venerdì 11 aprile 2025

Toscana - Complesso megalitico dei Sassi Ritti, Isola d'Elba

 

Il piccolo complesso megalitico dei Sassi Ritti si trova all'isola d'Elba, non distante dal paese di San Piero in Campo e dalla necropoli villanoviana dello Spino, a 327 m di altitudine (42°44′48.98″N 10°11′47.38″E). I quattro menhir aniconici - che sono all'origine del toponimo stesso - componevano inizialmente un tipico allineamento di monoliti rivolti in direzione nord-sud, secondo un probabile culto solare riconducibile alle cosiddette filarate esistenti in Corsica e Sardegna. Nei pressi del sito, in passato, furono rinvenute sepolture e strumenti in ossidiana sarda proveniente dal Monte Arci.
Non distante dal sito archeologico, in località Moncione, sorge una capanna in pietra edificata da Mamiliano Martorella intorno al 1930 per uso agricolo insieme ad un grande mulino idraulico (Mulino di Moncione) ampliato dopo il 1890 dal possidente locale Pompeo Battaglini.




Toscana - Via Etrusca del ferro

 
La Via Etrusca del ferro è un'antica strada etrusca risalente al VI secolo a.C.. È stata definita dall'archeologo Michelangelo Zecchini, che nel 2004 ne trovò trecento metri ben selciati e glareati in località Frizzone a Capannori, quale una “superstrada del lontano passato”.
Narrano gli storici antichi, fra cui Plinio il Vecchio, che questa terra, era ricca di molte materie prime quali minerali di ferro, rame e argento, utili per estrarne i relativi metalli, allora molto importanti, in quanto, come egli asseriva: "erano alla base dei prezzi di ogni merce" e quindi avevano lo stesso valore che il petrolio ha ai nostri giorni.
La strada collegava i porti di Pisa, sul Tirreno e di Spina di (Comacchio), sull'Adriatico ed aveva nelle città pedemontane di Gonfienti (Prato) e Kainua (Marzabotto  vicino a Bologna), i due grandi empori commerciali situati nei contrapposti versanti appenninici.
A detta dello storico greco Scilàce di Cariànda (V sec. a.C.) che ne parla nel suo Periplo di Scilace, pare che la si potesse percorrere in soli tre giorni: "Dopo gli Umbri, i Tirreni. Anch'essi vanno dal Mar Tirreno all'Adriatico; e qui si trova una città greca (Spina) e un fiume: la navigazione verso la città tramite il fiume è di venti stadi: questa città si raggiunge da Pisa in tre giorni di cammino".

Toscana - Via Lauretana

 


La via Lauretana è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizzata dagli etruschi e venne poi sfruttata e ampliata, come molte altre, dai romani, con innovative tecniche di costruzione. Nacque per collegare la Lucumone alle consorelle tirreniche. La strada partiva da Cortona e il tracciato si distaccava dalla vecchia Via Cassia, costruita intorno al 125 a.C. forse dal censore Lucio Cassio Longino Ravilla, sul precedente percorso etrusco Veio-Orvieto-Chiusi-Cortona-Arezzo-Fiesole. Dopo aver attraversato Centoia (il nome del paese deriva dal latino centuria, unità di 100 soldati che formavano una legione e da qui la centuriazione romana che consisteva nella suddivisione di un territorio in 100 parti, poi assegnate ai coloni e calcolate secondo le linee incrociate delle strade) e il ponte murato sul fiume Clanis sotto Valiano, incrociava la nuova Cassia Adrianea, voluta dall'imperatore Adriano nel 123 d.C. costruita al centro della valle per raggiungere più velocemente Firenze e i passi appenninici. Da qui, procedendo verso ovest, il vecchio tracciato etrusco-romano ancora oggi passa per Gracciano (come indica il toponimo Podere Strada nelle vicinanze del Torrente Salarco), sale a Montepulciano ed entra in Val d'Orcia. Prosegue per le pendici dell'Amiata toccando Seggiano, Castel del Piano e Arcidosso, scende in Maremma per Roccalbegna, Murci, Scansano, Magliano in Toscana fino ad arrivare a Talamone e Orbetello.



Con l'irreversibile impaludamento della Val di Chiana (IX secolo), dal percorso iniziale si sviluppò la cosiddetta Via Lauretana, nata per collegare Cortona a Montepulciano e Siena. Il nome Lauretana (di probabile attribuzione settecentesca) deriva dal toponimo Loreto, localizzato nella piana sotto Cortona, nella zona del Sodo e che dà il nome anche al fosso locale. È da qui che partiva il primo ramo di questa strada che Emanuele Repetti nel suo Dizionario chiamò Antica Lauretana distinguendola dalla più importante Strada Regia Lauretana. La primitiva via, che con molte probabilità esisteva già in epoca romana come uno dei tanti diverticoli della Via Cassia e abbandonata per forza maggiore dopo l'allagamento della valle, passava per Fratta, Santa Caterina, Fratticciola, Creti, Ponti di Cortona, Foiano della Chiana, Lucignano, Rigomagno, San Gimignanello, Asciano e terminava a Siena. Nel 1775 per ordine del granduca Leopoldo II d'Asburgo-Lorena, la tratta più importante della Lauretana fu completamente ristrutturata e potenziata, nel tentativo di sviluppare il commercio del grano della Val di Chiana con il resto della regione. Caduta in disgrazia ormai da molti anni come la maggior parte delle strade toscane, fu oggetto di una vera e propria rinascita. I lavori della Strada Regia Lauretana terminarono nel 1787.
Dal punto di vista strategico, questa strada, dopo l'impaludamento della valle, fu per circa dieci secoli la più importante della zona. Da Cortona a Camucia la strada tagliava in linea retta la pianura fino a Centoia e con un percorso collinare arrivava al castello di Valiano. Attraversava la palude chianina tramite il ponte di Valiano che insieme a quello di Chiusi e ai 3 ponti di Arezzo, rappresentò un vitale punto di passaggio del vasto lago stagnante. Era l'unica strada che permetteva ai fiorentini di raggiungere Montepulciano, vera e propria enclave medicea incuneata nello Stato senese, un canale di territorio ben difeso da Valiano, per la chiesa della Maestà del Ponte, passando per la Parcese e la Corbaia, oggi Montepulciano Stazione, e il castello di Gracciano Vecchio, arrivava sul colle di Montepulciano. La diramazione della Lauretana per Siena si distaccava alla Parcese (zona soprapasso dell'Autostrada del Sole) e raggiungeva il Monastero di San Pietro d'Argnano, l'abbazia che darà il nome in epoca comunale alla villa e castello di Abbadia Argnano, località conosciuta anche come Badia de' Caggiolari o Badia in Crepaldo, oggi Abbadia di Montepulciano. Resiste ancora nella memoria popolare di alcuni abitanti del paese di Abbadia il toponimo strada vecchia (oggi Via Morandi) che sta ad indicare un breve tratto di via che si distaccava dalla Lauretana all'altezza dell'abitato di Santa Maria. Il toponimo non lascia dubbi sull'antichità di questa diramazione della Lauretana che proseguiva per il Palazzo (il toponimo potrebbe indicare la presenza nel Medioevo di una fattoria fortificata), le Tombe e Sambuono (due aree sepolcrali di età etrusca e romana), dove si congiungeva con l'importante strada che collegava Montepulciano al Castello di Ciliano e Torrita di Siena. Poco più avanti di Abbadia di Montepulciano la Via Lauretana entrava nello stato senese presso Torrita di Siena, lambiva le mura fortificate della cittadina fedele alla balzana, passava ai piedi del Castello di Guardavalle e vicino alle fattorie della Fratta e dell'Amorosa. L'antico tracciato da Abbadia di Montepulciano alle porta di Sinalunga è in pratica quello dell'odierna Strada Provinciale 326. La Lauretana attraversava poi il borgo di Rigaiolo, saliva a Collalto lambendo Sinalunga, raggiungeva Asciano e oltrepassato il fiume Ombrone, per le Crete Senesi, scendeva fino a Taverne d'Arbia, i Due Ponti e terminava alle porte di Siena.


Toscana - Labirinto di Porsenna

 

Il Labirinto di Porsenna è costituito da una serie di cunicoli sotterranei posti sotto l'abitato antico di Chiusi, in particolare sotto piazza del Duomo, la cattedrale e gli edifici circostanti. Vi si accede dal Museo della cattedrale, con lo stesso biglietto. Il nome del labirinto deriva dalla descrizione di Plinio il vecchio (che cita Terenzio Varrone) del mausoleo di Porsenna, il leggendario sepolcro del sovrano etrusco protetto, secondo gli storici latini, da un labirinto.
Più probabilmente si tratta del sistema di approvvigionamento idrico, scavato dagli Etruschi in epoca arcaica, ed erroneamente definito "Labirinto di Porsenna" dagli archeologi che negli anni '20 avevano trovato le prime gallerie. Infatti gli studiosi credevano di avere trovato il mausoleo descritto da Plinio.
Il sistema è particolarmente vasto ed ingegnoso, scavato nella duttile pietra arenaria, per una profondità massima di 25 metri circa. Il sistema è composto da una fitta rete di passaggi, larghi in media un metro ed alti da due a cinque metri, talvolta rinforzati da blocchi di pietra. Vi si incontrano cisterne e piccoli bacini per raccogliere l'acqua, sia tramite infiltrazione, che con falde.
Un cunicolo si dirama fino alla cisterna etrusco-romana, chiamata così per la sua epoca (romana) e per il modo in cui è stata costruita (etrusco). È coperta infatti da una doppia volta, sostenuta da un grande pilastro centrale. Risale al I secolo a.C. e sopra di essa, nel XII secolo, venne eretta una torre a difesa, divenuta poi il campanile della cattedrale.
Nei cunicoli, che vennero usati anche come discarica, sono stati fatti vari ritrovamenti, tra i quali spiccano un tratto della cinta muraria ellenistica, romana e medievale (a sud) e, sotto l'abside del duomo, i resti di una lussuosa abitazione privata di epoca imperiale. Il percorso è arricchito dalla presenza di iscrizioni e urne in alabastro, marmo o travertino, databili tra la fine del IV e l'inizio del III secolo a.C.
Simili cunicoli si trovano anche in altre città dell'Italia centrale quali Perugia, Orvieto e Todi.

Toscana - Anfiteatro romano di Roselle

 


L'Anfiteatro romano di Roselle si trova all'interno del comune di Grosseto, presso l'omonimo sito archeologico. L'anfiteatro fu costruito dai Romani durante il I secolo d.C. nell'area sommitale della collina settentrionale su cui si sviluppava l'antica città di Rusellae. Proprio nel luogo in cui sorge l'anfiteatro, sono stati rinvenuti reperti villanoviani e di epoca etrusca del VII-VI secolo a.C..
Durante il periodo altomedievale, l'arena divenne un recinto fortificato, grazie alle costruzioni realizzate utilizzando materiali di spoglio dagli edifici romani in rovina. In questo fortilizio sarebbe da riconoscersi un castrum tardoantico/altomedievale, creato a difesa dei territori bizantini di contro all'avanzata dei Longobardi. L'area rimase occupata fino almeno al XVI secolo, così come testimoniano i vari frammenti di maiolica arcaica, ingobbiata e graffita, e ceramica d'uso invetriata e smaltata rinvenuti al suo interno. La terra tolta per la costruzione dell'arena venne quasi certamente riutilizzata come base per l'erezione degli ordini superiori dei posti.
L'edificio di forma ellittica presenta misure particolarmente ridotte (asse maggiore 38m, asse minore 27m) rispetto a quelle di monumenti simili riscontrabili in altre città romane. Gli accessi sono quattro e diversi per tipologia: quelli situati sull'asse maggiore E-O sono scoperti e delimitati da lunghi muri, mentre i restanti due sono fiancheggiati da murature di minore lunghezza e sono coperti da volte a botte. Lateralmente ai due ingressi E-O si trovano due piccoli vani con copertura a volta a crociera: la tecnica muraria in opus reticulatum con testate a blocchetti regolari suggerisce una datazione agli inizi del I secolo d.C., oltretutto convalidata dal rinvenimento di ceramica sigillata aretina. All'interno dell'arena, lungo l'asse maggiore, sono state scoperte quattro pietre allineate a distanza regolare con dei fori che dovevano servire a dividerla per utilità sceniche. Alcune murature tardoantiche sono state rinvenute in connessione ad una ricca serie di monete e rappresentano le uniche tracce antropiche tra l'età di Caligola e di Diocleziano.
Dalla fine degli anni ottanta, nel sito archeologico della città etrusco-romana di Roselle, l'anfiteatro romano di epoca augustea ospita l'Estate rosellana, manifestazione incentrata su concerti e spettacoli di danza e di prosa di livello nazionale, grazie all'acustica ancora eccellente. Alcuni spettacoli si tengono proprio nell'orario del tramonto, per esaltare maggiormente le rappresentazioni che si svolgono in uno sfondo suggestivo.

Toscana - Villa romana della Linguella

 

La villa romana della Linguella è una domus posta sull'estremità dello stretto promontorio (detto appunto Linguella dal XVI secolo) che chiude ad est la darsena di Portoferraio. La villa risale al I secolo a.C., ma l'intera struttura testimonia varie fasi di costruzione.
Alla prima fase (I secolo a.C.) risalgono murature in opus reticulatum e rivestimenti parietali in lastre marmoree ed intonaci dipinti in rosso. Alla seconda fase (fine del I secolo a.C. - I secolo d.C.) è datato un ambiente circolare con quattro nicchie (laconicum) e dotato di pavimentazione in cocciopesto con inserti esagonali in marmo palombino, insieme ad un altro ambiente con pavimentazione in opus sectile. Durante la terza fase (II secolo) risalgono murature in opus caementicium con rivestimento ad intonaco dipinto. Alla quarta fase (metà del II secolo - III secolo) sono datati interventi di abbellimento e restauro, tra cui mosaici geometrici policromi e intonaci policromi.
Durante la quinta fase (IV - V secolo), la domus viene abbandonata e spogliata dei suoi preziosi marmi, tra i quali si conserva, presso l'adiacente Museo archeologico di Portoferraio, un torso virile in marmo bianco. In un documento del 1548 si descrive il rinvenimento, nell'area della domus, di tre grandi teste marmoree (due maschili ed una femminile) poi inviate al granduca Cosimo I in Firenze.
La villa della Linguella, ritenuta nel XVIII secolo parte integrante dei cosiddetti Bagni della Regina Alba, venne così descritta dallo storico Giovanni Vincenzo Coresi Del Bruno: «Il pavimento del tempio era di marmetti a mandorla di vari colori, in particolare bianchi e bardiglio (...) si vedevano le stanze intonacate e dipinte di colori bellissimi, particolarmente rosso focato (...) il loro pavimento era di mosaico, quale di una forma e quale di un'altra, ma benissimo lavorati e intatti (...). Quantità di monete vi trovarono i zappatori di più imperatori, come si scrisse (...). Fra la terra si trovarono due idoli di metallo, lunghi un terzo di braccio (...) uno era la Vittoria e l'altro la Salute (...).»


Toscana - Villa Settefinestre

 

Villa Settefinestre si trova fra Capalbio e Orbetello in Toscana, ed è il sito di una villa di età tardo-repubblicana, gestita da schiavi e di proprietà di una famiglia senatoriale dei Volusii, costruita nel I secolo a.C. e poi ampliata nel I secolo con la costruzione di un grande criptoportico. La villa venne fortificata in epoca successiva e la fortezza venne ricostruita come villa, nel senso moderno del termine, nel corso del XV secolo. Nel periodo 1976-1981 sono state condotte delle campagne di scavi, sotto la direzione di Andrea Carandini ed i risultati sono stati presentati in una pubblicazione. Villa Settefinestre è stata restaurata negli anni settanta e trasformata in una lussuosa residenza di vacanza e le rovine, aperte al pubblico, inserite scenograficamente in un giardino rigoglioso.
La villa è ubicata nelle vicinanze di Cosa, una Colonia romana fondata nel 273 a.C., raggiungibile da Roma percorrendo la Via Aurelia. Cosa andò in crisi a seguito delle guerre civili e finì con lo spopolarsi. Il luogo venne poi utilizzato per la costruzione di un gruppo di ville la cui gestione era affidata al lavoro degli schiavi a differenza dei grandi latifondi del sud Italia. La villa di Settefinestre è diversa dalla villa con peristilio descritta da Plinio, dalle ville di Ercolano, con i loro splendidi mosaici e dipinti, e dalle ville imperiali della baia di Napoli. Durante gli scavi, anziché preziosi mosaici, sono stati recuperati notevoli reperti relativi ad una moltitudine di attrezzi agricoli dell'epoca. Settefinestre è la dimostrazione di come venivano attuate le teorie di Columella e Varrone. Risulta veramente evidente come questa villa, con le sue forme ed edifici annessi, risponda perfettamente ai modelli degli agronomi romani, il miglior esempio di villa perfecta di Varrone (I, 194).
L'ipotesi è stata avanzata a spiegazione dei dati di scavo da Andrea Carandini. Secondo Antonio Saltini si possono avanzare dei dubbi tanto sui capitoli di Columella assunti come base di riferimento, quanto sulla possibilità concreta di realizzare una rotazione moderna quale suppone Carandini nell'ambiente della Maremma, dove testimonianze storiche molteplici e inequivocabili dimostrano la difficoltà di ordinamenti evoluti fondati sulle culture foraggere. La fattoria annessa alla villa produceva vino.
Accanto alla villa di Settefinestre, esistono delle rovine confrontabili con ville contemporanee di Colonne ed altre province romane.
Gli scavi archeologici realizzati a Settefinestre sono stati presi come termine di paragone per una nuova fase dello studio dell'archeologia, rapportata allo studio dei metodi di lavoro in agricoltura nell'antico agro romano.


Toscana - Villa romana di Giannutri

 


La Villa romana di Giannutri è un sito archeologico localizzato sull'isola di Giannutri, comune dell'isola del Giglio, in località Cala Maestro. In prossimità di Cala Maestra si trovano i resti di villa romana, la cui costruzione e datata tra la fine del I secolo d.C. e l'inizio del II secolo d.C., edificata dai Domizi Enobarbi, antica famiglia senatoria di importanti commercianti della quale faceva parte Gneo Domizio, marito di Agrippina, madre dell'imperatore Nerone.
La villa costruita sulla sommità del Monte Mario (78 mslm), che si estendeva su di un'area di circa cinque ettari, fu abbandonata nel III secolo, per motivi non noti.
Del complesso della villa , che disponeva di uno scalo marittimo, sono stati individuati diversi ambienti, come le cisterne per la raccolta dell'acqua piovana, ambienti termali, ambienti della zona residenziale, e di quella dedicata a servizi.
I primi scavi si devono a Gualtiero Adami, che visse sull'isola, dal 1882 fino al 1922, anno della sua morte,[2] ma l'identificazione dei resti con la villa romana risalgono al 1900 e si devono all'archeologo Giuseppe Pellegrini.
Tra il 1925 e il 1930 la signora Bice Vaccarino Foresto, un'archeologa dilettante, condusse scavi nell'area della villa, in accordo e seguendo le indicazioni dell'allora Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria.
Tra il 1991 e il 2002 fu restaurato il mosaico del Labirinto, poi esposto al Museo Archeologico Nazionale di Firenze.
La villa che fino ad allora era di proprietà del conte Gualtiero Adami (noto come Il Garibaldino), nel 2004 fu messa all'asta e quindi messa in sicurezza dalla Regione Toscana dal ministero dell'Ambiente, che esercitarono il diritto di prelazione.
Nel 2022, dopo lunghi anni di restauri condotti dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Arezzo, Siena e Grosseto , susseguitisi ad anni di abbandono e degrado, e che hanno comportato anche l'abbattimento di costruzioni moderne, sono tornate visitabili tre stanze della villa.


Toscana - Toscana - Villa romana delle Grotte

 


La villa romana delle Grotte è un'antica domus romana che sorge sul promontorio affacciato sul golfo di Portoferraio, a dominare tutto il braccio di mare compreso tra il litorale di Piombino e l'approdo di Portoferraio e a fronteggiare la Villa romana della Linguella, che chiude la rada dall'altro lato.
La villa delle Grotte venne costruita alla fine del I secolo a.C. su un podium, in parte naturale ed in parte artificiale; nella prima metà del I secolo d.C. è interessata da una ristrutturazione, che avvia la seconda fase di vita della villa riferibile alla tarda età augustea e tiberiana. L'edificio venne probabilmente abbandonato alla fine del I secolo d.C., poiché nessun reperto trovato si spinge oltre questo periodo. I materiali archeologici rinvenuti sono piuttosto limitati, a testimonianza di un abbandono programmato e con un vero e proprio trasloco dei beni più preziosi, fatto che spiegherebbe l'assenza di materiali e decorazioni di maggior pregio, di cui sicuramente la villa era dotata.
Una nuova fase interessa la villa tra la fine del IV secolo e gli inizi del VI secolo, in piena età tardo antica: si tratta forse di piccole comunità monastiche o eremiti, diffusi in questo periodo in tutte le isole dell'Arcipelago toscano, che riadattarono alcuni ambienti per farne i loro modesti rifugi. In seguito la villa subirà un abbandono completo e un lento declino ma, grazie alla solidità delle strutture, volte e pareti dovettero sempre restare in parte visibili: a partire dal XVIII secolo i ruderi attrassero infatti l'interesse di tanti viaggiatori e di eruditi locali, e vennero rappresentati in alcune riproduzioni della città di Portoferraio. Sono proprio le volte del podio su cui si erge la villa, così simili a «grotte» per chi si avvicinava dal mare, ad avere originato il nome della villa stessa.
Nel 1728 la testimonianza di Antonio Sarri, ingegnere presso il granduca Cosimo III de' Medici, assicura che tra le vestigia della domus si potevano ancora vedere statue, colonne, arredi marmorei e resti di cornicioni. La struttura quindi, sebbene in abbandono, era ancora sufficientemente leggibile. Durante la guerra iniziata all'Elba nel 1799 tra i francesi impadronitisi di Portoferraio e il Regno di Napoli che controllava Porto Longone, il promontorio delle grotte costituì un importante punto strategico per la posizione rispetto alla città di Portoferraio; è presumibile che per l'installazione di batterie militari sulla villa siano stati rasati al suolo i muri degli ambienti che si sviluppavano sulla sommità del promontorio e quelli che delimitavano il giardino. Nel 1901 fu riconosciuta come sito di ruderi d'importanza regionale per la Regia Soprintendenza, ma solo nel 1960 si avviò la ricerca archeologica per indagare la complessità del sito, guidata dall'archeologo Giorgio Monaco, Direttore dei beni archeologici dell'isola.
Per la sua posizione e lo sviluppo architettonico può essere annoverata tra le lussuose villae maritimae che costellavano tutte le isole dell'Arcipelago toscano, costruite da nobili esponenti delle classi aristocratiche di Roma per il riposo e lo svago dagli impegni politici della capitale.
L'edificio, che si estendeva complessivamente su una superficie di due ettari, era ripartito su due livelli: sul pianoro si trovavano la parte residenziale, dotata di un avancorpo affacciato sul mare, e un grande giardino rivolto verso i fianchi della collina; il piano inferiore era costituito da una doppia struttura di terrazzamento, articolata in archi e portici, che circondava la villa sui tre lati panoramici. L'ingresso si trovava in corrispondenza di un grande giardino rettangolare (hortus), fiancheggiato da un portico coperto (ambulatio), che doveva proteggere dalla calura estiva o dai venti nella stagione più fredda, da cui si accedeva ai quartieri residenziali del piano superiore. Punto panoramico privilegiato della villa era la grande piscina posta al centro dell'area residenziale, percorsa da un grande condotto in muratura e circondata su tre lati da un ampio giardino delimitato da un portico colonnato (peristilium): un porticato decorato con lastre di terracotta a vari soggetti, tra cui prevale il motivo di Psiche tra suonatori di cetra e di aulos (visibile al Museo archeologico della Linguella) e impreziosito inoltre da intonaci con soggetto vegetale, a dare l'impressione di uno spazio verde ancora più grande di quello racchiuso dal porticato stesso.
Sul lato meridionale la vasca terminava in un'esedra semicircolare e, per tutta la sua lunghezza e al centro di essa, correva un grande condotto in muratura: l'acqua doveva giungere alla vasca da una cisterna posta su un livello superiore posta all'estremità dell'ampio giardino rettangolare (oggi al di là dell'attuale strada provinciale) e che era servita da un acquedotto di tubi di terracotta alimentato da una sorgente situata sul vicino Monte Orello; probabilmente l'acqua ricadeva dall'alto, per venire poi raccolta dal condotto che attraversa la vasca nel senso della lunghezza e andava a sfociare nella terrazza sottostante, sul lato mare, anch'essa sistemata a giardino e conclusa al centro da un ninfeo. All'estremità nord del bacino una serie di stanze, probabilmente i due quartieri del dominus e della domina, erano disposti simmetricamente ai suoi lati, lungo la linea del litorale.
La villa venne costruita utilizzando la tecnica edilizia dell'opus reticulatum, di grande effetto cromatico, i cui cubilia verde scuro furono ricavati da rocce ofiolitiche estratte dallo stesso sito, e quelli grigio chiaro dai calcari della costa nord circostante. Tutto il quartiere residenziale era accuratamente decorato, secondo i gusti correnti in quel periodo nella capitale: le stanze erano affrescate o rivestite di marmi colorati, soprattutto marmo bianco e cipollino dell'Elba. Il tetto a travi lignee era coperto da tegole smarginate di un rosso vivo, anch'esse di bell'impatto cromatico anche a lunga distanza. Al sottotetto era applicato un controsoffitto in canne rivestite in intonaco e sorrette da una leggera intelaiatura e gli angoli tra pareti e soffitto erano decorati con cornici modanate in stucco. Le pareti erano coperte da intonaci dipinti con impressioni prospettiche varie o con motivi floreali ed in alcuni ambienti erano inoltre applicate crustae marmoree, in palombino e cipollino. Le decorazioni pavimentali erano realizzate a mosaico in bianco e nero, mentre nei vani di maggior prestigio erano preferite pavimentazioni costituite da formelle in marmo e pietra di forma geometrica (triangoli, esagoni, quadrati, rombi) che, alternando il bianco, il nero ed il verde (marmo, ardesia e cipollino), venivano a creare motivi a nido d'ape, a reticolo, a stella.
Nella prima metà del I secolo d.C. la villa venne interessata da alcune opere di ristrutturazione e di riconversione di alcuni ambienti: il terrazzo inferiore venne per buona parte occupato da zone di servizio coperte o da vani completamenti chiusi, che avevano l'unico scopo di sostenere le strutture residenziali poste al piano superiore. Tali ambienti vennero raccordati da nuovi corridoi e collegati all'area superiore attraverso la realizzazione di due scale, che costituivano anche l'ingresso principale della villa. A questa fase va riferita anche la costruzione di piccolo quartiere termale, impreziosito da pavimentazioni a mosaico e lastrine marmoree. Esso era costituito di quattro stanze: il calidarium, ambiente dotato di doppia pavimentazione con suspensurae; il frigidarium, posto all'altro estremo, con piccola vasca semicircolare per i bagni freddi; l'apodyterium e il tepidarium, stanze intermedie che potevano essere utilizzate come spogliatoi e ambienti di passaggio graduale dal caldo al freddo. Il rifornimento idrico necessario al funzionamento termale era garantito da una cisterna sotterranea, articolata in tre stanze e rivestita in cocciopesto, un impasto di malta e laterizi frantumati che garantiva l'impermeabilizzazione delle pareti e del pavimento.
All'esterno, l'inserimento della villa nell'ambiente circostante e l'effetto che doveva suscitare a chi si avvicinava sia dal mare che dalla terra era accuratamente studiato: le esedre disposte lungo il muro perimetrale sul lato del mare (funzionali sia al contenimento del terreno che come effetto scenografico) e la policromia del muro di terrazzamento, con pietre di colore verde scuro e bianche alternate, dovevano caratterizzare fin da lontano l'importanza e il prestigio della residenza.
Mentre per le lussuose ville marittime costruite nelle isole del Giglio, di Giannutri e di Pianosa non mancano indizi archeologici o fonti scritte che permettano di attribuire la proprietà di tali residenze, per l'Elba è invece ancora difficile definire quali siano state le personalità a scegliere l'isola come luogo per le loro dimore. Tuttavia il celebre poeta Ovidio, in una delle epistole destinate a Massimo Cotta (Ex Ponto, II, 3, vv. 83-84) ricorda all'amico il loro ultimo incontro, avvenuto all'Elba nell'8 d.C., alla vigilia della partenza del poeta per l'esilio; questi è il figlio minore di M. Valerius Messalla Corvinus, che essendo stato adottato dallo zio materno M. Aurelius Cotta ne ha assunto il nome (L. Aurelius Cotta Maximus Messallinus). Come già osservato dalla studiosa Orlanda Pancrazzi, senza avere altri indizi oltre le parole di Ovidio, sull'isola Massimo Cotta doveva possedere una residenza degna del suo alto rango che, verosimilmente, poteva riconoscersi in una delle tre monumentali ville marittime note, quella della Linguella, di Capo Castello e delle Grotte.
Grazie al rinvenimento di alcune testimonianze epigrafiche nella pars rustica individuata grazie alle ricerche archeologiche nella Piana di San Giovanni, condotte dall'Università degli Studi di Siena, è stato possibile ricavare preziose indicazioni sulla proprietà degli edifici scavati e, dunque, della vicina villa marittima delle Grotte, verosimilmente appartenenti al patrimonio dei Valerii Messallae: due dei dolia interrati finora individuati nell'ambiente produttivo presentavano infatti due bolli in planta pedis che, sebbene frammentari, hanno consentito di recuperare l'intero contenuto testuale con il nome del produttore: H˚ermia V˚a(leri) M(arci) s(ervus) / fecit. La proprietà faceva quindi capo a Marcus Valerius Messalla, princeps senatus e protettore delle lettere e delle arti, tanto da essere ricordato come il fondatore del Circolo di Messalla; il fundus sarebbe passato poi al figlio Aurelius Cotta Maximus Messallinus, che avrebbe avuto come ospite il poeta Ovidio prima della partenza di quest'ultimo per l'esilio nel Mar Nero.


Toscana - Tempio di Talamonaccio


Il tempio di Talamonaccio era un tempio etrusco risalente alla fine del IV secolo a.C. situato su poggio Talamonaccio, nei pressi di Fonteblanda e Talamone, frazioni di Orbetello, nella provincia di Grosseto, in Toscana.
Ne rimangono dei ruderi. Il tempio di Talamonaccio fu fondato durante il periodo ellenistico etrusco, contemporaneamente alle lotte finali tra le città etrusche e Roma, ed è stato usato anche dopo la conquista romana.
Il tempio etrusco, posto su un alto basamento di pietra (podio), era chiuso sul retro come tutti i templi etruschi. La cella che ospitava la statua della divinità era preceduta da un portico con colonne (pronao). Il tetto a due falde era costituito da travi di legno ricoperte da tegole e coppi. Le parti lignee esposte alle intemperie erano protette da decorazioni in terracotta (acroteri e antefisse) fissate ai supporti con chiodi.
Sulla facciata posteriore si trovava il famoso frontone del 150 a.C., raffigurante la battaglia fratricida tra Eteocle e Polinice, figli del re Edipo, in lotta per il possesso della città di Tebe (questo frontone, in parte ricostruito, è esposto a Orbetello).
Della decorazione della facciata anteriore rimangono solo alcuni frammenti non ricostruibili.

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