giovedì 3 aprile 2025

Lazio - Roma, Musei / Crepereia Tryphaena, Centrale Montemartini

 

Crepereia Tryphaena era il nome di una giovane donna, presumibilmente di circa 18 anni, il cui sarcofago fu rinvenuto durante i lavori di scavo iniziati nel 1889 per le fondazioni del Palazzo di Giustizia di Roma e per la costruzione del ponte Umberto I sul Tevere.
Durante lo scavo vennero alla luce diversi reperti archeologici, tra i quali due sarcofagi ancora sigillati intitolati a personaggi della stessa famiglia: Crepereia Tryphaena e Crepereius Euhodus. Sulla cassa in marmo del sarcofago dedicato a Crepereia Tryphaena era «incisa di bassissimo rilievo una scena allusiva alla morte della fanciulla. La quale vi è rappresentata dormente sul letto funebre, con la testa appoggiata sulla spalla sinistra. Sulla sponda del letto, dalla parte de' piedi, è seduta una matrona velata, con lo sguardo fisso sulla defunta. Presso il capezzale figura virile clamidata, atteggiata a profondo dolore.»
Il corredo funebre, presente solo nel sarcofago di Tryphaena, appariva molto ricco di ornamenti d'oro e deposta accanto al suo scheletro vi era una bambola d'avorio, inizialmente creduta di legno di quercia, di pregevole fattura e snodabile in alcune articolazioni.
Tryphaena fu identificata come una fanciulla vissuta nella metà del II secolo d.C. che si presentò agli occhi dei Romani accorsi, alla notizia dell'eccezionale ritrovamento, la mattina del 12 gennaio 1889 presso il ponte Umberto I, come una divinità fluviale. All'apertura del sarcofago (nella foto a sinistra) infatti, la giovane donna, sommersa nell'acqua proveniente dal vicino fiume Tevere, appariva come una ninfa. Lasciò scritto l'archeologo Rodolfo Lanciani presente agli scavi:
«Tolto il coperchio, e lanciato uno sguardo al cadavere attraverso il cristallo dell' acqua limpida e fresca, fummo stranamente sorpresi dall'aspetto del teschio, che ne appariva tuttora coperto dalla folta e lunga capigliatura ondeggiante sull'acqua. La fama di cosi mirabile ritrovamento attrasse in breve turbe di curiosi dal quartiere vicino, di maniera che l'esumazione di Crepereia Tryphaena fu compiuta con onori oltre ogni dire solenni, e ne rimarrà lunghi anni la memoria nel rione Prati. Il fenomeno della capigliatura è facilmente spiegato. Con l'acqua di filtramento erano penetrati nel cavo del sarcofago bulbi di una tal pianta acquatica che produce filamenti di color d'ebano, lunghissimi, i quali bulbi avevano messo di preferenza le loro barbicine sul cranio. Il cranio era leggermente rivolto verso la spalla sinistra e verso la gentile figurina di bambola[…]»
Tra gioielli di Tryphaena fu ritrovato al dito della giovanetta un anello con incisa la parola "Filetus" che fece immaginare a Giovanni Pascoli che fosse il nome del suo promesso sposo mancato poiché la presenza della bambola nel corredo funebre faceva pensare che fosse morta alla vigilia delle nozze non avendo fatto in tempo a donare i suoi giocattoli agli dei per la cerimonia di "addio all'infanzia".
Per l'occasione Pascoli compose una poesia in latino che donò in occasione delle nozze alla figlia dell'onorevole Benzoni, allora ministro della pubblica istruzione e suo amico e protettore in Roma:
«Ti nascondevi, o fanciulla, nell' acqua trasparente,
e sull'onda nuotavano i tuoi capelli di felce.
Avevi concesso alla notte oscura
il privilegio di scioglierli?
e sull'onda nuotavano i tuoi capelli di felce.
Avevi concesso alla notte oscura
il privilegio di scioglierli?»
Fin dal ritrovamento la bambola apparve non come un comune giocattolo ma come un'opera d'arte dal viso finemente scolpito, quasi fosse un ritratto, con un'acconciatura tipica della moda romana dei tempi di Marco Aurelio e Faustina minore. Inoltre risaltava l'abilità tecnica dell'artigiano che l'aveva creata nel corpo snodabile con gambe e braccia collegate al tronco con piccoli perni.
La bambola fu trasferita inizialmente nell'Antiquarium comunale, poi nel caveaux dei Musei Capitolini, mentre ora è conservata alla Centrale Montemartini di Roma, dov'era già stata esposta dal 1 giugno 2016 all'8 gennaio 2017.
Dal 22 febbraio al 17 aprile 1983 la bambola fu al centro di una mostra allestita a Palazzo Madama a Torino.

Lazio - Roma, Musei / Sarcofago "Grande Ludovisi", Palazzo Altemps

 


Il sarcofago "Grande Ludovisi" è un'opera del III secolo conservato a palazzo Altemps a Roma. È alto 1,53 metri, largo 2,73 m e profondo 1,37 m.
Si tratta di una delle opere della scultura romana più famose e controverse, proveniente da una tomba presso la Porta Tiburtina, scoperta nel 1621. Il coperchio, esposto a Magonza, ha subito danni nel 1945: vi sono raffigurate scene di barbari sottomessi e una figura femminile in busto contro un parapetasma (tendaggio).
La cassa, tratta ad altorilievo, è decorata da una grandiosa scena di battaglia tra Romani e barbari (forse i Daci, a giudicare dall'abbigliamento). La convulsa scena è organizzata su quattro piani: i due inferiori sono occupati da barbari a cavallo o a piedi, feriti, morenti o morti; i due superiori da soldati o cavalieri romani impegnati a finire gli avversari o a combattere i nemici residui.
La superficie è animata da un groviglio di figure, tra le quali non si riesce a cogliere un vero e proprio duello (una "monomachia", come nel sarcofago Amendola), ma un accatastarsi di guerrieri, tra i quali spicca al centro la figura dal condottiero a cavallo, con un braccio alzato che fa cenno alla travolgente avanzata che proviene dall'angolo destro e che indirizza su di lui l'attenzione dell'osservatore.
Il personaggio è ritratto in maniera precisa, con la testa barbuta ed espressiva e con un segno di croce a "X" sulla fronte (riconoscimento dell'iniziazione mitraica) che ha permesso di identificarlo con uno dei figli di Decio, Ostiliano (morto di peste, del quale si conoscono altri due ritratti con lo stesso segno di iniziazione e con tratti somatici simili) o più probabilmente il maggiore, Erennio Etrusco, che morì in battaglia insieme al padre ad Abrittus contro i Goti di Cniva (nel 251).
L'opera è caratterizzata da una sapiente composizione che si avvale di linee orizzontali e verticali, che si intersecano su tutto il campo, senza "agglomerati" e zone vuote. Inoltre il rilievo delle figure crea un fittissimo chiaroscuro, con variazioni di effetti a seconda dei materiali scolpiti (panneggi, capigliature, criniere, corazze e cotta di maglia del soldato all'estrema destra), con un frequente uso del trapano.
Confronti si possono fare con opere attiche coeve, anche se il soggetto e la composizione può definirsi peculiarmente romana, in una sorta di preparazione alla rinascenza classicista dell'arte nell'età di Gallieno.


Lazio - Roma, Musei / Musei Capitolini di Roma: le Sale Castellani

 

In queste tre sale (X, XI e XII) sono esposti oggetti provenienti dalle donazioni di Augusto Castellani degli anni 1867 ("raccolta di vasi tirreni") e 1876 (vasta collezione di oggetti antichi). Qui giunti, per mantenere l'ordine concettuale della visita è opportuno ritornare allo scalone d'ingresso. Augusto Castellani fu un orafo, collezionista e mercante antiquario attivo a Roma, con una grande clientela internazionale. A differenza del fratello Alessandro, l'obiettivo della sua attività fu principalmente - e rimase sempre - quello di incrementare la propria collezione che, come egli stesso affermò, "deve restare a Roma". Al momento dell'unità d'Italia, Augusto partecipò attivamente all'instaurazione della nuova capitale, contribuendovi anche come membro fondatore della Commissione archeologica comunale (che in quegli anni di febbre edilizia ebbe a disposizione una impressionante quantità di nuovi reperti), e del Museo Artistico Industriale di Roma, fondato nel 1872 dai
due Castellani e dal principe Baldassarre Odelscalchi, sul modello degli analoghi di Parigi, Londra e Vienna. In questo contesto fu anche nominato, dal 1873, direttore onorario dei Musei Capitolini.
La collezione Castellani comprende 700 reperti circa, provenienti dall'Etruria, dal Latium vetus e dalla Magna Grecia, in un arco cronologico che va dall'VIII al IV secolo a.C.. Il primo gruppo di reperti era costituito dai ritrovamenti delle necropoli etrusche di Veio, Cerveteri, Tarquinia e Vulci, oltre a siti laziali come quelli di Palestrina, di alcuni centri della Sabina e dell'agro falisco (Civita Castellana), oltre ovviamente a Roma stessa. Il fratello Alessandro cedette ad Augusto molti materiali provenienti dalle sue collezioni campane e dell'Italia meridionale.
Le sale sono così organizzate: nella prima sono state ordinate le ceramiche, comprese quelle importate dalla Grecia, nella seconda quelle prodotte localmente. I numerosi vasi attici trovati soprattutto nelle necropoli etrusche permettono così agli archeologi di ricostruire della storia della produzione artistica, non solo dell'antica Grecia, ma anche di tutte le altre civiltà presenti nel Mediterraneo dei secoli VIII-IV a.C.

Nelle foto:
- Achille e Aiace giocando a un gioco da tavolo. Oinochoe a figure nere (530 a.C.)
- Donna con la domestica. Lekythos attico a fondo bianco


Lazio - Roma, Musei / Horti Lamiani

 
Gli Horti Lamiani erano giardini di eccezionale rilievo storico-topografico situati sulla sommità del colle Esquilino a Roma, nell'area grossomodo corrispondente all'attuale piazza Vittorio Emanuele II (Rione Esquilino).
Inizialmente di proprietà del console del 3 d.C. Lucio Elio Lamia, furono trasferiti nel demanio imperiale forse già sotto Tiberio (14-37) ed in seguito acquisiti da Caligola (37-41), che vi stabilì la propria residenza e vi fu anche seppellito per breve tempo dopo la morte.
Sappiamo che erano confinanti con gli Horti Maecenatis e che sotto Claudio (41-54) essi, riuniti agli Horti Maiani, furono amministrati da un apposito soprintendente (procurator hortorum Lamianorum et Maianorum).
A partire dal XVI secolo il sito fu teatro di importanti scoperte archeologiche ed antiquarie, come il Discobolo Lancellotti al Museo Nazionale Romano e le "Nozze Aldobrandini" alla Biblioteca Apostolica Vaticana, ma la maggior parte delle scoperte avvennero sul finire del XIX secolo durante i lavori di urbanizzazione del nuovo quartiere Esquilino, quando furono documentati da Rodolfo Lanciani in maniera frammentaria ed affrettata alcuni nuclei della proprietà imperiale, poi sacrificati
sotto la spinta dell'urgenza edilizia.
Le decorazioni del complesso imperiale includevano pregevoli affreschi con pitture di giardino, rivestimenti architettonici in crustae marmoreae realizzate con raffinati intarsi di marmi colorati e decorazioni parietali in bronzo dorato con gemme incastonate.
Il complesso restituì anche importanti gruppi scultorei, come la ben nota Venere Esquilina assieme a due ancelle (o Muse) ed il ritratto di Commodo-Ercole fiancheggiato da tritoni marini (entrambi ai Musei Capitolini). Altri importanti ritrovamenti scultorei collegabili con la residenza imperiale avvennero nella zona di piazza Dante (cosiddetto Ephedrismòs nei Musei Capitolini) e presso il complesso termale di via Ariosto (statue alla Centrale Montemartini).
La villa si articolava scenograficamente in padiglioni e terrazze, adattandosi all'altimetria dei luoghi, secondo il modello culturalmente egemone della reggia di tradizione ellenistica armonicamente inserita nel paesaggio naturale.
L'unitarietà del contesto archeologico è stata restituita da
Maddalena Cima e da Eugenio La Rocca in occasione della mostra Le tranquille dimore degli dei; la ricostruzione archeologica dei disiecta membra del complesso, rinterrato o peggio ancora distrutto per l'urgenza dei lavori umbertini di Roma Capitale, si è basata sulle testimonianze di Rodolfo Lanciani, sui resoconti di scavo e sui materiali conservati principalmente nei depositi comunali.
Gli scavi estensivi effettuati nel 2006-2009 sotto la sede dell'ENPAM hanno rimesso in luce alcuni settori finora sconosciuti degli Horti Lamiani, prossimi all'area dove Lanciani aveva documentato un lungo criptoportico dotato di un pavimento in alabastro e di preziose decorazioni parietali,
scandito da colonne in marmo giallo antico con basi in stucco dorato, il cui arredo trova riscontro nella testimonianza delle fonti letterarie. Altri ritrovamenti collegabili con la residenza imperiale sono avvenuti nel corso degli scavi di ammodernamento della Metropolitana di Roma (Linea A) nel quadrante meridionale dei giardini di piazza Vittorio Emanuele II fra gennaio 2005 e novembre 2006.
Il settore individuato sotto la sede dell'ENPAM si sviluppa intorno ad un'aula di rappresentanza (400 m²), originariamente rivestita da sectilia, dotata di ambienti di servizio e d'una fontana. Il complesso, riferibile a diverse fasi edilizie, è articolato in terrazze-giardino contenute da strutture in opera reticolata, con un tratto di strada basolata connesso alla via Labicana, forse il limite della proprietà.
L'aula va attribuita agli interventi di Alessandro Severo (222-235), testimoniati all'Esquilino anche dalla costruzione dei "Trofei di Mario" (Nymphaeum Alexandri) e da alcune fistulae
aquariae che provano l'esistenza d'un complesso rientrante nel patrimonio personale dell'imperatore; raffinatissimi le centinaia di frammenti d'intonaci dipinti e i materiali decorativi di pregio, databili a partire dall'impianto della residenza imperiale e recuperati nel corso dello scavo. Il nuovo settore può collegarsi al complesso scoperto da Lanciani grazie al ritrovamento di elementi marmorei decorativi identici a quelli venuti in luce nel XIX secolo, oggi conservati nei Musei Capitolini.
I livelli più antichi sono da riferire alle fasi d'impianto della villa e, ancor prima, alla necropoli esquilina, ben attestata dalle fonti letterarie e in età moderna dagli studi di Giovanni Pinza.
I primi scavi compiuti nell'area degli Horti Lamiani risalgono alla fine del XIX secolo e rimisero in luce i resti di un vasto ed articolato complesso edilizio. Dall'analisi delle notizie d'archivio e delle piante dei ritrovamenti confluite nella preziosa e monumentale Forma Urbis Romae di Rodolfo Lanciani è
possibile tracciare un quadro approssimativo dello sviluppo edilizio della villa.
Lanciani fu il supervisore dello scavo eseguito dalla Commissione archeologica comunale di Roma e lasciò una vivida testimonianza delle attività di scavo archeologico dell'area: «Ho visto una galleria di settantanove metri di lunghezza, il cui pavimento era costituito dalle più rare e costose varietà di alabastro e il soffitto sorretto da ventiquattro colonne scanalate di giallo antico, poggiate su basi dorate; ho visto un altro ambiente, pavimentato con lastroni di occhi di pavone, le cui mura erano ricoperte da lastre di ardesia nera, decorate da graziosi arabeschi eseguiti in foglia d'oro; e ho visto infine una terza sala, il cui pavimento era composto da segmenti di alabastro, incorniciati da paste vitree verdi. Nelle pareti di essa erano tutt'intorno vari getti d'acqua distanti un metro l'uno dall'altro, che dovevano incrociarsi in varie guise, con straordinario effetto di luce. Tutte queste cose furono scoperte nel novembre del 1875» (Rodolfo Lanciani, Fascino di Roma antica, Roma, Quasar, 1986, p. 156)
Le scoperte descritte riguardano i rinvenimenti effettuati tra piazza Vittorio Emanuele II e piazza Dante: oggi nulla è più visibile.
Nei pressi degli stessi luoghi fu rinvenuto nel 1874 un gruppo di capitelli di lesena, probabilmente pertinenti alla decorazione architettonica di uno degli ambienti descritti; la lavorazione è raffinatissima, una lastra di marmo rosso antico (marmo del Tenaro) accoglie una decorazione ad intarsio di pietre dai colori contrastanti. Un lusso stupefacente degno di un imperatore “eccessivo” come Caligola.
Nel dicembre dello stesso anno durante i lavori di realizzazione del sistema fognario di via Foscolo, il terreno cedette e diede
accesso ad una camera sotterranea piena di statue. La prima a comparire fu una testa di Bacco semi colossale, coronata di edera e corimbi; poco a poco lo scavo fu allargato e vennero alla luce altre sculture: il corpo semidisteso del Bacco, di cui era stata in precedenza trovata la testa; i busti di due Tritoni, sui capelli dei quali erano conservate tracce di doratura; il magnifico busto di Commodo e le varie parti della complessa allegoria che costituisce la sua base. Sempre nello stesso ambiente furono rinvenute anche due statue di Muse e la statua di Venere che si prepara ad entrare nel bagno allacciandosi un nastro intorno ai capelli e infine molti pezzi di altre sculture: braccia, gambe, mani e teste.
Secondo Lanciani queste sculture «dovevano essere cadute per la rottura delle volte del piano superiore che era il piano nobile dell'edifizio e trovavasi al livello del suolo antico» (Rodolfo Lanciani, Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma 3, 1875, p. 14)
In realtà la concentrazione in un unico vano di un gruppo di opere di natura e datazione assai diverse, piuttosto che alla decorazione di un unico ambiente, fa pensare ad un deposito in occasione di una ristrutturazione dell'edificio o per proteggerle da un pericolo imminente.
Molti degli oggetti ritrovati provengono dalla Grecia e testimoniano il gusto collezionistico dei proprietari della villa. Tra questi due stele funerarie e un singolare gruppo dell'Ephedrismòs databile al IV secolo a.C. proveniente dalla città di Tegea con due fanciulle intente alla “corsa alla cavallina”. La scultura fu rinvenuta nel 1907 in piazza Dante durante i lavori per la costruzione del Palazzo delle Poste «che hanno rimesso in luce un gran complesso di edifici, a quanto pare, di epoca bassa, costruiti con materiale vecchio e con frammenti di marmi scolpiti.» (Lucio Mariani, L'Ephedrismòs di piazza Dante, Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma 35, 1907, p. 34)
Nel 1874 alcuni scavi compiuti in via Ariosto avevano portato in luce un piccolo impianto termale databile attraverso i bolli di mattone agli ultimi decenni del III secolo Nel momento in cui fu deciso l'abbattimento di tale edificio, gli archeologi si trovarono davanti a una moltitudine di frammenti di sculture[ con i quali fu possibile addirittura ricomporre una raffinatissima tazza di fontana di età tardo repubblicana decorata con elementi vegetali inseriti all'interno di un disegno creato da tralci d'acanto. Dai muri delle terme riapparvero altri frammenti di sculture e un'iscrizione che in origine doveva appartenere alla base di una statua con la firma di un artista di Afrodisia. Le sculture conservavano tutte tracce di colore e di doratura.
I lavori per la Linea A della Metropolitana hanno consentito
nel 2005-2006 la scoperta di un nuovo settore degli horti in corrispondenza all'angolo sud-orientale di piazza Vittorio Emanuele II. Lo scavo della Soprintendenza Archeologica di Roma ha indagato un'area di 160 m² nella quale sono stati trovati degli ambienti in cui si succedono ben sette fasi edilizie, tra gli ultimi decenni del I secolo a.C. e l'età tardo antica. Alcuni degli edifici tardo repubblicani poggiano sui resti di un recinto sepolcrale costruito in opera quadrata di blocchi di tufo; questo sembra confermare i dati attestati nelle fonti antiche, secondo cui gli horti dell'Esquilino sarebbero sorti in seguito ad un intervento di bonifica dell'antica necropoli da parte di Gaio Cilnio Mecenate.
Altri resti attribuibili al possente sistema d'imbrigliamento sostruttivo degli Horti Lamiani sono emersi tra luglio 2011 e novembre 2012 in occasione di alcuni lavori di risanamento del Palazzo delle Poste in piazza Dante, 25. Le strutture, conservate a livello di fondazione, seguono le curve di livello del colle Esquilino, ampliandole. Furono in precedenza viste da Rodolfo Lanciani e annotate nella Forma Urbis Romae.






Nelle foto, dall'alto:
- Discobolo Lancellotti, dalla villa Palombara (Horti Lamiani), Museo Nazionale Romano
- Torso di Tritone o Centauro marino da via Foscolo (Musei Capitolini, Sala degli Orti Lamiani)
- Torso di Bacco da via Foscolo (Musei Capitolini, Sala degli Orti Lamiani, età antonina)
- Testa di giovane (Efesto?) con tracce di doratura, trovata nel 1879 presso via Ariosto (Centrale Montemartini, Sala Macchine).
- Testa di Dionisio con la fronte cinta da un nastro. Arte romana, forse copia da scultura greca (Musei Capitolini)
- Statua femminile con chitone, copia da modello del primo ellenismo (Museei Capitolini)Roma, Centrale
- Statua di Afrodite (tipo Afrodite di Arles), copia romana da originale greco di Prassitele (360 a.C. Circa), (Montemartini. Musei Capitolini, "sala Macchine" II,18)
- Statua di fauno con cesto d'uva, marmo (Musei Capitolini)
- Statua di Eros in marmo pavonazzetto, opera adriana ispirata a modelli ellenistici (Musei Capitolini)

Lazio - Roma, Musei / Antiquarium del Palatino

 

L'Antiquarium del Palatino (anche noto come Museo Palatino) è un museo situato sul colle Palatino a Roma. Fondato nella seconda metà del XIX secolo, esso ospita sculture, frammenti di affreschi e del materiale archeologico scoperto sul colle.
Il primo Antiquarium del Palatino fu creato nella seconda metà del XIX secolo da Pietro Rosa, al piano terra di un edificio costruito dai Farnese. Esso ospitava delle sculture messe in luce durante gli scavi effettuati per conto di Napoleone III. Nel 1882 l'edificio fu demolito da Rodolfo Lanciani per consentire il collegamento fra l'area archeologica del Foro Romano e quella del Palatino. In questo frangente, le collezioni furono trasferite al Museo nazionale romano delle Terme di Diocleziano, dopo essere state catalogate da Gherardo Ghirardini.
Negli anni 1930, su iniziativa dell'archeologo Alfonso Bartoli (direttore degli scavi sul Palatino e scopritore di numerosi oggetti sul sito della Domus Augustana), fu creata una nuova sede, usando le parti rimanenti della demolita Villa Mills. Bartoli riuscì a riportare sul Palatino una parte delle sculture da qui provenienti che si trovavano al Museo delle Terme, e le espose in un edificio costruito a partire dal 1868 per le suore della Visitazione sopra le strutture appartenenti all'antico palazzo imperiale di Diocleziano, laddove si raccordavano la Domus Flavia e la Domus Augustana.
Le raccolte furono nuovamente spostate durante la seconda guerra mondiale per ragioni di sicurezza, divenendo poi l'oggetto di un nuovo conflitto d'attribuzione tra l'Antiquarium del Palatino e il Museo Nazionale Romano. Quest'ultimo voleva infatti mantenere al proprio interno le opere più belle. Il dicastero all'epoca competente (ovvero il Ministero dell'istruzione, proprietario di entrambe le istituzioni), diede ragione al Museo Nazionale, sostenendo che i visitatori del Palatino fossero interessati primariamente ai luoghi visitati e secondariamente al museo ivi ospitato.
La riorganizzazione del Museo Nazionale Romano, in seguito alla legge del 1981 sul patrimonio archeologico di Roma, determinò dunque il ritorno all'Antiquarium dei materiali ritrovati sul Palatino. Il museo è stato interamente riorganizzato sotto l'egida della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma per presentare un panorama dei gusti artistici imperiali da Augusto alla tarda antichità.
Dal 2016, con l'istituzione del Parco archeologico del Colosseo, l'Antiquarium del Palatino è passato alle pertinenze dell'ente suddetto.
L'edificio comprende due piani, ciascuno composto da quattro stanze. Il piano terra è dedicato al Palatino dalle origini all'epoca repubblicana, mentre il primo piano è dedicato alle opere di epoca imperiale.
Piano terra

Le sale dalla I alla III racchiudono oggetti di pietra (sala I), che attestano una frequentazione umana del Palatino a partire dal Paleolitico medio e, proseguendo, nel Paleolitico superiore. Sono pure state rinvenute le tracce di un villaggio di capanne risalente almeno all'VIII secolo a.C.: esse consistono in vasi e altri utensili realizzati in impasto, di fabbricazione locale. Tra l'altro, le sale comprendono anche i modelli delle capanne, il contenuto di una tomba infantile datata al principio del VII secolo a.C. e un muro che permette la ricostruzione della stratigrafia della capanna A, cioè le diverse scoperte ordinate dalle più recenti alle più antiche, seguendo l'ordine in cui sono state rinvenute.
Nella sala IV sono esposte le opere di epoca arcaica e repubblicana. Fra di esse vi sono un altare dell'epoca di Silla dedicato "a un dio o a una dea", formulazione vaga che si ritrova altrove e che probabilmente è destinata a nascondere ai suoi nemici il vero nome del dio venerato. Sono esposte anche parecchie antefisse in terracotta policroma di varie epoche, rappresentanti Giunone Sospita e, forse, Giove e Apollo.
Primo piano
Nella sala V sono esposte opere dell'epoca di Augusto. In particolare, vi sono una statua di Hermes eclettico, che si rifà agli scultori greci Lisippo e Policleto, e una statua di atleta vittorioso in basalto, probabilmente commissionata da Ottaviano dopo la Battaglia di Azio, che rende testimonianza dei gusti classici dell'epoca. Alcune antefisse e alcune placche in bassorilievo testimoniano l'esercizio dell'arte della terracotta, ereditata dagli Etruschi. Un affresco, portato alla luce nel 1950 tra gli scavi delle Scalae Caci, rappresenta Apollo coronato d'alloro, seduto su un trono, con la citara in mano, in prossimità all'omphalos.
Nella sala VI si trovano pitture e decorazioni in opus sectile provenienti dalla Domus Transitoria, fatta edificare da Nerone e poi ricoperta dalla Domus Flavia.
Le sale VII e VIII raggruppano opere a partire dall'età giulio-claudia fino alla Tetrarchia. Tra di esse vi sono parecchi ritratti, dei quali i principali sono quelli di Nerone, Agrippina Minore, Antonino Pio, Adriano e Marco Aurelio.
Vi si trova anche il celebre Graffito di Alessameno, scoperto nel Paedagogium nel 1857, trasferito dapprima al Museo kircheriano e poi al Museo Nazionale Romano, prima di essere infine restituito all'Antiquarium del Palatino nel 1946. Il disegno, grossolano nei tratti, rappresenta un personaggio dalla testa di asino crocifisso e alla sua sinistra un altro personaggio con il braccio sollevato. Le due figure sono separate da un'iscrizione in greco che recita: "Alessameno venera [il suo] dio". L'opera, datata al III secolo, diede origine a molteplici controversie. In generale, si considera che si trattasse di una raffigurazione a fini di derisione nei confronti di un cristiano accusato di praticare l'onolatria, vale a dire l'adorazione di un asino (oppure l'Onocoete), convinzione riportata anche da Tertulliano.
La sala IX è una galleria che raggruppa copie romane di statue greche, provenienti dai palazzi imperiali del Palatino.

Nelle foto, dall'alto in basso:
- Musa seduta. Marmo greco insulare, copia romana di età flaviana da un originale ellenistico. Dalla stadio del Palatino.
- Tigre in alabastro con manto a intarsio, età claudio-neroniana, 41-68 dd. C. circa, dalla Domus Tiberiana
- Torso di Hermes, copia romana del I sec. a.C. da un originale greco della sexonda metà del V sec. a.C, dall'area della Domus Augustana
- Personaggio maschile con mantello, etò giulio-claudia, dal criptopotico centrale della domus tiberiana
- Ali marmoree, età augustea, dalla Domus Tiberiana


Lazio - Roma, Musei / Horti Maecenatis

 


Gli Horti Maecenatis erano giardini di proprietà del ricco Gaio Cilnio Mecenate (Arezzo, c. 68 a.C.–8 a.C.), potente consigliere ed amico dell'imperatore Augusto, situati a Roma sul colle Esquilino nella zona dell'antica Porta Esquilina, probabilmente a cavaliere delle Mura serviane. L'area corrisponde grossomodo all'angolo sud-occidentale dell'attuale piazza Vittorio Emanuele II. Confinavano (ad est) con gli Horti Lamiani, come riportato dalle fonti letterarie.
Tra il 42 ed il 35 a.C. Mecenate realizzò i giardini e la sua villa sull'Esquilino bonificando l'area dell'antichissima necropoli che lo occupava, venendo per questo ricordato dal poeta Orazio per avere restituito ai luoghi "un tempo biancheggianti di ossa" la loro salubrità originaria. La bonifica consistette probabilmente in un interro di notevoli proporzioni, ma la memoria dell'antica destinazione funeraria del sito non volle forse essere cancellata del tutto dal potente amico di Augusto che in un settore specifico dei giardini collocò alcune pregevoli stele funerarie attiche.
Si tramanda che Mecenate sia stato il primo a costruire a Roma una piscina termale fornita di acqua calda, probabilmente da localizzare in questi giardini.
Gli horti divennero di proprietà imperiale dopo la morte di Mecenate ed il futuro imperatore Tiberio (14-37) vi soggiornò lungamente dopo il suo ritorno a Roma (2 d.C.) dall'esilio di Rodi.
Nerone li incorporò alla residenza del Palatino attraverso la Domus Transitoria e dall'alto di una torre situata al loro interno osservò probabilmente l'incendio di Roma del 64.
I giardini confinavano con le proprietà di Lucio Elio Lamia (Horti Lamiani), sebbene sia arduo conciliare le indicazioni topografiche fornite dagli autori antichi per determinare i loro esatti confini e la loro precisa collocazione. I topografi non sono concordi sul fatto che essi si estendessero su entrambi i lati dell’agger, a nord e a sud della Porta Esquilina. Il fatto, però, che numerosi puticuli (fosse comuni) dell'antica necropoli esquilina siano stati trovati presso l'angolo nord-occidentale di piazza Vittorio Emanuele II, che si trova fuori della Porta Esquilina e dell’agger e a nord della via Tiburtina vetus, induce a ritenere probabile che gli Horti Maecenatis si estendessero a nord della porta e della strada, su entrambi i versanti del rilevato difensivo di età repubblicana ormai in disuso.
Nel II secolo gli Horti Maecenatis divennero proprietà di Marco Cornelio Frontone (Cirta, 100 - Roma, 166), maestro di retorica e precettore di Marco Aurelio e Lucio Vero (sono probabilmente gli Horti Maecenatiani menzionati dal retore stesso in una sua epistola). Una fistula aquaria con il nome di Frontone fu trovata presso l'Auditorium di Mecenate, a breve distanza dal punto in cui la via Merulana moderna taglia il percorso delle Mura serviane.
L'unica testimonianza archeologica monumentale conservata della villa di Mecenate è costituita dal cosiddetto Auditorium di Mecenate, un triclinio estivo semi ipogeo decorato con pitture di giardino e arricchito con piccole sculture e fontanelle. Le pitture si datano all'epoca di Mecenate ed al primo decennio del I secolo, quando i giardini furono incorporati nel demanio imperiale.
È dubbio che la cosiddetta Casa Tonda, un sepolcro romano tardo repubblicano attestato sul percorso dell'antica via Labicana (oggi via Principe Eugenio) e ritenuto tradizionalmente la tomba di Mecenate, potesse rientrare nei confini di questi horti. Il monumento, di cui rimangono solo le fondamenta (non visibili) sull'angolo orientale di piazza Vittorio Emanuele II, fu abbattuto nel 1886, fra molte polemiche, in occasione dei lavori di sistemazione della piazza.
Le numerose opere d'arte ritrovate principalmente nelle aree delle scomparse villa Caserta e villa Palombara sul finire del XIX secolo (durante i lavori di edificazione del nuovo quartiere Esquilino) testimoniano il gusto collezionistico di Mecenate ed il lusso profuso negli arredi di questa residenza suburbana. Molte di esse si ritrovarono ridotte in frammenti riutilizzati come materiale edilizio all'interno di muri tardo-antichi, secondo una consuetudine ben attestata a Roma soprattutto sull'Esquilino.
Fra queste opere spiccano la fontana a forma di corno potorio (rhytón) firmata dall'artista greco Pontios, un raffinato rilievo con soggetto dionisiaco derivato da modelli ellenistici del II secolo a.C., la cosiddetta statua di Seneca morente, un rilievo con Menadi danzanti ispirato a modelli greci della fine del V secolo a.C., la testa di Amazzone copia di un originale datato V secolo a.C., la statua di Marsia in marmo pavonazzetto e una statua di cane in marmo verde (serpentino moschinato).
Molto significativa la presenza di un gruppo di Muse perfettamente inserite nel programma decorativo degli horti, che ben rispecchia le inclinazioni artistiche di Mecenate.
Il gruppo dell'Auriga dell'Esquilino, opera di notevole profilo artistico della prima età imperiale creata secondo lo stile del V secolo a.C., costituisce, assieme alla statua di Marsia, l'esempio di un fortunato recupero riassemblato con frammenti rinvenuti nella stessa area.
Altre opere rimarchevoli, che denotano un continuo richiamo alla civiltà artistica greca, sono rappresentate da un gruppo di stele funerarie di provenienza attica e da pregevoli copie di opere greche, quali la statua di Demetra o quella dell'Ercole combattente, da un originale della fine del IV secolo a.C.
«Nel mese di marzo dell'anno corrente (scil. 1874), fu scoperta, entro la villa già Caetani (...), la sommità di un muro di forma curvilinea con residui d'intonaco vagamente dipinto» (Rodolfo Lanciani, Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma 2, p. 137)
Inizia così la storia degli scavi degli Horti di Mecenate, con il ritrovamento del celebre Auditorium di Mecenate, ad oggi ancora l'unica testimonianza archeologica esistente della sontuosa residenza di Gaio Cilnio Mecenate.
L'edificio si presentava come una grande aula chiusa da un'abside, nello spazio della quale s'inseriva una piccola cavea formata da gradini disposti concentricamente. La suggestione indotta dalla figura di Mecenate, la cui presenza nell'area era nota attraverso le fonti letterarie, portò gli archeologi ottocenteschi a riconoscere nell'edificio una sala per recitazioni: si tentò quindi di spiegare la particolare conformazione della zona absidale come spazio destinato al pubblico che assisteva alle rappresentazioni letterarie o musicali tenute nella sala.
In realtà la collocazione dell'aula, la presenza di sistemi di adduzione idrica e di un canaletto che correva al centro della sala, fanno ritenere l'edificio un triclinio frequentato prevalentemente nella stagione estiva, ben riparato dal sole e rinfrescato dallo scorrere delle acque sui gradini.
Altre strutture attribuibili al settore residenziale della villa furono rinvenute in quegli stessi anni nell'isolato XXIX del nuovo quartiere Esquilino, adiacente all'Auditorium, all'interno del quale le scoperte di ambienti e di opere si susseguirono dal 1876 al 1880.
La situazione archeologica della zona doveva essere estremamente complessa, considerato che i giornali di scavo segnalano la presenza di più livelli di edifici. Quelli situati più in alto, in opera laterizia, erano forse pertinenti ad un impianto termale databile, secondo il giudizio del noto archeologo Rodolfo Lanciani, al III secolo. Negli strati più profondi, invece, si trovavano strutture in opera reticolata, attribuibili alla fase edilizia dell'epoca di Mecenate.
Gli edifici posteriori, realizzati sugli estradossi delle volte degli ambienti più antichi, riutilizzarono come materiale da costruzione le sculture appartenenti presumibilmente all'apparato decorativo degli horti. Ne furono trovate parecchie tra cui la bellissima statua di Marsia in marmo pavonazzetto, la statua della musa Erato, la statua di cane proveniente dall'Egitto, una splendida statua di Demetra, ecc.
Oltre a queste opere Lanciani segnalò "diversi torsi di fauni e Veneri, un vaso da fiori lavorato nella forma di un puteale e ornato da tralci di edera e fiori; un altare rotto (...), la parte inferiore di un gruppo di un eroe e di una donna panneggiata; sette erme di Bacco indiano, di filosofi, di atleti...". Insieme alle sculture c'erano anche numerosi mosaici, tra cui quelli in opus vermiculatum montati su tegole, da utilizzare come emblemata centrali di preziosi pavimenti.
Un altro notevole nucleo edilizio, comprendente sia strutture in reticolato sia muri in laterizio, fu rinvenuto nel 1914 all'incrocio tra via Merulana e via Mecenate, durante i lavori per la ricostruzione del Teatro Politeama Brancaccio. Le notizie sono estremamente scarse, ma rimane una pianta dei ritrovamenti che illustra una situazione archeologica coerente e probabilmente attribuibile, almeno in parte, all'impianto originale di un settore degli horti.
Il ricco apparato decorativo degli horti si rinvenne ridotto in numerosi pezzi riutilizzati come materiale da costruzione all'interno di muri tardo antichi, secondo una consuetudine attestata soprattutto sull'Esquilino. 
Questo è uno dei motivi per cui ancora oggi non si è in grado di ricostruire per intero il programma scultoreo degli horti e l'originaria collocazione delle statue e degli elementi ornamentali che ne facevano parte.
Appare altresì evidente lo straordinario valore artistico e culturale delle opere, che denuncia gli interessi del padrone di casa. Nel repertorio spiccano alcune bellissime creazioni d'ispirazione greca: una fontana a forma di corno potorio (rhytón) firmata dall'artista greco Pontios, rinvenuta il 15 maggio 1875 in corrispondenza dell'angolo sud-occidentale di piazza Vittorio Emanuele II, un raffinatissimo rilievo con soggetto dionisiaco e ancora un gruppo di Muse di forte ispirazione greca.


Nelle foto, dall'alto in basso:
- Statue di muse, copia romana da originale greco del V sec. ac rielaborato nel III a.C.
- Statua di Igea trovata nel 1878 (Musei Capitolini, sala degli Orti di Mecenate, 290 a.C. circa)
. Mosaico con Oreste ed Ifigenia trovato nel 1876 (Musei Capitolini, sala degli Orti di Mecenate, II-III secolo)
- Testa di Amazzone trovata nel 1874, copia romana di originale greco del V secolo a.C. (Musei Capitolini, sala degli Orti di Mecenate)
- Statua di cane in marmo verde (serpentino moschinato)
- Fontana a forma di corno potorio (rhytón) firmata dall'artista greco Pontios
- Ercole combattente
- Mani della statua di Marsyas satiro al supplizio, copia della prima età imperiale romana da un originale greco del II sec. a.C.
- Erma di Cariatide in marmo, età augustea



Lazop - Roma, Musei / Ermafrodito dormiente, Palazzo Massimo

 



L'Ermafrodito dormiente è una scultura romana in marmo (lunga 148 cm) datata al II secolo a.C., oggi conservata al Museo nazionale romano di palazzo Massimo di Roma.
La statua fu rinvenuta nel 1879 all'interno di un edificio privato sotto il Teatro dell'Opera a Roma. La statua si trovava in una nicchia murata e riempita di terra del peristilio.
Raffigura un giovane, che dorme sul proprio mantello, con la testa appoggiata sul braccio destro che fa da cuscino. Il corpo giace sul fianco. L'acconciatura è molto raffinata, con i capelli lunghi raccolti sulla nuca. La scultura si ispira forse a Eros dormiente. La veduta posteriore, con i glutei in primo piano in modo provocante, suggerisce la bellezza di un corpo femminile. La parte anteriore mostra invece l'organo sessuale maschile. Questi elementi fanno identificare la figura con l'Ermafrodito, che la mitologia greca riteneva fosse figlio di Ermes e di Afrodite. Secondo il poeta latino Publio Ovidio Nasone, era un ragazzo di grande bellezza che venne trasformato in un essere androgino dalla doppia identità sessuale, grazie all'unione soprannaturale con la ninfa Salmace.
L'opera è ascrivibile alla scultura ellenistica che immaginava statue che, a seconda della loro angolazione, potevano cambiare la loro identità sessuale.
Dell'Ermafrodito dormiente esistono versioni diverse. È probabile che tutte queste statue derivino da una celebre statua ellenistica, forse l'Hermaphroditus nobilis opera di Policle, di origine ateniese, autore di una serie di statue commissionate da magistrati romani della metà del II secolo a.C.


Lazio - Roma, Musei / Galata Ludovisi, Palazzo Altemps

 

Il Galata suicida, noto anche come Galata Ludovisi, è una copia romana in marmo (h. 211 cm) del I secolo a.C. di una statua in bronzo di Epìgono realizzata intorno al 230-220 a.C., oggi conservata al Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps di Roma. L'opera originale, assieme al Galata morente, faceva parte del Donario di Attalo, un perduto monumento trionfale sull'acropoli di Pergamo commissionato da Attalo I per celebrare la propria vittoria contro i Galati.
Il Galata Ludovisi venne ritrovato negli scavi di Villa Ludovisi. Mostra un guerriero colto nell'atto di suicidarsi conficcandosi una spada corta tra le clavicole. La punta della spada è già entrata nel corpo. È ben sorretto dalle gambe poste divaricatamente che, insieme al busto, sono protese verso destra, mentre la testa è fieramente rivolta all'indietro. Il corpo nudo, coperto solo sulla schiena da un mantello che vola dinamicamente, mostra la dettagliata muscolatura del guerriero. L'immagine è incentrata sulla parte dove, con la mano destra, si trova ad impugnare la spada già penetrata tra le clavicole. La moglie è abbandonata sulle ginocchia, ormai a un passo dal suo "sonno eterno".
La scultura evoca profonde sensazioni di eroismo e pateticità, a evidenziare il valore dei vinti e quindi, di riflesso, anche quello dei vincitori.
La statua raffigura, con grande realismo, i tratti somatici del guerriero celtico, con gli zigomi alti, l'acconciatura dei capelli, dalle folte e lunghe ciocche e i baffi (si notano solo col viso visto frontalmente). In tale gusto si nota un accento sulla particolare erudizione che circolava alla corte di Pergamo. Probabilmente la figura stante si trovava al centro del donario, per questo è fatta per essere apprezzata da molteplici punti di vista, sviluppandosi nello spazio che la circonda.


Lazio - Roma, Musei / Togato Barberini, Centrale Montemartini

 

Il Togato Barberini è una scultura romana in marmo risalente al I secolo a.C. che rappresenta un patrizio romano in toga, ritratto a figura intera, mentre tiene nelle mani i busti dei propri antenati defunti. La scultura si trova presso la Centrale Montemartini. Si sa molto poco riguardo a questa scultura, in particolare riguardo a chi essa rappresenti, ma si suppone possa trattarsi di una semplice rappresentazione dell'usanza romana di scolpire busti e maschere mortuarie di personaggi deceduti, specialmente antenati illustri delle famiglie patrizie.
Come detto, non si sa con esattezza chi sia il personaggio togato ritratto nella scultura, né tantomeno gli antenati raffigurati nei busti, tuttavia le scarpe che il togato indossa suggeriscono la sua appartenenza al patriziato romano. A partire da questa informazione, molte teorie sono state avanzate riguardo alla sua possibile identità, ma la mancanza di prove certe e di indizi chiari fa sì che queste rimangano, per il momento, solo mere speculazioni. Secondo alcuni, la figura rappresenterebbe Bruto mentre sorregge le teste dei suoi due figli, secondo altri Gaio Giulio Cesare; per altri ancora, invece, raffigura uno scultore che mostra le sue creazioni.
Ricerche recenti hanno suggerito che il personaggio centrale ritratto a figura intera sia un senatore romano, e che i busti rappresentino, appunto, i suoi antenati, come si soleva tenerli rappresentati nei larari domestici d'alto rango. Il busto di destra potrebbe raffigurare un militare di alto rango, forse un generale, poiché esso è sostenuto da un tronco di palma. Un ulteriore problema nell'identificazione del togato centrale sorse quando alcune analisi, compiute sul tipo di marmo di cui è composta la statua, hanno dimostrato che la testa e il corpo non sono parte della stessa scultura: il marmo della testa e del corpo pare siano infatti diversi per colore, composizione e tipologia (la testa sarebbe composta in marmo bianco mentre il corpo in marmo giallo). Ciò è reso ancora più evidente dall'estremità posteriore della toga e dalle caratteristiche di naso e orecchie, che sembra siano stati restaurati in un secondo momento.


Lazio - Roma, Musei / Ercole del Foro Boario

 
L'Ercole del Foro Boario, noto anche come Ercole capitolino, è una statua in bronzo dorato scoperta nel sito del Foro Boario dell'antica Roma quando i resti del tempio a lui dedicato furono demoliti durante il papato di Sisto IV (1471–84). Nel 1510 è già inventariato nel Palazzo dei Conservatori al Campidoglio dove è tuttora conservato. È probabilmente la statua di culto citata da Plinio il Vecchio nel tempio circolare, il tempio di Ercole Vincitore che si trovava nell'antico mercato del bestiame, e che presentava anche un altare all'aperto dedicato a Ercole.
La figure di Ercole ha la sua clava nella mano destra e tiene nella sinistra le tre mele del giardino delle Esperidi. Le mele lo identificano specificatamente come l'Ercole dell'occidente, il luogo dove vinse Gerione. Nelle versioni romane del mito delle fatiche di Ercole, Caco, sull'Aventino, rubò il bestiame mentre Ercole dormiva. Ercole guidò il resto della mandria vicino al luogo dove Caco aveva nascosto gli animali rubati, ed essi cominciarono a chiamarsi gli uni con gli altri. Ercole allora uccise Caco e, secondo i romani, fondò un altare dove in seguito si tenne il Forum Boarium, il mercato dei bovini.
La scultura, leggermente maggiore del reale, è un lavoro ellenistico del II secolo a.C. che, insieme all'Ercole del Teatro di Pompeo (scoperto nel 1864 nei pressi del Teatro di Pompeo e ora ai Musei vaticani), si basa sul canone della proporzioni fissato da Lisippo agli inizi del IV secolo: una figura più snella rispetto all'ideale di Fidia, con una testa in proporzione più piccola. La finezza della testa è enfatizzata dai capelli corti da atleta; è anche presente il chiasmo tipico dello stile di Lisippo, in cui il peso della figura è tutto su un piede. Nonostante la muscolatura esagerata, è netto il contrasto con il barbuto, corpulento e forse più familiare Ercole Farnese.


ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...