lunedì 30 giugno 2025

Abruzzo - Ocriticum


Ocriticum è un sito archeologico situato nel territorio del Comune di Cansano, in provincia dell'Aquila, e precisamente nell'area conosciuta coi microtoponimi di Zeppe, Pantano e Tavuto. Le testimonianze che presenta abbracciano un periodo compreso tra il Neolitico e l'Alto Medioevo, ma lo sviluppo dell'area fu massimo sotto i Romani, quando in corrispondenza della vicina e assai trafficata Via Nova, l'asse viario che collegava Corfinium con il Sannio, si sviluppò un grande santuario monumentale dedicato a Giove. Nell'area, interessata dai traffici della suddetta via Nova, sorse la mansio Jovis Larene, segnata, tale la sua importanza, sulla Tavola Peutingeriana.
I traffici commerciali, la religiosità e la conseguente ininterrotta frequentazione dell'area ne favorirono lo sviluppo abitativo, economico e produttivo (fra le testimonianze, una fornax calcaria, impianto di produzione per la calce). Un violento terremoto nel II secolo d.C. distrusse buona parte degli edifici, dando così inizio ad un progressivo abbandono dell'area (compiutosi attorno al VI secolo d.C.).
Gli scavi, avvenuti clandestinamente tra il XIX e il XX secolo, sono stati avviati ufficialmente solo nel 1992, in occasione del passaggio del metanodotto Snam, e si sono conclusi nel 2005. Oggi l'intera area è protetta nel parco archeologico e naturalistico di "Ocriticum", istituito nel 2004 insieme con il relativo centro di documentazione e visita "Ocriticum" di Cansano, che ospita parte dei reperti rinvenuti nel corso dello scavo e un'importante mostra permanente sull'emigrazione (è dunque detto pure museo dell'emigrazione). Parte dei reperti provenienti da Ocriticum è conservata presso il museo civico di Sulmona e il museo nazionale archeologico di Chieti.
A pochi chilometri da Cansano, alle pendici del colle Mitra e, più lontano, del complesso della Maiella, si estende il pianoro conosciuto agli abitanti coi toponimi Zeppe, Pantano e Tavuto, dove circa duemila anni fa sorgeva, a sette miglia da Sulmo, uno dei villaggi che in questo periodo costellavano l'ager sulmonense, il territorio amministrato dal municipium di Sulmona.
Come ben si osserva dalle foto aeree del pianoro, il sito era organizzato, all'apice del suo sviluppo, in più spazi e aree destinati ciascuno ad una precisa funzione (pratica, questa, definita zonazione): a Nord si trova la vasta zona di culto con i suoi tre templi allineati e rivolti verso la Maiella; nell'area meridionale, l'abitato di Ocriticum; sulla collina orientale, la via glareata su cui si affaccia la fornax calcaria, l'impianto per la produzione della calce; ad ovest, l'antico tracciato della Via Nova; lungo le strade e in prossimità dell'area sacra, tombe monumentali, epigrafi et cetera.
Il villaggio di Ocriticum e l'epigrafe a Sesto Paccio

Il villaggio era collocato nell'area meridionale del pianoro; di modeste dimensioni, il sito è stato tuttavia saggiato e indagato in via piuttosto superficiale. I resti degli edifici possono, ad ogni modo, essere interpretati come una mansio, stazione di sosta per chi viaggiava lungo la vicina Via Nova.
Lungo un tracciato stradale che dal villaggio si dirigeva a Sud, oltre a canalette e modeste muraglie in opera incerta, erano pure collocate - secondo uso romano - delle steli funerarie epigrafate. Sebbene tale necropoli sia stata quasi interamente intaccata dall'agricoltura, un'epigrafe scoperta in zona ha permesso di risalire al toponimo con cui fra i Romani era conosciuto il villaggio; essa riporta l'iscrizione:
«SEX(TO) PACCIO / ARGYNNO /CULTORES IOVIS / OCRITICANI /P(OSUERUNT)»
(«A Sesto Paccio / Argynno / i Cultori Ocriticani / di Giove /P(osero)»)
(Epigrafe funeraria)
Sia che Ocriticani si riferisca a Jovis, sia che si riferisca a Cultores, esso riconduce al toponimo Ocriticum, probabilmente in riferimento all'ocre (il centro fortificato) che sorgeva sulla cima del vicino colle Mitra. Tracce del toponimo, peraltro, restano nel nome della chiesa rurale che ivi si trovava e oggi scomparsa, di cui tuttavia resta il ricordo nella memoria popolare di Cansano: Santa Maria de' gli Tridece (ovvero Santa Maria dei Tredici), precedentemente conosciuta come Santa Maria dei Chierici e ancor prima come Santa Maria Oclerici, dunque Ocritici: di Ocriticum. La presenza dei Pacci è inoltre attestata nella Marsica e fra i Sabini.
L'area sacra

La presenza di un'ampia area sacra fu determinante per lo sviluppo del villaggio di Ocriticum sotto tutti i punti di vista: dal momento in cui, difatti, essa sorgeva in prossimità d'un tratto di una delle vie più importanti dell'Impero romano, grande era la quantità di pellegrini, viandanti, commercianti, pastori che vi facevano tappa per venerare le divinità. La fervente attività religiosa costituì un impulso non indifferente sia per il moltiplicarsi dei culti praticati nel pianoro, sia per la monumentalizzazione e l'ampliamento degli edifici sacri, sia, infine, per l'accrescersi della fama del luogo, che divenne tale da essere segnalato col nome di (Mansio) Jovis Larene sulla Tavola Peutingeriana, famosa copia medievale di un'originale carta militare stradale romana. In tale carta il sito di Ocriticum risulta distante sette miglia da Sulmo e venticinque da Aufidena, ed è collocato lungo l'importante tracciato che collegava la Valle Peligna con il Sannio Pentro; l'antico asse viario, riconosciuto da Ezio Mattiocco come la Via Nova di medievale memoria, è tuttora in parte percorribile e riconoscibile.
Il tempio italico

Il primo tempio edificato nell'area risale alla fine del IV secolo a.C.; originariamente era costituito da un'unica cella di base pressoché quadrata, con ingresso rivolto a Sud-Est (dove sorge il Sole) attorno alla quale era un giardino sacro (hurtuz > lat. HORTUS > ita. orto) delimitato da un muro perimetrale eretto a secco. In una successiva fase edilizia, ebbe luogo un ampliamento del recinto e dell'edificio templare, che fu provvisto d'un pronao realizzato in tecnica sensibilmente diversa dalla cella.
Nel giardino sacro, scavato nel terreno a ovest dell'edificio, è stato rinvenuto un deposito votivo volto a conservare gli oggetti che, per mancanza di spazio, non potevano più essere ospitati all'interno del naos; circa 600 gli ex voto rinvenuti, databili fra il IV secolo a.C. e il I secolo a.C., fra i quali una statuetta bronzea di Ercole che giaceva isolata sul fondo del deposito: ad Ercole, divinità assai diffusa in area peligna in età tardo-italica e romana, pare dunque che fosse dedicato il tempio, seppur, verosimilmente, non in via esclusiva.
Il tempio romano

Attorno agli inizi del I secolo a.C. (e quindi ormai sotto il dominio dei Romani), si assiste a un ulteriore ampliamento dell'area sacra, nella quale, su un terrazzo più elevato rispetto al tempio italico ma con esso perfettamente allineato, viene edificato un altro edificio templare, più grande e architettonicamente sofisticato. Il tempio, di base rettangolare e diviso in due ambienti di egual misura (pronao e cella), era probabilmente prostilo tetrastilo, con scalinata incastonata innanzi all'entrata, rivolta a Sud-Est come per il precedente tempio. Della struttura originale resta solo il podio in opera reticolata: dell'intero apparato decorativo non è rimasta traccia, come anche del pavimento musivo della cella, eccezion fatta per alcune tessere di mosaico rinvenute nei pressi dell'edificio. Il culto a cui il tempio era destinato è, verosimilmente, quello di Giove, come testimoniano l'epigrafe funeraria dedicata a Sesto Paccio e il toponimo - Jovis Larene - con cui era nota anticamente l'area.
Contestualmente alla costruzione del tempio di Giove, fu realizzato l'ampliamento del recinto sacro, a ridosso del quale, sul lato interno settentrionale, furono realizzati degli ambienti destinati a magazzini, botteghe e vani ad uso dei cultori del santuario. Lo spazio recintato, eletto in tal modo a luogo del sacro, è tecnicamente definito temenos e presentava probabilmente un'organizzazione spaziale interna tesa alla celebrazione delle attività religiose da parte dei sacerdoti.
Il sacello delle divinità femminili

Nella zona posta a Occidente del temenos e dei due templi maggiori, su un terrazzo inferiore rispetto agli altri, è stato rinvenuto un terzo edificio templare di piccole dimensioni, affiancato da un deposito votivo e circondato da un recinto sacro: trattasi di un sacello di base quadrata, posizionato in perfetto allineamento con gli altri templi, anch'esso con ingresso a Sud-Est; l'ambiente conserva ancora parte del pavimento originale, realizzato in tessere rosse, e dell'intonacatura interna. All'interno del sacello, eretto verosimilmente tra il III e il II sec. a.C., è stata rinvenuta una discreta quantità di oggetti tipici del mundus femminile, come ampolle e balsamari vitrei, che conservano ancora le tracce di unguenti, profumi e cosmetici. L'elemento, in relazione anche agli oggetti conservati nel deposito (statuette e maschere votive fittili) ha lasciato intendere che il sacello era dedicato a divinità femminili, e in particolare a Cerere, Venere e Proserpina, culti spesso legati a quello di Giove.
La zona produttiva: la fornax calcaria

l'intensa attività produttiva e commerciale che faceva di Ocriticum un centro sufficientemente attivo anche sotto il profilo economico. Dalla Via Nova si diramava, difatti, una via glareata, una massicciata di pietrame ricoperta da pietrisco battuto misto a malta, che, dopo aver attraversato il pianoro, si inerpicava su per la collina orientale e conduceva a un vasto edificio rettangolare suddiviso in vani interni di differente dimensione. Sul lato orientale l'edificio, che poggia direttamente su roccia, presenta un'ampia cavità cilindrica scavata direttamente nel pendio: trattasi di una fornax calcaria, un impianto per la produzione della calce; tutti gli ambienti dell'ampio fabbricato (uno dei quali ancora conserva l'originale pavimento in terracotta) dovevano dunque essere destinati al raffreddamento, alla conservazione, allo stoccaggio e infine alla vendita della calce. Dell'impianto produttivo colpisce l'efficienza organizzativa quanto il diretto coinvolgimento - mediante il collegamento immediato della via glareata - nei traffici commerciali della Via Nova. È interessante mettere in evidenza come attività basilare per l'economia del paese di Cansano sia stata per molto tempo e almeno fino allo scorso secolo, proprio la produzione della calce, secondo un sistema meno sofisticato ma non dissimile da quello adottato dagli abitanti di Ocriticum: la calcara. Lungo la via glareata, in prossimità della fornax calcaria, è stato rinvenuto il basamento di un sepolcro monumentale, probabilmente un mausoleo della tipologia "a dado" o "ad ara".
Il tramonto di Ocriticum fra capanne, necropoli e campi coltivati
All'inizio dell'epoca imperiale, l'area templare di Ocriticum - l'unica sezione del sito archeologico indagata rigorosamente e totalmente, allo stato attuale degli studi - raggiungeva il culmine della propria estensione. Mentre Roma si apprestava a vivere gli ultimi anni di gloria del cosiddetto Beatissimum Seculum, il II secolo d.C., tutta l'area peligna fu colpita da un violento sisma, di cui restano tracce più o meno evidenti in buona parte dei siti archeologici un tempo parte dell'Ager Sulmonense. Il santuario di Ocriticum ne fu gravemente danneggiato e non fu ricostruito. Ebbe inizio un periodo di declino di tutta l'area, che fu, così, progressivamente abbandonata.
La sacralità che aveva contraddistinto l'area, però, fu percepita a lungo da chi la abitava. Se, infatti, fra i frequentatori probabilmente si ignorava l'originale funzione o il culto caratterizzanti i templi diruti, di questi si percepiva il peso spirituale e religioso, sicché i morti continuarono ad essere seppelliti all'interno del temenos: a ridosso del recinto sacro e delle fondamenta del tempio italico sono stati rinvenuti due sepolcri risalenti al VI secolo d.C., uno dei quali ospitava i resti d'una madre con la figlia e il loro (povero) corredo funebre, costituito da pochi gioielli all'interno di anfore di terracotta.
A ridosso del tempio romano, invece, fu eretta una capanna altomedievale di evidente impiego pastorale: già in questo periodo, infatti, il pianoro era ormai luogo di pascolo, e i templi come gli edifici romani e italici rimanenti fungevano da alloggio o rifugio per i pastori, oltre che da cava di materiale da poter reimpiegare altrimenti. Nei secoli successivi, quando l'area divenne feudo e quindi ambiente agricolo, i campi furono divisi mediante l'innalzamento di bassi muri a secco (detti macerine nel dialetto del luogo), i cui percorsi talora ricalcavano le sommità delle mura perimetrali degli edifici della quasi scomparsa Ocriticum, che a tratti fuoriuscivano dal terreno.
Le espoliazioni e gli scavi clandestini, che a partire dall'Ottocento hanno fortemente impoverito la zona, non hanno impedito di rinvenire una buona quantità di reperti nel corso della campagna di scavi intrapresa nel 1992 sulla base degli studi attuati nel corso del XX secolo da Antonio De Nino, Valerio Cianfarani con Ferruccio Barreca, Frank Van Wonterghem ed Ezio Mattiocco.

Abruzzo - Monumento funerario di Lusius Storax



Il monumento funerario di Lusius Storax è un sepolcro a tempietto della prima età imperiale, conservato nel Museo archeologico La Civitella a Chieti.
Gaius Lusius Storax Romaniensis era un liberto divenuto seviro augustale grazie alla riforma amministrativa di Augusto. I rilievi, per motivi epigrafici ed antiquarii (come il tipo delle armature dei gladiatori), sono datati tra il 30 e il 50.
Il monumento fu rinvenuto a fine '800 dell'archeologia Vincenzo Zecca ed esposto nella prima collezione archeologica Teatina, a seguire confluito nell'Antiquarium Teatinum allestito dal soprintendente Desiderato Scenna, e infine nell'attuale museo archeologico "La Civitella". L'area di rinvenimento era l'antica necropoli dei Calvi in zona chiesa di Santa Maria Calvona.

Il monumento è composto da due rilievi, fregio e frontone, di un sepolcro a tempietto. sul fregio è raffigurato con notevole vivezza un munus gladiatorio che il ricco Lusius doveva aver offerto in occasione della sua elezione. Vi sono raffigurati gladiatori e incitatori in varie pose (dal saluto, alla preparazione, alla lotta, alla vittoria o sconfitta), come se si trattasse di una scena unica, anche se in realtà le varie operazioni seguivano una precisa sequenza, una dopo l'altra. Il desiderio del committente doveva quindi essere soprattutto quello di far documentare la sontuosità del ludus, il cui costo era proporzionale al numero di lottatori impegnati. Questo rilievo è composto con calcolato equilibrio e un ritmato uso di pause e movimenti. Il fondo è neutro e i dettagli sono curati con cura, soprattutto i muscoli, i panneggi, ecc. Ciò ha fatto pensare a un'ispirazione diretta da modelli urbani di Roma.
La scena del frontone è più affollata e si propone di raffigurare un momento preciso nella realtà, l'investitura di Lusius Storax. Esistono due piani sovrapposti. Ai lati si trovano due gruppi di suonatori: cornicines a destra e tubicines a sinistra. In basso a sinistra, in primo piano, si trova un sedile con tre giovinetti, verosimilmente tre camilli che simboleggiano l'avvenuto sacrificio connesso con l'investitura. Il centro è occupato dal tribunal, con al centro Storax e ai lati due bisellia (sedili onorari romani a due posti): vi sono seduti i quattuorviri di Teate (nome dell'antica Chieti), affiancati da un littore in piedi. A destra, simmetricamente ai tre camilli, si trova un personaggio con bastone, che è un augure o un lanista.
Il secondo piano ha come sfondo un colonnato, molto probabilmente il foro di Teate, sede del ludus descritto nel fregio. Le figure in secondo piano sono undici personaggi togati (il collegio dei seviri augustali, con sei uscenti e cinque entranti in carica, ai quali va ovviamente aggiunto Storax) e un littore. Tra i seviri, tutti sembrano intenti ad osservare i giochi, mentre uno è accostato all'orecchio di Storax e due stanno (a destra) invece contando del denaro in uno scrigno, testimonianza dell'avvenuto pagamento da parte di Storax della summa honoraria: questa certificazione non avvenne certamente durante il ludus, ma era un episodio che arricchiva la scena.
All'estrema sinistra, sempre in secondo piano, si svolge una concitata scena di zuffa con quattro personaggi (una donna a braccia spalancate, un uomo che tira un pugno sulla faccia di un altro), forse una documentazione di un piccolo tumulto popolare durante il ludus, come nel caso della zuffa fra Pompeiani e Nocerini ritrovata su una pittura "plebea" di Pompei.
L'opera è un interessante documento di quella corrente "plebea" (non legata alla committenza più raffinata), in questo caso italica, che nel giro di tre secoli divenne arte di Stato. In particolare alcune soluzioni ingenuamente intuitive, ma altamente comprensibili, come la narrazione riassuntiva di più momenti, l'uso della prospettiva deformata, la proporzione ingrandita per il personaggio principale, i ludi a un piano inferiore, ecc., si ritrovano in quelle opere imperiali del IV secolo come l'Arco di Costantino o il Dado di Teodosio.
La grossolana "nuova" aristocrazia locale con opere come queste rendeva leggibili a chiunque il proprio status e le res gestae del committente.

Abruzzo - Guerriero di Capestrano

 

Il Guerriero di Capestrano è una scultura in calcare tenero locale del VI secolo a.C., del periodo dell'arte italica, rinvenuta in una necropoli dell'antica città di Aufinum, località situata nei pressi di Capestrano (AQ), e raffigurante un guerriero dell'antico popolo italico dei Vestini. Si tratta di una delle opere più monumentali e significative dell'arte italica ed è conservata a Chieti, nel Museo archeologico nazionale d'Abruzzo. Una riproduzione a grandezza naturale del Guerriero è collocata nell'atrio del Castello Piccolomini di Capestrano. La statua e un busto di donna furono rinvenuti nel 1934 da un contadino locale durante i lavori di dissodamento del suo terreno nel territorio di Capestrano; aveva le gambe mozzate e indusse l'archeologo Giuseppe Moretti a successivi scavi grazie ai quali si giunse ad una vera e propria necropoli in cui spiccarono molti altri ritrovamenti tra cui svariati ornamentali femminili.
La scultura fu assicurata alla allora soprintendenza archeologica delle Marche e Abruzzi insieme al corredo funebre e al torso rinvenuto, detto "Dama di Capestrano". In seguito la soprintendenza archeologica dell'Abruzzo collocò la statua a Chieti insieme nella sede del Museo Archeologico Nazionale d'Abruzzo. La scultura è esposta in una stanza apposita al piano terra del museo.
Il guerriero, la cui decorazione doveva essere in origine completata dal colore dipinto (restano in alcuni punti tracce di colore rosso), rappresenta, in dimensioni più grandi del vero (l'altezza, senza la base, raggiunge i 2,09 m), una figura maschile stante, con braccia ripiegate sul petto, in costume militare. La testa è coperta da un elmo da parata a disco che copre le orecchie e ha una maschera sul volto; il torace è protetto da dischi corazza retti da corregge, mentre un altro riparo, in cuoio o in lamina metallica, sorretto da un cinturone, protegge il ventre. Le gambe recano degli schinieri e i piedi calzano dei sandali. Appesi davanti al petto, il guerriero porta una spada, con elsa e fodero decorati, e un pugnale. A destra regge una piccola ascia. Gli ornamenti sono costituiti da una collana rigida con pendaglio e da bracciali sugli avambracci.
Il copricapo (di 65 cm. di diametro), caratteristico per le sue larghe tese che lo fanno assomigliare ad un sombrero, è stato interpretato come un elmo da parata, dotato di cimiero (sulla parte superiore si notano le tracce di una cresta sporgente, oggi perduta), oppure come lo scudo (difesa), che veniva portato sulla testa quando non era in uso in battaglia.
La figura poggia su un piedistallo ed è sorretta da due pilastrini laterali, sui quali sono incise delle lance. Sul sostegno di destra vi è un'iscrizione in lingua sud picena, un'unica riga di testo con verso dal basso in alto e parole separate da punti: MA KUPRí KORAM OPSÚT ANI{NI}S RAKINEL?ÍS? POMP?[ÚNE]Í. Il senso del testo è stato ipotizzato come Me, bella immagine, fece (lo scultore) Aninis per il re Nevio Pompuledio (Adriano La Regina) o, più cautamente come fece (fare) Aninis per Pomp? (Calderini et al. 2007). Il guerriero è probabilmente raffigurato morto, come suggeriscono la maschera facciale e i sostegni. Si trattava probabilmente della statua posta come segnacolo sulla tomba regale.
Di eccezionale qualità, la statua sembra inserita nel quadro della scultura picena, per il quale non mancano altri esempi di grandi dimensioni (una stele antropomorfa proveniente da Guardiagrele e una testa di guerriero da Numana).
L'anatomia del guerriero non è definita come nei coevi kouroi greci, ma è più approssimativa, mentre molta più cura è stata dispensata nel raffigurare dettagli come le armi, per sottolineare il rango e l'importanza del personaggio.

Abruzzo - Antinum

 

Antinum (anche nell'italianizzazione Antino) era un'antica città dell'Italia centrale, importante centro del popolo dei Marsi situato nella valle Roveto non distante dal confine con il territorio dei Volsci. Corrisponde alla contemporanea cittadina di Civita d'Antino, in provincia dell'Aquila.
Importante centro dei Marsi, antico popolo italico, fin dal I millennio a.C., conservò tale ruolo fino all'assoggettamento a Roma, avvenuto nel tardo IV secolo a.C.; divenne quindi municipio romano i cui abitanti erano noti con il domonimo di Marsi Antinates. Conobbe un ininterrotto sviluppo nel corso dei secoli. In età medievale l'antica acropoli fu trasformata in una cittadella sviluppatasi intorno alla torre, che ha assunto il nome di torre dei Colonna, nel centro storico della contemporanea Civita d'Antino.
Si sono conservati alcuni tratti delle mura poligonali che correvano per circa 1 300 metri lungo tutti i lati della cittadella escluso quello orientale, naturalmente protetto dalle ripide pareti dei burroni che risalgono alla prima metà del V secolo a.C.. Al centro dell'abitato, tra la moderna chiesa parrocchiale di Santo Stefano, il palazzo Ferrante e la porta Nord si trovava il foro, andato totalmente perduto. Rimangono invece due muri in opus reticulatum, di età tardo-repubblicana, noti con il nome di "Terme".
Nel sito o nelle sue immediate vicinanze sono state rinvenute anche diverse testimonianze epigrafiche, in particolare alcune in lingua marsa tra cui il Bronzo di Antino con dedica alla divinità Vesuna.


Abruzzo - Villa romana di Avezzano

 

La villa romana di Avezzano è un sito archeologico in cui sono conservati i resti di una villa rustica di epoca romana. Situata nel territorio della contemporanea città di Avezzano, in località Macerine, lungo l'originario tracciato della via Tiburtina Valeria affiancato dalla moderna strada statale 5 Via Tiburtina Valeria è tornata alla luce a cominciare dal 2005 in seguito ai lavori per la realizzazione di un centro commerciale. La villa romana di Avezzano venne edificata nel II secolo a.C. in un podere di circa 3.000 metri quadri appartenente all'ager publicus di Alba Fucens, la colonia romana fondata da Roma tra il 304 e il 303 a.C. nel territorio degli equi al confine con quello dei marsi. La fattoria venne utilizzata dai coloni in primo luogo per le coltivazioni agricole e per altre attività produttive che si resero necessarie per il fabbisogno della popolazione di Alba Fucens. La colonia, divenuta un fiorente e popoloso centro commerciale, risulta collegata al territorio circostante della contemporanea Avezzano tramite un viale lastricato che prosegue in ciottolato lungo i terrazzamenti fino ad uno dei decumani della villa.
Abitata fino all'inizio del VI secolo d.C venne abbandonata con ogni probabilità a seguito di un terremoto che sconvolse l'intera area.
Il sito archeologico è stato aperto al pubblico nel 2008.
La struttura, protetta da una copertura in legno lamellare, è raggiungibile attraverso uno dei decumani est-ovest che conduce nell'atrium della villa, intorno al quale sono disposti gli altri ambienti destinati al proprietario e alla servitù. Nel settore residenziale alloggia l'impluvium che serviva a raccogliere le acque piovane Il percorso è caratterizzato dalla presenza di cisterne e vasche del settore rustico, in cui venivano rispettivamente raccolti i recipienti dell'olio e del vino e veniva effettuata la spremitura delle olive con il torchio.
Gli scavi stratigrafici e la successiva ricomposizione hanno evidenziato che la struttura è stata ingrandita nel corso dei secoli ed è stata arricchita tra l'altro con i bagni privati con sistema di riscaldamento a suspensurae, le terme e, tra il II ed il III secolo d.C., con un pavimento a mosaico le cui tessere formano alcuni motivi figurati. Quello centrale policromo rappresenta la vittoria alata su una biga trainata da due cavalli in corsa. Tombe risalenti al V-VI secolo d.C. sono tornate alla luce nelle adiacenze del perimetro della villa, restituendo alcuni oggetti utilizzati per l'ornamento dei defunti che insieme ad altri elementi di uso quotidiano come la vera da pozzo in marmo sono esposti all'interno dell'attiguo centro commerciale.

Abruzzo - Anfiteatro romano di Amiternum

 


L'anfiteatro romano di Amiternum era il principale anfiteatro dell'antica città sabina di Amiternum, i cui resti archeologici sono situati nei pressi dell'abitato di San Vittorino nel territorio comunale dell'Aquila.
Dichiarato monumento nazionale nel 1902, la struttura si fa risalire al I secolo d.C., ed è quindi leggermente successiva al teatro romano. Contrariamente a quest'ultimo, l'anfiteatro si staglia all'estremità meridionale della città, lontano dal Foro. La cavea, che si eleva sulla via Amiternina tra il colle San Marco e il fiume Aterno, ha diametri di 68 e 53 metri misurati rispettivamente sulle direttrici est-ovest (lato parallelo alla scena del teatro) e nord-sud. Le arcate sono 48 e reggevano le gradinate, oggi praticamente scomparse,originariamente disposte su due piani e rivestite in laterizio; si stima che la capienza complessiva fosse di 6.000 persone. Dell'anfiteatro è oggi ancora visibile l'intero corridoio esterno con il colonnato a mattoncini sagomati e la struttura della cavea con muratura a sacco e rivestimento in laterizio. L'ingresso all'arena avviene dall'entrata situata sull'asse maggiore est-ovest, detta Porta Triumphalis.
Il monumento si presume sia stato rinnovato nel secolo successivo alla sua costruzione e abbandonato in seguito alla decadenza di Amiternum. La cavea è rimasta sempre in vista e ne è testimoniata la presenza negli archivi catastali ma l'intera struttura è tornata alla luce solo con gli scavi archeologici del 1880, mentre i lavori di consolidamento e restauro risalgono al 1996.
Altri scavi, effettuati nella seconda metà del Novecento, hanno portato alla luce i resti di una domus di età tardo-romana di cui è ancora oggi ben visibile la planimetria articolata su una corte centrale porticata sulla quale si affacciavano i vari ambienti; sono stati scoperti la sala di ingresso (atrium), la sala per la raccolta di acqua piovana (impluvium) e una sala di rappresentanza (tablinium), tutti ricchi di mosaici ed affreschi. Il sito è oggi parte di una vasta area archeologica comprendente anche il teatro romano e le catacombe di San Vittorino.


Abruzzo - Torre Bruciata

 
La Torre Bruciata è un bastione romano in opus quadratum risalente al II secolo a.C. Si trova a Teramo, nella centralissima piazza Sant' Anna, contigua all'Antica cattedrale di Santa Maria Aprutiensis (oggi chiamata chiesa di Sant'Anna de' Pompetti). Il corpo della costruzione si sviluppa da una base quadrata ed è alto circa 10 m, con mura spesse 1,30 m e larghe 8 m. Questa possente torre venne eretta nel II secolo a.C. utilizzando grandi blocchi di travertino ben squadrati. L'appellativo "bruciata" deriva dal fatto che ancora oggi il lato meridionale del bastione mostra evidenti tracce del devastante incendio che la città di Teramo subì nel 1156 per mano di Roberto II di Bassavilla Conte di Loretello, ribelle al Re palermitano Guglielmo I verso il quale la città voleva restare fedele.
Circa la sua funzione, c'è chi ritiene che potesse essere la torre campanaria della vicina cattedrale di Santa Maria Aprutiensis, ma c'è anche chi suppone, più semplicemente, che fosse un altissimo bastione difensivo che sovrastava la megalitica cinta muraria a nord-ovest della città, prima della nascita di Cristo. Lo storico dell'architettura d'Abruzzo Ignazio Gavini sostiene invece che, in epoche ovviamente diverse, la torre possa aver svolto entrambe le funzioni.

Abruzzo - Teatro romano di Teramo

 

Il Teatro romano di Teramo è situato nel centro storico della città abruzzese, tra via Teatro Antico e via Luigi Paris, nelle vicinanze del Duomo e a pochi metri dall'Anfiteatro romano di Teramo.
Il complesso architettonico trovò la sua ubicazione nella porzione del tessuto urbano occidentale dell'antica Interamnia. L'impianto cittadino dell'epoca era, probabilmente, diviso in due settori che si distinguevano tra la parte orientale, di maggiore vetustà, corrispondente alla zona dell'attuale piazza Ercole Vincenzo Orsini, e la parte occidentale dove giungeva il diverticolo d'ingresso della via Caecilia e dove furono costruiti gli edifici pubblici del Teatro e dell'Anfiteatro a cui si ritiene fossero affiancati anche un odeon e un tempio di Priapo.
Il sito si mostra nelle migliori condizioni di conservazione delle strutture di epoca romana coeve, sia esistenti nella città, sia se paragonato agli altri impianti presenti del territorio della Regio IV Samnium e della Regio V Picenum, sebbene, nel periodo medioevale, fu utilizzato come cava di materiale lapideo per la costruzione di edifici vicini, in particolare della cattedrale.
L'epoca di costruzione del Teatro teramano fu contemporanea a quella di altri edifici simili eretti in città limitrofe come: Amiternum, Peltuinum, Hatria ed Asculum.
Edificato in età augustea, presentava nell'alzato del palcoscenico ricche decorazioni realizzate nel 30 a.C., disposte in nicchie alternate di forma rettangolare e semicircolare. Il monumento fu innalzato nel settore occidentale della città, molto probabilmente all’interno delle mura, e fu collocato nel punto d’ingresso alla città a livello del diverticulum (estroflessione) della via Caecilia che collegava Interamnia Praetuttiorum a Roma.
Nel Museo Archeologico di Teramo è esposta una statua femminile acefala in marmo greco, rinvenuta nel 1942, facente probabilmente parte di un ciclo statuario dinastico concepito sotto il governo di Augusto il quale fu poi ampliato e implementato probabilmente sotto il governo dell’imperatore Claudio e di cui oltre ad essa sono giunte a noi due iscrizioni che menzionano i figli adottivi di Augusto morti prematuramente Lucio Cesare e Gaio Cesare.
Nel medioevo il Teatro subì la stessa sorte di numerose altre opere monumentali romane tra cui anche il vicino Anfiteatro, ovvero fu utilizzato come cava di materiale per la costruzione di vari edifici limitrofi, in particolare per quella del Duomo di Teramo edificato nel XII secolo nell'area nord-occidentale adiacente al sito archeologico del Teatro. Nella parete nord-orientale esterna del Duomo e in alcune parti interne si possono pertanto tuttora osservare alcune pietre scolpite che furono asportate dalle costruzioni romane.
li scavi nel centro storico di Teramo per il recupero del Teatro romano sono stati oggetto di lunghe vicissitudini. Per molto tempo il palcoscenico rimase nascosto dalla zona urbana sovrastante, comprendente tra gli altri i palazzi Adamoli e Salvoni edificati alla fine dell'Ottocento.
Fu lo storico e archeologo teramano Francesco Savini a scoprire, nel corso del XX secolo, che sotto quell'area urbana c’era il Teatro nella sua interezza. Inizialmente l’archeologo pensava di indagare i resti dell’Anfiteatro ma successivamente la scoperta di elementi della scena e dell’orchestra costituirono per lui la prova che l’edificio in corso di esplorazione era un Teatro romano.
Egli condusse quattro campagne di scavo partendo inizialmente da progetti a proprie spese. In seguito presentò un progetto presso l'Accademia dei Lincei e nel 1915 ricevette finanziamenti dalla Soprintendenza per le antichità di Marche, Abruzzo e Dalmazia, ma la prima guerra mondiale interruppe bruscamente i lavori che furono eseguiti solo in minor parte dopo il termine di essa.
Nel 1934 il podestà Giovanni Lucangeli avviò la demolizione di alcuni degli edifici sorti su parte del Teatro romano, il cui isolamento e recupero era stato progettato dagli ingegneri Sigismondo Montani e Andrea Cardellini. Nel corso dei lavori si arrivò a distinguere il Teatro romano dal limitrofo Anfiteatro che nel Cinquecento, prima della demolizione delle strutture interne avvenuta nel XVIII secolo per fare posto al seminario vescovile aprutino, fu descritto dal vescovo di Teramo Giulio Ricci.
Il ministro dell'Educazione Nazionale Giuseppe Bottai si recò a Teramo nel 1937 per un sopralluogo al Teatro e alle prime emergenze dell'Anfiteatro, prendendo la decisione di finanziare il recupero di entrambi i reperti romani. La demolizione fu interrotta nuovamente a causa della guerra e i finanziamenti andarono perduti.
Da questo momento in avanti, all’incuria si aggiunsero anche controversie giudiziarie. Nel 1999, l’allora ministro dei beni culturali Giovanna Melandri stanziò 900 milioni di lire per l’acquisto, in vista dell’abbattimento, di palazzo Adamoli. La Soprintendenza tuttavia non esercitò il diritto di prelazione e, in seguito a numerosi atti di vendita tra società private, il palazzo fu infine acquistato dalla Regione Abruzzo per un milione e duecentocinquantamila euro, circa tre volte il prezzo fissato inizialmente dal ministero. Dal 2007 sono in corso i lavori per la demolizione che porteranno alla luce un'ulteriore porzione del monumento. Il cantiere tuttavia rimane inconcluso e palazzo Adamoli, a seguito del terremoto dell'Aquila del 2009, è oggetto di un ulteriore consolidamento delle strutture. Numerose furono inoltre le controversie riguardanti ulteriori atti di speculazione sui due palazzi da abbattere. Fino al 2021 era stato pertanto riportato alla luce solo il tratto orientale del palcoscenico mentre una larga parte dell’orchestra e della cavea rimanevano obliterate dalle costruzioni sovrastanti. Nel dicembre 2021 è stato avviato il cantiere per la realizzare infine la demolizione dei due palazzi, per la "rifunzionalizzazione" del Teatro e per la riqualificazione dell’area circostante. I due palazzi sono quindi oggetto di smontaggio piano per piano per evitare danni alle strutture sottostanti.
I resti del complesso architettonico si trovano fra i 2,50 -3,00 metri al di sotto dell'attuale livello stradale e mostrano che la struttura originale poteva ospitare circa tremila spettatori sulle gradinate di forma semicircolare, la cavea, del diametro di 78 metri. La struttura interna si articolava in 21 settori radiali a cuneo dei quali si intuiscono le forme. Il perimetro della facciata esterna era, probabilmente, costituito da due ordini sovrapposti di arcate, poggianti su pilastri in opera quadrata, disposte in successione. Ne rimangono visibili solo due del piano inferiore. Le volte che sorreggevano la cavea erano realizzate in opera cementizia. Rimangono anche quattordici gradini in travertino che facevano parte di una delle gradinate che, attraverso i vomitoria permettevano l'uscita degli spettatori.

Abruzzo - Mosaico del Leone, Teramo

 


Il Mosaico del Leone è una decorazione pavimentale del tablino della omonima Domus, sita nel seminterrato di Palazzo Savini a Teramo.
Annoverato tra gli emblemi della storia archeologica teramana, il Mosaico del Leone è databile intorno al I secolo a.C., così come quelli, simili nella fattura, rinvenuti a Pompei e nella Villa Adriana a Tivoli. È stato universalmente riconosciuto come uno degli esempi più alti dell'arte del mosaico.
La scoperta di questa domus romana risale al giugno del lontano 1891, durante i lavori di ristrutturazione di Palazzo Savini. Il palazzo fu costruito sopra le vecchie carceri penali di Teramo, nel rione San Leonardo (via Antica Cattedrale), non distante dalla Domus romana del I secolo a-C. in Largo Sant'Anna, sopra cui fu costruita la prima cattedrale di Teramo di "Santa Maria Aprutiensis", oggi Sant'Anna dei Pompeti. Oltre al Mosaico del Leone furono rinvenute anche altre ricche decorazioni musive. La domus ha subito molti danni a causa degli interventi edilizi di quell'anno, molte parti della casa sono state prima messe in luce e poi ricoperte o, nella peggiore delle ipotesi, inglobate nelle nuove murature; ad aggravare questa situazione contribuì la forte umidità che ha seriamente lesionato la pavimentazione musiva, tanto da renderla in alcuni punti di difficile lettura.
La domus del Leone rientra nella tipologia abitativa cosiddetta greco-romana, che si sviluppa a partire dal II secolo a.C. e di cui si hanno a Pompei numerosissimi esempi. Alla normale disposizione su uno stesso asse di vestibolo - atrio - tablino è aggiunto il peristilio (il giardino porticato), la cui presenza qui è dimostrata dal ritrovamento di numerosi frammenti marmorei di statue e di altri elementi architettonici e decorativi nell'area adiacente alla sala del tablino.
Alla casa si accede tramite un ingresso, di cui resta la soglia pavimentata in cocciopesto che immetteva direttamente nell'atrio.
L'atrio aveva una copertura sostenuta da quattro colonne angolari (tetrastilo). Il pavimento dell'atrio, lungo 10,40 m e largo 6,70 m, è in opus scutulatum, realizzato con scaglie di pietra o marmo, di vario colore e formato, inserite in fondi di vario tipo e disposte sparse o secondo motivi decorativi, secondo modalità utilizzate dal I secolo a.C. Il fondo è in piccole tessere bianche disposte secondo un ordito regolare in cui sono inserite piccole scaglie di diversi tipi di marmi e colori: il tutto è incorniciato da un'ampia fascia di tessere nere e completato da un motivo romboidale di squame allungate, bipartite, adiacenti, in contrasto bianco-nero tra le colonne dell'impluvio. Questo tipo di pavimentazione appare agli inizi del I secolo a.C., perdura nel I secolo d.C. fino all'età giulio-claudia.
Al centro dell'atrio si trova l'impluvio, consistente in una grande vasca atta a raccogliere l'acqua piovana, era utile per l'approvvigionamento idrico. L'acqua, attraverso una canaletta sotterranea, confluiva in una cisterna. La vasca, lunga 4,90 m e larga 2,50 m, è pavimentata in opus spicatum, tutt'intorno corre un gradino sagomato su cui si innestano, agli angoli, le basi attiche delle colonne scanalate, che sostenevano il compluvio.
Dall'atrio si arriva al tablino attraversando una grande apertura larga 2,50 m, si ipotizza che questo passaggio venisse chiuso con una tenda per impedire la visione interna del tablino stesso; tale tenda era appesa ad un'asta orizzontale sostenuta da piccoli pilastri, dei quali rimangono i piedritti. La soglia dell'ingresso è in mosaico, con il motivo del meandro prospettico a svastiche e quadrati nei colori rossiccio, bianco, nero, ocra, verdastro (motivo tipicamente ellenistico). Il tablino ha la dimensione di un quadrato con lato di 3,80 m, due stretti corridoi larghi 1,15 m (se ne ignora la lunghezza) e davano, probabilmente, accesso al peristilio; a causa della perdita delle strutture murarie non è possibile comprendere appieno la decorazione parietale, eccetto tracce di intonaco rosso nel muro di fondo del tablino. Quest'ambiente è pavimentato da opus tessellatum policromo, costituito da tessere di pietra di forma regolare e grandezza variabile, il tipo decorativo dominante è quello del soffitto piano a cassettoni, entro i quali sono rappresentati motivi naturalistici. Al centro vi è l'emblema rappresentante un leone in lotta con un serpente su uno sfondo naturalistico, contornato da una treccia a due capi, intorno al riquadro del leone girano ricche ghirlande, tenute ai quattro lati da maschere teatrali, e, più all'esterno, un motivo a treccia a calice.
L'Emblema del Leone (per emblema si intendeva un pannello musivo che veniva eseguito in bottega con minuscole tessere, disposto su lastre di marmo o travertino o terracotta e successivamente inserito nel tessellato) è inserito entro una cassetta di pietra: la tecnica per un emblema era quella del vermicolato, ciò eseguito con tessere piccolissime e di forma irregolare, tagliate in modo da seguire i contorni della figura, ottenendo un effetto simile alla pittura; nel Mosaico del Leone le tessere dello sfondo sono quadrangolari, allungate quelle dei baffi, tonde quelle della pupilla e dell'iride. Complessivamente qui è applicata la disposizione centripeta, ossia quella in cui la grandezza delle tessere va decrescendo dall'esterno verso l'interno; il perimetro dell'emblema teramano è ornato da un motivo a treccia a due capi con nodi serrati su fondo scuro. I colori impiegati sono due: l'arancio e il grigio verde in diverse gradazioni tonali; quattro file di tessere compongono ogni nastro, che ha una notevole resa plastica ottenuta mediante opportuno utilizzo delle variazioni tonali dei due colori usati. Al centro della scena vi è un leone in posizione di attacco (zampe anteriori divaricate e schiena inarcata) raffigurato leggermente in scorcio, mentre con la zampa anteriore artiglia il serpente, che a sua volta avvinghia la coda attorno alla zampa posteriore sinistra del leone. Quasi ad occupare tutta la scena è la testa con le fauci spalancate e la folta criniera resa con tessere dalle diverse tonalità del giallo oro. La pelle del serpente invece è resa da colori arancio e verde cupo sul dorso, mentre il ventre è realizzato da minuti frammenti beige con macchie scure. L'ambientazione è quella ai margini di una pozza d'acqua azzurra, tutt'intorno vi sono elementi vegetali: due alberi dei quali uno dal fusto nodoso e largo e chioma ampia, l'altro dal fusto sottile e foglie palmate con bacche e frutti. Molto accentuato è l'effetto chiaroscurale: una fonte di luce sembra provenire da destra inondando completamente il muso del leone.

Abruzzo - Santuario di Ercole Curino

 

Il santuario di Ercole Curino è un sito archeologico statale gestito dalla Direzione generale per i beni archeologici che si trova a Sulmona in località Badia, sulle montagne del Morrone tra l'abbazia di Santo Spirito dei Celestini e l'eremo di Celestino V. Gli scavi, iniziati nel 1957, avevano fatto inizialmente supporre la presenza della villa di Ovidio, originario proprio di Sulmo, ma rivelarono poi il sito di un santuario italico, dedicato a Ercole come dimostrano il tipo di materiale votivo rinvenuto e le iscrizioni di dedica. L'epiteto di Curinus o Quirinus era dato anche a altre divinità, come il Giove Quirinus di Superaequum e venne dato in epoca repubblicana. I Romani legavano infatti l'epiteto "Quirinus" con Romolo divinizzato, simbolo dell'unità delle comunità protostoriche che formarono il primitivo insediamento di Roma (Quirinus sarebbe infatti all'origine di curia).
Un ampliamento del santuario risale a dopo la fine della guerra sociale (89 a.C.), quando venne ingrandito passando da struttura di carattere locale a grande santuario su terrazze simile al santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina o al santuario di Ercole Vincitore a Tivoli, sorti nello stesso periodo.
La parte superiore del santuario venne sepolta da una frana antica verso il II secolo d.C.; la frequentazione del sito però non si interruppe del tutto, come testimonia l'innesto di una chiesa in epoca cristiana, a ridosso della scalea meridionale.
La grande scalea meridionale poteva essere un ingresso monumentale, forse usato anche come luogo di riunione per le assemblee locali, sotto la protezione del dio "Curino"
I due terrazzamenti del santuario sono stati realizzati in epoche diverse: quello inferiore è più recente, in opus caementicium con un grandioso podio (71 metri di lunghezza) che ospita 14 ambienti coperti da volte a botte; quello superiore, presillano, era chiuso su tre lati da un portico colonnato (restano alcune basi).
L'altare, inusitatamente ricoperto da lastre di bronzo, e il piccolo sacello della divinità si trovavano al centro della terrazza superiore. 
Dal sacello provengono i reperti più importanti del complesso, quali due statue di culto di Ercole, una di bronzo (al Museo archeologico di Chieti) e una marmorea, oltre a una colonnina con 12 versi graffiti, attribuiti a Ovidio.


domenica 29 giugno 2025

Abruzzo - Pallanum


Pallanum 
era un'antica città del popolo italico dei Frentani, oggi sito archeologico sul Monte Pallano. Il nome Pallanum appare per la prima volta nella Tavola Peutingeriana. Nel IV-V secolo d.C. parrebbe essere una stazione sulla strada che congiungeva Aternum (oggi Pescara) e Larinum (presso l'attuale Larino). Pallanum si troverebbe così al VII miglio da Anxanum (l'odierna Lanciano) ed al XII miglio da Histonium (l'odierna Vasto). Edward Bispham ipotizza che Pallanum sia una città di origine sannitica. Dal I secolo a.C. la popolazione incominciò a diminuire.
Vari storiografi se ne occuparono dal 700 all'800, Pietro Polidori, Domenico Romanelli, Antonio Ludovico Antinori, e in epoca più recente Valerio Cianfarani e Andrea Staffa. In occasione degli scavi archeologici degli anni 90, molto materiale in ceramica e in pietra è stato portato a Chieti, esposto nel Convitto nazionale "Giambattista Vico", e nel Museo archeologico nazionale d'Abruzzo a Villa Frigerj.
Ad est dell'insediamento si erge un'antica e possente muraglia difensiva (nella foto in alto) edificata in periodo italico, di cui ne restano circa 160 metri, alta in media 4 metri ed intervallata in origine da quattro porte, di cui ne sono sopravvissute due: la "Porta del Monte" e la "Porta Del Piano" (quest'ultima è coperta da un architrave - nella foto). La porta del Piano, larga 80 cm, si trova nella parte più alta del sito, mentre la porta del Monte è posta più a valle, laddove i blocchi diminuiscono di grandezza, ravvisando una diversa tecnica costruttiva. I blocchi utilizzati sono di tipo calcareo, provengono dalla stessa montagna e sono accatastati a secco. Una leggenda vuole edificate le mura megalitiche da Carlo Magno, in realtà furono edificate nel periodo italico tra il VI ed il III secolo a.C.
In un avvallamento ad un'altitudine leggermente inferiore, ad ovest delle mura megalitiche, si trovano le rovine di un insediamento romano di medie dimensioni. È composto da un complesso di costruzioni che si sviluppano attorno ad uno spazio vuoto centrale. Inoltre sono state rinvenute tegole di terracotta, varie monete di età romana ma soprattutto numerosi manufatti di ferro.
Molte murature sono state edificate a secco, altre in opera pseudo-isodoma. Le pavimentazioni, realizzate in argilla, gesso e pozzolana sono in opus signinum. Vari dislivelli lasciano supporre vari terrazzamenti dell'abitato.

Abruzzo - Museo archeologico "La Civitella"

 

Il museo archeologico "La Civitella" è sito nel parco archeologico de "La Civitella" a Chieti su progetto dell'architetto Ettore De Lellis, già progettista del Museo Paludi di Celano. La struttura museale odierna, che in parte è sita in piani sotterranei, è parte integrante di un complesso con giardini, zone pedonali, un auditorium, un laboratorio archeologico, ambienti per attività ludiche e didattiche ed un ambiente per mostre temporanee.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale dell'Abruzzo, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
La prima collezione di materiale archeologico, dopo gli scavi effettuati a Chieti, fu voluta dal soprintendente Vincenzo Zecca, che si adoperò per allestire una mostra della sua collezione presso il palazzo comunale. Tra queste opere c'era anche il sepolcro del liberto Lusius Storax, rinvenuto nel rione Santa Maria Calvona. Tuttavia dopo pochi anni, il museo chiuse per mancanza di fondi.
Il progetto del Museo nasce nuovamente nel 1938, quando si costituì l'Antiquarium Teatinum presso l'ex chiesa di San Paolo dei templi romani, che constava in una buona raccolta di reperti archeologici rinvenuti a Chieti. La collezione poi confluì nel Museo Archeologico Nazionale di villa Frigerj. Nel 1982 durante dei lavori di costruzione del nuovo acquedotto, si scoperse sotto lo stadio comunale "Civitella" l'anfiteatro romano, pertanto lo stadio nuovo venne costruito a Chieti Scalo, lo Stadio Angelini, e iniziarono i lavori di scavo dell'anfiteatro, terminati nei primi anni 2000. Venne inoltre realizzata la prima struttura del Museo archeologico "La Civitella", anche se l'allestimento attuale è frutto di interventi avvicendatisi tra il 2008 e il 2014. Il museo inserito nel complesso archeologico che gravita intorno all'anfiteatro romano, costituisce un'area qualificata in cui esporre la storia del sito della città di Teate fondata dai Marrucini e conquistata poi dai Romani, da cui sorse nel IX secolo la Chieti odierna.
A differenza del vicino Museo Archeologico Nazionale d'Abruzzo di Villa Frigerj, che contiene i maggiori pezzi d'archeologica della regione, questo si concentra solo sulla storia di Chieti, propone diverse possibilità di approccio, che possono essere sviluppate in un'unica visita o in più occasioni: "L'inizio della storia urbana - Da Roma a ieri - La terra dei Marrucini". La sezione "Il primo Museo archeologico" illustra la storia dell'archeologia teatina, attraverso la ricostruzione di uno dei più vecchi allestimenti che costituirono il museo; l'architettura del museo tende ad essere discreta all'esterno, integrandosi con i monumenti della sommità della Civitella, dominata dall'anfiteatro e dalla chiesa di Santa Maria; l'interno è caratterizzato da grande spaziosità e tende ad evidenziare i vari ambiti della città antica - necropoli, anfiteatro, vita quotidiana - attraverso ricostruzioni in scala reale (frontoni) e l'esposizione di tipo evocativo, utilizzando materiali tipici delle tecniche costruttive antiche.
Nel 2021 il museo chiude temporaneamente per mancanza di personale
L'esposizione permanente è così strutturata:


L'inizio della storia urbana
. In questa sezione vi sono i ruderi di età repubblicana (III-II secolo a.C.) tra cui dei frontoni in terracotta riferibili ad un tempio del II secolo a.C.

Lungo il corridoio che conduce alla Sala dei Templi, è visibile una sequenza di antefisse dell'Artemide Persiana e di Ercole seduto su roccia. All'interno del percorso sono stati ricomposti tre splendidi frontoni in terracotta policroma del complesso templare che sorgeva sull'acropoli della Civitella, più uno del gruppo dei Tempietti del nuovo Foro Romano (Piazza Tempietti). Del primo frontone relativo al Capitolium dell'antica Teate è stato possibile ricostruire 11 personaggi, al centro la Triade Capitolina a destra Mercurio che guida le Ninfe, a sinistra Marte armato e poi Apollo nudo. Il secondo frontone mostra al centro un uomo, identificabile come Giove, ai lati i Diioscuri accompagnati da Venere e la sorella Elena. Nel terzo frontone sono collocati al centro APollo affiancato dalle Muse, negli angoli Bacco ed Ercole seduti.

Da Roma a ieri
. Questa sezione è suddivisa secondo le seguenti tematiche: il Foro, il Teatro, l'Anfiteatro, le Terme, e le Necropoli.
I materiali che documentano la città romana e il suo sviluppo illustrano il percorso, organizzato per aree monumentali,, il Foro, il Teatro, l'Anfiteatro, le Terme e la Necropoli di Teate. Molti manufatti ricevono nuova vita all'interno di ricostruzioni in scala 1:1, vivacizzate da filmati, suoni e luci a effetto; nello spazio dedicato alla vita pubblica sono presente due ritratti in marmo di Augusto e Tito. Dal Foro invece provengono il ritratto di un sacerdote (a sinistra), un monumento di Iside, parti del gruppo di statue di Serapide, e il cane Cerbero. Nelle dimore patrizie, notevoli sono gli arredi marmorei; nelle sale dedicate al teatro e all'anfiteatro si possono osservare i resti archeologici provenienti dagli scavi degli anni '20 e '30. L'edificio termale mostra marmi policromi che decoravano gli ambienti, ed è presente una testa, forse di una Musa. Nell'area dedicata ai culti funebri è sistemato un grande monumento, nel fregio è visibile il combattimento tra gladiatori e nel timpano un certo Lusius Storax, libero al quale era dedicato il monumento, che assiste allo spettacolo, circondato da magistrati teatini e dal popolo. Nel vano della porta è possibile osservare lo stesso ritratto del liberto.

Monumento funebre di Lucio Storace

Il monumento è un sepolcro a tempietto della prima età imperiale, è composto da due rilievi, fregio e frontone. Sul fregio è raffigurato con notevole vivezza un gladiatorio che il ricco Lucio doveva aver offerto in occasione della sua elezione, vi sono raffigurati gladiatori e incitatori in varie pose, dal saluto alla preparazione, alla lotta, alla vittoria o sconfitta, come se si trattasse di una scena unica, anche se in realtà varie operazioni seguivano una precisa sequenza. Il desiderio del committente doveva essere soprattutto quello di far documentare la sontuosità di questi combattimenti a Teate. Il fondo è neutro e i dettagli sono ben curati; ciò ha fatto pensare a un'ispirazione diretta da modelli di Roma. La scena del frontone, realizzata a bassorilievo, è più affollata e si propone di raffigurare il momento dell'investitura di Lusius Storax. ci sono due piani sovrapposti, in basso a sinistra in primo piano si trova il sedile con tre giovani, tre camilli, che simboleggiano l'avvenuto sacrificio connesso con l'investitura; il centro è occupato dal tribunale con al centro Storax e ai lati due bisellia, ossia sedili onorari romani, su cui siedono i quattuorviri. A destra simmetricamente ai tre camilli, si trova un uomo con bastone, un augure. Il secondo piano ha come sfondo un colonnato, molto probabilmente il foro di Teate, le figure in secondo piano sono 11 personaggi togati, all'estrema sinistra sempre in secondo piani, una scena di zuffa con quattro personaggi, forse una documentazione di un tumulto popolare avvenuto durante il combattimento.

La Terra dei Marrucini
. In questa sezione espone reperti provenienti dalla media e bassa vallata del Pescara. un grande arazzo illustra l'area attraversata a nord e sud dal fiume Aterno, da Popoli Terme (allora Pagus Fabianus) sino a Ostia Aterni (Pescara), si possono vedere nelle teche reperti in pietra scheggiata risalenti a 400.000 anni fa, manufatti in ceramica datati al Neolitico, oggetti votivi offerti agli Dei, e molto altro. Strumenti dell'età della Pietra e ceramiche del villaggio di Catignano (PE), trindoducono alla sezione dedicata alla Grotta di Bolognano (PE), una delle cave dove sono stati rinvenuti moltissimi reperti dell'età preistorica e neolitica d'Abruzzo. L'età del Ferro è documentata da bronzi e armi provenienti da Villamagna (CH), Guardiagrele e Pretoro (CH); le fasi precedenti alla fondazione della Teate Marrucinorum sono documentate da materiali esposti nel settore "Prima di Teate", tra i quali l'elmo gallico e balsamario a testa di donna.

Il primo museo archeologico
. Questa sezione mostra materiali che ripercorrono la storia di questo museo dalle collezioni di fine XIX secolo fino alla realizzazione di un Antiquarium Teatinum avvenuta nel 1938, ovverosia del nucleo originario di questo stesso museo. Le collezioni si compongono di lucerne, selci, statuette votive, accumulate nel tardo Ottocento e nei primi anni del Novecento, che provengono non solo da Chieti, ma anche dai centri della sua provincia.


Molise - Santuario italico di Pietrabbondante

 

Il santuario italico di Pietrabbondante è una vasta area archeologica del Molise, sita a 966 m s.l.m. di altitudine in un ripido declivio che si affaccia sulla valle del Trigno, a circa un chilometro di distanza in linea d'aria dalla vetta del monte Saraceno. La zona non è attraversata da alcun tracciato stradale di grande comunicazione; sono individuabili tracce di un antico sentiero esistente tra il moderno abitato di Pietrabbondante ed il vicino monte Saraceno, già praticato in antico, una direttrice stradale che ancora oggi segue l'andamento del ripido pendio e, costeggiando il lato orientale del monte, rappresenta l’unica via di accesso all'area fortificata posta in vetta.
L’area sacra rappresenta, per le sue caratteristiche architettoniche e per la sua monumentalità, la testimonianza archeologica di maggior rilievo della cultura della popolazione italica dei Samnites Pentri, e la sua esplorazione sistematica ha consentito di ricostruire le vicende storiche del territorio attraverso i secoli ed ha fornito una quantità rilevante di dati sul più importante luogo di culto dello stato sannitico.
Le informazioni storiche e le rilevanze archeologiche, soprattutto epigrafiche, dimostrano che il santuario di Pietrabbondante è totalmente diverso da ogni altro conosciuto nel territorio dei Sanniti (San Giovanni in Galdo, Vastogirardi, Campochiaro, Schiavi d’Abruzzo); infatti non veniva utilizzato esclusivamente per ludi scenici, come gli altri, ma era sede di concilia, cioè delle adunanze del senato indette in particolari occasioni. Questo suo carattere “nazionale” è documentato ampiamente dai numerosi riferimenti epigrafici (risalenti al II secolo a.C.) alle attività svolte dai magistrati supremi dello stato (iniziative edilizie, dediche di edifici o di oggetti votivi).
Nel 2016 il sito archeologico ha fatto registrare 14 774 visitatori.


Senza dubbio il complesso monumentale di Pietrabbondante è stato edificato per una funzione esclusivamente religiosa, e tale carattere dovette conservare preminentemente fino al suo definitivo abbandono. Tutti gli edifici mostrano con evidenza la loro destinazione cultuale, compreso il teatro, intimamente connesso con la zona templare retrostante. Purtroppo un solo documento, una lamina bronzea trovata nelle vicinanze del tempio maggiore, testimonia uno dei culti praticati: si tratta di una dedica votiva alla dea Vittoria. Si conosce la diffusione del suo culto in Campania e nel Lazio, e si ha un'ampia documentazione sia letteraria che archeologica già a partire dal IV – III secolo a.C. confermata anche da una ricca documentazione numismatica. Alquanto controversa è l’origine del culto secondo la tradizione letteraria latina. La divulgazione di questa forma religiosa nell'Italia centro-meridionale è da attribuirsi ad influsso greco: il culto per la dea Vittoria sarebbe quindi un'interpretazione ellenizzante di una divinità locale, già esistente in epoca più antica, come, ad esempio, la dea sabina Vacuna. Per il resto nulla sappiamo degli altri culti praticati nel santuario, neppure dalle numerose iscrizioni rinvenute nel sito.
Costruito per volontà politica del governo centrale, con l’appoggio ed il sostegno di eminenti famiglie, l’area sacra svolgeva inoltre anche un preciso ruolo in rapporto alle imprese belliche condotte dai Sanniti: la grande maggioranza di oggetti rinvenuti nei livelli più antichi esplorati è costituita da armi, certamente bottino predato ai nemici dopo una vittoria, che proprio qui venivano consacrate come trofeo alla dea Vittoria. Questo particolare giustifica così la mancanza quasi assoluta di ritrovamenti di armi in altri luoghi, anche dove potrebbe essere legittimo attenderseli.
Più di ogni altra località del Sannio, il territorio di Pietrabbondante rivela, attraverso la distribuzione delle strutture insediative, le caratteristiche tipiche di una comunità non urbanizzata. Il santuario però non rappresenta una presenza isolata nell'area, anzi rispecchia un'attività federale e non più soltanto municipale, il risultato di una grande azione collettiva che va oltre il tradizionale particolarismo delle singole realtà locali. Il complesso teatro-tempio, per il grande impegno economico richiesto, costituisce un episodio di massima rilevanza politica, che va al di là della modesta fortificazione presente sul monte Saraceno. Infatti i risultati delle ricognizioni territoriali, sebbene parziali, hanno offerto dati di grande interesse sulla frequentazione di questo territorio nell'antichità.
Il complesso monumentale è situato più in basso rispetto al moderno abitato di Pietrabbondante, che occupa uno sperone roccioso a nord-est del monte Saraceno, a circa m. 1025 s.l.m. ad un chilometro circa, in linea d’aria, dal sito archeologico, che ha un'estensione di circa m. 200 in direzione nord-sud e di circa m. 150 in direzione est-ovest. Sul declivio del colle, in posizione panoramica dominante la valle del Trigno alla sua confluenza col Verrino, è attualmente possibile ammirare il complesso del teatro e dei due edifici templari, quello minore (A), più antico, situato a nord-est del teatro, e ad esso collegato mediante un porticato con botteghe; quello maggiore (B), retrostante il teatro stesso ed appartenente alla medesima fase edilizia. Il dislivello del terreno fra l'estremità occidentale e quella orientale è di circa otto metri, passando da quota 966 a quota 958 s.l.m. L’allineamento degli edifici non è casuale, ma volutamente predisposto, con assi longitudinali paralleli e con orientamento est-sud-est. Il complesso monumentale, così come oggi ci appare, si è sviluppato in due distinte fasi edilizie, cronologicamente non molto lontane fra loro.
La costruzione del monumentale complesso teatro – tempio rappresentò certamente l’iniziativa di maggiore impegno, che occupò gli ultimi decenni del II secolo ed i primi del I secolo a.C. e fu il frutto di un'unica progettazione organica. Opera di un architetto rimasto anonimo, per la monumentalità degli edifici e per la qualità architettonica il complesso dovette richiedere un impegno eccezionale da parte dell’intera nazione dei Sanniti Pentri, che proseguì gradualmente tra gli anni 120 – 90 a.C. fino a quando la guerra sociale non interruppe qualsiasi forma di finanziamento pubblico o privato per l’arricchimento del santuario. Lo straordinario sviluppo di cui godette, benché tagliato fuori dalle grandi vie di comunicazione, è dimostrato dai frequenti riferimenti alle magistrature sannitiche menzionate nelle iscrizioni epigrafiche, quali il meddix tuticus, il censor, il quaestor. La presenza di questi importanti organismi amministrativi e di un'assemblea deliberante (concilium) sono la prova dell'esistenza di un'organizzazione statale, anche se è difficile definire il tipo di struttura organizzativa del centro e la sua condizione giuridica.
Il complesso teatro – tempio è un insieme di grande suggestione scenografica che si ispira ai modelli ellenistici diffusi in area campana, sia per lo schema del teatro, che ricorda quello di Sarno ed il teatro piccolo di Pompei, sia per la decorazione architettonica del tempio, il cui podio ricalca il modello del tempio di Capua. L’edificio ripropone le caratteristiche dell’architettura templare italica, infatti è posto su un podio, con gradinata centrale di accesso, ed è circondato su tre lati da un corridoio; differisce per un particolare elemento architettonico, anziché presentare un'unica cella sacra, ove di solito era collocata la statua della divinità oggetto di culto, ne ha tre, come nella tradizione degli Etruschi e dei Latini, e lascia quindi supporre che fosse dedicato a una triade, unico esempio della cultura italica di tempio dedicato a tre divinità.
La rocca fortificata sulla sommità del monte Saraceno, a circa m. 1212 di altitudine s.l.m. copre un’area pianeggiante ed estesa per circa m. 300 x 150 ed è da collegarsi all'intero sistema di strutture difensive costruite dai Sanniti nel corso del IV secolo a.C. nel Sannio interno. Le indagini archeologiche, infatti, hanno evidenziato la presenza di numerosi insediamenti fortificati nel Sannio pentro, edificati sul territorio dopo il primo conflitto con i Romani (343-341 a.C.) ed ubicati sui rilievi strategicamente più importanti, molti dei quali attendono ancora di essere precisamente identificati: sappiamo che erano perfettamente a vista l’uno dell’altro, in modo da creare un'efficace rete di controllo del territorio, e che in alcuni casi, come a Monte Vairano, la roccaforte non fu utilizzata esclusivamente a fini militari, ma anche come centro abitato, per giunta di dimensioni rilevanti. Anche la roccaforte di Pietrabbondante, difesa da massicce mura in opera poligonale, si collegava con analoghe opere difensive poste più a valle ed ancora oggi visibili, che avevano lo scopo di controllare il percorso che costeggia in quota il monte Saraceno, raggiungendo il santuario in località Calcatello. Oggi sono ben visibili solo tre brevi tratti della cinta muraria, in particolare quello sul lato sud-ovest, che appare il meglio conservato. La prima segnalazione dell’esistenza di queste mura sulla vetta del monte fu fatta dal Caraba.
La fortificazione è stata realizzata utilizzando una tecnica costruttiva piuttosto rozza, con grossi blocchi di pietra calcarea, di diverse dimensioni e solo parzialmente lavorati, sovrapposti a piombo l’uno sull'altro, e pietre dure inserite negli interstizi. Il materiale calcareo è stato probabilmente estratto dalla sommità dell’altura, in modo da spianare il più possibile la zona destinata all'abitato. Il tratto di mura meglio conservato è lungo circa m. 40 e presenta un’altezza media di m. 0,90. Sul percorso è presente una piccola postierla larga circa m. 0,90 che permette il passaggio di una sola persona per volta. Questo tratto si congiunge ad uno sperone roccioso sul lato sud-est che, per la sua asperità, rende naturalmente difficile l’ascesa alla sommità della rocca. Un secondo tratto di fortificazione, lungo circa m. 10,70 ed alto circa m. 1,50, prosegue lungo il pendio sul versante occidentale. L’ultimo tratto di mura visibile è anche il più piccolo, misura infatti solo m. 4,50 di lunghezza, con un’altezza massima di m. 1,65. La restante parte della muraglia è nascosta dalla vegetazione a macchia spontanea, anche se è possibile intuire il probabile andamento del muro. Su un picco roccioso alle spalle dell’abitato di Pietrabbondante, detto Morgia dei Corvi, è stato individuato un breve tratto di mura poligonali, analoghe a quelle presenti sul monte Saraceno, che dominano la vallata del Verrino, probabilmente facenti parte dello stesso sistema di fortificazione.
Allo stato attuale è difficile accertare se la cinta muraria fosse dotata di bastioni difensivi; nell'area interna non è visibile alcuna traccia di costruzioni, e del resto all'interno della fortificazione non è stato praticato alcun saggio di scavo, né vi sono stati rinvenimenti, neppure casuali. Difficile individuare con esattezza i punti di accesso all'interno della zona recintata, e formulare una qualche datazione. All'epoca della costruzione della rocca era certamente già frequentato il luogo di culto in località Calcatello, come dimostrano alcuni resti rinvenuti nell'area sacra, già adibita alle cerimonie legate all'attività dell’esercito sannitico.
In base alla tecnica costruttiva, secondo la classificazione di G. Lugli, è possibile avvicinare questa fortificazione agli altri complessi della Marsica e del Sannio risalenti al periodo tra il VI e la fine del IV secolo a.C. come a San Pietro Avellana (monte Miglio), Rionero Sannitico (bosco Pennataro), Carovilli (monte Ferrante), Agnone (località fonte del Romito), Chiauci (monte Lupone), Sepino (località Terravecchia), Baranello (monte Vairano), Longano (monte Lungo), Frosolone (località Civitelle), Trivento (località Sterpara), Montefalcone nel Sannio (monte Rocchetta), Campochiaro (contrada Civitella), Duronia (località Civitavecchia).
Una piccola necropoli, a circa un km a sud-ovest dell’area di Calcatello, è stata riportata alla luce nel 1973 e parzialmente esplorata: ubicata in località Troccola, a 1043 m. di altitudine s.l.m. tra il monte Saraceno a nord ed il monte Lamberti ad ovest, essa ha restituito tre sepolture appartenenti ad epoche diverse, comprese tra il V ed il III secolo a.C.
Le tre tombe, scavate nel misto di breccia calcarea e argilla rossiccia, sono del tipo a fossa e la loro copertura si trova a circa 40 cm. sotto il piano di campagna; le fosse presentano coperture di tegole e di lastre di calcare, e sono riempite con lo stesso misto del terreno circostante. Gli inumati giacciono supini, con braccia e gambe distese, in due casi, leggermente flesse nel terzo. I corpi appartengono a due maschi adulti e ad un bambino. I corredi funerari sono poveri di oggetti di ceramica (vasellame, coppette e brocche) ma ricchi di oggetti metallici (cinturoni, pettorali, cuspidi di lancia). Nella tomba del bambino sono presenti oggetti di bronzo.
Se ne ricava il quadro di una comunità abbastanza fiorente, in grado di sostenere l'importazione di oggetti metallici, e con un'organizzazione sociale articolata al proprio interno, in cui le classi sociali più elevate hanno buone disponibilità economiche. I dati archeologici consentono di ipotizzare che l’attività della necropoli si estese dal V al III secolo a.C. per tutto il periodo di vita del santuario; non esistono invece elementi per individuare l’ubicazione dell’abitato a servizio del quale funzionava la necropoli stessa.
A circa 400 m. dall'area del teatro, verso sud, è stato rinvenuto, in località Padolera, lungo un sentiero isolato che conduce a Santa Scolastica, il mausoleo sepolcrale della gens Socellia, risalente alla seconda metà del I secolo a.C. Posto in maniera ben visibile su un pendio leggermente elevato, richiamò l’attenzione degli archeologi fin dall'avvio dei primi scavi sistematici (1857), ed è infatti già citato nei giornali di scavo dell'epoca.
Dopo la guerra tra Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla, i Sanniti furono pesantemente puniti da Silla per avere sostenuto Mario ed il complesso tempio-teatro venne confiscato e assegnato alla famiglia dei Socellii. La presenza del monumento funerario doveva pertanto servire proprio a sottolineare l’avvenuto possesso delle terre. La vita del santuario decadde precocemente, anche a causa dell’isolamento della sua posizione, così lontana dalle grandi vie di comunicazione. Nella zona, pertanto, cominciò a svilupparsi un'economia di tipo agricolo - pastorale. Non è esclusa l’esistenza di ville rustiche nelle campagne adiacenti all’area monumentale, non ancora esplorate.
A giudicare dai 29 pezzi ritrovati, si trattava di un grande edificio, in pietra locale, costituito da un corpo inferiore a pianta quadrangolare che poggiava su un dado di base, quadrato, di m. 7 di lato x m. 4 di altezza, costituito da blocchi di calcare lavorato. Le pareti del piano inferiore erano decorate da lesene con capitelli corinzi, con le caratteristiche foglie di acanto, e coronato nella parte superiore da una cornice semplicemente modanata; tra una lesena e l’altra vi erano due iscrizioni che ricordavano il personaggio, un certo Caius Socellius, che prese l’iniziativa di costruire il monumento funerario per sé e per altri quattro membri defunti della propria famiglia. La parte superiore della costruzione consisteva in un corpo a tamburo cilindrico (m. 6 di diametro x m. 2 di altezza) che aveva sulla parete esterna una decorazione di piccole arcate in rilievo poggiate su esili lesene, al di sopra delle quali correva una fascia decorata con un fregio di grappoli d’uva e tralci ondulati. Difficile definire l’aspetto della copertura del monumento, così come non è chiaro dove trovassero posto le sepolture all'interno dell’edificio. Di recente è stata rinvenuta, non lontano dal santuario, una statua femminile, di stile funerario, con una colomba nella mano sinistra, che simboleggia l’anima libera in volo verso il cielo.
La famiglia dei Socellii è nota anche da altre fonti, infatti si ritrova in un'altra iscrizione sepolcrale rinvenuta nell'ambito del territorio del municipio romano di Terventum (Trivento), presso il santuario della Madonna di Canneto.
È stato necessario più di un secolo per riportare alla luce il santuario sannitico di Pietrabbondante, così come oggi lo possiamo ammirare. Le campagne di scavo effettuate in località Calcatello si possono considerare le prime avviate nel territorio del Molise: che in quell'area esistessero antichi ruderi si sapeva già al tempo dei Borbone. Il primo a darne notizia fu l’abate domenicano Raimondo Guarini (1765 – 1852) con una memoria letta nel 1840 all'accademia Ercolanese e pubblicata sei anni dopo. Risale al 1843 la prima menzione scritta dell'esistenza del sito archeologico ad opera dello storico Nicola Corcia (1802 – 1892). Gli studi si intensificarono in seguito alle diverse segnalazioni effettuate dal medico agnonese Francesco Saverio Cremonese (1827 - 1892), appassionato di archeologia. Uno dei primi a studiare personalmente quanto veniva segnalato nel territorio fu Ambrogio Caraba (1817 - 1875), ispettore onorario alle Antichità e Belle Arti per la Provincia di Campobasso. Nel 1845 pubblicò tali studi parlando dell’esistenza di una cinta muraria edificata con grossi blocchi poligonali e del rinvenimento nell'area di numerose iscrizioni in lingua osca, ed identificando Pietrabbondante con la città di Aquilonia. Tali notizie richiamarono l’attenzione di studiosi italiani e stranieri, quali Max Friedländer e Theodor Mommsen. Quest’ultimo, dopo aver visitato personalmente il sito nel maggio 1846, avanzò l’ipotesi che Pietrabbondante dovesse identificarsi con la Bovianum Vetus citata in un passo di Plinio il Vecchio. A suo giudizio sarebbero esistite nel Sannio due località omonime, ma ben distinte topograficamente e storicamente, una da identificare con l'odierna Bojano e l’altra con Pietrabbondante, entrambe sarebbero diventate colonie romane dopo la guerra sociale. Tale ricostruzione storica, formulata anche sulla base di alcune iscrizioni epigrafiche, è stata accettata per più di un secolo ed è sopravvissuta fino a tempi recenti. Quando, anche grazie all'evoluzione degli studi ed all'apporto di nuove discipline, il quadro storico dell’antico Sannio si è arricchito di più ampie conoscenze, è stata dimostrata l'infondatezza della tesi proposta, sulla base di precise argomentazioni epigrafiche, glottologiche, topografiche e storiche. Resta ancora oggi senza risposta l’attribuzione di un antico toponimo al sito di Pietrabbondante: Livio cita molti nomi di città sannitiche di cui non conosciamo la corrispettiva individuazione topografica (Murgantia, Romulea, Feritrum, Imbrinium, Cimetra, Duronia, Panna, Cominium, Aquilonia); al tempo stesso sono stati identificati numerosi centri sannitici, tuttora inesplorati ed anonimi.
Nell’estate del 1856, Francesco Sforza, personaggio influente presso la corte napoletana, invitato dalle autorità del luogo a visitare le rovine archeologiche, rimase molto colpito dalla rilevanza dei resti e promise di interessarne Sua Maestà Ferdinando II di Borbone. Contemporaneamente anche il duca della vicina Pescolanciano, Giovanni Maria d’Alessandro (1824 - 1910), veniva sollecitato in merito dai contadini che in località Calcatello, nel corso dei loro lavori agricoli, rinvenivano spesso resti archeologici di varia natura, che erano puntualmente sottoposti all'esame degli esperti del Museo Reale Borbonico di Napoli. Grazie al suo interessamento, al duca fu conferito nel 1857 l’incarico di soprintendente regio per l’area archeologica di Pietrabbondante. Fu così che finalmente l’area, ormai sottoposta a tutela governativa, diventò oggetto di scavi sistematici avviati nell'agosto 1857, sotto la direzione dell’architetto Gaetano Genovese, direttore degli scavi di Pompei. Gli scavi ripresero, dopo la pausa invernale, nel giugno 1858 sotto la direzione dell’architetto Ulisse Rizzi, direttore degli scavi di Paestum. Interrotti a causa delle vicende belliche relative all'unità d’Italia, gli interventi furono ripresi nel settembre 1870 sotto la direzione dell’archeologo Giulio De Petra, ma solo per breve tempo. Per un lungo periodo l’area fu quasi completamente abbandonata, tranne brevi lavori di manutenzione ordinaria.
Tali campagne di scavo permisero di portare alla luce interamente il teatro ed il tempio minore (A), posto all'estremità orientale dell'area monumentale. Di questi scavi possediamo la raccolta dei giornali di scavo e delle relazioni effettuate dall'archeologo Michele Ruggiero (1811 – 1900), molto particolareggiate per quanto riguarda la descrizione del materiale rinvenuto, ma piuttosto approssimative e confuse nelle indicazioni topografiche. In particolare, nella spianata "distante 150 palmi" dal tempio, fu rinvenuta una notevole quantità di armi, sia integre, sia in frammenti, che venne conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Elmi, schinieri, cinturoni, paragnatidi (paraguance), un accumulo di armi databili tra la fine del V secolo e la metà del IV secolo a.C. collocate lì come trofeo di guerra o come offerte votive. Armi simili sono state ritrovate anche in occasione di scavi più recenti. Se si escludono alcune indagini sporadiche effettuate da Amedeo Maiuri nell'ottobre 1913 nell'area del tempio minore, per lungo tempo il sito non fu oggetto di esplorazioni sistematiche.
Solo nel 1959 la Soprintendenza alle Antichità di Chieti avviò una serie di restauri dei due monumenti riportati alla luce circa un secolo prima, sotto la direzione dell'architetto Italo Gismondi, e una nuova campagna di scavi, la cui direzione venne affidata a Valerio Cianfarani (1912 – 1977), all'epoca soprintendente archeologo per l’Abruzzo ed il Molise. Nel corso delle attività, un saggio di scavo rivelò la presenza di un secondo tempio, molto più grande e posto alle spalle del teatro, la cui esistenza era rimasta ignorata fino ad allora.
In seguito a tale ritrovamento è radicalmente mutata la comprensione della natura dell’intero complesso cultuale e si è reso necessario ricostruire in maniera esauriente l’esatta fisionomia dei luoghi, per acquisire una completa conoscenza dell’intero arco di vita del santuario, sia dal punto di vista propriamente archeologico che da quello storico. Ancora oggi lo studio del complesso teatro - tempio non può considerarsi affatto concluso, e numerose problematiche restano tuttora aperte.
Dopo la conclusione delle ultime guerre contro Roma, combattute nel corso del III secolo a.C. i Sanniti Pentri, dichiarata la propria fedeltà a Roma, possono godere di un lungo periodo di pace, nel corso del quale riescono a potenziare le proprie attività economiche e commerciali, ed utilizzare parte dei guadagni per realizzare nuove iniziative edilizie ed occuparsi della sistemazione monumentale dell’area in località Calcatello. È la fase del cosiddetto tempio ionico, un edificio del quale non è sopravvissuto nulla, ma di cui restano numerosi elementi architettonici, riutilizzati come materiale di riempimento nelle successive fasi edilizie. Fu distrutto probabilmente dall'esercito di Annibale, che nell'inverno del 217 a.C. si era accampato in territorio sannitico, nei pressi dell’attuale Casacalenda e da qui si era mosso con le sue truppe per una serie di scorrerie per tutto il territorio, indirizzando le proprie incursioni soprattutto nei confronti dei santuari, che con la loro concentrazione di ricchezze gli consentivano un ottimo bottino.
Le costruzioni di età sannitica visibili nell'area appartengono a due distinte fasi edilizie, lontane fra loro non tanto cronologicamente quanto per concezione architettonica. Tuttavia chi progettò l’ampliamento del santuario, con il teatro ed il tempio maggiore (B), cercò di fondere il più possibile il nuovo complesso con la parte preesistente, per inserire il vecchio luogo di culto in una sistemazione organica.
All'inizio del II secolo a.C. alcuni magistrati appartenenti alla potente famiglia sannitica degli Staii decisero di finanziare la costruzione del tempio minore (A) su un pendio naturale del terreno. I terrazzamenti che si prolungano a nord e a sud servono a delimitare l’area ed a contenere il terreno, per prevenire eventuali frane. L’area su cui sorge l’edificio è incassata nel pendio del terreno: il complesso cultuale ha una forma stretta e allungata ed è completamente isolato, estraneo a qualsiasi forma urbanistica e lontano dal centro abitato del monte Saraceno. Tutto ciò non ha carattere di eccezionalità e rientra nella normale consuetudine italica.
Nello stesso tempo è documentata, anche in altre zone del territorio, una ripresa dell’attività edilizia: si tratta soprattutto di santuari, poiché i Sanniti non sono interessati all'edilizia civile, di carattere pubblico, ma solo ai luoghi di culto, aree sacre ancora oggi di suggestiva monumentalità. Tra la fine del III secolo e il II secolo a.C. sorgono infatti il santuario di Campochiaro e di Vastogirardi, dedicati ad Ercole, di San Pietro di Cantoni, dedicato alla dea Mefite, quello di Gildone, di San Giovanni in Galdo, di Schiavi d’Abruzzo.
A questo stesso periodo risale anche la costruzione di un secondo santuario dedicato ai Dioscuri, individuato nel territorio di Pietrabbondante, in località Colle Vernone, nella valle del Verrino. La localizzazione del complesso è stata possibile grazie al fortuito ritrovamento di alcuni elementi architettonici e soprattutto di una parte dell’altare, che reca incisa una dedica in lingua osca ad uno dei Dioscuri, divinità molto presente nella religiosità italica, in quanto legata all'ambito militare. Anche in questo caso la costruzione era stata intrapresa in adempimento di una delibera del senato e controllata da un magistrato, a dimostrazione dell’interesse dello Stato verso questi luoghi di culto.
Nello stesso tempo sono documentati altri insediamenti, a partire dall'area dell’abitato attuale di Pietrabbondante, la cui frequentazione in epoca ellenistica è confermata da diversi ritrovamenti di ceramica. Un altro insediamento abitativo di questo periodo è Arco, località posta a sud-est di Pietrabbondante, presso il colle di S. Scolastica, all'incrocio della strada che si congiunge a valle col tracciato del tratturo Celano - Foggia.
Pur essendo cronologicamente l’ultima realizzazione edilizia dell’area sacra, il complesso teatro – tempio si sovrappone esattamente alle strutture più antiche risalenti al IV secolo a.C. ricalcandone alcune misure originarie, evidentemente allo scopo di conservare inalterata nel tempo la sacralità di quel luogo. Infatti sia il tempio che il teatro dovevano svolgere un preciso ruolo pubblico ed essere legati da uno stretto rapporto, evidenziato anche dall'allineamento assiale dei due monumenti. Essi formano un nucleo omogeneo inserito in un’area sacra rettangolare (detta témenos), larga circa m. 60 e lunga m. 86, con un asse longitudinale perfettamente parallelo a quello del tempio minore (A) ed un orientamento est-sud-est. Sebbene strutturalmente distinti, il Tempio maggiore (B) ed il Teatro svolgono evidentemente un ruolo complementare, integrandosi reciprocamente nella loro funzione cultuale: ciascun edificio occupa esattamente m. 43 dell’intera area, ma poiché il podio del tempio è posto ad un livello più alto di nove metri rispetto al piano dell’orchestra del teatro, la facciata del tempio sovrasta la parte centrale del teatro. In base a tale disposizione prospettica, ben studiata, era possibile dall'alto del podio del tempio osservare la rappresentazione scenica, e, parimenti, dal piano dell’orchestra del teatro ammirare la facciata del tempio. Inoltre si veniva a creare un particolare effetto ottico per cui i due corpi edilizi, visti frontalmente dal basso, apparivano fusi l’uno con l’altro e la facciata del tempio sembrava sovrastare la cavea del teatro, annullando la distanza fra i due edifici. La presenza abbinata di un luogo sacro e di uno spazio destinato alle adunanze sembrerebbe riprodurre, ampliandolo, il modello del comitium, del luogo consacrato in cui si convocavano le assemblee per eleggere i magistrati dotati di imperium, cioè della facoltà di essere i supremi comandanti dell’esercito. Sulla base di tali considerazioni, qualche studioso ha ipotizzato che l’area sacra di Pietrabbondante potesse coincidere con l’antico toponimo di Cominium, che gli antichi autori citano come esistente non solo tra i Pentri, ma anche presso altri popoli italici (Marrucini, Equi, Volsci, Irpini), e che è stata identificata con la Cominium distrutta dai Romani nel 293 a.C. nel corso della terza guerra sannitica. Lo schema architettonico del santuario di Pietrabbondante si inserisce senza dubbio nel filone della tradizione sorta e sviluppatasi in ambiente italico e successivamente romano, non certamente in zone di cultura greca o ellenistica.
La costruzione del santuario fu certamente frutto di una volontà politica, piuttosto che di un'esigenza religiosa, come dimostrano le evidenti tracce di abbandono che testimoniano una precoce decadenza del luogo, scarsamente frequentato già in epoca imperiale. In epoca romana ormai non sussistevano più i motivi che avevano indotto le popolazioni sannitiche a costruirlo; lo dimostra la mancanza di qualsiasi restauro o rimaneggiamento del teatro e la conservazione della scena di tipo ellenistico. Anche il tempio maggiore (B) non è stato utilizzato a lungo e la tradizione del culto non si è neppure perpetuata in forma cristiana. Tutto ciò dimostra che il carattere sacro del centro era intimamente connesso alla volontà politica che ne aveva motivato la creazione, e che in epoca romana si era definitivamente esaurita. Non c’è dubbio che la concezione architettonica del complesso teatro-tempio è assolutamente italica, diretta espressione di quella vitalità economica e politica di cui godette l’intero mondo italico negli anni precedenti la guerra sociale; la concezione tradizionale fu solo in parte arricchita con elementi decorativi e scenografici mutuati da qualche città campana (Pompei). Il carattere sannitico del monumento è infine sufficientemente attestato dalla documentazione epigrafica, che esclude anche ogni ipotesi di una colonizzazione romana.
Attualmente sono ancora diverse le problematiche insolute rispetto al ruolo ed alla fisionomia dell’area sacra di Pietrabbondante. Se è chiara la caratteristica eminentemente religiosa e cultuale del sito, non possediamo testimonianze storiche circa uno sviluppo urbanistico né prima né dopo l’assimilazione romana del Sannio. Inoltre non siamo ancora in grado di sapere se il santuario sannitico fruisse di un'autonoma organizzazione amministrativa oppure dipendesse giurisdizionalmente da uno dei centri vicini.

Il teatro ed il santuario italico di Pietrabbondante sono andati in disuso già in epoca molto antica, pertanto non hanno subito nei secoli quei rimaneggiamenti di cui spesso sono stati oggetto i teatri greci riutilizzati in epoca imperiale romana. Ciò ha consentito agli archeologi, anche grazie al discreto stato di conservazione dei monumenti, di ricostruire senza incertezze gli aspetti strutturali e stilistici dell'intero complesso teatrale.
Esistono nel mondo italico dell'Italia centro-meridionale altri esempi di un’area teatrale e di un edificio di culto fra loro strettamente collegati, secondo uno schema che prevede rigorosi criteri di assialità e di visuale frontale. Qualcosa di simile esiste anche sull'altura di Castelsecco, nei pressi di Arezzo, a circa m. 424 s.l.m. dove, sul lato meridionale della collina, è stato rinvenuto un complesso templare di età tardo-etrusca (II secolo a.C.) abbinato ad un edificio teatrale coevo, posti su un terrazzamento naturale, molto suggestivo, che si affaccia sulla vallata aretina. Sappiamo che il teatro era un elemento tradizionale nei luoghi di culto dell’antica Grecia, espressione di un'esigenza religiosa, ma era estranea alla concezione greca la costruzione assiale e frontale dello schema teatro-tempio, consueta, invece, nella cultura italica, che la trasmetterà al mondo romano, che la diffonderà ampiamente in tutta l’area del Mediterraneo. Secondo uno schema analogo è impostato anche il complesso teatro-tempio di Gabii, lungo la via Prenestina, dedicato a Giunone, e realizzato intorno al 150 a. C.
Lo schema teatro-tempio subirà nel tempo diverse evoluzioni, secondo nuove concezioni strutturali e una diversa distribuzione planimetrica, introdotte successivamente dai Romani: a Tivoli, ad esempio, l’imponente complesso teatro-tempio dedicato ad Ercole, risalente al 70-60 a.C. risulta circondato da portici e colonnati, formando un corpo edilizio unico, anche se i due elementi principali si presentano ancora distinti; a Palestrina, invece, il complesso sacro dedicato alla dea Fortuna, risalente alla fine del II secolo a.C. rappresenta il primo esempio di completa fusione architettonica fra edificio templare e teatro, dove quest’ultimo è ancora subordinato al primo. Nel caso del Teatro di Pompeo, edificato a Roma tra il 61 ed il 55 a.C. compare invece per la prima volta una concezione architettonica del tutto nuova, con l'inversione dei ruoli nel rapporto teatro-tempio, dove l’elemento dominante diventa il teatro, inteso come espressione di attività civile (laica).
Tra gli edifici dell’area monumentale, il teatro (nella foto a sinistra) è quello meglio conservato. L’alzato della cavea è quasi intatto ed è perfettamente leggibile la planimetria della scena, della quale è andato perduto l’alzato. A differenza dei due templi, per i quali è stato utilizzato del calcare tenero di importazione, il teatro è stato edificato usando il calcare duro locale.
Si tratta di un edificio medio ellenistico, la sua costruzione infatti si colloca nella seconda metà del II secolo a.C. Pur essendo un teatro di tipo greco, non è stato edificato su un pendio naturale del terreno, come abitualmente avveniva, ma elevando artificialmente un terrapieno sulla spianata erbosa, adeguatamente sostenuto da una solida struttura di contenimento. Difatti il teatro è circoscritto esternamente da un poderoso muro in opera poligonale (alto m. 2,60 e spesso m. 1,70), che delimita tutto l’interro artificiale della cavea, con un paramento esterno interamente costruito a secco, con blocchetti di piccole dimensioni accuratamente lavorati, ed un riempimento di pietrame, anch'esso a secco. In questo muro, in corrispondenza dell’asse del teatro, c'è un'apertura, larga circa m. 1,30 che, attraverso una scaletta con cinque gradini, mette in comunicazione la parte superiore della cavea del teatro con il camminamento posteriore e con l’accesso al tempio maggiore (B). Originariamente la summa cavea non presentava la tradizionale gradinata in pietra (della quale, infatti, non è stato rinvenuto alcun resto), ma doveva essere attrezzata con strutture mobili in legno, montate, se necessarie, all'occasione. È probabile, infatti, che i posti disponibili nella parte inferiore della cavea, quella con i tre ordini di gradinate, fossero sufficienti ad accogliere il pubblico nella maggior parte delle manifestazioni.
La cavea ha un'estensione frontale di m. 54 e la classica forma geometrica ad emiciclo, con un raggio di m. 27. E proprio le tre gradinate situate nella parte bassa della cavea costituiscono la caratteristica architettonica di maggior pregio dell’intero monumento: i tre ordini di sedili, senza braccioli, presentano un piano ininterrotto, costituito di blocchi accuratamente connessi fra loro. Le spalliere curvilinee, lavorate in un solo blocco, presentano un'elegante sagomatura a gola rovesciata, cioè convessa in basso e concava in alto, che conferisce ai sedili una conformazione anatomica. La lunghezza dei singoli posti a sedere è varia, l’altezza media è di circa cm. 82. L'ima cavea è separata dalla summa cavea da un camminamento largo circa m. 1,10 pavimentato con larghi blocchi irregolari ma ben connessi. Lungo il camminamento (detto praecinctio) è presente una doppia fila di sedili semplici, privi di spalliera, interrotti, a distanza regolare, da cinque piccole gradinate larghe m. 1,10 che accedono alla zona superiore della cavea, larga m. 15,30 e suddivisa in sei settori, disposti simmetricamente, anche se di dimensioni diverse. Alle due estremità le tre gradinate dell'ima cavea sono chiuse da braccioli in pietra, scolpiti in forma di zampa di leone alato; il pubblico accedeva ai posti a sedere direttamente dall'orchestra, utilizzando, per le due gradinate superiori, quattro scalette semicircolari, due per ciascun'estremità della cavea.
Lateralmente la cavea è sorretta esternamente da due grossi muri di sostegno (detti analèmmata) di forma trapezoidale, paralleli al palcoscenico, costruiti in opera poligonale, che si uniscono al muro posteriore di contenimento del terrapieno della cavea. Essi sono costituiti da due filari di blocchi parallelepipedi, larghi circa cm. 80, che terminano con un elemento sagomato e sono coperti da una sorta di parapetto obliquo. Alle due estremità inferiori ciascun muro termina con due figure maschili scolpite, uguali e simmetriche, rivolte verso l'orchestra: si tratta di un Telamòne (o Atlante), alto circa un metro, che idealmente sorregge, con le braccia sollevate dietro il capo e le gambe leggermente piegate, il peso dell’intero teatro.
Addossati agli analèmmata due grandi archi, a blocchi sovrapposti e conci radiali, di circa m. 3,50 di larghezza, collegano il muro di sostenimento della cavea all'edificio scenico. Costituiscono le parodoi, cioè i corridoi di ingresso, scoperti, paralleli alla scena, che immettono il pubblico direttamente nell'emiciclo dell’orchestra. Quest'ultima presenta la tradizionale forma a ferro di cavallo, come era di solito nei teatri di tipo greco, con una raggio dell’emiciclo di circa m. 5,50 ed uno spazio rettangolare largo m. 2,70 e lungo circa m. 11. L’orchestra non è lastricata e non vi è traccia della presenza di altari.
Dell’edificio scenico (lungo m. 37,30 e largo m. 10,10) si conserva la struttura semplice della scena di tipo greco, non rimaneggiata in epoca romana: un edificio rettangolare con una facciata lineare, in cui si aprono tre porte, una centrale e due laterali, utilizzate dagli attori per entrare ed uscire dallo spazio scenico. Dell’alzato non è rimasto nulla, ma la planimetria è così chiara da renderlo comprensibile in tutti i suoi aspetti. Di esso rimangono alcuni elementi di pietra, appartenenti alla struttura frontale, costituita da blocchi rettangolari di diversa lunghezza disposti su tre file. Non è stato rinvenuto alcun elemento, neppure frammentario, della decorazione della fronte scenica: si trattava evidentemente di una parete semplice, liscia, priva di particolari ornamenti architettonici. Il palcoscenico doveva avere un'altezza di circa due metri o forse anche più, e una larghezza di m. 4,15 in base all'allineamento dei pilastri posti alle due estremità.
L’edificio scenico vero e proprio ospitava in realtà sei ambienti chiusi, lunghi m. 5 e nascosti alla vista degli spettatori, che avevano funzione di locali di servizio. La parete posteriore dell’edificio scenico segna il limite esterno dell’intero monumento. Al centro dei sei vani un corridoio (largo m. 1,20) consente l’uscita degli attori e del personale del teatro dalle due stanze centrali, leggermente più ampie delle altre. Analogamente altri due corridoi sono posti alle due estremità dell’edificio scenico, a servizio delle stanze più esterne.
Addossati alla base della parete della scena vi sono dieci elementi di pietra quadrangolari, al centro dei quali sono state ricavate delle cavità quadrate, gli alloggiamenti dove venivano inserite le aste di legno che reggevano i velari, cioè le scene mobili, dipinte su tela o su legno, che costituivano il fondale scenico durante le rappresentazioni. Ai lati esterni dell’edificio scenico due ampi corridoi (larghi m. 4,10), chiusi da due cancelli, di cui ancora restano le tracce delle soglie, consentivano l’accesso al pubblico direttamente sul fronte scena.
Riguardo alla tecnica edilizia, bisogna dire che mentre l’intera cavea è in grandi blocchi di pietra calcarea incastrati, senza uso di malta, ove predomina l’opera poligonale, con grossi conci accuratamente lavorati, strutturalmente diverso appare l’edificio scenico, dove i muri sono costruiti con pietre irregolari di piccolo formato, legate con malta, disposte su file orizzontali, ma senza andamento continuo. La differenza è spiegabile in base alle diverse condizioni naturali del terreno, laddove l’uso dell’opera poligonale era richiesto per creare una potente muratura di contenimento della spinta dell’interro retrostante.
Lungo l’asse mediano del teatro, nel corso degli scavi del 1959, è stata rinvenuta una fossa, costruita con muri a secco e coperta con lastroni irregolari, che provvede alla raccolta delle acque piovane: ha una profondità e una larghezza irregolari e scarica le acque probabilmente in aperta campagna.

Proseguendo alle spalle del teatro, a circa nove metri dal muro di contenimento della cavea, oltrepassato il breve declivio erboso, si raggiunge il tempio maggiore (B), l’edificio più grande che sia mai stato costruito dai Sanniti (nella foto a sinistra). Il monumento ha subito numerosi saccheggi nel corso dei secoli, probabilmente fin dall'epoca del suo abbandono, subendo cospicue asportazioni di materiale, reimpiegato per altre costruzioni: il podio risulta molto danneggiato sulla parte frontale ma è ben conservato sugli altri lati.
Il visitatore è ancora oggi colpito dalla massiccia volumetria del podio del tempio che gli si presenta davanti e che si conserva ancora oggi, sostanzialmente, nella sua interezza: lungo m. 35, largo m. 22, alto m. 3,55. L’edificio è circondato su tre lati da uno stretto corridoio, largo circa m. 2, in leggera pendenza e pavimentato di basoli. Dinanzi al podio, a circa m. 1,80 di distanza, su un piano pavimentato con sottili lastre di pietra grigia molto friabile, non rifinite, trovano posto due altari, riportati alla luce nel corso degli scavi, disposti parallelamente alla fronte dell’edificio. Essi presentano un'analoga struttura: il corpo di quello centrale è costituito da un parallelepipedo (m. 3,30 x m. 0,68) in blocchi di pietra, che poggia su una base provvista di cornici a fasce sovrapposte. Un secondo altare, identico per conformazione, ma di lunghezza inferiore (m. 1,70), è posto alla sua destra, a una distanza di circa m. 3,30. Poiché siamo in presenza di un tempio a tre celle, è presumibile che originariamente vi fosse un terzo altare, a sinistra, probabilmente demolito, per essere riutilizzato come materiale di costruzione. Della parte superiore degli altari non si è conservato nulla in situ, anche se sono stati recuperati nell'area elementi appartenenti alla cornice superiore, che poggiava direttamente sul parallelepipedo. In particolare sono state rinvenute le due terminazioni laterali degli altari, poste in corrispondenza dei lati corti, scolpite con elementi vegetali e teste di ariete.
Il podio si eleva al di sopra di un basamento liscio, costituito da blocchi squadrati di pietra calcarea, e riprende le caratteristiche dello schema usuale del tempio italico, con una parete verticale liscia, costituita da tre file di blocchi, compresa, in alto e in basso, da due cornici, che richiamano quelle del podio del tempio italico rinvenuto nel Fondo Patturelli di Curti, nei pressi di Capua, famoso per le numerose terrecotte architettoniche rappresentanti la Mater Matuta.
Gli interventi di restauro del podio hanno richiesto poche integrazioni, poiché le condizioni del monumento risultavano pressoché integre, ad esclusioni di alcune parti frontali. Allo scopo di evidenziare chiaramente gli elementi integrati attraverso il restauro, per le parti aggiunte è stato utilizzato del travertino di Tivoli, ben distinguibile dalla pietra calcarea originaria. Allo stesso scopo, anche per le parti mancanti della cornice sono stati utilizzati blocchi di pietra semplicemente martellata. Sulla parte anteriore del lato occidentale del podio è ben visibile una lunga iscrizione in lingua osca, che si sviluppa, con andamento sinistrorso, su un'unica linea. Ricorda il finanziatore della costruzione, L. Statiis Klar, probabilmente un magistrato sannita, di cui le fonti storiche antiche riportano numerose notizie. Sappiamo che dopo aver partecipato alla guerra sociale, passò dalla parte di Silla e riuscì ad entrare nel Senato romano, finché, ottantenne, non venne ucciso.
Al centro del lato frontale, incassata nel podio ed inserita nel perimetro della struttura, si apre una scalinata (larga m. 4,60) di accesso alla parte anteriore del tempio (pronao): dei tredici gradini solo i primi tre sono originali, gli altri sono di restauro, anche se misurati esattamente sulle impronte di quelli originali. Il piano di calpestio del pronao (m. 22,00 x m. 21,50) è stato quasi integralmente restaurato in lastre di travertino, tranne brevi frammenti in cui è stato possibile ricollocare le pochissime lastre di pietra calcarea del pavimento originale recuperate nel corso dello scavo. Anche la pavimentazione delle tre celle è andata quasi interamente distrutta, tranne alcune parti che presentano una semplice decorazione a piccole tessere bianche piuttosto regolari. Nulla ci rimane dell’elevato delle tre celle: quella centrale (m. 7,20 x m. 11,00) è la maggiore e si estende fino al muro di fondo del tempio. Quelle laterali (m. 4,80 x m. 7,50) si interrompono prima del muro di fondo (m. 3,60), creando due piccoli ambienti rettangolari di m. 4,50 x 3,00 probabilmente adibiti a deposito.
L’antico solaio, infatti, che costituiva il piano di calpestio originale, è stato sfondato già in epoca antica ed il materiale completamente saccheggiato. Pertanto ciò che è stato riportato alla luce, a seguito degli scavi archeologici, è solo la parte interna del podio, racchiusa tra le mura perimetrali.
È opportuno chiarire che, contrariamente a quanto comunemente si immagina, la parte interna del podio non è un semplice spazio vuoto riempito di detriti e di terreno, ma presenta una fitta e complessa rete di strutture murarie, che in parte fungevano da fondazione per le strutture soprastanti del tempio, in parte servivano a distribuire omogeneamente il materiale di riempimento del podio, ripartendone il peso all'interno. È facile riscontrare come in corrispondenza dei muri in opera quadrata che si trovano distribuiti all'interno del podio, si prolungano le diverse parti dell’elevato del tempio soprastante; allo stesso modo in corrispondenza delle colonne del tempio ritroviamo, nascosti dentro il podio, veri e propri pilastri di fondazione.
La presenza di tali strutture, quasi perfettamente conservate, ha consentito agli archeologi di ricostruire con assoluta certezza la planimetria del tempio: una struttura ben articolata, che si ispira nello stile della facciata al tempio prostilo di origine greca, poiché sul fronte anteriore presenta quattro colonne allineate, che formano un porticato, superato il quale si accede nel pronao, cioè la parte anteriore dell’edificio sacro, che presenta sul fondo la parete nella quale si aprono le porte di accesso alle tre celle (naos), ove erano custodite le immagini delle divinità alle quali era dedicato il santuario e che rappresentavano l’abitazione del dio ed il luogo destinato alle celebrazioni religiose. Nel caso di Pietrabbondante quella centrale è più ampia rispetto alle celle laterali, che si presentano più strette e più corte.
Per il riempimento dell’interno del podio del tempio venne utilizzato certamente il materiale di risulta delle operazioni di sbancamento del terreno che vennero preventivamente effettuate: in esso è stato rinvenuto nel corso degli scavi abbondante materiale archeologico di diversa provenienza; in particolare sono stati ritrovati numerosi elementi architettonici appartenenti al cosiddetto tempio ionico, l’edificio sacro costruito dopo la conclusione del conflitto con Roma e che probabilmente venne poi distrutto da Annibale l'anno precedente la battaglia di Canne.
Il colonnato del pronao, di tipo corinzio, è crollato insieme alle pareti dell’edificio, infatti rocchi di colonne sono stati rinvenuti sparsi sul terreno circostante. Il tempio presentava quattro colonne a filo della scalinata di accesso, altre due in seconda fila sui lati e due in terza fila, al centro, fra le ante.
Per la costruzione del tempio sono stati utilizzati due tipi diversi di materiale, il calcare duro locale, utilizzato per il podio e le parti lavorate, ed un calcare morbido non locale, per le colonne e l’alzato delle pareti. L’edificio differisce dal teatro per tecnica costruttiva: presenta dei blocchi estremamente regolari, levigatissimi e perfettamente aderenti.
Della copertura del tetto possediamo soltanto, allo stato frammentario, parti di tegole piatte e di coppi fittili di vario tipo e dimensioni.
A destra e a sinistra del tempio maggiore (B), a livello del filo del muro dei due corridoi laterali, sono stati rinvenuti due porticati, addossati direttamente al muro di recinzione dell’area sacra (tèmenos), costituiti da una serie di ambienti preceduti da un colonnato. Gli ambienti si presentano di diversa grandezza, in alcuni casi si sono conservate le soglie ed in minima parte l’alzato, costituito da pietre legate con malta. Scarsi sono i resti della pavimentazione, a grosse tessere fittili di forma abbastanza regolare. Davanti agli ambienti, a circa m. 3,50 di distanza, sono visibili i resti di piccole colonne di tipo tuscanico, che costituivano un breve porticato, delimitato all'esterno da un lastricato in calcare.
Nello spazio compreso tra la pavimentazione ed il colonnato sono state rinvenute, nei recenti scavi, alcune sepolture di tipo a fossa, altre con copertura a cappuccina, risalenti al III-IV secolo d.C. che utilizzano le tegole del tempio. In tutti i casi accanto al defunto è presente un corredo poverissimo, composto da materiale di modesta fattura; la datazione delle tombe è determinata di solito dalla presenza di monete di epoca romana, risalenti ad un periodo di poco posteriore all'abbandono dell’area.
Chi oggi volesse visitare l’area archeologica di Pietrabbondante seguendo un percorso ordinato e corretto dal punto di vista storico-cronologico, dovrebbe cominciare proprio da questo monumento, posto all'estremità orientale dell’area archeologica, che dovette costituire il nucleo originario del grande santuario, risalente alla prima fase edilizia di cui abbiamo testimonianza, databile alla metà del II secolo a.C. Purtroppo i dati di scavo, risalenti alla fine dell’Ottocento, sono molto approssimativi e lacunosi.
Si tratta dunque del più antico dei monumenti oggi visibili, fronteggiato da un sentiero già all’epoca esistente, che conduce al monte Saraceno, il cui tracciato probabilmente ne condizionò la posizione. Era una struttura di modesta concezione architettonica, completamente isolata e lontana da centri abitati, come rientrava nella consuetudine italica dell’epoca. Attualmente lo stato di conservazione è abbastanza precario, anche a causa del materiale prevalentemente utilizzato, un calcare tenero, friabile e particolarmente sensibile ai geli invernali, proveniente da una cava certamente ubicata nelle vicinanze, considerato il largo uso che di esso è stato fatto anche in seguito, nella costruzione del tempio maggiore (B). Gran parte del materiale del monumento deve essere stato saccheggiato anticamente, forse già a partire dal IV secolo, quando l’area fu definitivamente abbandonata: è sopravvissuto solo il podio, molto danneggiato sul lato anteriore, completamente asportato per tutta la lunghezza, per cui diventa quasi impossibile ricostruirne la planimetria. Manca del tutto l’alzato del tempio, i cui blocchi devono essere stati asportati per essere utilizzati come materiale da costruzione; restano poche lastre del fregio dorico frontale e vari frammenti del cornicione di coronamento.

Il piccolo tempio fu edificato per volontà di alcuni magistrati appartenenti alla potente famiglia degli Staii in una fase in cui in tutto il territorio si assiste a una ripresa dell’attività edilizia, soprattutto nei santuari. Il centro rappresenta quindi l’espressione di quella vitalità economico-politica di cui godette tutto il mondo italico negli anni precedenti la guerra sociale. Non poco dovette influire il periodo di pace che finalmente si stabilì nel Sannio nella seconda metà del II secolo a.C. grazie alla fine delle guerre, ed il conseguente risveglio economico e commerciale, che consentì alle famiglie più facoltose di finanziare nuove iniziative edilizie.
Lo spazio necessario per la costruzione del tempio è stato ricavato nel declivio del terreno, scavando un'ampia area quasi rettangolare (lunga m. 27,50 e larga m. 17,50), circoscritta su tre lati da muri di terrazzamento che delimitano l’area sacra, lasciando libero un passaggio di circa m. 10 solo sul lato sinistro (meridionale) dell’edificio, sia per consentire l’accesso al piano di calpestio del tempio, che quindi non doveva avvenire frontalmente ma lateralmente, sia per creare un collegamento tra il tempio ed il porticato posto a sinistra, che si prolunga per circa m. 17 fino al muro di cinta del teatro. Sia la parte posteriore dell’edificio, sia buona parte del lato settentrionale sono riparati dal terrapieno retrostante da due muri paralleli, distanti fra loro circa tre metri, che si sono quasi integralmente conservati; si tratta di due grossi muri in opera poligonale, costruiti con blocchi di calcare duro e compatto, alti fino ad un massimo di m. 4, in grado di resistere alla spinta del terrapieno retrostante.
Di fronte al tempio, è possibile individuare un’area di rispetto, ben definita ed un tempo completamente lastricata, un basamento lungo m. 16 circa ed alto m. 1,25 che abbellisce il prospetto dell’edificio, al centro del quale si conserva traccia di una piattaforma di modeste dimensioni (m. 3,30 x m. 3,00), sulla quale poggiava forse l’altare, oggi scomparso, presso il quale si svolgevano abitualmente le cerimonie di culto.
Il podio è di forma rettangolare (m. 17,70 x m. 12,20), con il lato anteriore orientato a est-sud-est, costituito da due filari di blocchi squadrati, in calcare tenero, con le pietre ben connesse, frutto di una lavorazione accurata; solo i blocchi d’angolo sono in calcare duro. I blocchi sono compresi tra una cornice di base e una di coronamento, per un’altezza complessiva di m. 1,65 dal piano di terra. Purtroppo solo il lato posteriore e quello settentrionale risultano conservati meglio.
Nonostante quasi nulla è sopravvissuto della parte alzata del monumento, è stato possibile accertare che si trattava di un tempio a cella unica, la cui superficie occupava la metà posteriore del podio. Dalle poche tracce della pavimentazione della cella, costituita da lastre di pietra calcarea, sappiamo che aveva una forma rettangolare di m. 11,50 x m. 9,00. Sono inoltre visibili le tracce della soglia, al centro della parete centrale, con un'apertura di circa due metri, ed i segni del fissaggio di un cancello metallico.
A causa dei gravi danneggiamenti subiti dall’edificio nella metà anteriore del podio, è destinata invece a rimanere ipotetica la sua ricostruzione planimetrica. Verosimilmente si può ipotizzare che, secondo uno schema ampiamente diffuso nell'architettura italica del periodo medio - ellenistico, l’accesso alla cella avvenisse attraverso una scalinata, ormai andata perduta, posta al centro dell'ingresso. Considerato lo spazio disponibile nella prima metà del pronao, è ipotizzabile inoltre l'esistenza di un numero massimo di otto colonne.
Nell’area rettangolare (lunga circa m. 48 e larga circa m. 33) compresa fra il tempio minore (A) ed il teatro, delimitata posteriormente da un grosso muro di terrazzamento in opera poligonale, è possibile riconoscere una serie di ambienti di diverse dimensioni, riportati alla luce già nel corso degli scavi ottocenteschi, genericamente indicati come “botteghe”, che si aprono su un porticato del quale restano soltanto le parti inferiori delle colonnine in mattoni. Vi si possono individuare strutture appartenenti a una prima fase edilizia più antica, coeva alla costruzione del tempio, le quali, in un secondo momento, forse in età imperiale, vennero ampliate in avanti: difficile definire a quale funzione fosse adibita questa area. Si tratta forse di strutture abitative, con caratteristiche diverse, che a volte presentano una complessa articolazione planimetrica, a volte lasciano presumere l'esistenza di corridoi ed ambienti che si inoltrano nell'area non ancora esplorata. Difficile stabilire, per i troppi rimaneggiamenti, se si tratti di botteghe artigiane o di locali a servizio del santuario, magari per accogliere i fedeli. Sotto le strutture crollate è stato rinvenuto un gran numero di monete risalenti alla fine del III secolo – inizio IV secolo d.C. che costituiscono l’ultima documentazione di vita antica esistente nell’area del santuario.
Nel corso degli scavi di epoca borbonica nell'area antistante il tempio minore, effettuati in epoca borbonica, vennero effettuati consistenti ritrovamenti di materiale archeologico. Si tratta di numerose iscrizioni in lingua osca, su pietra calcarea, attualmente conservate presso il Museo archeologico di Napoli, come buona parte del materiale relativo a questi scavi. Sono prevalentemente testi di carattere ufficiale, che riguardano gli aspetti burocratici degli interventi di costruzione e sistemazione del monumento, autorizzati dall'autorità centrale e collaudati dai magistrati del posto. Ben più famoso il nucleo di armi rinvenute in quella stessa circostanza, delle quali si è già detto.
In tutta l’area del santuario, del resto, sono stati rinvenuti, sparsi, frammenti di materiale, la cui ricostruzione non è molto sicura, probabilmente facenti parte della decorazione del frontone del tempio, ma anche terrecotte architettoniche, resti di tegole e coppi, lastre di rivestimento. Si tratta di pezzi sporadici che compaiono un po’ ovunque, intorno al teatro, nei porticati ed anche intorno al tempio minore.
Inoltre costituiscono un'importante documentazione relativa alla frequentazione del santuario durante le sue fasi di vita, le numerose monete, rinvenute in luoghi diversi, che coprono un arco cronologico di alcuni secoli. Tali testimonianze numismatiche si sono rivelate molto importanti ed essenziali ai fini della determinazione dei singoli momenti di vita dell’intero complesso monumentale, risultando quantitativamente rilevanti in considerazione della limitata estensione dell’area interessata. Particolarmente interessante si è rivelato il materiale numismatico proveniente da Pietrabbondante, costituito da 256 monete in bronzo, acquistato nel 1900 dal Museo Nazionale di Napoli e successivamente pubblicato da Ettore Gabrici (1868-1962), il quale lo dice proveniente genericamente da Bovianum Vetus, senza altra indicazione specifica. Altrettanto generiche, purtroppo, risultano le indicazioni fornite dai giornali di scavo del tempio minore e del teatro, risalenti alla fine dell’Ottocento, carenti di ogni dato stratigrafico preciso.

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