martedì 6 maggio 2025

Campania - Longola

 

Longola è un'area archeologica situata a Poggiomarino, nella città metropolitana di Napoli, nella valle del Sarno, ad est del Vesuvio. Gli scavi hanno messo alla luce un villaggio dell'età del bronzo, costruito su degli isolotti artificiali affiancati da canali navigabili in un'area paludosa. L'ambiente anaerobico ha permesso agli archeologi di ritrovare l'intera struttura degli isolotti e alcune piroghe in legno in un ottimo stato di conservazione.
Dal febbraio 2018, il Parco Archeo-Fluviale di Longola è visitabile, che ospita una ricostruzione di alcune capanne protostoriche del villaggio protostorico della popolazione dei Sarrasti.
Gli importanti resti archeologici, sottoposti a intense campagne di scavo dal 2001, rivelarono una stratificazione di costruzioni, capanne e aree artigianali, appartenenti ad un periodo storico che interessa l'età del bronzo.
Tra i resti più significativi sono da segnalare la struttura lignea degli isolotti artificiali, così come tre piroghe tagliate in tronchi d'albero perfettamente conservate.
Come spesso accade, il sito fu scoperto per puro caso. Nel novembre del 2000, in diverse discariche, fra cui nei comuni di Sarno e di San Valentino Torio furono individuati cumuli di terreno di scarto ricchi di resti ceramici, faunistici e lignei, di epoca protostorica e di conseguenza fu avvisata la Soprintendenza archeologica di Pompei (oggi Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei) che subito avviò un'indagine. Arrivò sul posto la prof.ssa Claude Albore Livadie, direttore di Ricerca presso il Centro Nazionale della Ricerca Scientifica (CNRS), la quale indagò sulla provenienza del terreno portato come rifiuto scoprendo che proveniva dalla vicina località Longola di Poggiomarino, dove si stava scavando una vasca per la costruzione di un depuratore del fiume Sarno. I lavori furono immediatamente sospesi dalla Soprintendenza e fra dicembre 2000 e gennaio del 2001 fu istituito un team di archeologi sotto la direzione della stessa Claude Albore Livadie per effettuare il primo saggio di scavo.
Durante i saggi furono portati alla luce dei reperti di straordinaria importanza e una serie di abitati, sovrapposti l'uno all'altro, databili dal Tardo Bronzo (1000 a.C. circa) fino agli inizi del VI sec. a.C. attribuiti al popolo dei Sarrasti. La scoperta fu di grande importanza in quanto per la prima volta in Campania erano stati rinvenuti insediamenti di tale continuità e collocabili in una linea temporale così estesa: grazie a ciò fu possibile colmare la lacuna conoscitiva tra le fasi dell'età del Bronzo e la fondazione di Pompei.
L'insediamento, che avrebbe avuto probabilmente la funzione di porto fluviale sulle rive del fiume Sarno, era caratterizzato da tanti piccoli isolotti sostenuti da robusti tronchi di quercia piantati nel fondale melmoso in modo da consolidarlo. I bordi erano raffortati da pali e paletti infitti verticalmente (successivamente sostituiti da travi squadrate) formando così una rete di canali navigabili. Il legno portato alla luce era in eccellente stato di conservazione e furono rinvenuti resti di capanne e di alcune imbarcazioni.
Dal ritrovamento di resti paleobotanici e paleofaunistici fu possibile ricostruire il contesto ambientale caratterizzato dalla presenza di boschi di querce e di abbondante fauna anche selvatica quali cinghiali, orsi, caprioli, cervi ecc. Il tipo di insediamento dimostra che gli abitanti del luogo avevano una buona conoscenza di ingegneria idraulica e una conoscenza dei materiali utilizzabili per costruire le abitazioni: la superficie degli isolotti era stata bonificata e rialzata varie volte durante il corso dei secoli utilizzando tecniche diverse. Per giunta, il rinvenimento di numerosi oggetti semilavorati di uso comune e i relativi scarti di lavorazione quali bronzo, ferro, ambra e pasta vitrea, confermava l'attitudine di questa comunità nella lavorazione di tali materiali e allo scambio di beni di prestigio.
Gli studiosi ipotizzano che la zona venne abbandonato a causa di un'alluvione avvenuta all'inizio del VI sec. a.C. e che proprio da questa migrazione unita a quella degli abitanti della valle superiore del Sarno potrebbero essere nate due importanti città della Valle del Sarno: Pompei e Nuceria.

Campania - Pozzuoli, Macellum

 


Il Macellum di Pozzuoli è un sito archeologico situato nel comune omonimo della città metropolitana di Napoli. Per il duplice interesse che esso ha, archeologico e scientifico, è uno dei più noti monumenti di tutto il mondo antico.
L'edificio è stato a lungo impropriamente denominato Tempio di Serapide, per il rinvenimento di una statua del dio egizio nel 1750, all'epoca dei primi scavi. Studi successivi hanno invece accertato che si tratta dell'antico Macellum, cioè il mercato pubblico della Puteoli romana. Esso è, per dimensioni, il terzo più importante monumento napoletano di questo tipo.
A livello scientifico, esso ha rappresentato per alcuni secoli l'indice metrico più prezioso e preciso che si aveva a disposizione per misurare il fenomeno del bradisismo.
Risalente al I - II secolo d.C., si presenta come un cortile a pianta quadrata, circondato da un porticato sul quale si affacciano le botteghe che si aprono alternativamente ora verso l'interno ora verso l'esterno; due latrine pubbliche sono dislocate ai lati dell'abside di fondo. Mentre resti di scale che conducevano al piano superiore del porticato si conservano ai lati dell'ingresso monumentale che si apriva verso il porto; infine, al centro del cortile vi è una costruzione circolare sopraelevata, circondata un tempo da colonne sul quale podio si poteva salire tramite quattro scalinate disposte a croce.
Tutto l'edificio ricorda nella pianta altri mercati di città antiche, come quelli di Pompei, Morgantina, Roma e Cremna. Tra questi il Macellum di Pozzuoli resta uno dei più grandiosi ed integri, grazie anche alla sommersione bradisismica che nei secoli passati lo ha preservato da una più grande spoliazione dei suoi elementi architettonici.


Campania - Pozzuoli, Stadio di Antonino Pio

 


Lo stadio di Antonino Pio di Pozzuoli, portato alla luce nel 2008, può essere considerato di particolare importanza per la rarità di questa tipologia di edificio nell'impero romano d'occidente, fatta eccezione per lo stadio di Domiziano, oggi piazza Navona. Resti di stadi antichi si trovano tra la Grecia e l'Asia minore. Fu fatto realizzare dall'imperatore Antonino Pio, in onore dello spirito filellenico del suo predecessore Adriano nei pressi di una delle ville di Cicerone, dove l'imperatore Adriano, morto a Baia, era stato sepolto in un primo momento a causa dell'opposizione, da parte del Senato, alla sua sepoltura a Roma, ottenuta circa un anno dopo. Nello stadio organizzò giochi "alla greca", detti Eusebeia, divisi in due sezioni; la prima, dedicata all'agone ginnico, la seconda, a quello musicale. La frequentazione dello stadio si è protratta almeno fino agli inizi del IV secolo d.C., quando fu abbandonato a seguito degli editti di Teodosio.Intorno a questo periodo una forte alluvione sommerse completamente gran parte di esso, sollevando il piano di calpestio, dove fu realizzata una villa tardo - antica che intorno al V secolo diventò parte di un ampio insediamento rurale. La zona fu interamente sepolta a seguito dell'eruzione del Monte Nuovo del 1538, ad eccezione delle parti più alte della cavea e dell'ambulacro che furono inglobate, agli inizi del XIX secolo, in una masseria. Lo stadio è stato riportato alla luce nell'ottobre 2008 attraverso una serie di campagne di scavo finanziate dalla Regione Campania con 5 milioni di fondi europei.
Lo stadio ha la tradizionale pianta rettangolare con uno dei lati brevi curvo e l'altro, riservato alla partenza degli atleti, leggermente curvilineo. Su questo lato si apre un varco monumentale, che introduceva gli atleti direttamente alla pista, mentre l'accesso agli spettatori era consentito dal fronte settentrionale. Essi potevano così accedere alla cavea, divisa in tre settori: la parte più bassa, l'ima cavea, riservata ai personaggi più importanti, la media, riservata al ceto equestre e la summa, la parte più alta, riservata al popolo.
Oggi il monumento appare smembrato in seguito alla realizzazione della moderna via Domiziana nel 1932, che l'ha tagliato nel senso della lunghezza, compromettendone l'originaria unità.
Il varco monumentale è costituito da una doppia cortina di archi in piperno, originariamente rivestiti d'intonaco chiaro e coperti da una volta in muratura, che fungeva da elemento di raccordo tra le due cortine. Durante gli scavi, di questi archi, sono stati ritrovati integri solo i pilastri, mentre i conci erano crollati; dopo aver ricostruito graficamente la posizione dei differenti conci, essi sono stati ricollocati al loro posto utilizzando una struttura in acciaio e tubolari.
La pista è il luogo destinato allo svolgimento dei vari tipi di gara. Come in altre strutture sportive, anche in questo stadio la pista è realizzata in semplice terra battuta, facile da sistemare dopo le gare. Durante gli scavi sono state individuate almeno tre fasi di rifacimento della pista. La cavea corrisponde all'insieme di gradinate dalle quali il pubblico poteva assistere ai vari tipi di gare. L'ima cavea era separata dalla pista mediante un alto muro (balteus), sul quale, originariamente, correva una balaustra in marmo. 
Come è possibile vedere in situ, si conservano due file di sedili in piperno, relativi all'ima cavea, collegati a due serie di scalette laterali; la media cavea, invece, è stata rinvenuta completamente in crollo e priva delle gradinate. Della parte più alta della cavea, infine, sempre rimasta a vista nel tempo, si conserva la struttura in muratura, sulla quale poggiavano in origine le gradinate. Questa struttura, a differenza dei due settori precedenti, è sorretta da un lungo corridoio percorribile (ambulacro), dal quale il pubblico poteva accedere, mediante appositi vani scala, aperti sulla parete meridionale dell'ambulacro (vomitoria), all'ima e alla media cavea. Per quanto riguarda l'accesso alla summa cavea, invece, avveniva probabilmente da scale diverse. Sul lato lungo settentrionale del monumento si aprivano vari ingressi, raggiungibili dal pubblico mediante l'antica via Domitiana, ripercorsa in parte dall'attuale via Luciano. A seguito delle campagne di scavo si è portato alla luce il primo di questi ingressi. Questo corrisponde ad un avancorpo a pianta rettangolare collegato direttamente all'ambulacro di passaggio per la cavea. Gli spazi compresi tra gli avancorpi dovevano, invece, essere aperti e sistemati a verde. Era un corridoio voltato esteso quanto i due lati lunghi dello stadio, svolgeva due funzioni: quella di reggere le gradinate soprastanti della summa cavea e quella di filtrare gli spettatori verso i posti a sedere. Tutte le pareti dell'ambulacro erano in origine rivestite d'intonaco: rosso per lo zoccolo inferiore, come il pavimento in cocciopesto (mattoni appositamente frantumati e mescolati a calce), ocra per l'elevato e per le volte di copertura; sono stati rinvenuti, inoltre, frammenti d'intonaco decorato e con parti d'iscrizioni dipinte. Durante lo scavo dell'ambulacro, smontando una cisterna moderna che aveva tagliato il pavimento antico, è stato individuato un pavimento precedente, anch'esso in cocciopesto, ma molto sottile e poco resistente. La parete settentrionale dell'ambulacro, conservata quasi integralmente, è in opus lateritium e costituita da una serie di alti archi. Da questa parete sporgono differenti mensoloni, caratterizzati dalla presenza di un foro di forma rettangolare, nel quale venivano inseriti e bloccati i pali a cui venivano legati i teli del velario, utilizzati per riparare gli spettatori dal sole o dalla pioggia.

Campania - Cuma, Tempio di Giove

 

Il tempio di Giove è un tempio greco-romano ritrovato a seguito degli scavi archeologici sull'acropoli dell'antica città di Cuma.
Durante l'età greca, probabilmente tra il VI e V secolo a.C., venne costruito un primitivo tempio dedicato a Demetra, divinità molto venerata dai cumani; il tempio di Giove, di cui però non si ha alcuna testimonianza che fosse effettivamente dedicato a Giove, sorse sul precedente tempio e venne costruito alla fine del I secolo, in età augustea; tra la fine del V e l'inizio del VI secolo venne trasformato in basilica cristiana, dedicata a san Massimo martire e diventando cattedrale della diocesi di Cuma; in questo periodo subì notevoli mutamenti. Fu abbandonato nel XIII secolo a seguito dello spopolamento di Cuma ed esplorato tra il 1924 ed il 1932.
Del tempio greco non si hanno molte notizie: è presumibile che sia stato pseudo-periptero e l'unica testimonianza della sua esistenza rimane la base in tufo, lunga trentanove metri e larga ventiquattro, riutilizzata anche per il tempio romano; la struttura sacra sorgeva sulla sommità dell'acropoli ed era la più importante della città. Il tempio romano invece, alterato nella struttura durante la dominazione bizantina, oggi ridotto in ruderi e parzialmente crollato insieme al costone della collina, quando fu trasformato in basilica, aveva un orientamento est-ovest ed era circondato da un muro perimetrale in opus reticolatum che presentava tre aperture; internamente era diviso in cinque navate, due delle quali vennero in parti murate e divise in piccoli ambienti per ospitare delle cappelle. La cella era arricchita con delle semicolonne e delle nicchie poi murate, oltre ad una serie di quattro pilastri; nello stesso ambiente venne inserito un altare in marmi policromi ed un fonte battesimale, completamente ricoperto in marmo e costituito da tre scale, in modo tale da permettere la totale immersione per il battesimo. Tra le altre strutture conservate: resti della pavimentazione in signino con inserti in marmo, tombe scavate nel pavimento e archi in opera reticolata.


Campania - Paestum, Heraion alla foce del Sele

 

L'Heraion alla foce del Sele o tempio di Hera Argiva è un antico santuario della Magna Grecia dedicato alla dea Era, situato in origine alla foce del fiume Sele, a circa 9 km dalla città di Paestum, nell'odierno comune di Capaccio Paestum.
Il santuario si trova ora a circa 1,5 km dall'attuale linea di costa, a seguito dell'avanzamento di quest'ultima, rispetto all'antica collocazione, per il deposito dei sedimenti alluvionali portati dal fiume.
L'esistenza del santuario è testimoniata da fonti storiche che, per lungo tempo, sono rimaste prive di alcun riscontro nella realtà. Strabone colloca il santuario di Hera Argiva al confine settentrionale della Lucania, sulla sinistra idrografica del fiume Sele, a 50 stadi dalla città pestana e ne attribuisce la fondazione a Giasone durante la spedizione degli Argonauti. Lo stesso santuario viene collocato da Plinio il Vecchio sulla sponda opposta del fiume. Una simile imprecisione, consueta nell'opera dello scrittore latino, avrà l'effetto di offuscare il dato storico rendendone problematico il ritrovamento dei resti.
Il santuario fu fondato agli inizi del VI secolo a.C. dai greci provenienti da Sibari e dedicato alla dea Hera Argiva, protettrice della navigazione e della fertilità.
Inizialmente vi si doveva svolgere un culto all'aperto, in un'area sacra dotata di un altare e delimitata da portici, destinati all'accoglienza dei pellegrini.
Alla fine del VI secolo si ebbe la costruzione di un grande tempio, probabilmente ottastilo (con otto colonne sulla facciata) e periptero. Insieme furono costruiti, davanti ad esso, a una certa distanza, due altari monumentali.
Dopo l'arrivo dei Lucani, alla fine del V secolo a.C., si ebbe il momento di massima fioritura del santuario, con la costruzione di nuovi edifici che riutilizzarono i materiali di quelli più antichi: un nuovo portico e, accanto, un edificio per riunioni. Ad una certa distanza venne edificato inoltre un edificio quadrato in cui sono state rinvenuti numerosi pesi da telaio e dove si è ipotizzato che le fanciulle da marito tessessero il peplo per la statua di culto, offerto alla dea con una processione annuale. Qui è stata trovata una statua in marmo di Hera, seduta in trono e con in mano un melograno.
Nel 273 a.C. l'area fu conquistata dai Romani che vi fondarono la colonia di Paestum. L'edificio per la tessitura fu distrutto e costruito un recinto intorno all'area sacra.
Il santuario sopravvisse fino al II secolo d.C., in una progressiva decadenza, finché, anche a seguito all'impaludamento della zona, si perse gradualmente ogni forma di memoria della sua ubicazione.
Il culto di Hera sopravvisse successivamente in forme cristiane con la "Madonna del Granato", il cui culto, nell'omonimo e vicino santuario, riprende la raffigurazione di Hera con la melagrana.
Il santuario venne rimesso in luce dagli scavi degli archeologi di Umberto Zanotti Bianco e Paola Zancani Montuoro, tra il 1934 e il 1940.
Negli scavi sono state rinvenute circa settanta metope con raffigurazioni scolpite in arenaria locale.
Circa quaranta appartengono a un ciclo più antico (seconda metà del VI secolo) e dovevano decorare edifici oggi non più riconoscibili. Le metope di questo ciclo raffigurano episodi del mito delle dodici fatiche di Eracle e del ciclo Troiano, ma anche di Giasone e di Oreste. Sono scolpite abbassando il fondo all'esterno della linea di contorno delle figure: in questo modo, la parte in rilievo rimane molto piatta. Questo indicherebbe che la raffigurazione, nei suoi particolari, era probabilmente completata dal colore.
Il ciclo più recente, di circa 30 metope, raffigura invece delle fanciulle danzanti, rese a bassorilievo.
Le metope sono collocate nel Museo archeologico nazionale di Paestum, sorto, nel 1952, proprio attorno a questi ritrovamenti. La loro collocazione museale riprende la presumibile struttura del tempio a cui erano state inizialmente attribuite. Tuttavia occorre dire che né l'interpretazione dei cicli narrativi né la collocazione, trovano concordia unanime tra gli studiosi.
Per Roland Martin le 38 metope del ciclo più antico (seconda metà del VI secolo a.C.) dovevano decorare un Thesauros (cappella votiva), con pianta rettangolare e facciata dorica con due colonne in antis. Il capitello delle colonne doriche, sottolineato alla base dell'echino con due filetti distaccati, contrastava con i capitelli ionici delle ante; questi ultimi, quasi elementi applicati alle estremità del muro, presentano un corpo principale che si svasa per reggere uno spesso abaco decorato con palmette e fiori di loto, mentre la base è sottolineata da un piccolo meandro. Il fregio dorico, privo di funzioni architettoniche, era posto davanti agli elementi in legno che sorreggevano il tetto. I triglifi, fortemente aggettanti come nel Tempio C di Selinunte, sono larghi quasi quanto le metope. Le intaccature visibili nella parte posteriore delle metope mostrano che queste ultime furono inserite tra i triglifi dopo la messa in opera delle travature in legno.
Gli scavi del santuario hanno inoltre restituito una grande quantità di doni votivi (per lo più statuette in terracotta raffiguranti la dea), che dopo qualche tempo venivano ritualmente seppelliti: un primo deposito era stato realizzato nei pressi del tempio ed era costituito da cinque fosse rivestite da lastroni in pietra e con coperchio pure in pietra. Delle tracce di bruciato si riferiscono ai sacrifici offerti all'atto del seppellimento e i materiali depositati vanno dal VI al II secolo a.C.
È stata inoltre rinvenuta una seconda grande fossa, con circa seimila oggetti tra statuette in terracotta e piccoli oggetti in bronzo databili tra il IV e il II secolo a.C. (ma con alcune monete del II secolo d.C., in piena epoca romana imperiale).
Gran parte dei doni votivi sono visibili sul sito stesso del santuario, nel "Museo narrante del santuario di Hera Argiva alla foce del Sele", ospitato in una masseria ristrutturata ("masseria Procuriali")


Campania - Paestum, Basilica


La Basilica (detta anche tempio di Hera) si trova nel sito archeologico di Poseidonia, città della Magna Grecia ribattezzata dai Romani Paestum. È ubicato nel santuario meridionale della città, dove si erge, parallelamente e pressoché allineato sul lato orientale, a breve distanza dal posteriore tempio di Nettuno.
Sebbene siano andate completamente distrutte le parti superiori della trabeazione, nonché le strutture murarie del naos (la cella) ed ampissime porzioni della pavimentazione, lo stato di conservazione è da considerarsi eccellente. La Basilica di Paestum è infatti l'unico tempio greco di epoca arcaica in cui la peristasi, qui composta da 50 colonne, è conservata integralmente.
Il tempio fu edificato a partire dalla metà del VI secolo a.C., ma la sua costruzione dovette terminare solamente nell'ultimo decennio. Come lasciano ipotizzare i materiali votivi con dedica alla dea ritrovati nei suoi dintorni, il tempio era probabilmente dedicato ad Era, sposa di Zeus e principale divinità venerata a Poseidonia, l'importanza della quale è attestata dall'Heraion alla foce del Sele, il grande santuario extraurbano interamente dedicato alla dea, la cui costruzione fu avviata simultaneamente alla fondazione della città.
La denominazione "Basilica", con la quale il tempio è più noto, gli venne attribuita nella seconda metà del XVIII secolo, quando la cultura architettonica neoclassica cominciò ad interessarsi a Paestum. La totale sparizione dei timpani e di gran parte della trabeazione, assieme all'anomalo numero dispari delle colonne sulla fronte, rese incerta l'identificazione funzionale, come tempio, dell'edificio; questo, interpretato come "porticato" oppure come "ginnasio o collegio", venne chiamato basilica, nel significato, proprio del termine romano, di struttura porticata adibita a sede di tribunale ed alle assemblee dei cittadini.
È un tempio periptero enneastilo (cioè con nove colonne sulla facciata e sul retro) con diciotto colonne sui lati lunghi. ll rettangolo dello stilobate misura 24,50 x 54,24 m. L'edificio è orientato verso est come il vicino tempio di Nettuno, assieme al quale determina il grandioso aspetto monumentale del santuario meridionale di Poseidonia. Un grande altare, riportato alla luce durante gli scavi condotti da Vittorio Spinazzola agli inizi del secolo scorso, fronteggia ad est il tempio, a 29,50 m di distanza, in posizione perfettamente parallela alla fronte templare e simmetrica rispetto all'asse dell'antistante edificio.
Il semplice rapporto proporzionale 1:2 si esprime dunque non nelle dimensioni lineari del rettangolo del tempio ma nel numero delle colonne (9 x 18). Queste sono intervallate da interassi di misura differente tra le fronti (interasse di ca. 2,86 m) e i fianchi (interasse di ca. 3,10 m). Dall'assenza di contrazione degli interassi angolari per la soluzione del conflitto angolare si deduce che le metope angolari erano allungate rispetto a quelle "normali".
La Basilica ha la particolarità di avere un numero dispari (9) di colonne sulla fronte, come conseguenza della disposizione, lungo l'asse dell'edificio, di un unico colonnato centrale all'interno della cella. La presenza di un colonnato interno in posizione assiale, certamente in funzione di supporto del colmo centrale della copertura a doppio spiovente, rappresenta un sicuro indicatore architettonico dell'arcaicità del tempio. Tale soluzione planimetrica fu poi rifiutata dall'architettura greca del periodo classico (e da ogni stile classicista, nei vari secoli successivi), perché impediva l'accesso e la vista assiale verso il naos, negando un rapporto diretto con la sacralità del tempio.
La cella (naos), profonda 9 interassi, era preceduta da un pronao, di 2 interassi di profondità, con tre colonne disposte tra due ante, dalle quali si originano i muri che la chiudevano lungo i lati. Coerentemente con la disposizione di una colonna esterna centrale in posizione assiale, la cella è bipartita da un colonnato interno centrale, formato da 7 colonne, di cui sono conservate le prime tre.
Dietro la cella è ricavato l'adyton, un ambiente chiuso e anch'esso profondo 2 interassi, introdotto in sostituzione dell'opistodomo (il corrispondente simmetrico del pronao sul retro) al termine di ripensamenti progettuali in corso d'opera, rilevati grazie ad indagini sulle fondazioni; queste hanno permesso di accertare tre fasi di progettazione, a conclusione delle quali, oltre alla sostituzione dell'opistodomo con un adyton, il colonnato centrale della cella venne ridotto da otto a sette elementi; è ipotizzabile che la motivazione di questi ripensamenti progettuali risieda in sopraggiunte modifiche alle pratiche di culto, che implicarono l'introduzione di rituali con processioni richiedenti una nuova configurazione degli spazi interni. Il vano dell'adyton, caratteristico dei templi greco-occidentali (Magna Grecia e Sicilia) nel periodo arcaico, era accessibile, attraverso porte che lo collegavano al naos, solo agli addetti al culto. Esso era probabilmente la sede del tesoro del tempio e del simulacro della divinità.
Le colonne sono di tipo dorico e sono alte circa 6,48 m, hanno un fusto percorso dalle canoniche 20 scanalature e fortemente rastremato, con un diametro inferiore di circa 1,45 m ed uno superiore di circa 0,98 m. L'aspetto delle colonne è determinato innanzitutto dal caratteristico rigonfiamento nella zona mediana dovuto ad un'entasi assai evidente, con una "freccia" di circa 4,8 cm. L'echino del capitello, come si addice a colonnati di età arcaica, è molto schiacciato ed espanso, e l'abaco molto largo.
Lo stile dorico in cui sono realizzate le colonne della Basilica presenta potenti tendenze decorative, che lo ricollegano a quello diffuso, in epoca arcaica, in altre colonie di fondazione achea; si tratta di uno stile che, sottoposto ad una razionalizzazione formale, ispirerà anche la realizzazione del successivo tempio di Athena, e di cui il tempio di Nettuno, costruito in uno stile dorico oramai "canonico", segnerà a Poseidonia il definito abbandono.
Tre sono i fenomeni decorativi che interessano la Basilica. (1) I collarini di ciascuna colonna sono decorati con foglie baccellate di numero variabile.(2) Su alcune colonne della fronte occidentale le decorazioni interessano addirittura la parte inferiore dell'echino, immediatamente al di sopra degli anuli, sulla quale è scolpita in rilievo una fascia decorativa floreale differente in ciascuna colonna; tra queste spicca, per lo stato di conservazione e la sua bellezza, la decorazione realizzata sul capitello della colonna in posizione centrale, composta da un'alternanza di rosette e fiori di loto. (3) Questo stile decorativo raggiunge il suo culmine con l'ornamento floreale a rilievo (sequenze di fiori di loto e palmette), di cui non esistono altri esempi, che percorre l'intero corpo dell'echino delle sei colonne con capitello in arenaria disposte all'interno (le tre del pronaos e le prime due del colonnato centrale assiale) e all'angolo sud-est della peristasi; vivaci policromie, di cui rimangono tracce (rosso e blu), rivestivano queste decorazioni floreali.
Della trabeazione rimangono gli architravi e pochi altri elementi, che però, assieme ad importanti resti della copertura fittile del tetto, ne hanno consentito una ricostruzione quasi completa, il tetto e la trabeazione erano decorati con materiale litico di travertino locale e di marmo importato dall'Egeo.
L'ordine delle strutture superiori del tempio, al di sopra degli architravi, si discosta profondamente da quello dorico "canonico" ed è da ricollegare alla tradizione architettonica seguita nelle colonie achee durante il periodo arcaico. Invece del sistema di taenia e regulae sovrastante gli architravi, gli architetti della Basilica disposero una modanatura realizzata in arenaria, della quale rimangono ancora elementi. Questa struttura fungeva da base per il fregio, che nell'ordine dorico "canonico" è invece direttamente collegato al sottostante colonnato. Grazie alle tracce di posizionamento presenti ed al loro andamento è stato infatti possibile arguire l'esistenza di un fregio dorico, costituito dall'usuale alternanza di triglifi, coordinati con gli assi delle colonne ed i centri degli architravi, e metope; è possibile che queste ultime, come quelle provenienti dall'Heraion di Foce Sele, fossero scolpite.
L'alzato era privo di un geison orizzontale. Il suo coronamento non era in pietra ma composto da un rivestimento in terracotta policroma, con finte grondaie a testa di leone, delle quali riemersero numerosi frammenti (alcuni esposti al Museo Archeologico Nazionale di Paestum) durante gli scavi del 1912. I bordi della copertura terminavano con antefisse che, come è stato possibile comprendere grazie ai ritrovamenti, alternavano la forma di palmetta a quella di fiore di loto.


Campania - Paestum, Tempio di Atena

 


Il tempio di Atena o tempio di Cerere (circa 500 a.C.) è un tempio greco che si trova a Paestum, nel comune di Capaccio Paestum in provincia di Salerno, costruito nel Santuario settentrionale, in posizione diametralmente opposta rispetto al Santuario meridionale, dove si ergono il tempio di Nettuno e la Basilica. Realizzato su un rilievo artificiale del terreno, sul precedente santuario distrutto probabilmente da un incendio, presenta in facciata un frontone e un fregio dorico, ornato da metope incassate nell'arenaria, su colonne doriche lievemente slanciate. La struttura è più semplice di quella dei due templi dedicati ad Era (detti "tempio di Nettuno" e "Basilica"): presenta il pronao e la cella ma è privo di adyton, ovvero la camera del tesoro sul retro della cella.
Concepito seguendo un innovativo schema di proporzioni equilibrate, che si traducono nel rapporto di 6 colonne frontali e 13 laterali di uguale dimensione e forma, il santuario presentava una fastosa policromia.
L'interno dell'ampio pronao presentava sei colonne in stile ionico, di cui quattro frontali e due laterali, delle quali restano soltanto le basi e due capitelli; questi ultimi, come nel caso della "Basilica", nascono da un collarino ornato. Sembra essere il primo esempio della presenza dei due ordini, dorico e ionico, nello stesso edificio, non solo nel colonnato ma anche nella trabeazione e nel coronamento del tempio.
Della profonda cella destinata ad accogliere la statua della dea non rimane quasi più nulla: è visibile solo il pavimento sopraelevato di circa 1 metro e le tracce di scale laterali che portavano probabilmente al tetto.
Durante lo scavo in profondità del 1937, a cura di Amedeo Maiuri, sono venute alla luce delle terrecotte architettoniche che hanno permesso di ricostruire il tetto dell'edificio del periodo arcaico, uno dei più antichi di Poseidonia.
Tradizionalmente il tempio era stato attribuito a Cerere, ma in seguito al ritrovamento di numerose statuette in terracotta che raffigurano Atena, si propende per una dedica a questa divinità
In epoca tardo antica, intorno all'VIII secolo, la struttura venne adibita a chiesa: il santuario venne chiuso con mura fra le colonne, le pareti della cella furono abbattute, l'ambulacro a Sud fu utilizzato per le sepolture. Tali strutture vennero eliminate durante le campagne di scavo degli anni Quaranta del Novecento.





Campania - Paestum, Tempio di Nettuno


Il Tempio cosiddetto di Nettuno (detto anche Tempio di Poseidone) è il tempio più grande dell'antica polis di Poseidonia (nota con il nome romano di Pæstum), costruito intorno alla metà del V secolo a.C., epoca di maggiore fioritura del centro. Si erge nel santuario meridionale urbano, poco a nord della cosiddetta Basilica, disposto parallelamente a questa. La cella, all'interno della quale era custodita l'immagine della divinità titolare del tempio, è divisa in tre navate da due file di due ordini sovrapposti di sette colonne doriche, caratterizzati da un ininterrotto assottigliamento dei fusti dal basso verso l'alto.
Oggi si presenta con un'architettura straordinariamente integra, che lo rende uno dei templi greci meglio conservati in assoluto. L'eccellente stato di conservazione, che caratterizza tutti e tre i templi greci di Paestum, è certamente dovuto anche allo stato di secolare abbandono del sito, verificatosi attorno al IX sec. d.C. successivamente all'impaludamento e all'arrivo della malaria.
Il tempio è un imponente periptero esastilo (con sei colonne sulle due fronti) di ordine dorico, con una peristasi di 6x14 colonne che si eleva su un crepidoma di tre gradini; le misure dello stilobate sono di 24,30 m e 60,00 m. L'edificio è orientato verso est, in posizione praticamente parallela agli altri due templi greci di Poseidonia. È fronteggiato da due altari, di cui il più distante, venuto alla luce solamente durante gli scavi condotti nella metà del secolo scorso da P.C. Sestieri, è quello greco, coevo alla edificazione del tempio; l'altro è invece di epoca romana.
L'interno è costituito da un naos (cella) del tipo distilo in doppio antis, dotato di pronao e opistodomo camera, entrambi incorniciati da due colonne (distili), allineate con le due centrali delle fronti, alle quali corrispondono due colonnati che attraversano la cella, dividendola in tre navate. Questi colonnati interni sono composti da sette colonne doriche ciascuno, disposte su due ordini sovrapposti, caratterizzati a un ininterrotto assottigliamento del fusto dal basso verso l'alto. Immediatamente dopo l'ingresso della cella, sopraelevata di 0,50 m rispetto al piano dello stilobate, vi erano, ai lati, due vani: solamente in quello a destra venne costruita una scala in pietra che conduceva al soffitto e della quale è conservato un elemento.
La pavimentazione della cella è composta da una successione di tre lastre litiche rettangolari affiancate: solamente all'altezza della quinta colonna dell'ordine inferiore le lastre sono due, ed è presumibile che questa deviazione servisse a marcare il limite oltre il quale, nell'intimità della cella, era posizionata l'immagine di culto.
Il tempio, appartenente al periodo cosiddetto severo dell'arte greca, si caratterizza per la grandiosa imponenza degli elementi architettonici, che gli conferiscono un aspetto straordinariamente maestoso. Esso svolse un ruolo decisivo nella riscoperta dell'architettura greca accaduta, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, nel contesto dei viaggi del Grand Tour, non solo per lo studio delle origini dell'architettura dorica e la verifica sperimentale delle teorie architettoniche ma anche come modello capace di ispirare future progettazioni.
Il tempio presenta delle analogie stilistico-formali con il celebre tempio di Zeus ad Olimpia, edificato nello stesso periodo e considerabile il vero paradigma dell'architettura templare dorica; queste analogie ne hanno consentito la datazione, visto che l'anno di ultimazione del grande tempio olimpico è ricavabile per via storiografica. Da esso però si distacca, oltre che per lo schema planimetrico (6 x 14 colonne invece di 6 x 13), a causa della assenza completa di decorazioni scultoree nelle metope e nei frontoni, e del differente dimensionamento proporzionale, governato da rapporti di più difficile individuazione rispetto a quelli, di più semplice lettura, espressi nell'altro tempio.
Il numero pari di colonne (costruite in marmo) sui fianchi, quattordici, rappresenta una deviazione rispetto alla disposizione canonica 6 x 13, affermatasi nell'architettura della madrepatria, e che culminò nel coevo tempio di Zeus ad Olimpia, rispetto al quale l'esastilo classico di Poseidonia è in proporzione più allungato. Lo schema 6 x 14, ancora di ispirazione arcaica, era caratteristico della tradizione architettonica siceliota, dove si era diffuso nel periodo immediatamente successivo al 480 a.C., quando, nella scia della vittoria dei Greci contro i Cartaginesi nella battaglia di Himera, la costruzione di grandi edifici templari ricevette un forte impulso nelle principali colonie siceliote.
La presenza di colonnati all'interno della cella, sconosciuta agli altri templi greco-occidentali (Magna Grecia e Sicilia), nei quali la cella consiste in una vera e propria sala priva di strutture interne, ricollega invece il tempio di Nettuno alla tradizione architettonica della madrepatria, dove si stava affermando l'impianto planimetrico con una cella attraversata da due colonnati e contenuta tra un pronaos e un opistodomo.
Ad imporsi all'osservatore, soprattutto nella vista frontale, è innanzitutto la mole delle colonne esterne, alte 8.88 m e inusualmente massicce: quelle della fronte, più spesse rispetto a quelle dei fianchi, hanno infatti un diametro di oltre 2.09 m all'imoscapo e di ca. 1,55 m al sommoscapo. La percezione della voluminosità dei fusti delle colonne è certamente acuita dalle proporzioni volutamente poco slanciate, espresse nel rapporto di "appena" 1:4,21 tra il diametro alla base e l'altezza. La lieve entasi applicata ai fusti delle colonne, appena visibile, contrasta con quella, straordinariamente pronunciata, della vicina Basilica.
Probabilmente per mitigare la sensazione ottica di pesantezza dei colonnati, le imponenti colonne esterne presentano un accorgimento, quasi privo di corrispondenti nell'architettura dorica: il notevole infittimento delle scanalature verticali, che dalle canoniche venti vengono incrementate fino al numero di ventiquattro. All'interno il numero delle scanalature subisce un decremento progressivo di quattro unità: quelle delle ordine inferiore passano a venti, per divenire sedici nell'ordine superiore.
Le colonne in antis del pronao e dell'opistodomo, che precedono e seguono la cella, pur essendo posizionate su un piano sopraelevato di 0,50 m rispetto a quello dello stilobate sul quale si ergono le colonne esterne, sono dimensionalmente identiche a quelle delle fronti (con la conseguenza di un accorciamento dell'altezza della trabeazione dei due porticati interni rispetto a quella della peristasi). L'esatta ripetizione, sul piano interno sopraelevato, delle colonne frontali esterne, apparentemente incomprensibile, trova una spiegazione coerente nella volontà di enfatizzare la fronte della cella, in quanto accesso al luogo più intimo del tempio.
L'ellitticità della sezione delle colonne angolari, asserita per la prima volta da F. Krauss, è stata definitivamente smentita, in seguito ad accurati rilievi, da D. Mertens, che ha dimostrato la regolarità della loro forma.
Allo stilobate è stata conferita una lieve convessità finalizzata a realizzare una piccola correzione ottica, secondo un noto procedimento architettonico, tipico di molte realizzazioni templari, tra cui il Partenone, che in ambiente magno-greco e siceliota troverà un importante riscontro nel più tardo esempio di Segesta.
Uno dei problemi che affliggeva l'architettura templare dorica di epoca classica fu il conflitto angolare dell'ordine dorico, determinato dalla impossibilità - causata dal notevole spessore dell'architrave in strutture litiche di così monumentali dimensioni - di collocare il triglifo angolare simultaneamente all'estremità dell'angolo e in posizione assiale sopra la sottostante colonna; il posizionamento del triglifo all'estremità del fregio implicherebbe infatti l'allungamento della metopa angolare e, dunque, l'impossibilità di trasmettere al fregio l'ordine realizzato nel sottostante colonnato. La soluzione più avanzata di questo problema consiste nella contrazione angolare, ossia nella combinazione tra lo spostamento dell'ultimo triglifo all'angolo del fregio ed il corrispondente accorciamento dell'ultimo interasse (distanza tra gli assi di due colonne adiacenti), allo scopo di evitare l'allungamento della metopa angolare.
Nel tempio di Nettuno questa contrazione, singola sul lato breve, è doppia sui lati lunghi, dove ad essere accorciati sono, su ciascuna delle due estremità, gli ultimi due interassi. La contrazione angolare sulla fronte è infatti di ca. 17,5 cm (interasse angolare di 4,30 m invece dei 4,475 m degli interassi "normali"); sui lati lunghi, la diminuzione è, rispettivamente, di ca. 17 cm e 28 cm (interassi, negli ultimi due intercolumni, rispettivamente di ca. 4,36 m e 4,22 m invece dei 4,50 m degli interassi "normali").
La denominazione corrente di Tempio di Nettuno risente del retaggio delle prime entusiastiche e fantasiose attribuzioni erudite nate all'epoca della riscoperta di Paestum, avvenuta nella seconda metà del XVIII secolo, sulla base della convinzione che il tempio più grande di Poseidonia dovesse essere dedicato al dio protettore della città, Nettuno-Poseidon.
A causa dell'assenza di fonti scritte e della mancanza di dati archeologici risolutivi, l'attribuzione cultuale dell'edificio è problematica. Tre sono le ipotesi in campo per la titolarità del tempio: Era, Zeus, Apollo.
La prima ipotesi, sostenuta in particolare da Pellegrino Claudio Sestieri, si basa su materiale votivo dedicato ad Era ritrovato nei pressi del tempio durante gli scavi condotti dall'archeologo attorno alla metà del secolo scorso, ma che ad un'analisi più attenta appare di incerta riferibilità all'edificio templare. La seconda fa leva sul ritrovamento, nelle vicinanze del tempio, di una statua arcaica di Zeus (di epoca anteriore alla costruzione del tempio ed ora esposta al Museo Archeologico Nazionale di Paestum) in frammenti e sull'attestazione di culti dedicati al dio; anche in questo caso, la riferibilità di questa statua ad un precursore arcaico del tempio classico, che avrebbe dunque ereditato la titolarità di Zeus, è priva di prove. La terza ipotesi si fonda sull'esistenza, nel santuario meridionale, di culti salutiferi dedicati ad Apollo, dio della medicina.





Campania - Elea, Porta Rosa

 


Porta Rosa è una costruzione del IV secolo a.C. che costituisce il più antico esempio noto di arco a tutto sesto in Italia. È stata ritrovata nell'area archeologica greca dell'antica città di Elea-Velia, nell'attuale comune di Ascea all'interno del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano.
Nonostante sia nota con il nome di "porta", attribuitole all'inizio degli scavi, l'apertura era in realtà un viadotto nel passaggio murario che collegava le due sommità naturali dell'acropoli di Elea-Velia: è assente, ad esempio, ogni traccia di cardini.
L'arco è composto da undici conci di pietra arenaria. Le misure con cui fu realizzato sono quelle osco-italiche, in uso in tutto il territorio italico, dall'Etruria fino alla Lucania: le misure italiche furono usate dall'antichità fino al IV sec. a.C., poi dal IV fino al II a.C. furono adottate le misure della Grecia classica, e dal II a.C. infine fu usata la nuova misura romana, non inventata ex novo (perché gli italici degli Appennini seguitarono a usare sempre la loro misura anche tra i IV e il II sec. a.C.), ma risultato di tre medie matematiche: 1) tra la misura italica e quella greca antica; 2) tra la misura italica e quella greca classica; 3) infine calcolando la media tra (1) e (2). L'approssimazione è di 0,0014 sicilicus, quindi quasi zero.
Oltre a fungere da viadotto, l'apertura serve da contenimento delle pareti della gola che collega. Attorno al III secolo a.C. l'arco fu ostruito e l'intera struttura interrata, per opera presumibilmente di una frana o perché l'apertura costituiva un punto debole nella difesa della città; l'interramento ne ha probabilmente permesso la perfetta conservazione.
Porta Rosa fu riportata alla luce l'8 marzo 1964 dall'archeologo Mario Napoli, il quale la battezzò "Rosa" in omaggio al nome della propria moglie, sorella dell'archeologo Alfonso De Franciscis. L'area fu chiusa nel 2009 per la caduta di un masso; è stata riaperta nell'agosto 2011 dopo la messa in sicurezza del costone che la sovrasta.
L'apertura è coperta da una volta di circa 2,70 metri di larghezza, e nel muro sovrastante si nota un secondo arco di scarico. La realizzazione delle mura di Elea-Velia è da collocare, nelle sue ultime fasi, a metà del IV secolo a.C. La Porta Rosa può dunque essere considerata tra i primi esempi a noi noti di realizzazioni architettoniche a volta nell'area mediterranea, se non fosse per la visibile differenza nel trattamento della pietra tra la porzione inferiore delle mura e la volta stessa (incluso l'arco di scarico). Ciò può avere differenti spiegazioni per cui non è da escludere che mura e volta siano coeve. Secondo Luigi Formicone, architetto e ispettore onorario per i Beni culturali, «le misure dell'arco e dei conci relativi corrispondono a quelle in uso degli italici prima del IV sec. a.C.; sono differenti a quelle greche antiche, macedoniche o classiche, e a quelle romane dopo il II sec a.C.».
La scoperta del sistema viario che collegava il quartiere meridionale con quello settentrionale, di cui fanno parte la Porta Rosa e la cosiddetta Porta arcaica, con il conseguente disvelamento della topografia del sito, hanno stimolato lo studioso di filosofia antica Antonio Capizzi, a una rilettura affascinante, ma non universalmente accettata, del proemio Parmenideo al poema in versi Peri Physeos (Sulla Natura).


Campania - Elea/Velia

 


Elea (in greco antico: Ἐλέα), denominata in epoca romana Velia, è un'antica polis della Magna Grecia. L'area archeologica è localizzata in contrada Piana di Velia, nel comune di Ascea, in provincia di Salerno, all'interno del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano e Alburni. L'accesso al sito archeologico è da Via di Porta Rosa. Lo storico e geografo greco Strabone, nella sua Geografia, parla della città di Elea-Velia, specificando che i Focei, suoi fondatori, la chiamarono inizialmente ῾Υέλη (Huélē), nome che però dopo alcune variazioni divenne per i grecofoni Elea.
I Romani adottarono la forma Velia per il nome della città, attestata a partire da Cicerone.
Ad oggi esistono alcuni toponimi cilentani che derivano dal nome latino di "Velia" sono: Novi Velia, Casal Velino, Velina e Acquavella.
Gli scavi, vicini alla ferrovia e non lontani da Ascea Marina, sono visitabili tutti i giorni, eccetto il lunedì. Dell'antica città restano l'Area Portuale, Porta Marina, Porta Rosa (foto in alto), le Terme Ellenistiche e le Terme romane, l'Agorà, l'Acropoli, il Quartiere Meridionale e il Quartiere Arcaico. In prossimità dell'ingresso si trova un ampio parcheggio gratuito non custodito né ombreggiato, e un gruppo di moderni edifici in cemento armato, legno e vetro, destinati a biglietteria, esposizione, ristoro, servizi igienici e vendita di souvenirs costruito con i finanziamenti POR Campania 2000-2006 per la valorizzazione del Parco archeologico di Elea-Velia nell'ambito di un progetto cofinanziato dall'Unione europea. Di questi solo la biglietteria è utilizzata, mentre gli altri risultano in stato di abbandono sin dal loro completamento: gli scaffali accatastati non sono nemmeno stati montati.
Nel 2016 l'area archeologica ha fatto registrare 33 380 visitatori.
Elea fu fondata nella seconda metà del VI secolo a.C., da esuli Focei in fuga dalla Ionia (sulle coste dell'attuale Turchia, nei pressi del golfo di Smirne) per sfuggire alla pressione militare persiana. La fondazione avvenne a seguito della Battaglia di Alalia, combattuta dai Focei di Alalia contro una coalizione di Etruschi e Cartaginesi, evento databile a un arco temporale che va dal 541 al 535 a.C.
La città fu edificata sulla sommità e sui fianchi di un promontorio, comprato dai Focei agli Enotri, situato tra Punta Licosa e Palinuro. Fu inizialmente chiamata Hyele, dal nome della sorgente posta alle spalle del promontorio.
Intorno al V secolo a.C., la città era felicemente nota per i floridi rapporti commerciali e la politica governativa. Assunse anche notevole importanza culturale per la sua scuola filosofica presocratica, conosciuta come Scuola eleatica, fondata da Parmenide e portata avanti dall'allievo Zenone. Nel IV secolo entrò nella lega delle città impegnate ad arrestare l'avanzata dei Lucani, che avevano già occupato la vicina Poseidonia (Paestum) e minacciavano Elea.
Con Roma, invece, Elea intrattenne ottimi rapporti: fornì navi per le guerre puniche (III-II secolo) e inviò giovani sacerdotesse per il culto a Demetra (Cerere), provenienti dalle famiglie aristocratiche del posto. Divenne infine luogo di villeggiatura e di cura per aristocratici romani, forse grazie anche alla presenza della scuola medico-filosofica.
Nell'88 a.C. Elea fu ascritta alla tribù Romilia, divenendo municipio romano con il nome di Velia (cfr. la scheda a lato, Le diverse forme del nome greco), ma con il diritto di mantenere la lingua greca e di battere moneta propria. Nella seconda metà del I secolo servì come base navale, prima per Bruto (44 a.C.) e poi per Ottaviano (38 a.C.). La prosperità della città continuò fino a tutto il I secolo d.C., quando si costruirono numerose ville e piccoli insediamenti, unitamente a nuovi edifici pubblici e alle thermae, ma il progressivo insabbiamento dei porti e la costruzione, avviata nel 132 a.C., della Via Popilia che collegava Roma con il sud della penisola tagliando fuori Velia, condussero la città a un progressivo isolamento e impoverimento.
Dalla fine dell'età imperiale, gli ultimi abitanti furono costretti a rifugiarsi nella parte alta dell'Acropoli per sfuggire all'avanzamento di terreno paludoso, e l'insediamento è riportato nei codici con vari nomi, corrispondenti a differenti periodi, tra cui Castellammare della Bruca. Alla fine del Medioevo, nel 1420, diventò feudo dei Sanseverino che però sarà presto donato alla Real Casa dell'Annunziata di Napoli. Dal 1669 non è più censito alcun abitante sul posto, e le tracce della città si perdono nelle paludi. Solo nell'Ottocento l'archeologo François Lenormant comprese che l'importanza storica e culturale del luogo si prestava a interessanti studi e approfondimenti, tuttora in corso, ma va anche rilevato che purtroppo, a causa degli scavi iniziati nel secolo scorso, l'abitato superstite dall'epoca medievale fino al Seicento fu quasi completamente distrutto.
La città è situata sulla Costiera Cilentana, non lontana da Vallo della Lucania, circa 90 km a sud di Salerno. La pianura a nord della città antica è solcata dal fiume Alento e dal suo affluente di sinistra, il Palistro, in passato dotato di autonomo sbocco in mare. A sud dell'acropoli, a breve distanza da questa, sfocia la Fiumarella di Santa Barbara. Il materiale sedimentato dai tre fiumi ha determinato col tempo l'interramento dello specchio antistante la città, causando la scomparsa delle due isole Enotridi, fornite di approdi, di cui ci parla Strabone. Dell'esistenza delle due isole ci viene conferma da Plinio il Vecchio che ce ne fornisce sia l'ubicazione (contra Veliam) che i nomi (Isacia e Pontia). Gli stessi fenomeni hanno causato l'avanzamento della linea di costa che oggi fa apparire la zona collinare su cui sorge l'acropoli, un tempo un promontorio, come un'altura non più lambita dal vicino mare. Quest'altura, a seguito della perdita della memoria dell'esistenza della colonia focea, ha assunto il toponimo di Castellammare della Bruca.
Tra i motivi che fanno di Velia un patrimonio dell'umanità va sicuramente menzionata la scuola eleatica, una scuola filosofica che ha potuto vantare, fra i suoi esponenti, Parmenide, Zenone di Elea e Melisso di Samo. Senofane di Colofone è stato a lungo considerato un filosofo della tradizione eleatica per la scelta stilistica di scrivere in versi: la critica dell'antropomorfismo religioso e dei valori della classe aristocratica sono invece chiari esempi della sua impostazione ionica (la stessa Colofone è, infatti, nella Ionia).

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...