarcazione era il rostro, elemento tipico delle navi puniche da guerra, una punta di bronzo o lignea posta sulla prua sotto il livello del mare, che serviva a speronare le navi nemiche e che dopo lo scontro si staccava dalla chiglia facendo affondare la nave speronata. Anche se della nave di Marsala si conserva solo una parte della poppa, gli studiosi suppongono che a prua ci potesse essere un rostro, proprio come quello che si è trovato nel 2004 a Trapani in quanto intorno ai legni ricurvi del lato di prua sono state rinvenute tracce di tessuto imbevuto di resina e un frammento di lamina di piombo.
Ciò fa pensare che probabilmente questa nave fosse una nave da guerra, teoria sostenuta dall'archeologa Honor Frost, dalla Giglio e da molti altri studiosi
A favore di questa tesi, ci sarebbe anche la questione della datazione, che il test del carbonio 14 fissa alla metà del III secolo a.C. Sulla scorta di questi dati la Giglio sostiene che la nave «con tutta probabilità affondò il 10 marzo del 241 a.C., nel corso della battaglia navale combattuta nel mare delle Egadi che concluse la prima guerra punica».
Maurizio Vento, docente di latino nei licei e autore di un testo sull'argomento, sostiene che si tratta di una nave da trasporto, in quanto le misure e la forma coincidono con quelle delle classiche navi puniche onerarie. Egli inoltre sottolinea che l'identificazione fatta dalla Frost fosse più legata al fatto che all'epoca del rinvenimento, il ritrovamento di una nave punica da guerra costituiva un vero e proprio sogno per gli archeologi. Come scrive infatti la Frost alla vigilia del rinvenimento: «[…] Ancora una volta non si può dire niente fin quando uno scavo sarà stato realizzato, eccetto che la scoperta di una nave da guerra antica è da un secolo il vecchio sogno degli archeologi navali. Nessun relitto di questo genere è stato mai scoperto […]». Sono affermazioni che svelano, secondo Maurizio Vento che «prima ancora che fossero visitati scientificamente i reperti» esisteva il proposito «di voler materializzare quel sogno, non tenendo conto di molti fattori che, pur messi in luce da tempo, vengono generalmente trascurati».
I dubbi di Vento vengono alimentati ulteriormente anche dal fatto che in questa nave si sia trovato « il vasellame (ciotole, macine per granaglia, poche anfore per l'acqua potabile, per il vino e per la salsa di pesci), i rifiuti degli alimenti (come resti ossei di animali da cacciagione o come resti vegetali quali noccioli di frutta secca, di olive in salamoia), numerosi oggetti (come legna da ardere, tappi di anfore, cordami, canapa per spaghi e stoppa, pece, punteruoli per funi, attrezzi da pesca) che fanno tutti parte del normale corredo delle navi onerarie e sono presenti pure a bordo della nave punica di Marsala» – e, invece, non si sono trovati – «i moltissimi remi (che permettevano le rapide mosse strategiche per colpire il fianco della nave nemica), le catene dei numerosi rematori e i banconi dove sedevano» – ma soprattutto – «il rostro bronzeo tricuspidato, le varie armi (scudi, corazze, spade, pugnali ecc.), e poi materiali di ricambio, argani, carrucole, arnesi vari, e tutto ciò che è facile immaginare fosse il consueto corredo di una nave bellica».
Un'altra considerazione importante viene fatta da Piero Bartoloni citato da Maurizio Vento, e cioè che «le navi onerarie di Cartagine erano lunghe tra i 20 e i 30 metri, con una larghezza compresa tra i 5 e i 7 metri, e avevano un tirante d'acqua di circa un metro e mezzo, analogo all'altezza dell'opera morta» - e ancora - «tra la carena ed il pagliolo era situata la zavorra, costituita da pietrame in schegge ed eventualmente sostituita con sabbia se il carico era costituito da anfore; per attutire gli urti delle pietre contro i corsi, veniva disposta una coltre di fogliame. Lo stesso carico costituiva parte necessaria della zavorra, come è dimostrato indirettamente da una delle navi puniche di Punta Scario, all'interno della quale è stata rinvenuta una certa quantità di pietrame che, a quanto risulta dalle analisi effettuate, proveniva probabilmente dalla costa settentrionale del Lazio». E conclude dicendo che «questo rinvenimento […], secondo il nostro avviso, dimostra che la nave in questione era giunta carica nel porto etrusco e che, una volta scaricati i prodotti importati e non essendovi nulla da caricare per il viaggio di ritorno, la sua zavorra era stata sostituita con del pietrame locale». Maurizio Vento conclude dicendo che «la nave oneraria […] sarebbe dunque naufragata per un errore del nocchiere, dovuto o ad imperizia o più probabilmente a cause naturali (come, ad esempio, una tempesta), al momento di virare nei pressi del Borrone, lungo l'unica rotta praticabile che consentisse di approdare in quella che un tempo era stata la Cartagine siciliana».

Sicilia - Navi greche di Gela

 


Le navi greche di Gela sono tre imbarcazioni della fine del VI-inizi del V secolo a.C. rinvenute in prossimità della città di Gela, colonia dorica fondata nel 689 a.C. e importante emporio commerciale sulla costa meridionale della Sicilia. La prima nave, recuperata completamente nel 2008, è stata restaurata nel 2014 ed è stata esposta al pubblico in occasione della mostra "Ulisse. L'arte e il Mito" allestita pressi i Musei di San Domenico di Forlì e successivamente, nel 2022, presso un padiglione sito nel Bosco Littorio di Gela.
La scoperta della prima nave venne effettuata nel 1988 da due subacquei su un fondale argilloso e sabbioso a circa 4 m di profondità, a circa 800 m dalla costa (località Bulala) e a circa 2 km ad est della foce del fiume Gela, anticamente il porto-canale della città. Grazie alle caratteristiche del fondale la nave era molto ben conservata nella sua struttura lignea e conservava un carico vario, coperto da uno strato di pietre utilizzate come zavorra.
La nave era una nave da carico di grandi dimensioni (21 x 6,50 m), esempio unico di nave antica costruita con una tecnica particolare, già citata da Omero nel II libro dell'Iliade: il fasciame della carena era infatti "cucito" con fibre vegetali.
La nave è stata recuperata con due campagne di scavo nel 2003 (madiere della prua) e nel 2008 la poppa. Dopo il recupero venne restaurata nei laboratori specializzati di Portsmouth in Gran Bretagna. Restituita nel 2014, la nave avrebbe dovuto essere esposta nel "Museo della navigazione greca" di Gela, ma nonostante i 5 milioni e mezzo di euro stanziati dalla Regione Siciliana, prelevati dal Fondo Europeo, nessuno lavoro di allestimento è stato compiuto e la nave rimane a pezzi in circa 40 scatoloni.
Il carico era composto di oggetti caricati in varie località, a partire dal mar Egeo, probabile origine della navigazione. Le ceramiche a vernice nera e a rossa indicano anche una sosta nel porto di Atene. Da varie località provengono inoltre le anfore di varia origine, probabilmente contenenti vino e olio, e altre merci che erano state collocate in cesti rivestiti di pece. Nei diversi porti la nave aveva inoltre caricato pietre per la zavorra, che dovevano sostituire le merci sbarcate e sono di varia provenienza.
Alcuni degli oggetti trovati venivano utilizzati dei marinai: sia le ceramiche trovate nella cambusa, sia oggetti di culto che testimoniano le pratiche religiose durante la navigazione.
Una seconda nave, probabilmente databile alla fine del V secolo a.C. e di dimensioni inferiori, giace sui fondali a breve distanza dal primo relitto, ma più vicina alla costa. Anch'essa è ben conservata, ma il suo recupero non è stato ancora effettuato.
Un terzo relitto greco arcaico è stato recentemente individuato alla foce del fiume Dirillo che segna il confine tra le province di Caltanissetta e Ragusa (e tra i comuni di Gela ed Acate). Tale scoperta, avvenuta per caso durante i lavori di scavo per la posa del gasdotto libico, conferma l'importanza archeologica che riveste l'area del Golfo di Gela che, quasi certamente, conserva numerosi altri relitti di varie epoche (greca, romana e bizantina soprattutto). Basti pensare che in questo golfo, in epoca romana, si è combattuta la famosa battaglia tra Cartaginesi e Romani guidati da Attilio Regolo.

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...