Fèrento (in latino Ferentium)
è un'antica città etrusca, romana e medievale nelle
vicinanze di Viterbo, sulla strada Teverina verso la valle
del Tevere.
Dalla città provenivano diverse
famiglie famose, tra cui quella dell'imperatore romano Otone
e Flavia Domitilla, moglie dell'imperatore Vespasiano.
La città sorgeva sull'altura di
Pianicara, dove potrebbero essersi insediati gli abitanti della
vicina città etrusca di Acquarossa, distrutta da un terremoto o
da città nemiche intorno al 550-500 a.C.. Il collegamento con la via
Cassia era assicurato dalla via Publica Ferentiensis della
quale sono conservati tratti del basolato.
Fu un ricco municipio romano
dove le attività principali erano il commercio che si svolgeva tra
la costa del Tirreno e la valle del Tevere, l'agricoltura,
l'allevamento, nonché l'estrazione e lavorazione di tufo e peperino.
Importante era la lavorazione e il commercio del ferro che
era facile da reperire in grandi quantità e soprattutto in
superficie, su gran parte del territorio circostante.
In età repubblicana, era sviluppata
lungo il decumano massimo della via Ferentiensis, con una
disposizione urbanistica ortogonale a cardi e decumani.
Nel Liber coloniarum e in un passo
dei Gromatici veteres risalente al 123 a.C. si
trova la prima menzione della città, in riferimento alla deduzione
di una colonia o forse alla spartizione di alcuni terreni
demaniali. Dopo la guerra sociale, nel I secolo a.C.,
divenne municipium.
Nella prima età imperiale,
Ferento raggiunse il suo massimo splendore: infatti risale a questo
periodo la costruzione dei più importanti edifici pubblici, come
il teatro, il foro (non ancora scavato), le terme,
l'anfiteatro (a nord-est rispetto all'abitato), una fontana
contornata da numerose statue e l'augusteo. Lo splendore proseguì
anche nel secolo successivo e fu definita "civitas
splendidissima", come è scritto in un'epigrafe di marmo
rinvenuta nei pressi della città.
Tra gli abitanti di Ferento, spiccano
alcuni nomi illustri, tra cui Salvio Otone, imperatore per
pochi mesi nel 69, e Flavia Domitilla Maggiore, moglie
dell'imperatore Vespasiano e madre di Tito e Domiziano.
Dal III secolo le notizie su Ferento si
fanno più rare. Dal Liber pontificalis si evince che in
quel periodo in città si praticava il culto per sant'Eutizio,
morto nei pressi di Soriano nel Cimino durante le
persecuzioni messe in atto dall'imperatore Aureliano nel 269.
La città viene citata nel IV secolo all'epoca
dell'imperatore Costantino, e altre menzioni sono sotto i
papi Silvestro (314-355) e Damaso (366-384),
nei Tituli constituiti.
Fino alla metà del VII
secolo Ferento è stata una diocesi, di cui il primo
vescovo dovrebbe essere stato san Dionisio nel III secolo.
Informazioni più precise si hanno invece dei vescovi Massimino nel
487, Bonifacio (probabilmente 519-530), Redento (567-568), Marziano
(595-601) e Bonito (649).
Nel VI e VII secolo, durante la guerra
gotica e le guerre tra Bizantini e Longobardi, la città di
Ferento non fu risparmiata, come gran parte dei centri dell'Etruria
meridionale. La popolazione subì un forte calo demografico e si
ritirò a ovest dell'antica città, cercando di fortificare la zona
con delle recinzioni murarie, circoscrivendo un'area di
circa 30000 m².
Anche la sede vescovile venne spostata
nel VII secolo da Ferento a Bomarzo, che si trovava in una più
favorevole posizione per il controllo della valle del Tevere. I
Longobardi, nel riassetto dei confini della Tuscia, divisero il
territorio ferentano in tre diocesi
diverse: Bagnoregio, Bomarzo e Tuscania.
Il re longobardo Liutprando nel
740 lasciò la città di Ferento e si spostò in Umbria dove
nei pressi della Cascata delle Marmore fondò un piccolo
borgo, al quale diede poi il nome di Ferentillo in ricordo
della città lasciata.
Nel 787-788 Carlo
Magno consegnò Ferento a papa Adriano I, a seguito
della Promissio donationis del 744 di Pipino
il Breve.
Nel 940 Ferento risulta far
parte di una circoscrizione amministrativa nominata Comitato
ferentensis.
Dei secoli XI e XII non
si hanno molte notizie, sebbene alcuni documenti facciano pensare che
Ferento si fosse organizzata come comune autonomo,
riprendendo a crescere economicamente e di importanza. L'abitato si è
certamente ripopolato allargandosi ad est del Teatro, dentro una
nuova cinta muraria che delimitava circa 70000 m²; fu
costruita una torre di guardia all'interno del teatro romano, e sotto
le sue arcate furono sistemate varie botteghe artigiane.
Nel XVI secolo sorse lungo la strada
principale un piccolo sobborgo che prese il nome di "borgus
Ferenti", divenuto poi Borgo di Ferento.
La distruzione della città ad opera
della vicina Viterbo, allora in grande espansione nella Tuscia,
è oggetto di diverse leggende e ipotesi.
Il declino e la successiva distruzione
della città di Ferento, sembrano essere scaturiti da un episodio
del 1169 che alcune cronache riportano con una certa
confusione, infatti sembrerebbe che i Ferentani avessero chiesto a
Viterbo un aiuto per la lotta contro la città di Nepi (ma
si parla anche del contrario). Tuttavia mentre l'esercito viterbese
attendeva gli alleati sui Monti Cimini, i ferentani, arrivati
davanti alle mura di Viterbo, si fecero aprire la porta Sonsa e
misero la città a sacco. La popolazione impaurita si rifugiò presso
la chiesa di Santa Cristina e l'arciprete, venuto a conoscenza
dell'accaduto partì subito a cavallo verso i soldati viterbesi i
quali, appresa la notizia presero subito a rincorrere i ferentani già
sulla via del ritorno. Arrivati addosso al nemico, i viterbesi
scatenarono una feroce carneficina che non risparmiò nessuno e tanti
furono i morti sparsi in quel luogo, che prese il nome di "Carnajola"
o "Carnaio". Una leggenda dice che da quel giorno, le acque
del fosso sottostante iniziarono a depositare sul fondo una scia
rossa, dovuta al sangue dei ferentani morti (in realtà le acque
contengono materiale ferroso che imprime alle rocce una colorazione
rossastra). Questa versione dei fatti, è quella chi ci viene
tramandata dai viterbesi, senza nessuna documentazione che possa
darci una controversione ferentana, certo è che i viterbesi, erano
determinati ad avere il totale controllo del territorio e dovevano a
tutti i costi togliersi di mezzo la città di Ferento, che posta in
quella zona così strategica, non poteva che essere sottomessa.

Un'altra versione dei fatti, che invece
si tramanda a Grotte Santo Stefano, dice che i viterbesi,
usarono il pretesto dell'aiuto per la lotta contro Nepi,
semplicemente per far uscire l'esercito ferentano dalla città e
quando questo giunse allo scoperto, i viterbesi scatenarono l'attacco
che portò alla carneficina, in quel luogo che come già detto prese
il nome di "Carnajola".
Nel 1170, Viterbo attaccò Ferento
e dopo averla saccheggiata, la diede alle fiamme. Dopo questo assalto
Ferento, fortemente indebolita, fu costretta a giurare sottomissione
a Viterbo nel 1171. Alla fine dello stesso anno la popolazione
tuttavia si rivoltò e Viterbo, con l'aiuto della
vicina Celleno reagì duramente: la notte del 1º
gennaio 1172, con il favore del buio e con il pretesto
di eresia, l'esercito viterbese alleato con i cellenesi, attaccò
a sorpresa la città addormentata, uccise uomini, donne, vecchi e
bambini e finito il massacro, appiccò il fuoco distrugendo tutto.
I viterbesi risparmiarono alcuni
ferentani di nobili famiglie e li concentrarono a Viterbo presso la
zona di San Faustino, mentre altri ferentani che si salvarono dalla
strage, perché erano fuori della città e guardare le greggi (nelle
fredde notti invernali, erano frequenti gli attacchi dei lupi), si
allontanarono dirigendosi verso la valle del Tevere. Lungo il
percorso, trovarono riparo in alcune grotte di origine etrusca,
presso le quali si stabilirono definitivamente, usandole come
abitazioni, dando così origine a Grotte Santo Stefano.
I viterbesi fin dal 1158 si erano
alleati all'imperatore Federico I detto il Barbarossa e
avevano scatenato molte guerre nei confronti di vari castelli della
Tuscia, senza però avere il consenso dell'imperatore, che mise così
la città al bando. Il bando venne tuttavia tolto nel 1174 e
Cristiano, arcivescovo di Magonza assicurò la non
riedificazione di Ferento, riassegnando il territorio di quest'ultima
al contado di Viterbo. Tutti i possedimenti delle due più ricche
chiese di Ferento, San Bonifacio e San Gemini, furono poi assegnati
nel 1202 alle chiese viterbesi, Santo Stefano e San Matteo in Sonza.
Il simbolo della città di Ferento, era
una palma e quello di Viterbo un leone, e per evidenziare
l'annientamento della città rivale, i viterbesi aggiunsero la palma
al leone dando origine allo stemma comunale viterbese che ancora oggi
è così rappresentato.
Negli statuti comunali viterbesi degli
anni 1237-38 e 1251-52 erano previste sanzioni gravissime per
chiunque avesse tentato di ripopolare la città di Ferento, vietando
persino ogni tipo di coltivazione e addirittura, nello statuto del
1251-52, era prevista la totale distruzione del teatro e di tutto ciò
che c'era intorno, che però non venne attuata.
A cavallo del XIV e XV secolo, le
rovine di Ferento, furono utilizzate dagli eserciti di passaggio per
accamparsi e nonostante papa Martino V avesse
incaricato Cristoforo D'Andrea di Siena di
riedificare e ripopolare il sito, i viterbesi, riuscirono nuovamente
ad impedirlo.
Il "re archeologo" Gustavo
VI Adolfo di Svezia per diversi anni lavorò per riportare alla
luce i resti della città, sia di età romana che medioevale. Oggi
gli scavi sono affidati alle campagne promosse dall'Università della
Tuscia, ma solo una piccola parte dell'abitato è stato scavato ed è
visitabile, mentre altre aree sono state indagate e ricoperte, tra
cui l'area del foro sopra il quale sorge un'azienda agricola.
I reperti più significativi sono
esposti nel Museo nazionale etrusco Rocca Albornoz a Viterbo,
in particolare alcune statue in marmo raffiguranti i personaggi della
tragedia e della commedia greco-romana che presumibilmente erano
posizionate nel frontescena del teatro, oltre a una piccola
ricostruzione in legno del teatro romano.