mercoledì 21 maggio 2025

SICILIA - Roccazzo

 


Roccazzo è un sito archeologico ubicato nel territorio di Mazara del Vallo, nei pressi della frazione agricola di Borgata Costiera.
L'area di interesse archeologico è di rilevanti dimensioni, sviluppandosi per circa 20 ettari su un sopralzo di roccia calcarea del tipo che localmente viene definito magaggiara. Si tratta di un imponente insediamento eneolitico, con grandi capanne a forma di barca e numerose tombe a pozzetto.
Nel 2008 il sito è stato oggetto di una campagna di scavo diretta da Sebastiano Tusa, che ha permesso il rinvenimento di numerose tombe e capanne eneolitiche, oltre a ceramiche neolitiche e dell'età del bronzo e, nella parte più occidentale, di un complesso edificio greco probabilmente databile alla prima fase di colonizzazione del territorio di Selinunte.
Dell'insediamento abitativo sono rimaste solamente le trincee di fondazione di 4 capanne di forma rettangolare, di dimensioni 7⨯16m. Nella necropoli sono state invece rinvenute 47 tombe, ognuna adibita all'inumazione di un solo defunto, ad eccezione della n. 29, che ospitava 14 individui.
Il sito è raggiungibile attraverso la Strada Regionale 17 Fondacazzo - Santa Teresa – Roccazzo.


SICILIA - Monte San Calogero

 

Il Monte San Calogero, o Monte Euraco (in siciliano San Caluòriu), è un monte della provincia di Palermo, tra i comuni di Termini Imerese, Caccamo e Sciara. Il monte si presenta come un poderoso massiccio costituito da calcari e dolomie originatesi dal mesozoico in poi, da strati silicei e dal cosiddetto flysh numidico. Geologicamente è una grossa anticlinale; a nord si affaccia sulla costa tirrenica, mentre a sud-ovest presenta due dorsali. Il rilievo è separato dalle Madonie da un breve pianoro nel territorio di Cerda, nei pressi della foce del fiume Torto.
Il nome del monte deriva dal greco ευ (eu, particella dal significato di "bene, bello") e ράχη (rache, "cresta, dorsale"); da ciò deriva anche il nome latino del monte, Euracus. La forma popolare derivata è Monte Urago.
Ai piedi orientali del monte resta un breve tratto di muro megalitico che per il suo spessore è conosciuto come "Mura pregne" o mura gravide. Questo muro probabilmente era posto a protezione di un villaggio preistorico. Nelle vicinanze esiste anche un piccolo dolmen probabilmente più antico. Secondo la tradizione, nelle sue rupi dimorò San Calogero e in una roccia lasciò l'impronta del suo piede nel cacciare i demoni che travagliavano il monte e i vicini bagni di Termini Imerese. Sulla cima fu edificata una chiesa in onore di Maria Vergine, che ora è dedicata al santo. Di essa rimangono scarsi ruderi perimetrali. Sino alla metà del XX secolo nei pressi della chiesetta era ancora visibile una statua frammentaria di pietra locale raffigurante il santo. Successivamente l'immagine fu gettata nel sottostante ed inaccessibile Canalone del Diavolo. Calogero, καλόγερος, è un vocabolo comune nella lingua greca che letteralmente significa "bel vecchio" o anziano di bell'aspetto e traduce termini generici quali eremita, frate o monaco. Secondo alcuni autori il Calogero di Termini Imerese è forse da identificare con San Teoctisto, abate basiliano di Caccamo che vi dimorò nel IX secolo.

SICILIA - Siracusa, Tempio di Apollo

 


Il tempio di Apollo (che era lucente) (Apollónion) è uno dei più importanti monumenti di Ortigia, antistante al largo 25 luglio e a piazza Emanuele Pancali. È certamente il più antico tempio dorico dell'Occidente greco.
Esso è databile all'inizio del VI secolo a.C. ed è quindi il tempio dorico più antico della Sicilia o quanto meno il primo corrispondente al modello che si andava affermando in tutto il mondo ellenico di tempio periptero con colonne di pietra. Il tempio subì diverse trasformazioni: fu chiesa bizantina, di cui si conserva la scalinata frontale e tracce di una porta mediana, e poi divenne moschea islamica (di cui si conserva un'iscrizione araba sulla parete superstite, forse parte del mihrab). Successivamente si sovrappose agli edifici precedenti la chiesa normanna del Salvatore che venne poi inglobata in una cinquecentesca caserma spagnola e in edifici privati, rimanendo comunque visibili alcuni elementi architettonici. È nota la descrizione del viaggiatore Dominique Vivant Denon che per poter vedere una parte del tempio si dovette rivolgere ad un privato e accedere all'interno dell'abitazione:
«…Bisogna adesso per ritrovare questo famoso tempio, il primo che sia stato innalzato a Siracusa, penetrare nella camera di un privato di nome Danieli, via Resalibra, dove nello spazio tra il letto ed il muro, ci sono ancora due capitelli sui loro fusti, che sono stati intaccati per ingrandire la stanza. Le colonne sono sotterrate per più di metà della loro altezza e sono talmente vicine l’una all’altra, che i capitelli non hanno che qualche pollice di distacco. Nel procedere ad alcune riparazioni e scavando una cisterna il proprietario ha trovato altri due fusti di colonne, l’una dell’angolo e l’altra del lato occidentale...» (Dominique Vivant Denon, Voyage en Sicile, 1788)
Tali successive sovrapposizioni danneggiarono gravemente l'edificio che fu riscoperto intorno al 1860 all'interno della caserma. Nei primi anni del novecento l'area su cui sorge il tempio venne liberata dalle abitazioni e resa visibile com'è oggi.

Il tempio misura allo stilobate 55,36 x 21.47 metri, con una disposizione di 6 x 17 colonne di proporzione piuttosto tozza. Rappresenta forse il primo esempio, nell'occidente greco, del momento di passaggio tra il tempio a struttura lignea e quello completamente lapideo, con fronte esastilo ed un colonnato continuo lungo il perimetro che circonda il pronao e la cella divisa in tre navate con due colonnati interni, più snelli, posti a sostegno di una copertura a struttura lignea di difficile ricostruzione. Sul retro della cella si trovava un vano chiuso (adyton) tipico dei templi sicelioti.
L'impresa di costruire un edificio con 46 colonne monolitiche, trasportate probabilmente via mare, dovette sembrare eccezionale agli stessi costruttori, vista l'insolita presenza sull'ultimo gradino del lato E (all'opposto di dove il tempio si mostra) di un'iscrizione dedicata ad Apollo in cui il committente (o l'architetto), celebra l'impresa edificatoria, con un'enfasi che tradisce il carattere pionieristico della costruzione. L'altra particolarità è che nessun tempio greco riporta firme o dediche, divenendo tale iscrizione un unicum nella sua tipologia: «Kleomede fece per Apollo (il tempio), il figlio di Knidieidas, e alzò i colonnati, opere belle
I resti permettono di ricostruire l'aspetto originario del tempio che appartiene al periodo protodorico e presenta incertezze costruttive e stilistiche come l'eccessiva vicinanza delle colonne poste sui lati, le variazioni dell'intercolumnio, l'indifferenza alla corrispondenza tra triglifi e colonne ed aspetti arcaici come la forma planimetrica molto allungata. L'architrave risulta insolitamente alto, anche se alleggerito posteriormente formando una sezione a L
Non mancano aspetti assolutamente sperimentali come l'importanza dedicata al fronte orientale con doppio colonnato ed intercolumnio centrale più ampio e più in generale la ricerca più di un'enfasi rappresentativa che di un'armonia proporzionale. La pionieristica costruzione fu un modello per l'affermarsi del tempio dorico periptero in Sicilia, rappresentando una sorta di prototipo locale che affiancava aspetti legati a modelli della madrepatria con altri peculiari che si affermeranno solo in Magna Grecia come la presenza dell'adyton, probabile sede dell'immagine sacra e centro compositivo dell'intera costruzione.
Terrecotte provenienti da elementi architettonici sono conservate al Museo archeologico regionale Paolo Orsi, tra cui frammenti del sima, e di acroteri ed alcune tegole di copertura, probabilmente tra le prime prodotte in Sicilia.


SICILIA - Siracusa, Via dei Sepolcri



La Via dei Sepolcri è una suggestiva strada lunga 150 metri che conduce alla cima del colle Temenite, situata all'interno del Parco archeologico della Neapolis di Siracusa, attraversandola si notano le alte pareti rocciose che la circondano da entrambi i lati e le edicole votive che vi sono state scavate lungo tutto il tragitto. 
Siracusa avendo un'importante tradizione greca conosceva e praticava il culto degli Eroi; gli Eroi erano in epoca antica delle persone considerate dei "Semidei", più forti dei mortali quasi vicini dall'essere paragonati agli dei. Poi in epoca greca successiva quando si parlava di "Eroe" si intendeva dire un "defunto" che si era particolarmente distinto in vita e per questo da morto meritava di essere "eroicizzato", ovvero di essere onorato e venerato come si veneravano gli eroi mortali. Tutto ciò era molto importante per la religione greca. Di grande pregio è considerato un incavo trovato verso la fine della Via dei Sepolcri e che rappresenta il culto dei Dioscuri a cavallo e Trittolemo sul carro tirato da serpenti.
La Via è in salita e curva prima verso ovest e poi verso nord. Essa conduce nel punto più alto del colle siracusano. Si pensa che in passato rappresentasse anche uno degli ingressi al Teatro Greco di Siracusa, data la sua vicinanza con il terrazzo del colle e il Ninfeo degli attori dionisiaci.
Il letterato e poeta veronese Girolamo Orti, nel suo viaggio in Sicilia nel 1823 così descrisse l'antica via siracusana:
«Più oltre fra i sentieri d'erbe odorose mirasi un antico splendido avanzo di acquedotto incavato nel monte, e che si estendeva per più miglia; indi una strada sepolcrare. I monumenti di questa, ben diversi da quelli della Via Appia, Flamminia fuori di Roma, consistono in una serie progressiva di stanze ad ambo i lati, le quali contengono moltiformi sepolcri sculti nel sasso vivo con fori ed incavi all'ingresso per tirarvi le imposte delle porte: non vi mancano grezze iscrizioni; pare che alcuno non avesse coperchio, ed è curioso vedervi accanto ad alcun altro un sedile.» (Girolamo Orti, Raccolta accresciuta de viaggi, Volume 2, 1834)
Nella via dei Sepolcri si trovano anche degli Ipogei di epoca bizantina, chiara testimonianza che rivela come il sito venne utilizzato anche in epoche successive a quella siceliota. Anche i profondi segni lasciati dai carri che si recavano ai mulini ad acqua d'epoca spagnola testimoniano la frequentazione della strada in diverse epoche.
Salita la Via dei Sepolcri si spunta sulla cima del rilievo. Qui sono stati individuati i resti del Santuario di Apollo Temenite (termine greco "Temenos" che significa "Recinto sacro") che dà il suo nome all'intero colle.

SICILIA - Cave del Mercadante, Capo d'Orlando

 


Le "Cave del Mercadante" (o "Cava del Mercadante") – situate a Capo d'Orlando – si riferiscono ad una configurazione rocciosa che si estende per un centinaio di metri per una larghezza tra i 4-5 metri, sulla quale affiorano dischi in pietra, incisi da solchi circolari profondi una decina di centimetri, dal diametro di uno-due metri. 
Le Cave sono emerse durante gli scavi per la costruzione del porto in contrada Bagnoli, presso cui sorgono altri ritrovamenti significativi, tra cui delle terme Romane del III-IV sec. d.C.
Le prime ipotesi dell’uso del sito come una cava per la realizzazione di dischi in pietra, o “rocchi”, risalgono al 1987, in seguito alla rilevazione di indizi circa le diverse fasi di lavorazione dei manufatti: “segni circolari lavorati con scalpello, canali di scavo attorno all’anello completi ed incompleti […] vari piani di sfaldamento orizzontali tali da facilitare il distacco […] quando lo scavo del canale raggiungeva il piano di sfaldamento”. 
L’ipotesi più attendibile circa l'utilizzo dei manufatti circolari, è che potessero servire quali macine per mulini (per olio). Altre ipotesi meno accreditate suggeriscono che i dischi in pietra potessero servire come ornamenti per colonne, o ancoraggi per imbarcazioni.

SICILIA - Terme di Bagnoli, Capo d'Orlando


Le terme di Bagnoli si trovano nell'omonima contrada nel territorio di Capo d'Orlando, nella città metropolitana di Messina.
Nel 1987 a Bagnoli diverse operazioni di scavo portarono alla luce i primi ruderi di una struttura termale, appartenente ad un'antica villa romana risalente al III-IV sec. d.C. Le terme costituite da otto vani sono state molto probabilmente danneggiate da due eventi sismici che colpirono la Sicilia tra il IV e il V sec.D.C.
Esse sono costituite da tre ambienti: frigidarium, tepidarium e il calidarium. Il frigidarium, il luogo del bagno freddo era costituito da tre stanze. Il tepidarium era l'ambiente tiepido intermedio che costituiva il passaggio dal frigidarium al calidarium. Quest'ultimo ambiente era costituito da due vani ed era utilizzato per il bagno caldo o a vapore. Gli ambienti erano resi caldi grazie a delle intercapedini ricavate sotto i pavimenti e lungo le pareti dentro cui circolava l'aria calda proveniente dal praefurnium, il locale fornace. Di notevole interesse artistico sono i mosaici policromi in tassellatum (tasselli in pietra e marmo) che decorano l'intera pavimentazione.
Gli studiosi, sulla scorta degli esiti delle operazioni di scavo, non hanno escluso la possibilità di riportare alla luce un intero centro abitato.

SICILIA - Tempio dorico della Vittoria, Himera

 


Il tempio della Vittoria era un tempio greco dell'antica città di Himera, colonia greca sorta nel territorio di Termini Imerese, comune italiano della città metropolitana di Palermo in Sicilia. Tempio in stile dorico, fornito di un pronao sul retro della cella uguale per forma e dimensione a quello anteriore. Durante gli scavi sono state rinvenute cinquantasei doccioni di pietra, a forma di testa di leone, in origine dipinte a colori vivaci; gli scavi nel temenos (l’area sacra) hanno restituito frammenti di armi, tra cui un paio di schinieri di bronzo ora custoditi presso il Museo Archeologico Regionale di Palermo. Molte caratteristiche architettoniche e decorative accomunano l'edificio con il tempio di Atena di Siracusa. È dunque probabile che i due templi siano stati costruiti contemporaneamente, e per la stessa occasione, da identificare con la vittoria dei greci di Himera sui Cartaginesi, che tanta gloria e tante ricchezza loro procurò.
Probabilmente dedicato a Zeus o ad Atena, l'edificio fu incendiato e distrutto verosimilmente nel 409 a.C. dai Cartaginesi che assediarono la città di Himera.


SICILIA - Guglia di Marcello

 

La Guglia di Marcello o Aguglia d'Agosta è un monumento funerario romano realizzato tra il I sec a.C. ed il I sec d.C. e sorgeva lungo l'antica via Pompeia che collegava Siracusa a Messina. Il monumento oggi sorge in località Specchi-Aguglia non molto distante dal tracciato ferroviario Siracusa-Catania.
Secondo la tradizione il monumento venne eretto dal console Marcello dopo la vittoria contro i siracusani (214-212 a.C.), ma recentemente è stata accertata una destinazione funeraria[1]. In precedenza si è anche sostenuta la tesi secondo cui fosse un monumento Siracusano eretto a seguito della vittoria contro gli Ateniesi.
Il monumento è conosciuto da lungo tempo e accertato nelle cronache del passato. In epoca medievale era denominato Aguglia d'Agosto perché ricadeva nel territorio di Augusta (Agosta). Il Fazello nel 1558 scrive nel De Rebus Siculis Decades Duae: «Dopo Thapsos, presso alla via che va a Siracusa, si trova una piramide fatta di pietra riquadrate e grandi, la quale è molto alta, ed antichissima, ed al mio tempo s’è veduta integra, ma cadde la sua cima per un terremoto, che fu l’anno 1542»
L'abate Amico invece scrive: «È una mole quadrata, la cui parte superiore scossa da tremuoto ruinò nel 1613
Altri viaggiatori ed eruditi visitarono il monumento: Vincenzo Mirabella, Giacomo Bonanni,
Il monumento è un podio parallelepipedo di 5,62x5,66 metri e alto 4,20 metri. Dalle cronache storiche si sa che aveva una forma a punta molto alta. Dopo anni di abbandono solo recentemente è stato siglato un accordo di fruizione del monumento dalla Riserva naturale orientata Saline di Priolo. Tuttavia resta ancora una recinzione ad impedire la completa fruizione del monumento.

SICILIA - Alesa Arconidea

 

Alesa Arconidea (Ἁλαίσα in greco antico) è un'antica città siculo-greca situata nel territorio di Tusa, comune italiano della città metropolitana di Messina, sulla costa settentrionale della Sicilia.
Secondo Diodoro Siculo la città di Alaisa fu fondata nel 403 a.C., su una collina distante otto stadi dal mare, nella costa settentrionale della Sicilia, oggi Santa Maria delle Palate, nel territorio del comune di Tusa.
Il nome della città, e del fiume che vi scorre nei pressi (oggi torrente Tusa), deriva dal termine greco alè (incerto vagare), dal verbo alaomai e sembra riferirsi alle popolazioni sicule cacciate dalla propria città conquistate.
Dopo la pace con la potente Siracusa del tiranno Dionigi, Arconide di Herbita concesse parte del territorio più settentrionale della città ai Siculi che l'avevano aiutato durante la guerra e la nuova città ebbe in suo onore il nome di Halaesa Arconidea. Il territorio si trovava al confine tra il territorio sotto l'influenza cartaginese, che arrivava fino al fiume Monalo, oggi Pollina. Nei pressi era già sorto un insediamento di mercenari campani stabilito qui dai Cartaginesi dopo la pace con Siracusa nel 405 a.C.: il nuovo insediamento greco-siculo ha anche il compito di fronteggiare un'eventuale espansione cartaginese nella zona. Le monete coniate ad Alasa hanno come emblema della città una colonna sormontata da un cane, simboleggiando la sua funzione di controllo del territorio: il simbolo è tuttora presente nello stemma comunale di Tusa.
La presenza di un tempio del dio Adrano ('Αδρανιείον), il cui culto era diffuso nella zona dell'Etna, potrebbe indicare una provenienza dei nuovi cittadini da questa zona.
Alesa Arconidea aderì all'alleanza siculo-greca del 339 a.C., condotta da Timoleonte, a capo di una spedizione da Corinto contro il tiranno Trasibulo di Siracusa, con lo scopo di instaurare nella città ordinamenti democratici e di proteggere le città alleate dai governi aristocratici e tirannici e dai Cartaginesi. L'alleanza (symmachia) coniò una moneta comune. Alesa acquistò rapidamente una posizione di preminenza tra le città sicule dell'alleanza
Le fonti indicano inoltre la partecipazione di Alesa al gruppo di sedici città incaricate di fornire a turno la guarnigione per la protezione del santuario dei Venere Ericina di Erice: tutte le città del gruppo vantavano origini troiane. Un sacello con una statuetta di marmo frammentaria di una figura femminile colta nell'atto di ravviarsi i capelli, è stato interpretato come un luogo di culto dedicato alla dea nella città.
Quando i Romani sbarcarono in Sicilia nel 263 a.C. la città si alleò con gli invasori insieme a molte altre città sicule. Quando fu costituita la provincia romana di Sicilia nel 241 a.C. la città ottenne lo status di civitas libera ac immunis, ossia poté conservare la propria autonomia e fu esente da tributi. Questa condizione privilegiata ne favorì lo sviluppo economico e demografico. Per un certo periodo la città mantenne una monetazione autonoma, anche di monete d'argento.
Nel 96 a.C. il pretore Gaio Claudio Pulcro intervenne per regolare le condizioni di partecipazione al senato cittadino, stabilendo le condizioni minime di età e di censo per farne parte. In questa occasione si consultò con i membri della famiglia patrizia dei Marcelli che vi risiedevano. In ringraziamento per questo intervento gli venne dedicata una statua in marmo, che fu rinvenuta nel XVIII secolo e si trova attualmente nella sala consiliare del comune di Tusa.
Cicerone dà notizia del fatto che la città contribuiva con navi e relativo equipaggio alla flotta siciliana: un'iscrizione ricorda una battaglia navale vinta dalle navi di Alesa e di altre città, comandate da un certo Caninio Nigro.
In epoca augustea la città divenne municipio e acquista la cittadinanza romana.
La città esisteva ancora alla fine del IV secolo e compare nella Tabula Peutingeriana. Alla metà del V secolo doveva essere sede vescovile (come sembra testimoniato dalla menzione di un vescovo di nome Tobia in un'iscrizione greca riportata in un manoscritto conservato a Madrid.
In un documento del 522 il patrizio romano Tertullo dona terreni del suo territorio all'abbazia di Montecassino e alla fine del secolo un convento ad Alesa fu forse istituito nell'ambito delle fondazioni siciliane di san Gregorio Magno. Nel VII secolo viene citata tra le quattordici città importanti della Sicilia da Gregorio di Cipro e nel 649 il vescovo di Alesa "Calunnioso" partecipa al Concilio Lateranense a Roma.
Nell'VIII secolo, in seguito alla dominazione bizantina i vescovi siciliani sono sottoposti al patriarcato di Costantinopoli: un Antonio, vescovo di Alesa partecipa ad un concilio a Costantinopoli nell'870.
Nell'835-836 fonti arabe (Ibn al Atìr, nel XIII secolo) riferiscono del saccheggio delle campagne della località di Lyàsah, che forse è identificabile con Alesa, ma gli Arabi vengono costretti a ritirarsi da forze sopraggiunte a difesa della città. Nella valle del torrente Tusa esiste una torre, forse costruita nel IX secolo, alla quale gli Arabi diedero successivamente il nome di "Migaito": si trattava forse di una torre di segnalazione tra Alesa e le città vicine, impegnate nella difesa dalle incursioni arabe.
La città sembra sia stata abbandonata in seguito alle distruzioni di un terribile terremoto, in seguito al quale la popolazione si spostò nel sito, più facilmente difendibile dell'odierna Tusa. Il terremoto è forse identificabile con quello riportato dalle fonti nell'856.
Non ci sono tuttavia dati precisi sulla conquista della città da parte degli Arabi, che avvenne probabilmente dopo la caduta di Siracusa nell'878. L'occupazione araba del territorio della Val Demona. Nella abbandonata città di Alesa si installa una fortezza araba che prende il nome di "Qalat al Qawàrabi" a protezione del porto.
Le Tavole Alesine
Nel 1558, fra le rovine d'Alesa, furono ritrovate due lastre di marmo sulle quali era scolpita, in greco, una dettagliata descrizione dell'agro di Alesa. Le lastre, inizialmente custodite presso la Compagnia del Gesù di Palermo sembra siano state portate in Spagna nel XVIII secolo e andarono in seguito perdute.
Le tavole furono viste dal Gualterio a Palermo e dal Grutero ancora a Messina. Il testo, incompleto per la frammentarietà delle tavole, fu pubblicato dal principe di Torremuzza nel 1753.
Si conserva solo nella pubblicazione (di V.Di Giovanni) anche il testo di un frammento, rinvenuto nel 1885 e anch'esso andato perduto. Un terzo frammento che forse appartiene alla medesima iscrizione è attualmente conservato presso l'Università di Messina ed è stato pubblicato nel 1961 da S. Calderone.
Nella descrizione delle tavole, databili all'epoca ellenistica e probabilmente precedenti alla conquista romana, il territorio di Alesa risulta diviso in dodici lotti dal lato del torrente Tusa (fiume Alesa) e in altri dodici dal lato del torrente Cicero (fiume Opicano), mentre altri tre lotti ("gli Scironi") dovevano trovarsi sulla cresta del costone che divide le due vallate. Viene inoltre menzionato un doppio lotto sacro, in cui è proibito l'accesso ai macellai e ai conciapelli, ubicato nelle adiacenze dell'Opicano.
L'iscrizione cita inoltre quattro templi, due dentro le mura, uno dei quali dedicato ad Apollo, e due extraurbani, dedicati ad Adrano e a Giove Milichio, dei bagni, un acquedotto, la "fonte Ipurra", il "tapanon" e il "tematetis"
Aspetti urbanistici
La città venne dotata nel IV secolo a.C., di mura di fortificazione che circondavano la collina con un circuito di circa 3 km, con tracciato irregolare che segue il rilievo orografico. La cinta era dotata di torri collegate da un camminamento e di almeno quattro porte, due a nord-est, una a sud-est e una a sud-ovest: dalle ultime due, le più importanti uscivano le strade per il porto e in direzione di Herbita e degli altri centri dell'interno.
Le mura sono costruite in opera quadrata pseudoisodoma, con filari di blocchi in arenaria scistosa sulle facciate interna ed esterna e l'intercapedine riempita con muratura a sacco. Restauri successivi, dovuti alla scarsa resistenza agli agenti atmosferici del materiale impiegato, consistettero nella stuccatura dei giunti tra i blocchi e nella sostituzione di alcuni tratti con blocchi in materiale più resistente.
La città si articolava con un sistema di strade perpendicolari all'asse principale, che correva in senso nord-sud (cardo maximus). La via principale, pavimentata con lastre quadrate di pietra disposte a scacchiera, era larga circa 6 m e le vie perpendicolari, larghe tra i 2,30 e i 3,30 m, vi si aprivano a distanza di 32 m l'una dall'altra, formando isolati regolari disposti a terrazza sui pendii, Lo schema urbanistico riprende quello visibile anche nella città di Solunto.
Agorà e monumenti principali
Sulla via principale si apriva nel centro della città l'agorà, su una terrazza aperta verso est sulla vallata del fiume Tusa e chiusa ad ovest da un muro di contenimento del taglio del pendio, sopra il quale corre una strada. L'impianto si deve al II secolo a.C., ma con rifacimenti di epoca imperiale. Davanti al muro di contenimento occidentale la piazza venne infatti chiusa sui lati ovest e nord da un monumentale doppio portico disposto ad L e sopraelevato di circa 50 cm rispetto alla quota della piazza. Il portico aveva colonne esterne in pietra sorreggenti una trabeazione dorica in legno stuccato, e colonne interne in mattoni ricoperti in stucco, con capitelli pure stuccati e dipinti.
Sul fondo del portico si aprono otto ambienti bipartiti (sei sul lato ovest e due sul lato nord), che utilizzano come muro di fondo il grande muro di contenimento: si tratta di sacelli di culto, con nicchie per statue e altari posti nel vano più interno. Uno dei sacelli doveva essere riservato al culto imperiale praticato dal collegio sacerdotale dei seviri augustali e presenta un ricco rivestimento in marmi colorati: vi fu rinvenuta la statua in marmo di una Cerere con iscrizione dedicatoria del II secolo d.C. In un altro dei sacelli fu rinvenuta una grande quantità di iscrizioni marmoree.
La piazza, pavimentata con mattoni, era dotata di un efficiente sistema per la raccolta e lo smaltimento dell'acqua piovana. In essa si trovano delle basi di statue e un podio quadrato più grande, in opera reticolata probabilmente rivestita in origine in marmo, forse utilizzato come tribuna per gli oratori.
Le fasi di realizzazione sembrano essere state almeno tre: in un primo momento furono realizzati i sacelli, che successivamente furono preceduti da un portico singolo, poi suddiviso internamente con altre colonne.
In una terrazza sottostante, a un livello più basso di circa 2,50 m, vi è un muro in opera quadrata isodoma in grandi blocchi bugnati di pietra dura non locale, la quarzarenite di Mistretta. Il muro, databile a prima della conquista romana, misura 39 metri di lunghezza e ha funzioni di contenimento del terrapieno su cui passa la via principale. Alcuni dei blocchi, posti in alto, sono la base di colonne di grandi dimensioni e sono state rinvenute anche basi di statue, una delle quali sembra possa essere riferita al re siceliota Gerone II di Siracusa. Il complesso potrebbe essere forse identificato con il ginnasio, citato da Cicerone. Una scalinata doveva mettere in comunicazione quest'ultimo con la parte alta della piazza.
Nella zona sottostante è stato rimesso in luce un settore dei quartieri di abitazione. Uno degli edifici, costituito da strutture più robuste delle abitazioni confinanti presenta una grande vasca quadrata bordata da blocchi di pietra dura, che doveva essere stata circondata da un colonnato: si tratta forse di un altro edificio pubblico oppure del peristilio di una casa particolarmente ricca.
Al di sopra della porta di nord-est, una struttura muraria che forma un arco di circa 120 m, in gran parte interrata, (i cosiddetti "contrafforti") è stata interpretata come un viadotto che sosteneva una delle strade principali. Alcuni ambienti dovevano presentare una ricca decorazione di cui sono stati rinvenuti numerosi frammenti, tra cui i resti di un'iscrizione su stucco.
Sull'acropoli sono presenti tre basamenti templari. Il complesso cultuale consisteva in due templi laterali e in un terzo più grande dedicato ad apollo (quello centrale). Apollo era il nume tutelare della città, come attestano due iscrizioni di Halaesa, gli scritti di Diodoro Siculo e la monetazione locale raffigurante la testa del dio pagano vicino ad una cetra.
Fuori le mura, nello spazio antistante le due porte della città verso sud, si trova un colombario, privo della originaria copertura a volta e con pareti in opera reticolata con nicchie per la deposizione delle urne. Il colombario segna la posizione della necropoli di epoca romana. Si conosce anche l'ubicazione della più antica necropoli siculo-greca.
Il territorio
Il territorio della città di Alesa corrisponde a quello dell'attuale comune di Tusa, limitato a nord dalla costa tirrenica, ad est dal torrente Tusa e ad ovest dal fiume Pollina.
I resti antichi del territorio comprendono:
  • una possibile struttura termale di cui si conservano i mosaici nella zona delle "Case Gravina", forse identificabile come "i bagni" citati dalle "tavole alesine";
  • forse il ponte sul torrente Tusa ("ponte Riggieri"), che sembra tuttavia di datazione più recente;
  • torre Migaido, il torrione centrale che risale all'epoca della conquista normanna, alla fine della vita della città di Alesa;
  • strutture idriche ("Viviere") di captazione di un gruppo di sorgenti per l'acquedotto cittadino, nella località "Fruscio";
  • la zona dell'attuale contrada Ospedale, a metà strada tra Alesa e Tusa, potrebbe essere identificata, per la somiglianza del significato dei toponimi, con la "via Xenide" citata dalle "tavole alesine": in tal caso si troverebbero in questa zona il tempio di Adrano, il "tapanon" e il "tematesis".

SICILIA - Solunto


Solunto
 è un'antica città ellenistica sulla costa settentrionale della Sicilia, sul Monte Catalfano, a circa 2 chilometri da Santa Flavia, di fronte Capo Zafferano, nei pressi di Palermo. Secondo Tucidide, Solunto costituiva, assieme a Panormus e a Motya, una delle tre città fenicie, in Sicilia. In realtà alcuni scavi, che hanno interessato questo sito, mostrano come l'ipotesi che Solunto fosse una cittadina dalle origini fenicie sia ancora priva di supporti archeologici adeguati, e ne indicano come autentici fondatori i Sicani, maggiormente motivati a stanziarsi in una così particolare collocazione (come i pendii di un promontorio roccioso). Il nome greco di Solunto, secondo il mito di fondazione, riportato da Ecateo di Mileto, deriverebbe da quello di un brigante, Solus, ucciso da Eracle. Il nome fenicio conosciuto dalle monete (Kfr = Kafara), significa «villaggio», mentre lo stesso nome greco (Solus, corrispondente al latino Soluntum) potrebbe essere d'origine semitica (סלעים selaim, «rupi») o greca arcaica (σολος solos, «roccia ferrosa»). La più antica notizia su Solunto ci è trasmessa da Tucidide, secondo il quale il luogo sarebbe stato occupato da Fenici (insieme a Mozia e Palermo) al momento della prima colonizzazione greca. Dell'abitato punico sul promontorio di Solanto, in lingua punica Kfr, rimangono oggi scarse tracce a causa della recente crescita edilizia, come una necropoli con sepolture a camera (distrutte nell'aprile 1972 durante lavori edili) nei pressi della stazione ferroviaria di Santa Flavia, un quartiere industriale con fornaci, un probabile tofet con resti di ossa combuste e stele «a trono» e, presso la località Olivella, una sepoltura ipogea con dromos.
Tra i materiali ceramici rinvenuti si ricordano kylikes di produzione ionica, aryballoi corinzi, un kantharos etrusco di bucchero, anfore puniche di forma Ramón 1.1.2.1 e Ramón 4.2.1.4. La città fu conquistata per tradimento da Dionisio I di Siracusa nel corso della sua guerra contro i Cartaginesi (396 a.C.), insieme a Cefalù ed Enna.
Già in precedenza il suo territorio era stato saccheggiato insieme a quello di altre due città rimaste fedeli ai Cartaginesi, Halyciae e Palermo. È probabile che in quest'occasione l'abitato sia stato gravemente danneggiato o distrutto, dal momento che non se ne parla più a proposito della seconda spedizione di Dionisio, nel 368 a.C. In ogni caso, è proprio immediatamente dopo tale data che la città venne ricostruita interamente, secondo un piano regolare, nella fortissima posizione sul Monte Catalfano che rimase la sua sede definitiva.
Nella nuova città disposta a pianta ippodamea sul Monte Catalfano si insediò (307 a.C.) un gruppo di mercenari greci abbandonati da Agatocle in Africa dopo il fallimento della sua spedizione. La presenza di un forte nucleo ellenico è, del resto, confermata, oltre che dal carattere stesso delle costruzioni e della loro decorazione, dalla presenza d'iscrizioni in greco, e dal tipo delle magistrature e dei sacerdozi in esse ricordati: gli anfipoli di Zeus Olimpio e gli hieròthytai (i primi sembrano riprodurre un'istituzione siracusana, introdotta da Timoleonte nel 363 a.C.).
Nel 254 a.C., durante la prima guerra punica, la città passò ai Romani, come Iaitai, Tindari ed altre. Sappiamo da Cicerone che essa faceva parte delle civitates decumanae. La notizia più tarda si ricava dall'unica iscrizione latina scoperta a Solunto, una dedica della res publica Soluntinorum a Fulvia Plautilla, moglie di Caracalla. A giudicare dai materiali archeologici sembra che il sito, semideserto e in decadenza già dal I secolo, sia stato definitivamente abbandonato poco più tardi.
Gli scavi iniziarono nel 1825 per interessamento della Commissione di Antichità e Belle Arti, e in tale occasione fu rinvenuta la statua raffigurante Zeus in trono oggi conservata al Museo archeologico regionale Antonio Salinas; essa è caratterizzata dal corpo scolpito in calcarenite locale e la testa in marmo bianco, mentre il trono è decorato con rilievi raffiguranti Ares coronato da Nike, Afrodite, Eros e le Grazie. I lavori di scavo proseguirono nel 1836 e nel 1863, liberando una parte della città, ma essi sono stati ripresi nel 1952, e portati avanti negli anni successivi. È così tornato alla luce un settore notevole del tessuto urbano, che permette di ricostruire la struttura riorganizzata integralmente intorno alla metà del IV secolo a.C.
La città occupa il pianoro del Monte Catalfano, che digrada da ovest ad est (da un'altezza sul livello del mare da m 235 a 150), e in parte è franato sul lato nord. La superficie doveva essere originariamente di circa 18 ettari, ed era suddivisa regolarmente - secondo i dettami urbanistici di Ippodamo da Mileto - da una serie di strade orientate da nord-est a sud-ovest (tre delle quali sono state parzialmente scavate), intersecate da assi minori perpendicolari (larghi da 3 a 5,80 m), i quali, essendo disposti perpendicolarmente alla pendenza, sono perlopiù costituiti da scalinate. Ne risultano isolati rettangolari, di circa 40 x 80 m, disposti con il lato minore sugli assi principali. Essi sono suddivisi a metà, in senso longitudinale, da uno stretto ambitus (m 0,80-1), destinato a drenare gli scoli, che, in corrispondenza delle strade principali, si trasformano in canali sotterranei. Non esistevano fogne.
La strada principale (nota col nome moderno di Via dell'Agorà è larga da 5,60 a 8 m, e conduce alla zona pubblica della città, situata nella zona nord. A differenza delle altre – che sono pavimentate in lastre di calcare – essa presenta, a partire dal terzo isolato, una pavimentazione in mattoni quadrati. In corrispondenza degli incroci, la carreggiata è occupata da tre blocchi allineati con incassi, forse destinati a sostenere ponticelli lignei d'attraversamento in caso d'inondazioni.
La disposizione delle abitazioni riflette certamente diversi livelli sociali. Nelle zone periferiche, infatti, per quanto finora si conosce, gli isolati sono divisi in otto abitazioni, di 400 m² al massimo, e perlopiù prive di peristilio, sostituito da un semplice cortile. Nell'area centrale gli isolati comprendono in genere sei case, la cui superficie arriva sino a 540 m², e che sono perlopiù dotate di peristili e di ricca decorazione musiva e pittorica. L'impianto sembra essere sostanzialmente quello originario, della metà del IV secolo a.C., anche se naturalmente si notano numerosi rifacimenti d'età tardoellenistica e romana (che sembrano solitamente concentrati fra il II secolo a.C. e il I secolo, mentre scarsissime sono le aggiunte posteriori). Si tratta insomma di un tipico piano regolatore d'età tardoclassica, che ritroviamo anche altrove in Sicilia (Iatai, Tindari, Eraclea, Gela, Agrigento, probabilmente a Segesta ed a Taormina), derivato da modelli greci, verosimilmente dell'Asia minore, come quello di Priene.
Seguendo la via principale della città (che nel primo tratto è selciata con lastre di calcare), s'attraversa dapprima un quartiere periferico, costituito da case modeste, a semplice cortile, e mal conservate, la cui tecnica costruttiva è a telaio, tessuta con grandi blocchi incrociati, e pietrame di riempimento tra di essi.
Poco dopo la prima traversa, a sinistra, ha inizio il settore occupato dalle case più lussuose. La seconda casa dell'isolato, che s'affaccia sulla Via dell'Agorà, con l'ingresso principale sulla seconda trasversale, costituisce un buon esempio d'abitazione di livello alto, anche se non eccezionale. Come molte altre, essa sorge su tre livelli, progressivamente più elevati da est ad ovest. Il settore più basso, fronteggiante la Via dell'Agorà, è costituito da quattro botteghe, due delle quali (quelle laterali) collegate con due ambienti corrispondenti al livello superiore (quello intermedio): si tratta evidentemente delle abitazioni dei bottegai.
Una delle due tabernae centrali, quella di sinistra, non comunica con la parte posteriore, mentre da quella di destra s'accede, mediante una scala, ad un ampio ambiente di livello intermedio, a sua volta comunicante col terzo livello, occupato dalla casa. Sembra probabile che in quest'ultimo caso si tratti di una dispensa appartenente all'abitazione, accessibile dalla strada (dove potevano giungere i carri e le bestie da soma), mentre le altre tabernae dovevano essere botteghe d'affitto. Il piano più alto era occupato dall'abitazione vera e propria, cui s'accedeva da una delle tranquille vie trasversali a gradini. La porta d'ingresso dava in un ambiente comunicante con due stanze laterali (una certamente riservata al portiere), e da qui, tramite un'altra porta, s'accedeva al peristilio a quattro colonne (tetrastilo). Su questo s'affacciano alcuni grandi ambienti (quelli d'abitazione dovevano essere al piano superiore), uno dei quali con il pavimento a mosaico. 
Sulla destra, a livello leggermente superiore, sono il bagno e la cucina. Subito dopo la via trasversale, nell'isolato successivo, è il cosiddetto Ginnasio, scavato verso la metà dell'Ottocento e restaurato nel 1866 dal Cavallari, che rialzò le colonne del peristilio con aggiunte arbitrarie. Il nome è dovuto alla scoperta, in questa zona, di un'iscrizione greca (ora al Museo Archeologico Regionale di Palermo) con una dedica da parte di un gruppo di soldati, comandati da un Apollonio figlio di Apollonio, ad Antallo Ornica, figlio di Antallo e nipote di Antallo, ginnasiarca. Quest'iscrizione dimostra l'esistenza a Solunto dell'istituto tipicamente greco dell'efebia, e certamente anche l'esistenza di un ginnasio, che non è però stato finora identificato. L'edificio che va sotto questo nome è invece una ricca dimora dotata di un peristilio a due piani, con colonnato inferiore dorico e superiore ionico, con transenne scolpite "a cancello" fra le colonne (dodici in tutto e quattro per lato): un tipo che è ora conosciuto anche altrove in Sicilia (a Iatai, ad esempio) ed un po' ovunque nel mondo ellenistico (particolarmente a Delo). Nella casa si notano ancora resti di ricchi pavimenti a mosaico, e di pitture di IV stile, appartenenti ad un restauro della seconda metà del I secolo d.C. 
Oltrepassata un'altra via trasversale (denominata dagli scavatori Via Ippodamo di Mileto) si trova un'altra dimora piuttosto ben conservata che, dal soggetto di uno dei suoi dipinti, ha preso il nome di Casa di Leda, scavata nel 1963. Anche questa sorge su tre livelli: il più basso, adiacente alla Via dell'Agorà, è occupato da quattro botteghe con mezzanini-dormitori soprelevati. Fra questo settore e la casa, utilizzando il dislivello, è stata inserita la lunga cisterna, absidata alle due estremità, nella quale confluiva l'acqua proveniente dal peristilio. A questo s'accedeva dalla via Ippodamo di Mileto, tramite il solito ambiente intermedio. Si tratta di un cortile probabilmente a dodici colonne (quattro per lato), doriche in basso e ioniche al primo piano: queste ultime erano collegate da una transenna di calcare con reticolato a rilievo (i frammenti sono conservati sul posto).
Gli ambienti circostanti sono riccamente decorati con mosaici e pitture. Nel peristilio sono i resti di un mosaico con motivi ad onde in bianco e nero. In un cubicolo (stanza da letto) a nord, la zona destinata al giaciglio è separata con un motivo a cubi in prospettiva, in pietre di tre colori. Al centro della stanza ad ovest del vestibolo è conservato un emblema (quadretto) con una rappresentazione del tutto eccezionale: un astrolabio, col globo terrestre circondato dalle sfere celesti (bisogna ricordare il planetario d'Archimede trasferito a Roma da Siracusa dopo la conquista della città, nel corso della seconda guerra punica). Il mosaico, in cui sono state utilizzate lamine di piombo per separare i vari settori della rappresentazione, è databile – come gli altri della casa – intorno alla metà del II secolo a.C., ed è stato forse importato da Alessandria.
In un'ampia sala che s'affaccia ad ovest del peristilio (forse il triclinio) sono conservate pitture di IV stile, del tardo I secolo d.C., che sostituiscono quelle originarie, di I stile, delle quali restano tracce. Nella parete settentrionale, sopra uno zoccolo a larghe zone dipinte ad imitazione del marmo, sono quattro ampi pannelli separati da steli vegetali, su uno dei quali si distingue la rappresentazione dei Dioscuri, mentre sul successivo è dipinta la madre dei divini gemelli, Leda (col cigno), che ha dato il nome alla casa. Sulla parete di fondo (quella occidentale) sono tre pannelli: in quello centrale si distinguono le tracce di una figura maschile nuda e seduta, mentre su quelli laterali sono figure maschili alate con fiaccole (probabili Imenesi, geni del matrimonio).
La decorazione di questa ricca dimora era completata da alcune sculture: tre piccole statue femminili panneggiate, due delle quali marmoree ed una in calcare, con mani e piedi di marmo (esposte nell'Antiquarium). L'ultimo livello del fabbricato comprendeva una cisterna (a nord del triclinio) ed un ambiente comunicante direttamente con l'esterno, forse una stalla.
Continuando a risalire la Via Ippodamo di Mileto, si trovano sui lati altre case. La seconda sulla destra, dopo la Casa di Leda, è una casa senza peristilio (scavata anch'essa nel 1963), con cortile pavimentato in cocciopesto, con decorazioni a losanghe di tessere bianche. Su di esso s'aprono vari ambienti uno dei quali, ad ovest, ha pavimento a signino (una grande ruota al centro, con decorazione di tessere bianche disposte a raggera, ed orlo a meandro); un altro, a nord, conserva pitture della prima fase del secondo stile, ad imitazione di una struttura marmorea, davanti alla quale pendono ghirlande (inizio del I secolo a.C.). Si notano resti di una più antica decorazione di I stile, coeva ai pavimenti conservati. L'ultima casa a destra lungo la via Ippodamo di Mileto è una delle prime esplorate nel secolo scorso. Il resto dell'abitazione è stato scavato nel 1962. Il peristilio conserva un pavimento con tessere policrome disposte irregolarmente. In un ambiente a nord-est sono conservati affreschi di II stile. Subito ad est di questa casa, è una grande cisterna con vari ambienti, forse di carattere pubblico. Ritornando sulla via dell'Agorà, all'altezza del successivo incrocio con una strada trasversale (denominata Via Salinas), ha inizio la principale zona pubblica della città. Qui la strada è interrotta da una soglia, che impediva l'accesso dei carri nell'agorà. 
Subito sulla sinistra è un importante complesso, identificabile con un santuario. Esso si compone di due edifici distinti: il primo, più ad est (lungo m 20,50, largo 6,50), comprende tre ambienti non comunicanti, aperti sulla strada. Quello di sinistra è caratterizzato da un altare con tre betili (stele aniconiche infisse verticalmente), tipico del culto fenicio-punico. Un piano, inclinato dalla piattaforma dell'altare ad una vaschetta, probabilmente serviva a raccogliere il sangue delle vittime. L'ambiente centrale, caratterizzato da una banchina a due gradini estesa ai quattro lati, era certamente destinato a cerimonie di culto. Nulla si può dire del terzo ambiente, molto rovinato. Tutto il complesso presenta numerosi rifacimenti fino ad età imperiale. L'edificio retrostante (lungo m 20,50, largo 16) comprende nove ambienti, distribuiti su tre livelli. Dopo un grande cortile (d), terminante in un piccolo vano (e), forse destinato ad ospitare gli animali del sacrificio (vi si trovano degli abbeveratoi), segue il secondo ripiano, con cinque ambienti, il più importante dei quali (h) è dotato di una banchina e di altari, ed era certamente destinato al culto: la terrazza più alta è occupata da un grande ambiente allungato (n), preceduto da un altro. La metà settentrionale di tale ambiente n era coperta a volta. Vi si trova una cisterna ed una fossa, entro la quale è stato trovato un grande scarico di materiale votivo (pesi da telaio, arule di terracotta, ceramica) e moltissime ossa di animali sacrificati. Il deposito appartiene alla fase originaria dell'edificio (IV – inizio del III secolo a.C.), che quindi è nato come luogo di culto. Vi si distingue una seconda fase, che dura sino ai primi due secoli dell'età imperiale. Non è impossibile che proprio qui fosse collocata originariamente la grande statua di culto trovata in questa zona nel 1825 (nella quale, più che una divinità greca, si deve riconoscere un Baal punico, rappresentato in forme ellenizzanti del II secolo a.C., ora al Museo di Palermo). Altri preferiscono pensare, come luogo di provenienza della statua, ad un piccolo edificio a due navate, prossimo al teatro.
Si trattava certamente di un santuario di grande importanza, come dimostrano le dimensioni e la prossimità alla zona pubblica principale della città (è possibile che vi fosse un altro santuario più a monte, in quella che probabilmente è anch'essa una zona pubblica). È particolarmente interessante che l'edificio di culto abbia conservato le sue forme orientali, in una città per il resto così profondamente ellenizzata.
La Via dell'Agorà, ivi allargandosi sino a 8 metri, conduce alla vera e propria zona pubblica della città. Sulla sinistra, le si affianca un piazzale allungato, lastricato a mattoni, che probabilmente era chiuso da un grande portico a paraskénia (cioè con brevi risvolti all'estremità). In fondo al portico si aprono nove esedre a pianta rettangolare, dotate di due colonne, fra ante con semicolonne: la presenza di banchine dimostra che si trattava di luoghi destinati al soggiorno ed al riposo. Nell'ultimo ambiente a nord sono i resti di una nicchia, originariamente ospitante le statue di due anfipoli di Zeus Olimpio, come si deduce dall'iscrizione qui trovata in situ. Gli ambienti erano ricoperti da un robusto solaio in muratura, ampliamento della terrazza sovrastante. Oltre l'estremità settentrionale del portico si trova una grandiosa cisterna rettangolare, certamente pubblica, la cui copertura era sostenuta da tre file i pilastri. Questa non è l'unica cisterna del sito, anche se essa è la più grande. La terrazza superiore era occupata dal teatro e dal bouleuterion. 
Il teatro, nella sua forma definitiva, aveva un diametro di circa 45 m e ventuno ordini di gradini (esclusi quelli di proedria – per i personaggi più facoltosi della città – che però non sono conservati). Esso è limitato da un muro di sostegno poligonale, del quale resta un tratto nel lato settentrionale (una simile sistemazione si ritrova nel contemporaneo teatro di Metaponto). Si tratta di un piccolo edificio, adeguato alle ridotte dimensioni della città, che poteva contenere circa milleduecento spettatori. L'orchestra presenta due pavimenti sovrapposti, relativi a due fasi successive: la prima probabilmente del IV secolo a.C., la seconda d'età ellenistica. La scena, anch'essa rifatta più di una volta, è simile a quella dei teatri di Segesta e Iaitas.
A nord del teatro si trovava in origine un edificio, certamente pubblico, dotato di un piccolo colonnato, e che si concludeva in una rotonda, parti della quale sono conservate aderenti al recinto esterno del teatro. Nel corso della prima metà del I secolo d.C. questa costruzione, ed una parte della cavea del teatro furono occupate da una grande casa privata. È questo un chiaro indizio della decadenza della città, e in particolare delle sue istituzioni civiche: il teatro infatti, nel mondo ellenico o ellenizzato, non era solo un edificio destinato allo spettacolo, ma anche la sede delle assemblee popolari (come dimostra, in questo caso, il collegamento strettissimo con l'agorà e soprattutto col vicino bouleuterion).
Il bouleuterion (edificio della boulé, il senato locale), collocato immediatamente a sud del teatro, è una costruzione rettangolare (11,30 x 7,30 m), che include una piccola cavea circolare a cinque ordini di posti, suddivisi in tre settori. Il loro numero, circa cento, corrisponde bene a quello di un ridotto senato locale. Nella parte del colle sovrastante il teatro sono resti di strutture non ancora identificate; ma il cui carattere è probabilmente sacro. Si può pensare, in effetti, che qui fosse l'acropoli della città; cosa che potrà essere compresa in seguito a futuri scavi.
All'estremità settentrionale dell'area pubblica, dove termina anche la parte conservata dell'abitato, è un'importante casa, un angolo della quale è scomparso nella frana che ha interessato quest'area. Si tratta di una ricca abitazione con peristilio ad otto colonne (tre per lato), circondato da ampi ambienti e da un cubicolo. Il peristilio presenta un pavimento a pietre bianche irregolari, in cui sono irregolarmente inserite pietre colorate. Nell'area centrale è un impluvio con orlo in blocchi modanati. L'ambiente a sud conserva un pavimento in mosaico bianco con un disegno a reticolato in tessere nere. Il cubicolo è distinto in due parti: quella destinata all'alcova è separata da un motivo lineare in bianco e nero, mentre al centro dell'altra era un emblema, poi asportato.
I muri conservano resti di pitture di II stile, appartenenti ad una seconda fase della decorazione (circa 70 a.C.). I due grandi ambienti a sud-ovest e ad ovest del peristilio sono pavimentati con mosaici bianchi con semplici fasce d'inquadramento nere. Quello ad ovest presenta anche notevoli resti di pitture di III stile, d'età augustea: tirsi verticali che sostengono ghirlande, su fondo bianco.


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