lunedì 30 giugno 2025

Abruzzo - Ocriticum


Ocriticum è un sito archeologico situato nel territorio del Comune di Cansano, in provincia dell'Aquila, e precisamente nell'area conosciuta coi microtoponimi di Zeppe, Pantano e Tavuto. Le testimonianze che presenta abbracciano un periodo compreso tra il Neolitico e l'Alto Medioevo, ma lo sviluppo dell'area fu massimo sotto i Romani, quando in corrispondenza della vicina e assai trafficata Via Nova, l'asse viario che collegava Corfinium con il Sannio, si sviluppò un grande santuario monumentale dedicato a Giove. Nell'area, interessata dai traffici della suddetta via Nova, sorse la mansio Jovis Larene, segnata, tale la sua importanza, sulla Tavola Peutingeriana.
I traffici commerciali, la religiosità e la conseguente ininterrotta frequentazione dell'area ne favorirono lo sviluppo abitativo, economico e produttivo (fra le testimonianze, una fornax calcaria, impianto di produzione per la calce). Un violento terremoto nel II secolo d.C. distrusse buona parte degli edifici, dando così inizio ad un progressivo abbandono dell'area (compiutosi attorno al VI secolo d.C.).
Gli scavi, avvenuti clandestinamente tra il XIX e il XX secolo, sono stati avviati ufficialmente solo nel 1992, in occasione del passaggio del metanodotto Snam, e si sono conclusi nel 2005. Oggi l'intera area è protetta nel parco archeologico e naturalistico di "Ocriticum", istituito nel 2004 insieme con il relativo centro di documentazione e visita "Ocriticum" di Cansano, che ospita parte dei reperti rinvenuti nel corso dello scavo e un'importante mostra permanente sull'emigrazione (è dunque detto pure museo dell'emigrazione). Parte dei reperti provenienti da Ocriticum è conservata presso il museo civico di Sulmona e il museo nazionale archeologico di Chieti.
A pochi chilometri da Cansano, alle pendici del colle Mitra e, più lontano, del complesso della Maiella, si estende il pianoro conosciuto agli abitanti coi toponimi Zeppe, Pantano e Tavuto, dove circa duemila anni fa sorgeva, a sette miglia da Sulmo, uno dei villaggi che in questo periodo costellavano l'ager sulmonense, il territorio amministrato dal municipium di Sulmona.
Come ben si osserva dalle foto aeree del pianoro, il sito era organizzato, all'apice del suo sviluppo, in più spazi e aree destinati ciascuno ad una precisa funzione (pratica, questa, definita zonazione): a Nord si trova la vasta zona di culto con i suoi tre templi allineati e rivolti verso la Maiella; nell'area meridionale, l'abitato di Ocriticum; sulla collina orientale, la via glareata su cui si affaccia la fornax calcaria, l'impianto per la produzione della calce; ad ovest, l'antico tracciato della Via Nova; lungo le strade e in prossimità dell'area sacra, tombe monumentali, epigrafi et cetera.
Il villaggio di Ocriticum e l'epigrafe a Sesto Paccio

Il villaggio era collocato nell'area meridionale del pianoro; di modeste dimensioni, il sito è stato tuttavia saggiato e indagato in via piuttosto superficiale. I resti degli edifici possono, ad ogni modo, essere interpretati come una mansio, stazione di sosta per chi viaggiava lungo la vicina Via Nova.
Lungo un tracciato stradale che dal villaggio si dirigeva a Sud, oltre a canalette e modeste muraglie in opera incerta, erano pure collocate - secondo uso romano - delle steli funerarie epigrafate. Sebbene tale necropoli sia stata quasi interamente intaccata dall'agricoltura, un'epigrafe scoperta in zona ha permesso di risalire al toponimo con cui fra i Romani era conosciuto il villaggio; essa riporta l'iscrizione:
«SEX(TO) PACCIO / ARGYNNO /CULTORES IOVIS / OCRITICANI /P(OSUERUNT)»
(«A Sesto Paccio / Argynno / i Cultori Ocriticani / di Giove /P(osero)»)
(Epigrafe funeraria)
Sia che Ocriticani si riferisca a Jovis, sia che si riferisca a Cultores, esso riconduce al toponimo Ocriticum, probabilmente in riferimento all'ocre (il centro fortificato) che sorgeva sulla cima del vicino colle Mitra. Tracce del toponimo, peraltro, restano nel nome della chiesa rurale che ivi si trovava e oggi scomparsa, di cui tuttavia resta il ricordo nella memoria popolare di Cansano: Santa Maria de' gli Tridece (ovvero Santa Maria dei Tredici), precedentemente conosciuta come Santa Maria dei Chierici e ancor prima come Santa Maria Oclerici, dunque Ocritici: di Ocriticum. La presenza dei Pacci è inoltre attestata nella Marsica e fra i Sabini.
L'area sacra

La presenza di un'ampia area sacra fu determinante per lo sviluppo del villaggio di Ocriticum sotto tutti i punti di vista: dal momento in cui, difatti, essa sorgeva in prossimità d'un tratto di una delle vie più importanti dell'Impero romano, grande era la quantità di pellegrini, viandanti, commercianti, pastori che vi facevano tappa per venerare le divinità. La fervente attività religiosa costituì un impulso non indifferente sia per il moltiplicarsi dei culti praticati nel pianoro, sia per la monumentalizzazione e l'ampliamento degli edifici sacri, sia, infine, per l'accrescersi della fama del luogo, che divenne tale da essere segnalato col nome di (Mansio) Jovis Larene sulla Tavola Peutingeriana, famosa copia medievale di un'originale carta militare stradale romana. In tale carta il sito di Ocriticum risulta distante sette miglia da Sulmo e venticinque da Aufidena, ed è collocato lungo l'importante tracciato che collegava la Valle Peligna con il Sannio Pentro; l'antico asse viario, riconosciuto da Ezio Mattiocco come la Via Nova di medievale memoria, è tuttora in parte percorribile e riconoscibile.
Il tempio italico

Il primo tempio edificato nell'area risale alla fine del IV secolo a.C.; originariamente era costituito da un'unica cella di base pressoché quadrata, con ingresso rivolto a Sud-Est (dove sorge il Sole) attorno alla quale era un giardino sacro (hurtuz > lat. HORTUS > ita. orto) delimitato da un muro perimetrale eretto a secco. In una successiva fase edilizia, ebbe luogo un ampliamento del recinto e dell'edificio templare, che fu provvisto d'un pronao realizzato in tecnica sensibilmente diversa dalla cella.
Nel giardino sacro, scavato nel terreno a ovest dell'edificio, è stato rinvenuto un deposito votivo volto a conservare gli oggetti che, per mancanza di spazio, non potevano più essere ospitati all'interno del naos; circa 600 gli ex voto rinvenuti, databili fra il IV secolo a.C. e il I secolo a.C., fra i quali una statuetta bronzea di Ercole che giaceva isolata sul fondo del deposito: ad Ercole, divinità assai diffusa in area peligna in età tardo-italica e romana, pare dunque che fosse dedicato il tempio, seppur, verosimilmente, non in via esclusiva.
Il tempio romano

Attorno agli inizi del I secolo a.C. (e quindi ormai sotto il dominio dei Romani), si assiste a un ulteriore ampliamento dell'area sacra, nella quale, su un terrazzo più elevato rispetto al tempio italico ma con esso perfettamente allineato, viene edificato un altro edificio templare, più grande e architettonicamente sofisticato. Il tempio, di base rettangolare e diviso in due ambienti di egual misura (pronao e cella), era probabilmente prostilo tetrastilo, con scalinata incastonata innanzi all'entrata, rivolta a Sud-Est come per il precedente tempio. Della struttura originale resta solo il podio in opera reticolata: dell'intero apparato decorativo non è rimasta traccia, come anche del pavimento musivo della cella, eccezion fatta per alcune tessere di mosaico rinvenute nei pressi dell'edificio. Il culto a cui il tempio era destinato è, verosimilmente, quello di Giove, come testimoniano l'epigrafe funeraria dedicata a Sesto Paccio e il toponimo - Jovis Larene - con cui era nota anticamente l'area.
Contestualmente alla costruzione del tempio di Giove, fu realizzato l'ampliamento del recinto sacro, a ridosso del quale, sul lato interno settentrionale, furono realizzati degli ambienti destinati a magazzini, botteghe e vani ad uso dei cultori del santuario. Lo spazio recintato, eletto in tal modo a luogo del sacro, è tecnicamente definito temenos e presentava probabilmente un'organizzazione spaziale interna tesa alla celebrazione delle attività religiose da parte dei sacerdoti.
Il sacello delle divinità femminili

Nella zona posta a Occidente del temenos e dei due templi maggiori, su un terrazzo inferiore rispetto agli altri, è stato rinvenuto un terzo edificio templare di piccole dimensioni, affiancato da un deposito votivo e circondato da un recinto sacro: trattasi di un sacello di base quadrata, posizionato in perfetto allineamento con gli altri templi, anch'esso con ingresso a Sud-Est; l'ambiente conserva ancora parte del pavimento originale, realizzato in tessere rosse, e dell'intonacatura interna. All'interno del sacello, eretto verosimilmente tra il III e il II sec. a.C., è stata rinvenuta una discreta quantità di oggetti tipici del mundus femminile, come ampolle e balsamari vitrei, che conservano ancora le tracce di unguenti, profumi e cosmetici. L'elemento, in relazione anche agli oggetti conservati nel deposito (statuette e maschere votive fittili) ha lasciato intendere che il sacello era dedicato a divinità femminili, e in particolare a Cerere, Venere e Proserpina, culti spesso legati a quello di Giove.
La zona produttiva: la fornax calcaria

l'intensa attività produttiva e commerciale che faceva di Ocriticum un centro sufficientemente attivo anche sotto il profilo economico. Dalla Via Nova si diramava, difatti, una via glareata, una massicciata di pietrame ricoperta da pietrisco battuto misto a malta, che, dopo aver attraversato il pianoro, si inerpicava su per la collina orientale e conduceva a un vasto edificio rettangolare suddiviso in vani interni di differente dimensione. Sul lato orientale l'edificio, che poggia direttamente su roccia, presenta un'ampia cavità cilindrica scavata direttamente nel pendio: trattasi di una fornax calcaria, un impianto per la produzione della calce; tutti gli ambienti dell'ampio fabbricato (uno dei quali ancora conserva l'originale pavimento in terracotta) dovevano dunque essere destinati al raffreddamento, alla conservazione, allo stoccaggio e infine alla vendita della calce. Dell'impianto produttivo colpisce l'efficienza organizzativa quanto il diretto coinvolgimento - mediante il collegamento immediato della via glareata - nei traffici commerciali della Via Nova. È interessante mettere in evidenza come attività basilare per l'economia del paese di Cansano sia stata per molto tempo e almeno fino allo scorso secolo, proprio la produzione della calce, secondo un sistema meno sofisticato ma non dissimile da quello adottato dagli abitanti di Ocriticum: la calcara. Lungo la via glareata, in prossimità della fornax calcaria, è stato rinvenuto il basamento di un sepolcro monumentale, probabilmente un mausoleo della tipologia "a dado" o "ad ara".
Il tramonto di Ocriticum fra capanne, necropoli e campi coltivati
All'inizio dell'epoca imperiale, l'area templare di Ocriticum - l'unica sezione del sito archeologico indagata rigorosamente e totalmente, allo stato attuale degli studi - raggiungeva il culmine della propria estensione. Mentre Roma si apprestava a vivere gli ultimi anni di gloria del cosiddetto Beatissimum Seculum, il II secolo d.C., tutta l'area peligna fu colpita da un violento sisma, di cui restano tracce più o meno evidenti in buona parte dei siti archeologici un tempo parte dell'Ager Sulmonense. Il santuario di Ocriticum ne fu gravemente danneggiato e non fu ricostruito. Ebbe inizio un periodo di declino di tutta l'area, che fu, così, progressivamente abbandonata.
La sacralità che aveva contraddistinto l'area, però, fu percepita a lungo da chi la abitava. Se, infatti, fra i frequentatori probabilmente si ignorava l'originale funzione o il culto caratterizzanti i templi diruti, di questi si percepiva il peso spirituale e religioso, sicché i morti continuarono ad essere seppelliti all'interno del temenos: a ridosso del recinto sacro e delle fondamenta del tempio italico sono stati rinvenuti due sepolcri risalenti al VI secolo d.C., uno dei quali ospitava i resti d'una madre con la figlia e il loro (povero) corredo funebre, costituito da pochi gioielli all'interno di anfore di terracotta.
A ridosso del tempio romano, invece, fu eretta una capanna altomedievale di evidente impiego pastorale: già in questo periodo, infatti, il pianoro era ormai luogo di pascolo, e i templi come gli edifici romani e italici rimanenti fungevano da alloggio o rifugio per i pastori, oltre che da cava di materiale da poter reimpiegare altrimenti. Nei secoli successivi, quando l'area divenne feudo e quindi ambiente agricolo, i campi furono divisi mediante l'innalzamento di bassi muri a secco (detti macerine nel dialetto del luogo), i cui percorsi talora ricalcavano le sommità delle mura perimetrali degli edifici della quasi scomparsa Ocriticum, che a tratti fuoriuscivano dal terreno.
Le espoliazioni e gli scavi clandestini, che a partire dall'Ottocento hanno fortemente impoverito la zona, non hanno impedito di rinvenire una buona quantità di reperti nel corso della campagna di scavi intrapresa nel 1992 sulla base degli studi attuati nel corso del XX secolo da Antonio De Nino, Valerio Cianfarani con Ferruccio Barreca, Frank Van Wonterghem ed Ezio Mattiocco.

Abruzzo - Monumento funerario di Lusius Storax



Il monumento funerario di Lusius Storax è un sepolcro a tempietto della prima età imperiale, conservato nel Museo archeologico La Civitella a Chieti.
Gaius Lusius Storax Romaniensis era un liberto divenuto seviro augustale grazie alla riforma amministrativa di Augusto. I rilievi, per motivi epigrafici ed antiquarii (come il tipo delle armature dei gladiatori), sono datati tra il 30 e il 50.
Il monumento fu rinvenuto a fine '800 dell'archeologia Vincenzo Zecca ed esposto nella prima collezione archeologica Teatina, a seguire confluito nell'Antiquarium Teatinum allestito dal soprintendente Desiderato Scenna, e infine nell'attuale museo archeologico "La Civitella". L'area di rinvenimento era l'antica necropoli dei Calvi in zona chiesa di Santa Maria Calvona.

Il monumento è composto da due rilievi, fregio e frontone, di un sepolcro a tempietto. sul fregio è raffigurato con notevole vivezza un munus gladiatorio che il ricco Lusius doveva aver offerto in occasione della sua elezione. Vi sono raffigurati gladiatori e incitatori in varie pose (dal saluto, alla preparazione, alla lotta, alla vittoria o sconfitta), come se si trattasse di una scena unica, anche se in realtà le varie operazioni seguivano una precisa sequenza, una dopo l'altra. Il desiderio del committente doveva quindi essere soprattutto quello di far documentare la sontuosità del ludus, il cui costo era proporzionale al numero di lottatori impegnati. Questo rilievo è composto con calcolato equilibrio e un ritmato uso di pause e movimenti. Il fondo è neutro e i dettagli sono curati con cura, soprattutto i muscoli, i panneggi, ecc. Ciò ha fatto pensare a un'ispirazione diretta da modelli urbani di Roma.
La scena del frontone è più affollata e si propone di raffigurare un momento preciso nella realtà, l'investitura di Lusius Storax. Esistono due piani sovrapposti. Ai lati si trovano due gruppi di suonatori: cornicines a destra e tubicines a sinistra. In basso a sinistra, in primo piano, si trova un sedile con tre giovinetti, verosimilmente tre camilli che simboleggiano l'avvenuto sacrificio connesso con l'investitura. Il centro è occupato dal tribunal, con al centro Storax e ai lati due bisellia (sedili onorari romani a due posti): vi sono seduti i quattuorviri di Teate (nome dell'antica Chieti), affiancati da un littore in piedi. A destra, simmetricamente ai tre camilli, si trova un personaggio con bastone, che è un augure o un lanista.
Il secondo piano ha come sfondo un colonnato, molto probabilmente il foro di Teate, sede del ludus descritto nel fregio. Le figure in secondo piano sono undici personaggi togati (il collegio dei seviri augustali, con sei uscenti e cinque entranti in carica, ai quali va ovviamente aggiunto Storax) e un littore. Tra i seviri, tutti sembrano intenti ad osservare i giochi, mentre uno è accostato all'orecchio di Storax e due stanno (a destra) invece contando del denaro in uno scrigno, testimonianza dell'avvenuto pagamento da parte di Storax della summa honoraria: questa certificazione non avvenne certamente durante il ludus, ma era un episodio che arricchiva la scena.
All'estrema sinistra, sempre in secondo piano, si svolge una concitata scena di zuffa con quattro personaggi (una donna a braccia spalancate, un uomo che tira un pugno sulla faccia di un altro), forse una documentazione di un piccolo tumulto popolare durante il ludus, come nel caso della zuffa fra Pompeiani e Nocerini ritrovata su una pittura "plebea" di Pompei.
L'opera è un interessante documento di quella corrente "plebea" (non legata alla committenza più raffinata), in questo caso italica, che nel giro di tre secoli divenne arte di Stato. In particolare alcune soluzioni ingenuamente intuitive, ma altamente comprensibili, come la narrazione riassuntiva di più momenti, l'uso della prospettiva deformata, la proporzione ingrandita per il personaggio principale, i ludi a un piano inferiore, ecc., si ritrovano in quelle opere imperiali del IV secolo come l'Arco di Costantino o il Dado di Teodosio.
La grossolana "nuova" aristocrazia locale con opere come queste rendeva leggibili a chiunque il proprio status e le res gestae del committente.

Abruzzo - Guerriero di Capestrano

 

Il Guerriero di Capestrano è una scultura in calcare tenero locale del VI secolo a.C., del periodo dell'arte italica, rinvenuta in una necropoli dell'antica città di Aufinum, località situata nei pressi di Capestrano (AQ), e raffigurante un guerriero dell'antico popolo italico dei Vestini. Si tratta di una delle opere più monumentali e significative dell'arte italica ed è conservata a Chieti, nel Museo archeologico nazionale d'Abruzzo. Una riproduzione a grandezza naturale del Guerriero è collocata nell'atrio del Castello Piccolomini di Capestrano. La statua e un busto di donna furono rinvenuti nel 1934 da un contadino locale durante i lavori di dissodamento del suo terreno nel territorio di Capestrano; aveva le gambe mozzate e indusse l'archeologo Giuseppe Moretti a successivi scavi grazie ai quali si giunse ad una vera e propria necropoli in cui spiccarono molti altri ritrovamenti tra cui svariati ornamentali femminili.
La scultura fu assicurata alla allora soprintendenza archeologica delle Marche e Abruzzi insieme al corredo funebre e al torso rinvenuto, detto "Dama di Capestrano". In seguito la soprintendenza archeologica dell'Abruzzo collocò la statua a Chieti insieme nella sede del Museo Archeologico Nazionale d'Abruzzo. La scultura è esposta in una stanza apposita al piano terra del museo.
Il guerriero, la cui decorazione doveva essere in origine completata dal colore dipinto (restano in alcuni punti tracce di colore rosso), rappresenta, in dimensioni più grandi del vero (l'altezza, senza la base, raggiunge i 2,09 m), una figura maschile stante, con braccia ripiegate sul petto, in costume militare. La testa è coperta da un elmo da parata a disco che copre le orecchie e ha una maschera sul volto; il torace è protetto da dischi corazza retti da corregge, mentre un altro riparo, in cuoio o in lamina metallica, sorretto da un cinturone, protegge il ventre. Le gambe recano degli schinieri e i piedi calzano dei sandali. Appesi davanti al petto, il guerriero porta una spada, con elsa e fodero decorati, e un pugnale. A destra regge una piccola ascia. Gli ornamenti sono costituiti da una collana rigida con pendaglio e da bracciali sugli avambracci.
Il copricapo (di 65 cm. di diametro), caratteristico per le sue larghe tese che lo fanno assomigliare ad un sombrero, è stato interpretato come un elmo da parata, dotato di cimiero (sulla parte superiore si notano le tracce di una cresta sporgente, oggi perduta), oppure come lo scudo (difesa), che veniva portato sulla testa quando non era in uso in battaglia.
La figura poggia su un piedistallo ed è sorretta da due pilastrini laterali, sui quali sono incise delle lance. Sul sostegno di destra vi è un'iscrizione in lingua sud picena, un'unica riga di testo con verso dal basso in alto e parole separate da punti: MA KUPRí KORAM OPSÚT ANI{NI}S RAKINEL?ÍS? POMP?[ÚNE]Í. Il senso del testo è stato ipotizzato come Me, bella immagine, fece (lo scultore) Aninis per il re Nevio Pompuledio (Adriano La Regina) o, più cautamente come fece (fare) Aninis per Pomp? (Calderini et al. 2007). Il guerriero è probabilmente raffigurato morto, come suggeriscono la maschera facciale e i sostegni. Si trattava probabilmente della statua posta come segnacolo sulla tomba regale.
Di eccezionale qualità, la statua sembra inserita nel quadro della scultura picena, per il quale non mancano altri esempi di grandi dimensioni (una stele antropomorfa proveniente da Guardiagrele e una testa di guerriero da Numana).
L'anatomia del guerriero non è definita come nei coevi kouroi greci, ma è più approssimativa, mentre molta più cura è stata dispensata nel raffigurare dettagli come le armi, per sottolineare il rango e l'importanza del personaggio.

Abruzzo - Antinum

 

Antinum (anche nell'italianizzazione Antino) era un'antica città dell'Italia centrale, importante centro del popolo dei Marsi situato nella valle Roveto non distante dal confine con il territorio dei Volsci. Corrisponde alla contemporanea cittadina di Civita d'Antino, in provincia dell'Aquila.
Importante centro dei Marsi, antico popolo italico, fin dal I millennio a.C., conservò tale ruolo fino all'assoggettamento a Roma, avvenuto nel tardo IV secolo a.C.; divenne quindi municipio romano i cui abitanti erano noti con il domonimo di Marsi Antinates. Conobbe un ininterrotto sviluppo nel corso dei secoli. In età medievale l'antica acropoli fu trasformata in una cittadella sviluppatasi intorno alla torre, che ha assunto il nome di torre dei Colonna, nel centro storico della contemporanea Civita d'Antino.
Si sono conservati alcuni tratti delle mura poligonali che correvano per circa 1 300 metri lungo tutti i lati della cittadella escluso quello orientale, naturalmente protetto dalle ripide pareti dei burroni che risalgono alla prima metà del V secolo a.C.. Al centro dell'abitato, tra la moderna chiesa parrocchiale di Santo Stefano, il palazzo Ferrante e la porta Nord si trovava il foro, andato totalmente perduto. Rimangono invece due muri in opus reticulatum, di età tardo-repubblicana, noti con il nome di "Terme".
Nel sito o nelle sue immediate vicinanze sono state rinvenute anche diverse testimonianze epigrafiche, in particolare alcune in lingua marsa tra cui il Bronzo di Antino con dedica alla divinità Vesuna.


Abruzzo - Villa romana di Avezzano

 

La villa romana di Avezzano è un sito archeologico in cui sono conservati i resti di una villa rustica di epoca romana. Situata nel territorio della contemporanea città di Avezzano, in località Macerine, lungo l'originario tracciato della via Tiburtina Valeria affiancato dalla moderna strada statale 5 Via Tiburtina Valeria è tornata alla luce a cominciare dal 2005 in seguito ai lavori per la realizzazione di un centro commerciale. La villa romana di Avezzano venne edificata nel II secolo a.C. in un podere di circa 3.000 metri quadri appartenente all'ager publicus di Alba Fucens, la colonia romana fondata da Roma tra il 304 e il 303 a.C. nel territorio degli equi al confine con quello dei marsi. La fattoria venne utilizzata dai coloni in primo luogo per le coltivazioni agricole e per altre attività produttive che si resero necessarie per il fabbisogno della popolazione di Alba Fucens. La colonia, divenuta un fiorente e popoloso centro commerciale, risulta collegata al territorio circostante della contemporanea Avezzano tramite un viale lastricato che prosegue in ciottolato lungo i terrazzamenti fino ad uno dei decumani della villa.
Abitata fino all'inizio del VI secolo d.C venne abbandonata con ogni probabilità a seguito di un terremoto che sconvolse l'intera area.
Il sito archeologico è stato aperto al pubblico nel 2008.
La struttura, protetta da una copertura in legno lamellare, è raggiungibile attraverso uno dei decumani est-ovest che conduce nell'atrium della villa, intorno al quale sono disposti gli altri ambienti destinati al proprietario e alla servitù. Nel settore residenziale alloggia l'impluvium che serviva a raccogliere le acque piovane Il percorso è caratterizzato dalla presenza di cisterne e vasche del settore rustico, in cui venivano rispettivamente raccolti i recipienti dell'olio e del vino e veniva effettuata la spremitura delle olive con il torchio.
Gli scavi stratigrafici e la successiva ricomposizione hanno evidenziato che la struttura è stata ingrandita nel corso dei secoli ed è stata arricchita tra l'altro con i bagni privati con sistema di riscaldamento a suspensurae, le terme e, tra il II ed il III secolo d.C., con un pavimento a mosaico le cui tessere formano alcuni motivi figurati. Quello centrale policromo rappresenta la vittoria alata su una biga trainata da due cavalli in corsa. Tombe risalenti al V-VI secolo d.C. sono tornate alla luce nelle adiacenze del perimetro della villa, restituendo alcuni oggetti utilizzati per l'ornamento dei defunti che insieme ad altri elementi di uso quotidiano come la vera da pozzo in marmo sono esposti all'interno dell'attiguo centro commerciale.

Abruzzo - Anfiteatro romano di Amiternum

 


L'anfiteatro romano di Amiternum era il principale anfiteatro dell'antica città sabina di Amiternum, i cui resti archeologici sono situati nei pressi dell'abitato di San Vittorino nel territorio comunale dell'Aquila.
Dichiarato monumento nazionale nel 1902, la struttura si fa risalire al I secolo d.C., ed è quindi leggermente successiva al teatro romano. Contrariamente a quest'ultimo, l'anfiteatro si staglia all'estremità meridionale della città, lontano dal Foro. La cavea, che si eleva sulla via Amiternina tra il colle San Marco e il fiume Aterno, ha diametri di 68 e 53 metri misurati rispettivamente sulle direttrici est-ovest (lato parallelo alla scena del teatro) e nord-sud. Le arcate sono 48 e reggevano le gradinate, oggi praticamente scomparse,originariamente disposte su due piani e rivestite in laterizio; si stima che la capienza complessiva fosse di 6.000 persone. Dell'anfiteatro è oggi ancora visibile l'intero corridoio esterno con il colonnato a mattoncini sagomati e la struttura della cavea con muratura a sacco e rivestimento in laterizio. L'ingresso all'arena avviene dall'entrata situata sull'asse maggiore est-ovest, detta Porta Triumphalis.
Il monumento si presume sia stato rinnovato nel secolo successivo alla sua costruzione e abbandonato in seguito alla decadenza di Amiternum. La cavea è rimasta sempre in vista e ne è testimoniata la presenza negli archivi catastali ma l'intera struttura è tornata alla luce solo con gli scavi archeologici del 1880, mentre i lavori di consolidamento e restauro risalgono al 1996.
Altri scavi, effettuati nella seconda metà del Novecento, hanno portato alla luce i resti di una domus di età tardo-romana di cui è ancora oggi ben visibile la planimetria articolata su una corte centrale porticata sulla quale si affacciavano i vari ambienti; sono stati scoperti la sala di ingresso (atrium), la sala per la raccolta di acqua piovana (impluvium) e una sala di rappresentanza (tablinium), tutti ricchi di mosaici ed affreschi. Il sito è oggi parte di una vasta area archeologica comprendente anche il teatro romano e le catacombe di San Vittorino.


Abruzzo - Torre Bruciata

 
La Torre Bruciata è un bastione romano in opus quadratum risalente al II secolo a.C. Si trova a Teramo, nella centralissima piazza Sant' Anna, contigua all'Antica cattedrale di Santa Maria Aprutiensis (oggi chiamata chiesa di Sant'Anna de' Pompetti). Il corpo della costruzione si sviluppa da una base quadrata ed è alto circa 10 m, con mura spesse 1,30 m e larghe 8 m. Questa possente torre venne eretta nel II secolo a.C. utilizzando grandi blocchi di travertino ben squadrati. L'appellativo "bruciata" deriva dal fatto che ancora oggi il lato meridionale del bastione mostra evidenti tracce del devastante incendio che la città di Teramo subì nel 1156 per mano di Roberto II di Bassavilla Conte di Loretello, ribelle al Re palermitano Guglielmo I verso il quale la città voleva restare fedele.
Circa la sua funzione, c'è chi ritiene che potesse essere la torre campanaria della vicina cattedrale di Santa Maria Aprutiensis, ma c'è anche chi suppone, più semplicemente, che fosse un altissimo bastione difensivo che sovrastava la megalitica cinta muraria a nord-ovest della città, prima della nascita di Cristo. Lo storico dell'architettura d'Abruzzo Ignazio Gavini sostiene invece che, in epoche ovviamente diverse, la torre possa aver svolto entrambe le funzioni.

Abruzzo - Teatro romano di Teramo

 

Il Teatro romano di Teramo è situato nel centro storico della città abruzzese, tra via Teatro Antico e via Luigi Paris, nelle vicinanze del Duomo e a pochi metri dall'Anfiteatro romano di Teramo.
Il complesso architettonico trovò la sua ubicazione nella porzione del tessuto urbano occidentale dell'antica Interamnia. L'impianto cittadino dell'epoca era, probabilmente, diviso in due settori che si distinguevano tra la parte orientale, di maggiore vetustà, corrispondente alla zona dell'attuale piazza Ercole Vincenzo Orsini, e la parte occidentale dove giungeva il diverticolo d'ingresso della via Caecilia e dove furono costruiti gli edifici pubblici del Teatro e dell'Anfiteatro a cui si ritiene fossero affiancati anche un odeon e un tempio di Priapo.
Il sito si mostra nelle migliori condizioni di conservazione delle strutture di epoca romana coeve, sia esistenti nella città, sia se paragonato agli altri impianti presenti del territorio della Regio IV Samnium e della Regio V Picenum, sebbene, nel periodo medioevale, fu utilizzato come cava di materiale lapideo per la costruzione di edifici vicini, in particolare della cattedrale.
L'epoca di costruzione del Teatro teramano fu contemporanea a quella di altri edifici simili eretti in città limitrofe come: Amiternum, Peltuinum, Hatria ed Asculum.
Edificato in età augustea, presentava nell'alzato del palcoscenico ricche decorazioni realizzate nel 30 a.C., disposte in nicchie alternate di forma rettangolare e semicircolare. Il monumento fu innalzato nel settore occidentale della città, molto probabilmente all’interno delle mura, e fu collocato nel punto d’ingresso alla città a livello del diverticulum (estroflessione) della via Caecilia che collegava Interamnia Praetuttiorum a Roma.
Nel Museo Archeologico di Teramo è esposta una statua femminile acefala in marmo greco, rinvenuta nel 1942, facente probabilmente parte di un ciclo statuario dinastico concepito sotto il governo di Augusto il quale fu poi ampliato e implementato probabilmente sotto il governo dell’imperatore Claudio e di cui oltre ad essa sono giunte a noi due iscrizioni che menzionano i figli adottivi di Augusto morti prematuramente Lucio Cesare e Gaio Cesare.
Nel medioevo il Teatro subì la stessa sorte di numerose altre opere monumentali romane tra cui anche il vicino Anfiteatro, ovvero fu utilizzato come cava di materiale per la costruzione di vari edifici limitrofi, in particolare per quella del Duomo di Teramo edificato nel XII secolo nell'area nord-occidentale adiacente al sito archeologico del Teatro. Nella parete nord-orientale esterna del Duomo e in alcune parti interne si possono pertanto tuttora osservare alcune pietre scolpite che furono asportate dalle costruzioni romane.
li scavi nel centro storico di Teramo per il recupero del Teatro romano sono stati oggetto di lunghe vicissitudini. Per molto tempo il palcoscenico rimase nascosto dalla zona urbana sovrastante, comprendente tra gli altri i palazzi Adamoli e Salvoni edificati alla fine dell'Ottocento.
Fu lo storico e archeologo teramano Francesco Savini a scoprire, nel corso del XX secolo, che sotto quell'area urbana c’era il Teatro nella sua interezza. Inizialmente l’archeologo pensava di indagare i resti dell’Anfiteatro ma successivamente la scoperta di elementi della scena e dell’orchestra costituirono per lui la prova che l’edificio in corso di esplorazione era un Teatro romano.
Egli condusse quattro campagne di scavo partendo inizialmente da progetti a proprie spese. In seguito presentò un progetto presso l'Accademia dei Lincei e nel 1915 ricevette finanziamenti dalla Soprintendenza per le antichità di Marche, Abruzzo e Dalmazia, ma la prima guerra mondiale interruppe bruscamente i lavori che furono eseguiti solo in minor parte dopo il termine di essa.
Nel 1934 il podestà Giovanni Lucangeli avviò la demolizione di alcuni degli edifici sorti su parte del Teatro romano, il cui isolamento e recupero era stato progettato dagli ingegneri Sigismondo Montani e Andrea Cardellini. Nel corso dei lavori si arrivò a distinguere il Teatro romano dal limitrofo Anfiteatro che nel Cinquecento, prima della demolizione delle strutture interne avvenuta nel XVIII secolo per fare posto al seminario vescovile aprutino, fu descritto dal vescovo di Teramo Giulio Ricci.
Il ministro dell'Educazione Nazionale Giuseppe Bottai si recò a Teramo nel 1937 per un sopralluogo al Teatro e alle prime emergenze dell'Anfiteatro, prendendo la decisione di finanziare il recupero di entrambi i reperti romani. La demolizione fu interrotta nuovamente a causa della guerra e i finanziamenti andarono perduti.
Da questo momento in avanti, all’incuria si aggiunsero anche controversie giudiziarie. Nel 1999, l’allora ministro dei beni culturali Giovanna Melandri stanziò 900 milioni di lire per l’acquisto, in vista dell’abbattimento, di palazzo Adamoli. La Soprintendenza tuttavia non esercitò il diritto di prelazione e, in seguito a numerosi atti di vendita tra società private, il palazzo fu infine acquistato dalla Regione Abruzzo per un milione e duecentocinquantamila euro, circa tre volte il prezzo fissato inizialmente dal ministero. Dal 2007 sono in corso i lavori per la demolizione che porteranno alla luce un'ulteriore porzione del monumento. Il cantiere tuttavia rimane inconcluso e palazzo Adamoli, a seguito del terremoto dell'Aquila del 2009, è oggetto di un ulteriore consolidamento delle strutture. Numerose furono inoltre le controversie riguardanti ulteriori atti di speculazione sui due palazzi da abbattere. Fino al 2021 era stato pertanto riportato alla luce solo il tratto orientale del palcoscenico mentre una larga parte dell’orchestra e della cavea rimanevano obliterate dalle costruzioni sovrastanti. Nel dicembre 2021 è stato avviato il cantiere per la realizzare infine la demolizione dei due palazzi, per la "rifunzionalizzazione" del Teatro e per la riqualificazione dell’area circostante. I due palazzi sono quindi oggetto di smontaggio piano per piano per evitare danni alle strutture sottostanti.
I resti del complesso architettonico si trovano fra i 2,50 -3,00 metri al di sotto dell'attuale livello stradale e mostrano che la struttura originale poteva ospitare circa tremila spettatori sulle gradinate di forma semicircolare, la cavea, del diametro di 78 metri. La struttura interna si articolava in 21 settori radiali a cuneo dei quali si intuiscono le forme. Il perimetro della facciata esterna era, probabilmente, costituito da due ordini sovrapposti di arcate, poggianti su pilastri in opera quadrata, disposte in successione. Ne rimangono visibili solo due del piano inferiore. Le volte che sorreggevano la cavea erano realizzate in opera cementizia. Rimangono anche quattordici gradini in travertino che facevano parte di una delle gradinate che, attraverso i vomitoria permettevano l'uscita degli spettatori.

Abruzzo - Mosaico del Leone, Teramo

 


Il Mosaico del Leone è una decorazione pavimentale del tablino della omonima Domus, sita nel seminterrato di Palazzo Savini a Teramo.
Annoverato tra gli emblemi della storia archeologica teramana, il Mosaico del Leone è databile intorno al I secolo a.C., così come quelli, simili nella fattura, rinvenuti a Pompei e nella Villa Adriana a Tivoli. È stato universalmente riconosciuto come uno degli esempi più alti dell'arte del mosaico.
La scoperta di questa domus romana risale al giugno del lontano 1891, durante i lavori di ristrutturazione di Palazzo Savini. Il palazzo fu costruito sopra le vecchie carceri penali di Teramo, nel rione San Leonardo (via Antica Cattedrale), non distante dalla Domus romana del I secolo a-C. in Largo Sant'Anna, sopra cui fu costruita la prima cattedrale di Teramo di "Santa Maria Aprutiensis", oggi Sant'Anna dei Pompeti. Oltre al Mosaico del Leone furono rinvenute anche altre ricche decorazioni musive. La domus ha subito molti danni a causa degli interventi edilizi di quell'anno, molte parti della casa sono state prima messe in luce e poi ricoperte o, nella peggiore delle ipotesi, inglobate nelle nuove murature; ad aggravare questa situazione contribuì la forte umidità che ha seriamente lesionato la pavimentazione musiva, tanto da renderla in alcuni punti di difficile lettura.
La domus del Leone rientra nella tipologia abitativa cosiddetta greco-romana, che si sviluppa a partire dal II secolo a.C. e di cui si hanno a Pompei numerosissimi esempi. Alla normale disposizione su uno stesso asse di vestibolo - atrio - tablino è aggiunto il peristilio (il giardino porticato), la cui presenza qui è dimostrata dal ritrovamento di numerosi frammenti marmorei di statue e di altri elementi architettonici e decorativi nell'area adiacente alla sala del tablino.
Alla casa si accede tramite un ingresso, di cui resta la soglia pavimentata in cocciopesto che immetteva direttamente nell'atrio.
L'atrio aveva una copertura sostenuta da quattro colonne angolari (tetrastilo). Il pavimento dell'atrio, lungo 10,40 m e largo 6,70 m, è in opus scutulatum, realizzato con scaglie di pietra o marmo, di vario colore e formato, inserite in fondi di vario tipo e disposte sparse o secondo motivi decorativi, secondo modalità utilizzate dal I secolo a.C. Il fondo è in piccole tessere bianche disposte secondo un ordito regolare in cui sono inserite piccole scaglie di diversi tipi di marmi e colori: il tutto è incorniciato da un'ampia fascia di tessere nere e completato da un motivo romboidale di squame allungate, bipartite, adiacenti, in contrasto bianco-nero tra le colonne dell'impluvio. Questo tipo di pavimentazione appare agli inizi del I secolo a.C., perdura nel I secolo d.C. fino all'età giulio-claudia.
Al centro dell'atrio si trova l'impluvio, consistente in una grande vasca atta a raccogliere l'acqua piovana, era utile per l'approvvigionamento idrico. L'acqua, attraverso una canaletta sotterranea, confluiva in una cisterna. La vasca, lunga 4,90 m e larga 2,50 m, è pavimentata in opus spicatum, tutt'intorno corre un gradino sagomato su cui si innestano, agli angoli, le basi attiche delle colonne scanalate, che sostenevano il compluvio.
Dall'atrio si arriva al tablino attraversando una grande apertura larga 2,50 m, si ipotizza che questo passaggio venisse chiuso con una tenda per impedire la visione interna del tablino stesso; tale tenda era appesa ad un'asta orizzontale sostenuta da piccoli pilastri, dei quali rimangono i piedritti. La soglia dell'ingresso è in mosaico, con il motivo del meandro prospettico a svastiche e quadrati nei colori rossiccio, bianco, nero, ocra, verdastro (motivo tipicamente ellenistico). Il tablino ha la dimensione di un quadrato con lato di 3,80 m, due stretti corridoi larghi 1,15 m (se ne ignora la lunghezza) e davano, probabilmente, accesso al peristilio; a causa della perdita delle strutture murarie non è possibile comprendere appieno la decorazione parietale, eccetto tracce di intonaco rosso nel muro di fondo del tablino. Quest'ambiente è pavimentato da opus tessellatum policromo, costituito da tessere di pietra di forma regolare e grandezza variabile, il tipo decorativo dominante è quello del soffitto piano a cassettoni, entro i quali sono rappresentati motivi naturalistici. Al centro vi è l'emblema rappresentante un leone in lotta con un serpente su uno sfondo naturalistico, contornato da una treccia a due capi, intorno al riquadro del leone girano ricche ghirlande, tenute ai quattro lati da maschere teatrali, e, più all'esterno, un motivo a treccia a calice.
L'Emblema del Leone (per emblema si intendeva un pannello musivo che veniva eseguito in bottega con minuscole tessere, disposto su lastre di marmo o travertino o terracotta e successivamente inserito nel tessellato) è inserito entro una cassetta di pietra: la tecnica per un emblema era quella del vermicolato, ciò eseguito con tessere piccolissime e di forma irregolare, tagliate in modo da seguire i contorni della figura, ottenendo un effetto simile alla pittura; nel Mosaico del Leone le tessere dello sfondo sono quadrangolari, allungate quelle dei baffi, tonde quelle della pupilla e dell'iride. Complessivamente qui è applicata la disposizione centripeta, ossia quella in cui la grandezza delle tessere va decrescendo dall'esterno verso l'interno; il perimetro dell'emblema teramano è ornato da un motivo a treccia a due capi con nodi serrati su fondo scuro. I colori impiegati sono due: l'arancio e il grigio verde in diverse gradazioni tonali; quattro file di tessere compongono ogni nastro, che ha una notevole resa plastica ottenuta mediante opportuno utilizzo delle variazioni tonali dei due colori usati. Al centro della scena vi è un leone in posizione di attacco (zampe anteriori divaricate e schiena inarcata) raffigurato leggermente in scorcio, mentre con la zampa anteriore artiglia il serpente, che a sua volta avvinghia la coda attorno alla zampa posteriore sinistra del leone. Quasi ad occupare tutta la scena è la testa con le fauci spalancate e la folta criniera resa con tessere dalle diverse tonalità del giallo oro. La pelle del serpente invece è resa da colori arancio e verde cupo sul dorso, mentre il ventre è realizzato da minuti frammenti beige con macchie scure. L'ambientazione è quella ai margini di una pozza d'acqua azzurra, tutt'intorno vi sono elementi vegetali: due alberi dei quali uno dal fusto nodoso e largo e chioma ampia, l'altro dal fusto sottile e foglie palmate con bacche e frutti. Molto accentuato è l'effetto chiaroscurale: una fonte di luce sembra provenire da destra inondando completamente il muso del leone.

Abruzzo - Santuario di Ercole Curino

 

Il santuario di Ercole Curino è un sito archeologico statale gestito dalla Direzione generale per i beni archeologici che si trova a Sulmona in località Badia, sulle montagne del Morrone tra l'abbazia di Santo Spirito dei Celestini e l'eremo di Celestino V. Gli scavi, iniziati nel 1957, avevano fatto inizialmente supporre la presenza della villa di Ovidio, originario proprio di Sulmo, ma rivelarono poi il sito di un santuario italico, dedicato a Ercole come dimostrano il tipo di materiale votivo rinvenuto e le iscrizioni di dedica. L'epiteto di Curinus o Quirinus era dato anche a altre divinità, come il Giove Quirinus di Superaequum e venne dato in epoca repubblicana. I Romani legavano infatti l'epiteto "Quirinus" con Romolo divinizzato, simbolo dell'unità delle comunità protostoriche che formarono il primitivo insediamento di Roma (Quirinus sarebbe infatti all'origine di curia).
Un ampliamento del santuario risale a dopo la fine della guerra sociale (89 a.C.), quando venne ingrandito passando da struttura di carattere locale a grande santuario su terrazze simile al santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina o al santuario di Ercole Vincitore a Tivoli, sorti nello stesso periodo.
La parte superiore del santuario venne sepolta da una frana antica verso il II secolo d.C.; la frequentazione del sito però non si interruppe del tutto, come testimonia l'innesto di una chiesa in epoca cristiana, a ridosso della scalea meridionale.
La grande scalea meridionale poteva essere un ingresso monumentale, forse usato anche come luogo di riunione per le assemblee locali, sotto la protezione del dio "Curino"
I due terrazzamenti del santuario sono stati realizzati in epoche diverse: quello inferiore è più recente, in opus caementicium con un grandioso podio (71 metri di lunghezza) che ospita 14 ambienti coperti da volte a botte; quello superiore, presillano, era chiuso su tre lati da un portico colonnato (restano alcune basi).
L'altare, inusitatamente ricoperto da lastre di bronzo, e il piccolo sacello della divinità si trovavano al centro della terrazza superiore. 
Dal sacello provengono i reperti più importanti del complesso, quali due statue di culto di Ercole, una di bronzo (al Museo archeologico di Chieti) e una marmorea, oltre a una colonnina con 12 versi graffiti, attribuiti a Ovidio.


ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...