mercoledì 19 marzo 2025

Campania - Museo archeologico dell'antica Nola

 

Il Museo archeologico dell'antica Nola è un museo situato nel comune di Nola, in provincia di Napoli.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale della Campania, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Ospitato dal 2000 nel complesso di Santa Maria la Nova, che dal 1521 ospitava l'ordine delle suore canossiane, il museo incentra la sua raccolta sulla storia del territorio nolano, dal periodo preistorico a quello medievale, attraverso rilievi, maioliche, anfore, sculture, busti imperiali e tombe, frutto di donazioni da parte di privati o di enti pubblici del territorio regionale. A questi si aggiungono anche affreschi della tradizione napoletana.
Il percorso si snoda su tre piani ed ospita anche un plastico del Villaggio di Croce del Papa e molte tombe del periodo etrusco. Un'intera sezione, poi, è dedicata alle "riggiole" di Napoli e alla Villa di Augusto di Somma Vesuviana. Molti reperti, inoltre, provengono anche dalle Basiliche Paleocristiane della vicina Cimitile e dalle ricostruzioni del periodo sannita.
Il museo dispone anche di una sala conferenze e di una biblioteca.
Il museo espone con un percorso cronologico i reperti e le ricostruzioni dei ritrovamenti provenienti dal territorio, nonché conclude la visita con collezioni di opere di produzione moderna, tra cui le cartepeste e le riggiole, e relativi alla ancora presente festa dei Gigli.
Preistoria
Il museo raccoglie diversi reperti preistorici ritrovati nei siti archeologici nei pressi di Palma Campania e della località Croce del Papa, ai cui resti è ispirata la ricostruzione a dimensione reale della capanna preistorica ospitata nel museo. Tra i reperti più particolari conservati grazie alle ceneri vulcaniche, quelli relativi alla vita agricola della comunità di Croce del Papa, tra cui è visibile l'impronta di una spiga d'orzo (Hordeum vulgare) ed una di farro, nonché una mandorla e altre specie alimentari, oppure di diverse foglie di alberi da frutta e di quercia. È visibile inoltre l'impronta del graticciato che componeva l'involucro esterno delle tre capanne.
Periodo dal VII sec. a.C. al periodo romano
Sono visibili sempre al pian terreno diversi reperti di corredo funerario e ornamenti, che spaziano dal vasellame di provenienza Cumana e Daunia, agli oggetti in bucchero e di origine etrusco-corinzia. Sono esposte in particolare alcune anfore attribuite ai ceramografi locali detti pittore di Alchimaco e pittore di Berlino, nonché un cratere a colonnette decorato a figure rosse attribuito al pittore di Napoli.


Un altro reperto di rilievo è la "Tomba del cavaliere", tomba a semicamera di cui è esposta la lastra con ritratto di cavaliere con elmo cornuto, proveniente dagli scavi di via Seminario, Nola, risalenti al 1977. Sono inoltre ricostruite la Tomba dei Togati e la Tomba della Danzatrice.
Il museo inoltre espone il periodo dell'ingresso della cultura sannitica nel territorio, approfondendo diversi aspetti antropologici tra cui quello linguistico relativo alla lingua osca.
Infine vengono esposti reperti e ricostruzioni della Villa Augustea di Somma Vesuviana.
Altri reperti provengono da località Cangio a Nola, da Starza della Regina a Somma Vesuviana, da Cicciano, da Cimitile ed da San Paolo Belsito.
Medioevo e rinascimento
Del periodo medievale il museo espone i corredi funerari relativi agli scavi presso la Basilica paleocristiana di Tufino, nonché i reperti rinascimentali degli scavi del Palazzo Orsini, della Chiesa di Santa Maria La Nova. È presente inoltre l'esposizione pittorica della tavola dell’annunciazione di Giovanni Angelo D’Amato; di un dipinto dell'immacolata concezione, attribuita generalmente a Giovanni Andrea Taurella, del XVI secolo; dell'annunciazione di Domenico Antonio Vaccaro, dipinta per la chiesa di Santa Maria del Plesco di Casamarciano, del XVIII secolo
Collezioni delle cartapeste e delle riggiole

La collezione di cartapeste artistiche e la presenza di questa arte nella città di Nola è strettamente legata alla festa dei Gigli, in quanto le macchine sono decorate con leggeri ornamenti prodotti proprio in cartapesta.
È inoltre presente una sala dedicata alle riggiole e ceramiche, con oltre 300 elementi esposti a partire dal XVI secolo, di provenienza della collezione Diodato Colonnese.
Sezione dedicata alla festa dei Gigli
La sezione dedicata alla festa dei Gigli propone un ampio plastico che rappresenta la città di Nola in festa durante la caratteristica celebrazione, dotato di illuminazione e sonorizzazione, a rappresentare l'atmosfera ricca di persone, macchine obelisco dei Gigli e festoni. Sono inoltre visibili alcune ricostruzioni in scala dei gligli e della tecnica costruttiva.

Campania - Capri, Villa Jovis

 

Villa Jovis
 o Iovis (dal latino Villa di Giove), è situata sulla vetta del monte Tiberio, che si trova nella parte orientale dell'isola di Capri.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali la gestisce tramite il Polo museale della Campania, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei. Nel 2016 ha registrato 27 488 visitatori.
Villa Jovis è nota per essere stata sia la dimora dell'imperatore romano Tiberio Giulio Cesare Augusto sia il palazzo del governo di Roma negli anni tra il 26 e il 37 d.C. Scoperta sotto il regno di Carlo III di Borbone è stata valorizzata dagli archeologi Amedeo Maiuri e Norbert Hadrawa nel 1932. Villa Jovis ha suscitato un grande interesse tra gli studiosi di tutto il mondo per il ruolo svolto durante la permanenza degli antichi romani sull'isola di Capri.
Da questa e dalle sue altre ville sull'isola di Capri, Tiberio Giulio Cesare Augusto governò l'Impero per oltre undici anni.
Sulla personalità di Tiberio ancora oggi si fanno molte speculazioni. Alcuni cronisti dell'epoca, lo descrivevano come un despota dalla personalità crudele e senza scrupoli. L'ozio e i vizi di corte lo avrebbero indotto nel commettere brutalità eccessive, come quella di far lanciare nel vuoto del Salto di Tiberio i suoi schiavi. Questa e altre analoghe malignità hanno macchiato la sua immagine per secoli ma, forse, non corrispondono alla realtà.
Fonti da altri asseritamente ritenute più attendibili ed a lui contemporanee descrivono invece Tiberio come una persona distaccata, introversa, di poche parole. Difficilmente riceveva ospiti, tanto meno organizzava serate di gala, ancora più rari erano i ricevimenti diplomatici. Trascorreva intere giornate in profonda solitudine, rinunciando alla presenza della sua scorta, della sua servitù e del segretariato imperiale dedicandosi a passeggiate solitarie lungo il belvedere della sua villa che affaccia sui golfi di Napoli e di Salerno.
Durante il suo lungo soggiorno sull'isola parte delle cariche dello Stato vennero trasferite da Roma a Capri, da ciò si rese necessario realizzare alla villa ulteriori aumenti di volume; malgrado tutto, gli ampliamenti e le aree realizzate risultarono insufficienti. Più tardi si resero necessarie altre modifiche a causa del decadimento progressivo dello stato di salute dell'Imperatore dovuto soprattutto alla sua età avanzata. Un sistema di torri costiere per comunicazioni ottiche e di veloci liburne consentiva comunque all'imperatore di ricevere rapidamente messaggi e d'impartire ordini.
Alcuni studiosi affermano che Tiberio soffrisse di tubercolosi, ragione in cui i suoi medici gli avrebbero consigliato un lungo soggiorno in zone costiere. L'aria marina sarebbe stata la terapia indicata. Sulla veridicità delle ipotesi avanzate fino ad oggi non ci sono conferme.
Svetonio narra che l'Imperatore Tiberio aveva con il Senato, le classi patrizie ed i vertici militari relazioni torbide e caratterizzate da forti divergenze.
Una delle cause principali era la sua politica di risparmio, essendo contrario all'espansionismo dell'Impero. Tiberio riuscì a risanare con grande successo e in pochi anni il disastrato bilancio dello Stato lasciatogli dai suoi predecessori. Un'opera che tuttavia lo pose in forte contrasto con il Senato, fino al suo isolamento.


Dopo essersi reso conto che qualcosa contro di lui era da tempo in atto, forse per sfuggire ad un possibile attentato, lasciò la capitale per una «lunga convalescenza». La scelta di andare a Capri ed abitare a Villa Jovis non fu casuale, probabilmente fu proprio in ragione della sua incolumità. Negli ambienti di corte la decisione del suo trasferimento verso l'isola delle Sirene venne accolta dalle classi nobili, le alte cariche militari e del Senato con grande soddisfazione. La sua assenza da Roma per curarsi "la salute" venne considerata come una saggia decisione, decisione che tuttavia ancora oggi è rimasta un grande mistero.
Tra le ipotesi più azzardate del suo stato di salute, vi è quella secondo cui Tiberio durante la sua gioventù nelle sue campagne d'Africa e del Reno avrebbe contratto una malattia che gli avrebbe reso la vista debole. Altri sostengono che il suo carattere talvolta "scontroso" fosse presumibilmente dovuto ai malanni che aveva contratto sui campi di battaglia.
Nonostante tutto Tiberio continuò a rivestire la sua carica d'imperatore, tenendo le dovute distanze dai cospiratori rimasti a Roma.
Ma alcuni sostengono che la carriera politica ed il potere non erano mai stati all'apice delle sue ambizioni, anche se aveva brigato per perseguirli. Tiberio era affascinato dalle meraviglie del Mediterraneo come dimostrerebbe il suo lungo soggiorno a Rodi dedicato agli studi e alla riflessione.
Durante la sua permanenza sull'isola di Capri ordinò la modifica e la costruzione di altri palazzi intorno ad essa: tra i più noti vi è quello di Palazzo a Mare, altrimenti noto come «Bagni di Tiberio».
Nella stagione estiva si trasferiva qui: proprio in questo suo quartiere marittimo, dove l'imperatore amava fare il bagno.
Gli architetti che progettarono gli ampliamenti della già esistente villa Jovis, per rendere il soggiorno dell'imperatore più confortevole, si trovarono di fronte al grande problema dell'approvvigionamento idrico. L'acqua potabile, abbondante nei bassi rilievi dell'isola, scarseggiava a quote superiori. Già qualche decennio prima che l'imperatore lasciasse Roma, vennero quindi costruite due o più cisterne di grande capienza disposte nelle fondamenta della Villa Jovis. Quest'opera unica e ben concepita rese possibile la raccolta di grandi volumi di acqua piovana, così da renderne possibile l'erogazione in aree dell'isola meno accessibili, sia durante l'epoca romana che nei secoli successivi.
Villa Jovis venne riscoperta nel XVIII secolo sotto il regno di Carlo di Borbone.
La villa fu oggetto di un intervento di recupero nel 1932 diretto dall'archeologo Amedeo Maiuri: furono rimosse le macerie che si erano nuovamente accumulate sulle rovine della villa, che ne risultarono rivalorizzate. A Maiuri è stata intitolata la strada che, partendo dal centro della contrada di Tiberio, conduce alle rovine.
Villa Jovis è situata in posizione strategica, sul monte Tiberio, promontorio orientale dell'isola, a 334 metri sul livello del mare. Dalla sua posizione sublime si possono osservare l'isola d'Ischia, Procida, il golfo di Napoli, la penisola sorrentina quindi il golfo di Salerno fino alle terre del Cilento.


Campania - Villa Augustea a Somma Vesuviana

 

La cosiddetta Villa Augustea (o Villa di Augusto) a Somma Vesuviana è un complesso di strutture di epoca romana sito in località Starza della Regina.
La denominazione deriva dalla concreta possibilità che gli edifici antichi possano essere parte di una proprietà della famiglia dell'imperatore Ottaviano Augusto, originario della zona e morto secondo le fonti antiche nei dintorni di Nola che dista 10 km in linea d'aria dal sito archeologico.
Le indagini nel sito della “Villa di Augusto”, situato alle falde settentrionali del complesso vulcanico del Somma-Vesuvio (circa 12 km a est di Napoli) furono avviate negli anni Trenta del secolo scorso. Lo scavo del complesso, che ebbe inizio dopo la scoperta fortuita di un grande nucleo murario che ostacolava la piantumazione di alberi, fu eseguito tra il 1932 e il 1936 su un’area di circa 10 x 15 m. Le strutture rimasero esposte fino alla fine degli anni Quaranta, per poi essere abbandonate (anche per la concomitanza degli eventi bellici) e gradualmente interrate. Tuttavia, nel 1936, dopo il completamento dei lavori, il terreno oggetto dei rinvenimenti fu sottoposto a vincolo archeologico (ex artt. 1, 2, 4 L. 364/1909, poi rinnovato e rinforzato con D.M. 22.06.1991 ex artt. 1, 3 L. 1089/1939).
A partire dal 2002 l'Università di Tokyo (The University of Tokyo, Japan) ha intrapreso nel sito un nuovo e più esteso programma di indagini, condotto in collaborazione con altri Istituti di ricerca italiani e stranieri. Il Progetto di ricerca, coordinato dal prof. Masanori Aoyagi e, dal 2015, dalla prof.ssa Mariko Muramatsu (The University of Tokyo - Graduate School of Arts and Sciences), ha coinvolto anche le Università giapponesi di Ochanomizu e Tohoku, il Tokyo Polytechnic Institute e, in Europa, l'Università di Londra “UCL” e l'Université de Provence “Aix-Marseille I”. In Italia, il contatto principale è l'Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”, per il tramite del prof. Antonio De Simone (collaboratore al Progetto di ricerca per gli aspetti relativi alla conservazione e al restauro).
Le indagini archeologiche, tuttora in corso, stanno portando alla luce i resti di un imponente complesso architettonico disposto su terrazze, sepolto in epoca tardoantica da due eruzioni avvenute fra il 472 e gli inizi del VI secolo. Le strutture del monumento, tradizionalmente noto come “Villa di Augusto, si dispongono intorno ad una grande esedra poligonale in opus vittatum mixtum (tufo e laterizi), pavimentata in mosaico bianco e pareti rivestite di intonaci e stucchi dipinti. La costruzione, posta su una sorta di podio sopraelevato, era delimitata ad ovest e ad est da muri articolati in nicchie, originariamente ornate da statue; sulla parete sud, decorata con stucchi policromi, si aprivano tre ampi ingressi, comunicanti con un’area lastricata. L'esedra, delimitata a nord da un colonnato corinzio, è divisa trasversalmente da una monumentale struttura ad arcate ribassate, poggianti su pilastri quadripartiti in blocchi di lava, con cornici e architravi di calcare bianco. Intorno a questo grande ambiente centrale si dispongono ulteriori ambienti, fra cui due aule absidate decorate con mosaici e affreschi. 
I dati di scavo hanno permesso di stabilire che il complesso architettonico sopra descritto non risale ad epoca augustea: esso fu infatti costruito agli inizi del III secolo e occupato (con varie trasformazioni) fino alla seconda metà del V secolo ed è forse identificabile con il vestibolo di una grande villa o ad un altro tipo di edificio di difficile interpretazione. Dal 2015 in poi, le ricerche si sono concentrate nel quadrante sud-orientale dell'area di scavo, soprattutto nell'area situata a est della Sala 10 (nr. 15-24). Qui gli scavi si sono sviluppati  in profondità, riportando in luce di una cisterna (15) rivestita in cocciopesto (larga 10 m e lunga più di 18 m). Questa struttura, situata in un'area probabilmente scoperta, faceva parte di un articolato sistema di raccolta dell'acqua piovana, che comprendeva almeno due canali, un condotto (o serbatoio) e una vaschetta, quest'ultima posta al livello del catino absidale del Vano 7. L’indagine nella cisterna è stata conclusa nel 2018, con l’esecuzione di un saggio stratigrafico lungo il muro perimetrale ovest della struttura, in corrispondenza della base dell'abside dell'ambiente 10. Un saggio eseguito in questo punto ha permesso di verificare l'esistenza di un tratto di struttura muraria orientata est-ovest a circa 0,80 m al di sotto del livello pavimentale, conservato a livello delle fondazioni e obliterato dalla costruzione della cisterna e dell'Ambiente 10. 


Oltre a questo muro, lo scavo ha messo in luce una serie di strati, alcuni dei quali hanno restituito scarsi frammenti di ceramica (ceramica a pareti sottili, ceramica comune) e intonaco dipinto (in parte attribuito al II Stile), generalmente datati tra il periodo tardo-repubblicano e il primo imperiale. Durante le campagne 2018-2019 è stata scavata una profonda trincea archeologica sul limite orientale dell'area di scavo, che ha messo in luce i resti di strutture preesistenti all'abside del Vano 7 e da questa riutilizzate come fondazioni. Tali costruzioni erano sepolte da una complessa sequenza di strati di riempimento e livellamento, parzialmente scavati fino a scoprire il pavimento dell’ambiente (denominato 22), rivestito da cocciopesto. Nel corso della campagna 2023 è stata fatta un'altra importantissima scoperta che ha segnato una svolta nell'indagine archeologica del sito. Le ricerche si si sono infatti concentrate nell’ambiente 22 e i risultati di questi scavi sono di eccezionale interesse. 
Infatti, l'approfondimento dello scavo ha permesso innanzitutto di verificare che le pareti della stanza erano state demolite tutte allo stesso livello e che il loro abbattimento era stato causato da un evento improvviso e sicuramente di natura vulcanica. L'ipotesi che la causa fosse l'eruzione del 79 d.C. è stata confermata dalle analisi dei campioni di carbone prelevati dagli strati di riempimento di una struttura che può essere identificata con un prefurnio rinvenuto sotto al pavimento di un piccolo ambiente (25) ricavato successivamente nel Vano 22, quando la struttura di riscaldamento era già fuori uso e interrata. La datazione al radiocarbonio ha dimostrato che la maggior parte dei resti carboniosi risale alla prima metà del 1o secolo, e quindi l'impianto originario del Vano 22 appartiene a un edificio che esisteva molto prima dell'eruzione del 79 d.C. La funzione originaria dell'ambiente 22, che probabilmente risale alla tarda età repubblicana o alla prima età imperiale, non è ancora stata determinata a causa della parzialità dello scavo. In ogni caso, oltre al prefurnio già scoperto nel 2023 sotto il pavimento della Sala 25, il ritrovamento di almeno altri tre praefurni, simili al primo e posti lungo la parete sud della Sala 22, indica che questo edificio era dotato di un complesso sistema di riscaldamento, per il quale al momento non sembrano esserci confronti.

Campania - Napoli, scavi archeologici di San Lorenzo Maggiore

 
Gli scavi archeologici di San Lorenzo Maggiore sono un sito archeologico di Napoli localizzato nell'area sottostante la basilica e il convento omonimi.
Il sito fa parte del circuito del museo dell'Opera di San Lorenzo Maggiore.
Gli scavi, iniziati nel 1976 hanno rimesso in luce i resti del macellum (mercato) della Neapolis greco-romana, sorto in corrispondenza dell'antico decumano maggiore. La struttura antica presentava al centro un'edicola colonnata, in forma di piccolo tempio circolare a tholos, che doveva ospitare una fontana, come provano i resti dell'impianto per lo scarico dell'acqua. In corrispondenza dei lati dell'attuale chiostro, si aprivano dei porticati con ambienti sul fondo, destinati a bottega. Il macellum era organizzato a terrazzamenti, adattandosi alla particolare conformazione del terreno.
La stratificazione degli scavi, pur essendo alquanto complessa, ha permesso di ricostruire in modo attendibile le varie fasi storiche della città, con strutture di epoca greca risalenti al IV secolo a.C. (fondazioni in blocchi di tufo) sulle quali si innesta un complesso di età imperiale (I secolo d.C.).
Interessante è anche il tratto di strada (lungo circa 60 metri) corrispondente all'attuale vico Giganti e sul quale si aprivano alcune botteghe commerciali e, forse, l'antico Aerarium dov'era custodito il tesoro cittadino. Gli scavi, iniziati negli anni Ottanta e interrotti svariate volte per mancanza di fondi, si sono conclusi nel maggio 2009, grazie ai finanziamenti della comunità europea, e hanno riportanto alla luce l'altra metà del complesso archeologico: oggi risulta che, rispetto alla parte aperta ai visitatori nel 1993, l'area si sia raddoppiata.
L'area subì notevoli trasformazioni nel corso dei secoli con la sovrapposizione, ad esempio, di una basilica paleocristiana del VI secolo, la cui pavimentazione musiva è tuttora visibile in parte sotto il transetto della basilica.

Campania - Napoli, Villa di Caius Olius Ampliatus

 

La villa di Caius Olius Ampliatus è una villa di epoca romana ubicata a Napoli, nel quartiere di Ponticelli.
La villa venne edificata nel I secolo ed era probabilmente abitata da un veterano di Silla a cui furono affidate delle terre da coltivare; venne sepolta sotto una coltre di ceneri e lapilli a seguito dell'eruzione del Vesuvio del 79.
Dopo il terremoto del 1980, si decise la costruzione di edilizia popolare per accogliere gli sfollati nella zona di Ponticelli, al confine tra Napoli e San Giorgio a Cremano: nel 1985, durante i lavori di edificazione degli immobili venne ritrovata una villa del I secolo, un'altra villa risalente al II secolo e utilizzata fino al V o al VI secolo e una necropoli. Di queste solo la villa del I secolo ebbe delle campagne di scavo, tra il 1986 e il 1987 e nel 2007, mentre le altre furono nuovamente sotterrate.
La villa risale al I secolo, ha una superficie di circa 2 000 m² e l'ingresso, che da direttamente sul peristilio, era posta alla confluenza delle strade da Ercolano e Nola. Si tratta di una villa rustica, caratterizzata da un peristilio centrale intorno al quale si apre sia la parte residenziale che quella produttiva. La zona residenziale è di dimensioni ridotte rispetto al resto della struttura e ciò fa supporre che abitasse un esiguo nucleo familiare: questa è caratterizzata da una cucina con latrina, un triclinio che affacciava direttamente sul Vesuvio, un cubicolo, e, nella parte nord, nei pressi dell'orto, era probabilmente posto il quartiere termale.
La zona produttiva invece presente l'area per la spremitura delle olive per l'olio, il pistrinum con forno per il pane, un terreno dedicato al pascolo degli animali e, nella parte inferiore della villa, nelle cantine, la cella vinaria con i dolia, il torchio e la vasca per il mosto. Fu nella cella vinaria che venne rinvenuto il corpo di uno degli abitanti che aveva cercato riparo dall'eruzione, portando con dei beni preziosi tra cui un sigillo con il nome di Caius Olius Ampliatus, da cui la villa prende il nome; non si è a conoscenza se il corpo fosse del proprietario o di uno dei servitori: questo presentava denti mancanti e numerose fratture ossee. Sul muro di cinta che circonda la villa, Paolo ShaOne Romano ha dipinto un murales raffigurante la storia del sito.

Campania - Napoli, Villa di Licinio Lucullo

 

La Villa di Licinio Lucullo era una villa romana di Lucio Licinio Lucullo edificata nel I secolo a.C. a Napoli.
L'estensione della villa andava dall'isolotto di Megaride fino al monte Echia sul lato sud e, molto probabilmente, stando agli ultimi rinvenimenti archeologici, sul lato sud-est anche fino al circondario del Maschio Angioino, nei pressi di piazza Municipio.
La villa era dotata di laghetti di pesci e di moli che si protendevano sul mare, di una ricchissima biblioteca, di allevamenti di murene e di alberi di pesco importati dalla Persia, che per l'epoca erano una novità assieme ai ciliegi che il generale aveva fatto arrivare da Cerasunto. La villa divenne così celebre per i suoi banchetti, tanto che ancora oggi esiste un aggettivo in lingua italiana "luculliano", che sta ad indicare un pasto particolarmente abbondante e delizioso.
Questa architettura antica, data la sua enorme dimensione, è visibile in diversi punti della città di Napoli. Il nucleo più ampio e forse anche più rilevante è quello posto nei sotterranei del castel dell'Ovo, mentre altre tracce della struttura sono visibili sulla collina di Pizzofalcone e molte di esse nei pressi di piazza Municipio, grazie agli ultimi ritrovamenti.
Nel sottosuolo del castel dell'Ovo, vi è la cosiddetta "sala delle colonne", ovvero un antico ambiente della fortezza risalente appunto all'epoca in cui sorgeva sull'isolotto la villa romana di Lucullo. Il nome della sala deriva proprio dalle colonne romane rimaste in piedi.
Nel corso del tempo la villa ha vissuto comunque rimaneggiamenti che ne hanno fatto perdere sostanzialmente l'antico aspetto sia per mano dell'uomo, che più volte ne ha cambiato la destinazione d'uso modificando tutta l'architettura, sia per le vicissitudini militari susseguitesi nel corso dei secoli e, infine, sia per i vari terremoti che hanno modificato drasticamente la morfologia di quell'area.
Alla morte di Lucullo la villa passa all'imperatore romano, perdendo così di rilevanza, mentre con Valentiniano III, verrà trasformata in una fortezza. Da allora chiamato castellum Lucullanum, questo stato imperiale fu il luogo dell'esilio di Romolo Augustolo, l'ultimo imperatore romano d'Occidente.
Durante il medioevo i monaci bizantini prendono il possesso della villa-fortezza, facendola diventare un monastero. Le sale che edificarono furono fatte sui resti della villa romana, infatti proprio nella sala delle colonne del castel dell'Ovo, costituita da quattro navate con delle volte ad arco rialzato, sono presenti numerose colonne romane che sostengono la struttura.
Altre sale sono state destinate poi negli anni successivi a refettori, a luoghi di scrittura, dove venivano trascritti i libri, o ancora a cimiteri per i monaci.
Ulteriori perdite di tracce della villa avvennero alla fine del X secolo, quando il monastero fu distrutto dagli stessi napoletani per paura che potesse essere utilizzato dai Saraceni come avamposto militare. Dopo questo evento, il castello fu ricostruito dai normanni così come lo vediamo oggi, pur conservando nei sotterranei, non aperti al pubblico, ancora alcuni resti dell'abitazione di Lucullo.
Oltre al castel dell'Ovo, altri resti della villa sono ammirabili nella collina di Pizzofalcone, dove nell'VIII-IX secolo a.C. era stato fondato il primo nucleo della città e nei recenti scavi rinvenuti nei pressi di piazza Municipio.

Campania - Napoli, Resti e reperti archeologici della metropolitana



Linea 1
Salvator Rosa

Nel 2000 durante gli scavi per la realizzazione dello scalo di Salvator Rosa sono emersi i ruderi di un ponte romano, in seguito restaurato, facente probabilmente parte della via Antiniana (in età romana detta Neapolis-Puteolim per colles) che, partendo da Pozzuoli, risaliva per la Loggetta e la Canzanella, superava le colline del Vomero e ridiscendeva giungendo a piazza Dante.
Nel XVIII secolo le rovine del ponte furono inglobate in un palazzo e varie parti vennero riutilizzate per diversi scopi, come nicchie e mangiatoie per animali.
Dante
Gli scavi effettuati a piazza Dante hanno portato alla luce frammenti ceramici databili in un arco di tempo che va dal XIII al XVI secolo, quando a Napoli governavano gli Svevi e poi gli Angioini.
Le ceramiche sono quasi tutte di manifattura locale, e sono presenti anche protomaioliche importate dalla Puglia e maioliche arcaiche toscane, a testimonianza della crescita commerciale che ebbe luogo nella città in quell'arco di tempo.
Sono presenti sia manufatti di uso quotidiano (utilizzate nei conventi che si trovavano nei pressi) che vasellame pregiato, ad uso esclusivo di ricchi e aristocratici; infine, le decorazioni presentano linee e spirali dipinte in rosso, oppure sono assenti (in questo caso si parla di ceramiche acrome). Alternativamente i reperti rinvenuti sono anche decorate con il motivo «spiral ware», molto diffuso nel Mezzogiorno, ovvero con spirali incrociate in bruno e verde.
Toledo
«I reperti archeologici venuti alla luce si affiancano alle testimonianze contemporanee, scelte per avvicendare gli spazi progettati dall'architetto spagnolo
Negli scavi della stazione di Toledo sono emersi numerosi reperti archeologici, attribuibili a diverse epoche della metropoli partenopea, partendo da quella preistorica, passando per quella romana sino a giungere a quella bizantino-aragonese.
Durante gli interventi di scavo è stata rinvenuta parte delle fortificazioni edilizie aragonesi di fine XV secolo, in particolare un bastione che, già in epoca bizantina, era sepolto sotto una coltre di sedimenti.
Oltre alle fortificazioni sono state portate alla luce mura di scantinati di edifici risalenti al XVI secolo, attribuibili agli interventi edilizi promossi da Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga (detto Don Pedro) in occasione della costruzione di via Toledo; questi ultimi inglobano strutture inquadrabili nell'epoca romana in blocchi di tufo giallo napoletano con fasce di laterizi, facenti parte probabilmente di un edificio termale del II secolo d.C.
Sempre in occasione della costruzione dello scalo è stato rinvenuto in via Armando Diaz un paleosuolo caratterizzato da tracce incrociate di arature associate a frammenti di ceramica del Neolitico; i cocci sono riferibili inoltre alla facies di Diana.
Municipio

«Lo scavo della metropolitana è stata un'occasione unica. Il nucleo greco-romano è rimasto più o meno delle stesse dimensioni per molti secoli, in età angioina, aragonese e vicereale, come un gioco di scatole cinesi.»
(Daniela Giampaola, l'archeologa italiana che dirige lo scavo di piazza Municipio.)
Gli scavi della stazione di Municipio si sono rivelati talmente fruttuosi tanto da essere stati definiti dagli archeologi dei «pozzi di san Patrizio».; si pensi che solo in questo scavo sono state rinvenute molte migliaia di frammenti ceramici.
Il primo ritrovamento all'interno degli scavi, avvenuti nel 2003, è una barca lunga dieci metri, risalente al II secolo d.C., portata alla luce capovolta e molto simile a quella rinvenuta nel 1982 a Ercolano. Grazie all'imbarcazione è stato possibile definire precisamente l'antico profilo della costa in loco.
Successivamente, il 6 gennaio 2004 viene portato alla luce il porto romano, 3,5 metri sotto il livello del mare e 13 metri sotto il piano di calpestio; per anni vi erano tre ipotesi sull'esatta ubicazione del porto antico, che secondo diverse teorie venne collocato a piazza Bovio, presso il castel dell'Ovo o a piazza Municipio. Oltre al porto romano, sono stati portati alla luce suole in cuoio di calzari romani, monete, sigillate corinzie con decorazioni di scene bacchiche, balsamari, una notevole quantità di ceramica ben conservata (ovvero anfore, pentole di terracotta, coppe di produzione africana che si erano frantumate cadendo nell'acqua), bottiglie di vetro tappate chiuse con tappi di sughero. Ancora, anelli per unire il sartiame con le vele, aghi per ricucire le reti, arpioni lignei per la pesca, ancore in pietra romane a due fori e lucerne.
Il 15 gennaio 2004 viene trovata una seconda imbarcazione romana, uguale alla prima, il che ha fatto supporre agli archeologi che gli antichi romani fossero dotati di una flotta di navi che avrebbero fatto la spola tra i moli del porticciolo di Neapolis e il naviglio da trasporto pesante.
A fine mese, invece, emerge negli scavi un'ulteriore barca, larga 3,60 metri e lunga 13,5; il natante risale a un periodo compreso tra il I e II secolo d.C. La barca fu citata dall'ex vicesindaco Rocco Papa, che affermò:
«Ci troviamo di fronte a una scoperta di tipo eccezionale, perché si tratta della conferma che il porto era un porto importante e molto attivo e che la sua localizzazione precisa è in quella zona della città. Poi c'è da dire che rispetto alle prime due imbarcazioni questa che sta emergendo, oltre a essere la più grande, è quella conservata meglio
Un quarto natante viene rinvenuto durante gli scavi; quest'ultimo, da come riferisce Daniela Giampaola, «presenta una chiglia molto larga, con bordi poco alti e la prua piatta in modo da favorire l'attracco al molo e il carico e scarico merci». Vengono reperiti anche uno scheletro bovino, probabilmente scarnificato dopo la macellazione, e le mura della seconda torre del castel Nuovo, di forma rettangolare.
Nel 2012 viene invece portato alla luce uno scheletro umano di epoca medievale, a una profondità di otto metri, in una tomba a fossa scavata nel terreno. Il reperimento, avvenuto all'incrocio con via Medina, costituisce secondo gli archeologi una «scoperta importante».
Università

I lavori per la costruzione della stazione Università sono durati dieci anni a causa del ritrovamento di numerosi reperti archeologici di significativa importanza.
Sono stati portati alla luce i resti della fortificazione bizantina, costruita con elementi architettonici provenienti da un monumento di età imperiale. Alle rimanenze della fortificazione bizantina sono state attribuite due principali fasi di vita: la più antica è inerente a una muraglia di tufo e malta inquadrabile nel VI secolo d.C., alla quale è stata addossata una torre eretta durante il VII secolo d.C.
La torre, costruita molto accuratamente, è stata prodotta con molti elementi di riutilizzo, tra i quali vi sono alcuni elementi architettonici attribuibili ad un monumento pubblico di piena età imperiale.
Tra i vari ritrovamenti archeologi comunque spiccano un capitello corinzio, una semicolonna, un blocco angolare decorato su un lato con la prua di un'imbarcazione e sull'altro con un trofeo di armi e soprattutto due lastre del II secolo d.C. rappresentanti scene di sacrificio alla presenza dell'imperatore e un gruppo di legionari e togati.
Duomo
Durante gli scavi della stazione di Duomo, sita a piazza Nicola Amore, sono emersi numerosi reperti archeologici che, per numero, sono secondi solo a quelli ritrovati nei cantieri della poco distante stazione di Municipio.
I primi ritrovamenti, avvenuti alla fine del 2003, sono costituiti dai resti di un imponente edificio pubblico, edificato in età augustea in occasione dei giochi Isolimpici, e da una fontana marmorea del XII secolo, con graffiti raffiguranti barche dirette verso un castello.
Il 15 gennaio 2004 nei cantieri dello scalo è emerso un tratto di pavimento che i tecnici ritengono sia quello dell'ingresso dell'antico Gymnasium (un tempio utilizzato dai giovani sia come palestra sia come luogo dove ascoltare filosofi e poeti).
Successivamente vengono invece portati alla luce lo scheletro di un bambino, che ha fatto supporre agli archeologi la presenza di un'eventuale necropoli, ed una testa che ritrae un esponente di spicco della gens Giulio-Claudia, probabilmente Nerone Cesare, figlio del condottiere romano Gaio Giulio Cesare Claudiano Germanico.
Durante il marzo del 2004 emergono numerosi altri elementi architettonici facenti parte del Gymnasium: colonne, frammenti del frontone, parti del pavimento a mosaico, la struttura muraria di una scalinata (dalla quale sono stati tolti i gradini) e parte delle balaustre in marmo laterali.
Nei mesi successivi vengono portate alla luce altre parti del tempio: colonne di marmo, decorazioni del VI secolo d.C e svariati capitelli.
Nel luglio 2004 viene individuato un podio di un edificio religioso in opera laterizia completamente circondato da un corridoio, pavimentato a mosaico a grandi tessere variopinte, delimitato da una bassa balaustra ricoperta di marmi pregiati; la pavimentazione pare essere stata restaurata inoltre in età augustea.
Nel frattempo vengono reperiti ulteriori elementi dell'antico Gymnasium: una serie di lastre marmoree, che portano impressi, in greco, i nomi dei vincitori delle Isolimpiadi, divise per categorie (uomini, donne, fanciulle, ragazzi) e discipline (pancrazio, lotta, pugilato, corsa armata).
Così commentò riferendosi al Gymnasium il soprintendente Stefano De Caro:
«Il portico era usato come luogo d'incontro ma anche, e soprattutto, come punto d'osservazione delle gare. Visto che il muro chiude la struttura sul lato mare e che le colonne si affacciano sul versante opposto, è ipotizzabile che più in fondo, tra il portico e il tempio, corresse una pista rettilinea per l'atletica. Una pista che corrisponderebbe in tutto o in parte all'attuale corso Umberto.»
In seguito vennero rinvenuti i resti di un edificio del V secolo a.C. che ha fatto parte di un santuario e ulteriori parti di colonne.
Garibaldi
Durante gli scavi per la realizzazione dei pozzi di ventilazione della stazione di Garibaldi, sono stati rinvenuti, oltre a resti di fondazione precedenti al Risanamento (ovvero il grande intervento urbanistico avvenuto a fine Ottocento che mutò radicalmente il volto della maggior parte dei quartieri storici della città), anche delle mura di epoca romana.
Rinvenute in via Nolana, quattro metri sotto l'attuale piano di calpestio, le mura si sono rivelate utili per tracciare più precisamente il perimetro sudorientale dell'antica Neapolis, un'area notoriamente deputata ad attività sportive o di svago.
Oltre alle mura, sono state estratte anche diverse ossa di animali e una grossa anfora quasi integra.
Linea 6
Nei cantieri delle stazioni della tratta orientale della linea 6, in quanto ubicati in una zona ad elevato valore archeologico, sono stati portati alla luce molti reperti, i più importanti dei quali hanno potuto dimostrare che Partenope è stata fondata almeno 100 anni prima rispetto alla data fino ad allora conosciuta, ovvero nell'VIII secolo a.C., cambiando del tutto la cronologia della città.
Sono presenti molti reperti anche perché nel XIX secolo il quartiere di Chiaia subì un significativo ampliamento delle terre emerse a causa dell'accumulo di sedimenti.
Oltre a vari manufatti medievali e romani insabbiati, durante gli scavi sono stati portati alla luce gli antichi banchine e moli del XVI secolo, uno scheletro risalente alla stessa epoca, delle strutture da diporto, le fondazioni di un fabbricato cinquecentesco e alcune orme di cavallo.
Gli scavi per la realizzazione della linea 6, comunque, si sono rivelati utili anche per tracciare con precisione l'antica linea di costa del quartiere di Chiaia tra il Cinquecento e il Seicento.


Campania - Napoli, Teatro romano di Neapolis

 


Il teatro romano di Neapolis (detto anche teatro romano dell'Anticaglia) è un sito archeologico che sorge nel cuore del centro storico di Napoli, presso il decumano superiore.
Il sito è precisamente ubicato nella zona compresa tra via Anticaglia a nord, via San Paolo a ovest e vico Giganti a est. Insiste nella parte sottostante il vico Cinquesanti, che lo scinde verticalmente.
Una parte del teatro costituisce l'ultima tappa del percorso riguardante il sottosuolo di Napoli mentre altri frammenti sono liberamente visibili lungo i decumani.
Risalente all'età romana, nel I secolo a.C., il teatro è sorto al posto di un preesistente edificio greco del IV secolo a.C., anch'esso probabilmente destinato alla rappresentazione teatrale. A differenza dell'Odeion, che sorgeva accanto ad esso, destinato a particolari manifestazioni musicali ed oggi praticamente quasi scomparso, il teatro era scoperto.
Il teatro fu una delle glorie di Neapolis, secondo Ottaviano Augusto la custode della cultura ellenica: come riferisce Svetonio, l'imperatore Claudio vi fece rappresentare commedie in onore dell'amato fratello Germanico e diede loro la vittoria.
Leggendari i certami canori di Nerone: le fonti provengono da Tacito e dai suoi Annales, ma in particolar modo dal De vita Caesarum di Svetonio: quest'ultimo racconta che Nerone debuttò proprio a Napoli con una sua ode e nonostante scoppiò un violento terremoto, che l'imperatore valutò come gli apprezzamenti degli dèi, continuò a cantare e costrinse la popolazione a rimanere.
Le sue esibizioni furono molte e assai prolungate e riempivano ogni volta il teatro che sempre lo acclamava, la cui effettiva spontaneità è stata quantomeno messa in dubbio: lo stesso Svetonio parla di bombi, embrici e testi, cioè i vari modi di applaudire della claque dell'imperatore, ottenuta tra la giovane plebe in numero di cinquemila persone. Grandi lodi gli furono elargite dagli Alessandrini, che in città erano assai numerosi e che da Nerone furono rinfoltiti per la loro generosità critica.
Anche il filosofo Seneca parla del teatro: nella lettera 76 delle sue Epistulae morales ad Lucilium dice che per andare alla scuola del filosofo Metronatte bisognava passare per la zona del teatro, definito da Seneca strapieno di gente al contrario della scuola, considerata dai più frequentata da fannulloni.
Il teatro fu ristrutturato durante l'età flavia (I secolo) e nel II secolo. La maggior parte delle vestigia risale proprio a questo periodo e a successivi restauri.
Publio Papinio Stazio in età flavia esalta in una lettera alla moglie contenuta nelle sue Silvae i templi e una grande piazza porticata (forse l'area del Foro) e fa riferimento a due grandi teatri nella città, quello all'aperto e quello coperto, ubicati nella parte superiore del Foro, alle spalle dell'area sacra del tempio dei Dioscuri.
La caduta dell'Impero romano sancisce la caduta anche degli spettacoli teatrali in genere e la struttura viene abbandonata, complice anche un'alluvione tra il V e il VI secolo. Il periodo medievale aumenta l'oblio della struttura, adoperata come piccola necropoli (databile al VII secolo) o - cosa prevedibile - discarica e per finire, tra il XV e il XVII secolo è stato sopraffatto dalla costruzione di vari edifici sorti sulla cavea nonché sventrato dal vico Cinquesanti, aperto tra il 1569 e il 1574 dai Padri Teatini.
Gli ambienti interni furono adoperati come stalle, cantine, depositi e botteghe fino a poco tempo fa. Le prime scoperte avvennero nel 1859 per lo scavo di una fognatura mentre un primo scavo archeologico avvenne alla fine del XIX secolo nel giardino dello stabile su cui insiste il teatro. Il primo piano di recupero risale al 1939 durante il Ventennio (importante perché prevedeva la demolizione di tutti gli stabili che insistevano sul teatro), ma solo dal 1997 il teatro è stato in parte disvelato, con l'intervento del Comune che tra il 2003 e il 2007 ha ordinato importanti lavori di recupero i quali hanno permesso l'affioramento della parte ovest della media cavea dal giardino interno.
Il teatro presenta la tipica forma semicircolare del teatro greco, della quale oggi è possibile visitare alcune importanti vestigia, mentre parte della cavea, che è stata recuperata dopo anni di oblio, è visitabile eccezionalmente.
Il teatro presentava tre ingressi, due laterali (ovest-est) per gli attori ed uno nord per il pubblico. Durante l'epoca romana, avendo questi già all'epoca capito che l'onda sismica venisse trasmessa diagonalmente, il teatro fu organizzato secondo la tecnica dell'opus mixtum, dove il reticolatum serviva a disperdere l'onda e il latericium invece a bloccarla.
L'accesso alla parte normalmente visitabile del teatro è possibile tramite una botola in un basso di vico Cinquesanti che conduce al lato est del teatro: il proprietario del terraneo aveva ricavato l'accesso agli ambienti sotterranei che aveva adoperato come cantina tramite una botola che era situata sotto il letto. Aveva inoltre escogitato un meccanismo che permetteva la scomparsa del letto, che scorreva lungo dei binari, in una nicchia del muro. La scoperta di frammenti murari in opus latericium portò successivamente all'esproprio del basso e alla nuova destinazione d'uso.
La parte di vico Cinquesanti corrisponde al proskenion o proscaenium e al paredon. Dopo essere usciti da questa zona in vicoletto Giganti, una traversina di vico Cinquesanti, si rientra in via Anticaglia dove si può accedere all'intradosso della summa cavea, cioè l'anello superiore delle gradinate.
La cavea, che possedeva tra i 5000 e i 6000 posti circa, mostra in alcuni tratti ancora i marmi di rivestimento delle gradinate e alcuni vomitoria (gli accessi alle gradinate). È importante notare che la parte disvelata se non per un piccolo tratto riguarda la sola media cavea, i posti centrali. Soltanto un tratto della imma cavea, i posti più in basso, è visibile e comprende anche uno dei vomitoria ancora oggi atto all'accesso al teatro. La summa cavea, cioè i posti più in alto è andata irrimediabilmente perduta perché fu eliminata sin dalla costruzione dei primi palazzi. Si conserva della summa cavea soltanto parte degli ambienti sottostanti.
L'ingresso per la cavea è da via San Paolo e vi si accede entrando in un'antica bottega sita nel cortile di un palazzo di origini quattrocentesche.
A testimoniare tuttora la presenza del teatro all'esterno sono due massicce arcate, presenti in via Anticaglia, che in epoca romana erano delle sostruzioni, strutture di rinforzo dell'esterno del teatro e ora appaiono inglobate negli edifici esistenti.


Campania - Napoli, Statua del dio Nilo

 

La statua del dio Nilo è una scultura marmorea di epoca romana databile tra il II e III secolo d.C. e che insiste nel largo Corpo di Napoli, nel cuore del centro storico della città partenopea.
La storia legata alla scultura risale ai tempi della Napoli greco-romana, quando nell'area in cui tuttora insiste il monumento si stabilirono numerosi egiziani (provenienti da Alessandria d'Egitto); le colonie erano formate da ceti sociali differenti tra loro, viaggiatori, mercanti e schiavi.
Il popolo napoletano non si dimostrò avverso a questo fenomeno, tant'è che le colonie vennero soprannominate le «nilesi», in onore del vasto fiume egiziano. Gli alessandrini decisero così di erigere una statua che ricordasse loro proprio il fiume Nilo, elevato ai ranghi di divinità portatrice di prosperità e ricchezza alla loro terra natia.
Nei secoli successivi, dopo essere caduta in oblio, la statua fu ritrovata acefala verso la metà del XII secolo, quando l'edificio del seggio fu costruito nell'area dell'attuale largo, venendo collocata così all'angolo esterno dello stesso palazzo. Il ritrovamento è riportato, nelle loro opere storiche, da Camillo Tutini, Giovanni Antonio Summonte e, in epoca assai più recente, da Ludovico de la Ville Sur-Yllon.
Successivamente, con molta probabilità, la statua visse nuovamente momenti di abbandono finché non se ne persero di nuovo le tracce, per poi essere ancora una volta riscoperta solo nel XV secolo.
Bartolommeo Capasso ipotizzò che fu ritrovata durante i lavori di demolizione che interessarono parte dell'antico edificio del seggio di Nilo (i cui resti secondo Roberto Pane sono riscontrabili nei tre portici inglobati nei muri del palazzo Pignatelli di Toritto) attorno e non prima del 1476, quando le famiglie del seggio, notata la fatiscenza dell'edificio, acquistarono per la nuova sede una parte del monastero di Santa Maria Donnaromita.
A causa dell'assenza della testa, che non permise un'identificazione certa del soggetto, fu interpretata erroneamente come la statua di un personaggio femminile, per via della presenza di alcuni bambini (i putti) che sembrano allattarsi in seno alla madre. L'opera, secondo le cronache antiche, a partire dalla trecentesca Cronaca di Partenope e dalla Descrittione dei luoghi antichi di Napoli del 1549 di Benedetto De Falco, stava a simboleggiare la città madre che allatta i propri figli; da qui nacque il nome cuorpo 'e Napule (corpo di Napoli), dato anche al largo dove è tuttora ubicata.
Tuttavia Angelo Di Costanzo, che scrisse nel 1581 sotto lo pseudonimo di Marco Antonio Terminio l'Apologia di tre illustri Seggi di Napoli, dove sostiene la maggiore nobiltà dei tre seggi (o sedili) di Porto, Portanova e Montagna a scapito dei due seggi di Nilo (definito con la corruzione "Nido") e Capuana, che dalla loro avanzavano altrettante pretese di primazia, riconosce e indica testualmente la statua come imagine del fiume Nilo. D'altronde il seggio ebbe il nome "Nilo" (poi corrotto in "Nido") proprio per via del ritrovamento, segno che fu in origine identificato il vero significato della statua, ma col tempo questo fu perlopiù dimenticato.
Solo nel 1657, quando fu totalmente demolito il vecchio edificio del sedile, la scultura fu adagiata su un basamento e restaurata per iniziativa delle famiglie del seggio dallo scultore Bartolomeo Mori, il quale integrò la statua con la testa di un uomo barbuto, le sostituì il braccio destro e vi apportò la cornucopia, la testa del coccodrillo presso i piedi del dio, la testa della sfinge posta sotto il braccio sinistro e i vari putti. Infine sul basamento fu posta un'epigrafe a ricordo, il cui testo, anche se in maniera imprecisa[2], fu riportato da Tommaso De Rosa nella sua opera del 1702 intitolata Ragguagli storici della origine di Napoli, realizzata con l'ausilo dello zio Ignazio.
Dopo che fu persa la prima epigrafe e la statua fu danneggiata, nel 1734 fu applicata l'epigrafe dettata dal noto erudito Matteo Egizio che tuttora si può leggere, in occasione dei lavori di restauro patrocinati dalle nobili famiglie Dentice e Caracciolo e promossi da varie personalità tra cui l'architetto Ferdinando Sanfelice.
Ulteriori poderosi restauri furono apportati dallo scultore Angelo Viva tra la fine del XVIII secolo e i primi anni del XIX secolo alle parti integrate dal Mori che, a quanto pare, dovevano aver subito nel frattempo pesanti atti vandalici. Lo stesso scultore narra esplicitamente di una statua ormai ridotta a «monco di busto» cui aveva ricostruito ex novo quasi tutte le membra e quasi tutti gli elementi decorativi che la circondavano.
Durante il secondo dopoguerra, due dei tre putti che circondavano in basso la divinità nonché la testa della sfinge che caratterizzava il blocco di marmo furono staccati e rubati, probabilmente per rivenderli al mercato nero. La testa della sfinge verrà ritrovata nel 2013 in Austria, dopo sessant'anni dal furto, dal Nucleo Tutela Patrimonio Artistico dei Carabinieri. Al momento della diffusione della notizia, il comitato per il restauro della statua si era già ricostituito per intraprendere una nuova pulizia del monumento dopo che erano passati vent'anni dall'ultimo intervento, eseguito sempre per iniziativa del comitato nel 1993.
Il restauro, che si è prefisso anche di ricollocare la testa ritrovata, è durato per quasi tutto il 2014 e si è concluso nel mese di novembre. Il 15 novembre 2014 la statua è stata presentata alla città con una solenne inaugurazione.
La scultura raffigura il Dio Nilo come un vecchio barbuto e seminudo disteso sulle onde del fiume, con i piedi posti vicino alla testa (non più visibile) di un coccodrillo, simbolo dell'Egitto, e che si appoggia col braccio sinistro su una sfinge, mantenendo con la mano destra una cornucopia.
Al petto cerca di arrampicarsi invece l'unico putto superstite dell'originaria composizione, probabilmente raffigurante un affluente del fiume.
La statua poggia su un basamento in piperno realizzato nel 1657. Su lato principale del basamento è posta una targa in marmo fatta per i lavori di restauro del 1734. Sulla targa è incisa in latino la storia e le peripezie della plurimillenaria scultura.
La scultura non è interamente risalente all'epoca imperiale romana, infatti gran parte delle sue parti è frutto di integrazioni apportate nei secoli. Le parti "originali" sono: il busto, gli arti inferiori velati e il braccio e spalla sinistri del dio, le onde su cui si distende, il coccodrillo e la sfinge, meno che la relativa testa.

Campania - Museo Archeologico Nazionale di Eboli e della media valle del Sele

 

Il ManES - Museo Archeologico Nazionale di Eboli e della media valle del Sele, aperto il 25 marzo 2000, è un museo statale che fa parte della Direzione regionale Musei Campania. Il ManES ha sede nella città di Eboli, in provincia di Salerno, nell’ex Convento di San Francesco, complesso monumentale fondato nel XIII secolo, ampiamente rimaneggiato nel XVI e nel XVIII. Prima dell'ultimo conflitto mondiale il complesso fu adibito a sede del Municipio, della Pretura e del locale Ginnasio. I bombardamenti della guerra ne determinarono la parziale distruzione e l'abbandono. I lavori di recupero eseguiti nel corso degli anni Novanta lo hanno destinato, parzialmente, a sede museale. Le collezioni archeologiche del ManES si sono accresciute con gli apporti provenienti dagli scavi condotti nel territorio della valle del Sele, una “terra di mezzo”, che, per posizione geografica, allo sbocco di importanti vie di transito, è stata da sempre luogo di incontro tra genti e culture diverse. Il percorso espositivo ripercorre le principali fasi dell'insediamento degli uomini in questo territorio, dalla Preistoria al Medioevo e la loro cultura.
ATRIO

All’interno dell’atrio è conservato il basamento di una statua onoraria, c.d. Stele eburina (nella foto a destra), con iscrizioni sui tre lati che sono state studiate anche da Theodor Mommsen. La stele eburina è uno dei documenti più importanti per la storia dell'antica Eboli, una "pietra che parla". Ad esempio, l'iscrizione sulla facciata anteriore testimonia che Eboli era Municipium romanum. L'ambito titolo di municipium comportava per i suoi abitanti il diritto alla cittadinanza romana, potersi governare con proprie leggi, divenire funzionari dell'Imperatore e partecipare alle cariche pubbliche a Roma. La statua, non conservata, era stata dedicata a Tito Flavio Silvano, della tribù Fabia, che alla fine del II sec. d.C., nel 183 d.C., sotto l'Impero di Commodo, rivestiva la carica di Patrono del Municipio di Eburum. Il Collegio dei dendrofori, i cui membri si occupavano del
taglio dei boschi, della lavorazione del legno e del suo trasporto a Roma, sempre bisognosa di legname per scopi civili e militari, gli dedicò "una statua che ricordasse per sempre lui che era un patrono degno di ricordo". La stele eburina presenta altre due iscrizioni sui lati corti: quella del lato destro indica i nomi dei magistrati sotto i quali avvenne la dedica, mentre sul lato opposto viene testimoniato il riutilizzo della stele tra la fine del II e gli inizi del IV sec. d.C..
Piano terra
Il Neolitico

Nel corso del VI millennio a C. si colloca l'età neolitica, durante la quale la vita dell’uomo cambia radicalmente. In questo periodo gli uomini abbandonano le dimore occasionali fino ad allora utilizzate, organizzandosi in villaggi stabili: coltivano i campi, addomesticano gli animali e, per le varie attività quotidiane, cominciano a realizzare recipienti più resistenti, in argilla. A Eboli le testimonianze più antiche della frequentazione antropica risalgono a due fasi: il Neolitico Superiore (3500-3000 a.C.) e il Neolitico Inferiore (3000-2500 a.C.). I reperti archeologici provengono dalla località San Cataldo. Si tratta di anse appartenenti a ciotole, da
attribuire a due importanti facies culturali che si sviluppano in questo periodo in Italia Meridionale: quelle di Serra D'Alto e di Diana-Bellavista.
L'Eneolitico
Il periodo successivo, databile nel corso del III millennio a.C., è noto come Eneolitico o Età del Rame, dal primo metallo ad essere lavorato dall’uomo. Quattro sepolture attestano la presenza dell’Eneolitico a Eboli, in località Madonna della Catena e sono riconducibili alla cultura “del Gaudo”, così denominata dall'omonima località di Capaccio Paestum. Le tombe di Madonna della Catena sono a grotticella, scavate in banchi di roccia tenera, con un pozzetto di accesso collegato ad una o due celle in cui venivano seppelliti più individui, accompagnati da oggetti ceramici e in pietra. Nella cella sono stati ritrovati vasi di piccole dimensioni (tazze, orci, bicchieri, pissidi e anforette), usati per attingere, mentre nel vestibolo d’accesso sono stati rinvenuti recipienti più grandi come le olle biansate. Molto significativi sono gli oggetti in pietra: pugnali, punte di freccia e microliti trapezoidali.
L'Età del Bronzo
Nelle località collinari ebolitane sono state ritrovate le tracce di insediamenti umani, a partire dal Bronzo
medio (XIV-XIII sec. a.C.). Dalla località Turmine provengono i materiali più antichi, rappresentati da pochi frammenti di ceramica talvolta decorati da incisioni ed excisioni. Nel Bronzo finale (XII-XI sec. a.C.) presso la collina di Montedoro, che domina il centro abitato, si sviluppò un insediamento del quale sono state individuate tracce di capanne. A Montedoro sono stati ritrovati frammenti ceramici dipinti di tipo miceneo, riferibili al Tardo Elladico III C (XI sec. a.C.), alcuni dei quali di probabile provenienza egea.
L'Età del Ferro
Durante l'Età del Ferro (IX-VIII sec. a.C.) nel territorio ebolitano si registra la presenza sia di gruppi appartenenti alla cultura villanoviana, riferibile alla vicina Pontecagnano, sia di gruppi appartenenti alla cultura delle “Tombe a fossa”. Nell’Età del Ferro i corredi funerari maschili si contraddistinguono per la sostanziale sobrietà e per l’esaltazione dell'ideale guerriero, in cui gli elementi di spicco sono le armi e la fibula in bronzo ad arco serpeggiante. Al contrario, i corredi femminili sono ricchi di gioielli: orecchini in argento e bronzo, bracciali e ferma trecce sempre in bronzo, collane in ambra e pasta vitrea. Numerosi gli anellini e le borchiette in bronzo e in ambra che decoravano gli abiti delle defunte. La presenza di
ceramica con decorazione “a tenda” attesta ulteriori legami con il mondo enotrio della Lucania Occidentale.
Primo piano
VII e VI sec. a.C.
Le fonti di informazioni disponibili sull'antico centro di Eboli nel VII e VI sec. a.C. sono i contesti funerari. I materiali esposti mostrano come l'insediamento ebolitano sia pienamente gravitante nell'orbita della vicina Pontecagnano. Tuttavia, Eboli appare aperta ad influssi di culture diverse, grazie alla particolare posizione geografica che la pone quale naturale cerniera tra l'entroterra e la costa, come dimostrano un nucleo di sepolture rinvenute nella località Sant'Antonio, che rinviano, specie quelle femminili, alla cultura di Oliveto-Cairano, legata alle popolazioni insediate fin dall'Età del Ferro sulle colline che controllavano i corsi dei fiumi Ofanto e Sele. Le necropoli sono caratterizzate dal rituale dell'inumazione in fosse terragne, ma sono documentati anche casi di incinerazione. In queste necropoli un apposito spazio viene destinato alle sepolture di neonati e bambini. I neonati sono collocati
in grossi contenitori d'impasto, accompagnati dagli oggetti di ornamento e da piccoli vasi, anforette di bucchero o piattelli. I bambini vengono inumati in fosse terragne, adorni di fibule e di collanine in pasta vitrea. Il corredo funerario, disposto sul corpo o ai piedi, si compone di anforette in bucchero e, talvolta, di piccoli calici di impasto. Fra le tombe di giovani si distinguono alcune dal ricco corredo e nelle quali il defunto, secondo un rituale di tradizione ellenica, è stato cremato direttamente sul luogo di sepoltura. Tra i materiali colpisce la marcata presenza di ceramica in bucchero (oinochoai, kantharoi, coppe) di produzione campana. La ceramica d'importazione greca o di tipo greco, molto rara, accompagna le sepolture più rilevanti, denotate anche dalla presenza di vasi con iscrizioni onomastiche in lingua etrusca. In particolare, nel VI sec. a.C., la presenza greca è testimoniata dalla diffusione della ceramica corinzia, di cui Pontecagnano rappresenta un centro di smistamento almeno fino alla metà del VI sec. a.C., per poi essere sostituita da Poseidonia, l’odierna Paestum, per l'importazione di ceramica ionica e attica. Emblematica a tale riguardo è la tomba n. 31 di via San Berardino, nella quale è testimoniata la più alta concentrazione mai registrata di importazioni greche.
V e IV sec. a.C.

I dati attestano per il V secolo a. C una netta contrazione dell'insediamento ebolitano. Le sepolture di questo periodo sono ad inumazione. La composizione dei corredi, soprattutto per la prima fase, è caratterizzata da ceramiche d'impasto e argilla figulina, che richiamano le tradizioni del secolo precedente, affiancate da poche a vernice nera di derivazione attica. Solo negli ultimi decenni il panorama si arricchisce con la presenza di sepolture connotate da segni elitari che si rifanno al mondo greco, adottandone forme e rituali. In questo periodo, se da un lato si assiste ad un certo conservatorismo culturale, ispirato alle tradizioni dell'entroterra, dall’altro si evidenzia l’apertura verso modelli che si rifanno al mondo greco, attraverso la mediazione di Poseidonia, la cui egemonia provoca il progressivo ridimensionamento delle genti etrusco-campane che popolano la Piana del Sele. Due corredi, databili nel V secolo a.C. inoltrato, appaiono emblematici: quello della tomba n. 5 di via Matteo Ripa e quello della tomba n. 83 di via Gian Battista Vignola. Nella sepoltura di via M. Ripa il sobrio corredo del defunto si contraddistingue per la presenza del cratere in argilla figulina con decorazione a fasce,
riconducibile a tipi caratteristici dei centri dell’entroterra come Volcei, l’odierna Buccino, a testimonianza dei legami tra Eboli e le zone interne.
Al contrario, la sepoltura di via G. B. Vignola è una testimonianza dell'incontro con la cultura ellenica. Il corredo funebre che accompagna il defunto è incentrato su vasi che alludono al rito del Simposio, introdotto proprio dai Greci e comprende una coppa a figure rosse di produzione attica, con una processione di danzatori e un segno “ad alberello” graffito sotto il piede. Infine si evidenzia la sopravvivenza della cultura
etrusca, come confermano le tante iscrizioni in lingua etrusca ritrovate. Le radicali trasformazioni conseguenti alla conquista della Campania da parte di Sanniti e Lucani, si riflettono nell'assetto delle necropoli e nel costume funerario. Nel IV sec. a. C. nuovi spazi alla base della collina di Montedoro, oltre alle aree che già dall'Età del Ferro erano adibite alla sepoltura dei defunti, vengono destinati a quest'uso. I nuclei di sepolture, alternati ad ampie aree vuote, sono aggregati in gruppi familiari, in cui i maschi più importanti vengono sepolti con l'armatura completa del
guerriero, talvolta indossata oppure collocata dietro la testa, come un trofeo. Agli elementi che riportano all’attività guerriera, si accompagnano i vasi da vino e da mensa in ceramica e in bronzo e gli oggetti legati alla pratica atletica. Non mancano lo strumentario da fuoco in piombo, allusivo alla sfera dell'oikos, e terrecotte che riproducono i frutti della terra, chiaro riferimento alla ricchezza agricola. Il corredo funebre femminile comprende vasi come il lebete nuziale e l'hydria, il vaso per l’acqua e gioielli in bronzo o in argento.
III e II sec. a.C.

Un intervento di scavo eseguito su un pianoro ubicato nella parte bassa della collina di Montedoro, laddove era documentata la presenza di alcuni ambienti appartenenti a un edificio sacro, databile alla prima età imperiale, ha portato al recupero di materiale votivo, collocato nella stipe di un santuario di età romana medio-repubblicana, a testimonianza dell’esistenza del luogo di culto già fra il III ed il II sec. a.C. La presenza di votivi anatomici, come arti e dita, indica l'appartenenza del santuario a un culto salutare, la cui
diffusione nel periodo della colonizzazione romana è ben documentata. Si distingue la statua in terracotta di un giovane dalla corta capigliatura ricciuta, rappresentato seduto e con le gambe innaturalmente divaricate, oltre che volutamente mutile all'altezza delle ginocchia. Si evidenzia nella resa del volto un'influenza di prototipi di tradizione ellenistica. La testa leonina e le tre matrici (una frammentaria che rappresenta una testa leonina, un sileno e una piccola testa femminile) provengono da un altro sito archeologico portato alla luce nell’area della chiesa dei SS. Cosma e Damiano, ai
piedi di Montedoro. Esso si trova in posizione periferica rispetto all’abitato dell’antica città e prossimo a un lastricato da riferirsi probabilmente alla via Popilia che collegava Capua e Regium. Nel sito sono visibili i resti di un quartiere artigianale composto da tre fornaci. Dagli scarichi, costituiti in gran parte da resti di matrice, si ricava che le fornaci erano destinate alla produzione di terrecotte figurate.
I sec. a. C.
L’esplorazione archeologica eseguita in località Paterno di Eboli ha portato alla scoperta di un complesso di strutture appartenenti a una villa romana edificata nel I sec. a. C. Il reperto esposto è una piccola erma in marmo pavonezzetto, priva del pilastrino a cui originariamente doveva essere applicata; raffigura una testa maschile barbuta con ricca capigliatura riccioluta. La presenza della leontè, la pelle del leone di Nemea ucciso da Ercole, permette l’attribuzione della testa all’eroe famoso per la sua forza.
Medioevo
I materiali esposti all’interno di quella che era la cappellina privata dei frati francescani, provenienti da saggi effettuati in varie località del borgo antico di Eboli, sono relativi a un periodo omogeneo del basso medioevo (XIII secolo). Per la maggior parte si tratta di ceramiche invetriate, molte delle quali con ricche e complesse decorazioni vegetali. Non mancano frammenti di contenitori in vetro decorati da listelli o bugne, con basi di appoggio del tipo “ad artigli” abbastanza diffuse nell’Italia meridionale. L’unico manufatto metallico è una pregevole brocchetta in bronzo, recuperata in una fossa di scarico, caratterizzata da un’ansa con protome animale nella parte superiore all’attacco e con orlo svasato. La brocchetta non trova confronti nella produzione della penisola italiana in età medioevale, ma sembra confrontabile con esemplari simili, provenienti da ambiti islamici. La documentazione archeologica colloca il sito ebolitano, nel Medioevo uno dei principali centri abitati del salernitano dopo Salerno e Cava de’ Tirreni, al centro di una vasta rete di uomini, beni e conoscenze.


Nelle foto, dall'alto:
  1. Corredo funerario da Oliveto Citra, tomba 35 della necropoli in località Turni (prima metà del V sec. a.C.)
  2. Testa di Ercole in marmo pavonazzetto da Eboli, villa romana di Paterno (I sec. d.C.)
  3. Statuetta fittile femminile da Eboli, tomba 31 di Via San Berardino (secondo quarto del VI sec. a.C.)
  4. Statuetta fittile di Hera da Campagna, tomba 5 della necropoli di Piantito (prima metà del IV sec. a.C.)
  5. Armatura in bronzo da Eboli, tomba 37 della necropoli di Santa Croce (340-330 a.C.)
  6. Hydria a figure rosse da Campagna, tomba 9 della necropoli di Piantito (prima metà del IV sec. a.C.)
  7. Fiaschetta in bronzo da Eboli, tomba 242 della necropoli di San Cataldo (780-750 a.C.)
  8. Base di statua onoraria con iscrizioni da Eboli, cd. “stele eburina” (183 d.C.)
  9. Kylix attica a figura rosse da Eboli, tomba 83 di Via G. B. Vignola (inoltrato V. sec. a.C).
  10. Tomba femminile Età del Ferro
  11. Repertidalla Tomba 83
  12. Elmo
  13. Scheletro da Battipaglia
  14. Dettaglio degli arabeschi di un cinturone


ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...