sabato 21 giugno 2025

ETIOPIA - Lalibela

 


Lalibela è una città nel nord dell'Etiopia famosa per le chiese monolitiche scavate nella roccia. Lalibela è una delle città più sacre dell'Etiopia, seconda solo ad Axum, e un centro di pellegrinaggi. Si trova nella regione degli Amara. A differenza di Axum la popolazione di Lalibela è quasi completamente cristiana ortodossa etiope. L'Etiopia fu una delle prime nazioni che adottarono il cristianesimo nella prima metà del IV secolo, e le sue radici storiche risalgono al tempo degli Apostoli.
È generalmente accettato, in particolare dal clero etiope, che la configurazione e i nomi dei principali edifici di Lalibela siano una rappresentazione simbolica di Gerusalemme. Questo ha indotto alcuni esperti a datare le forme delle chiese attuali agli anni successivi alla conquista di Gerusalemme da parte del Saladino nel 1187.
Lalibela è situata nella zona Semien Wollo della regione degli Amara a circa 2.500 metri sul livello del mare. È la principale città del woreda.
Durante il regno di Gebre Mesqel Lalibela (un membro della Dinastia Zaguè, che governò l'Etiopia tra la fine del XII secolo e l'inizio del XIII secolo), l'attuale città di Lalibela era conosciuta come Roha. Il re santo fu chiamato così perché uno sciame di api lo cinse alla nascita, cosa che sua madre interpretò come segno del suo futuro regno come imperatore d'Etiopia.
Lalibela, venerato come santo, visitò Gerusalemme e volle così costruire una nuova Gerusalemme come sua capitale in risposta alla conquista dell'antica Gerusalemme da parte dei musulmani nel 1187. Ogni chiesa è stata scolpita in un unico blocco di roccia a simboleggiare spiritualità e umiltà. Alla fede cristiana si ispirano molti aspetti del luogo, a cui sono stati attribuiti nomi biblici: anche il fiume di Lalibela è conosciuto come il fiume Giordano. La città rimase capitale dell'Etiopia dal tardo XII al XIII secolo.
Il primo europeo a vedere queste chiese fu l'esploratore portoghese Pêro da Covilhã (1460-1526). Al sacerdote Francisco Álvares (1465-1540), che accompagnava l'ambasciatore portoghese durante la missione di questi presso il re d'Etiopia Lebna Denghèl nel 1520, si deve questa descrizione della meraviglia suscitata dalle straordinarie chiese di Lalibela:
«Sono stanco di scrivere di più su questi edifici, perché mi pare che non sarei creduto se ne scrivessi ancora… Ma giuro su Dio, nel cui potere io sono, che tutto ciò che ho scritto è la verità.»
(Francisco Álvares)
Benché Ramusi includesse le piante di parecchie di queste chiese nella sua stampa del 1550 del libro di Álvares rimane un mistero chi ne abbia fornito i disegni. Il successivo visitatore europeo di Lalibela fu Miguel de Castanhoso che servì come soldato Cristoforo da Gama e lasciò l'Etiopia nel 1544. Dopo di lui passarono più di 300 anni prima che un altro europeo visitasse Lalibela, e fu l'esploratore Gerhard Rohlfs, tra il 1865 e il 1870. Secondo il Futūḥ al-Ḥabasha di Shihāb al-Dīn Aḥmad, Aḥmad Grāñ b. Ibrāhīm al-Ghazi bruciò la chiesa di Nostra Signora Maria di Sion di Lalibela durante la sua invasione dell'Etiopia. Tuttavia, Richard Pankhurst (1927–2017) ha espresso scetticismo su questo evento, sottolineando che sebbene Shihāb al-Dīn Aḥmad fornisca una descrizione dettagliata di una chiesa rupestre ("È stata scavata nella montagna. Anche i suoi pilastri sono stati ugualmente intagliati nella montagna."), ne menziona una sola; Pankhurst aggiunge che "ciò che c'è di speciale in Lalibela (come ogni turista sa) è che è il luogo di undici chiese rupestri e non di una sola, e sono tutte a più o meno a un tiro di schioppo l'uno dall'altra!". Pankhurst rileva altresì che le cronache reali ricordano che Aḥmad Grāñ attaccò il distretto tra luglio e settembre del 1531, ma non menzionano alcuna distruzione delle chiese leggendarie di questa città. Egli concluse che se Aḥmad Grāñ bruciò una chiesa a Lalibela è più probabile che sia stata Bete Medhane Alem e che, se l'esercito musulmano sbagliò o fu ingannato dai locali, allora la chiesa potrebbe essere Gannata Maryam, situata "10 miglia a est di Lalibela, e che ha anch'essa un porticato di pilastri tagliati nella montagna".
Le chiese scavate nella viva roccia di questa città rurale, conosciuta per esse in tutto il mondo, sono una parte importante della storia dell'architettura rupestre. Benché la loro datazione non sia ben definita, l'idea prevalente è che siano state costruite durante il regno di Lalibela, vale a dire nel corso dei secoli XII e XIII. Il sito UNESCO comprende 11 chiese, organizzate in quattro gruppi:
Il gruppo settentrionale che comprende:
  • la Biete Medhane Alem (Casa del Salvatore del Mondo), sede della Croce di Lalibela, e che si ritiene essere la più grande chiesa monolitica del mondo, probabilmente una copia di Nostra Signora di Sion in Axum;
  • la Biete Maryam (Casa di Miriam / Casa di Maria), forse la più antica delle chiese, e una replica delle Tombe di Adamo e di Cristo (foto a sinistra);
  • la Biete Golgotha Mikael (Casa del Golgota Mikael), nota per le sue pitture murali e che si dice contenga la tomba del re Lalibela);
  • la Biete Maskal (Casa della Croce);
  • la Biete Denagel (Casa delle Vergini);
Il gruppo occidentale, che comprende la sola
  • Bet Giorgis (Chiesa di San Giorgio), considerata la chiesa più finemente eseguita e meglio conservata (le due foto in alto);
Il gruppo orientale, che comprende:
  • la Bet Amanuel (Casa dell'Emmanuel), forse l'ex cappella reale (nella foto qui a sinistra);
  • la Biete Qeddus Mercoreus (Casa di S. Mercoreos / Casa di San Marco), che può essere una ex prigione;
  • la Biete Abba Libanos (Casa dell'abuna Libanos) (ultima foto in basso);
  • la Biete Gabriel-Rufael (Casa degli angeli Gabriele e Raffaele), forse un antico palazzo reale, collegato a un panificio sacro;
  • la Biete Lehem (Betlemme ebraico: בֵּית לֶחֶם, Casa del Sacro Pane).
  • Più lontano, si trovano il monastero di Ashetan Maryam e la chiesa Yimrehane Kristos, (probabile XI secolo, costruita nello stile aksumita, ma all'interno di una grotta).
Vi è una certa polemica in merito alla data di costruzione delle chiese. David Buxton ne ha stabilito nel 1970 la cronologia generalmente accettata, sottolineando che "due di esse seguono con grande fedeltà di dettagli la tradizione rappresentata da Debre Damo e Yemrahana Kristos". Dal momento che per intagliare queste strutture nella roccia viva ci deve esser voluto più tempo dei pochi decenni di regno del re Lalibela, Buxton assume che il lavoro sia durato fino al XIV secolo. Tuttavia David Phillipson, professore di archeologia africana presso l'Università di Cambridge, ha proposto che le chiese di Merkorios, Gabriel-Rufael, e Denagel siano state inizialmente scavate nella roccia mezzo millennio prima, come fortificazioni o altre strutture palaziali negli ultimi tempi del regno axumita, e che il nome di Lalibela sia stato semplicemente associato a tali strutture dopo la sua morte. D'altra parte, lo storico etiope Getachew Mekonnen attribuisce alla regina di Lalibela Masqal Kibra la costruzione di una delle chiese rupestri (Abba Libanos) come memoriale per il marito dopo la sua morte.
Contrariamente alle teorie invocate da scrittori come Graham Hancock, secondo Buxton le chiese di Lalibela non sono state costruite con l'aiuto dei Cavalieri Templari; egli asserisce infatti che esistono abbondanti evidenze del fatto che siano state prodotte esclusivamente dalla civiltà medioevale etiope. Pur notando l'esistenza di una tradizione per cui "gli abissini chiesero l'aiuto di stranieri" per costruire le loro chiese monolitiche, e ammettendo che ci sono chiari segni di un'influenza axumita in certi dettagli decorativi, egli resta assolutamente convinto dell'origine etiope di queste creazioni.
Le chiese sono comunque anche una significativa impresa dal punto di vista ingegneristico, in quanto sono state associate con l'acqua (che riempie i pozzetti accanto a molte di esse) sfruttando un sistema artesiano geologico, che porta l'acqua fino in cima alla montagna su cui la città riposa.
In un rapporto del 1970 delle dimore storiche di Lalibela, Sandro Angelini ha valutato il vernacolo dell'architettura di terra sul patrimonio mondiale di Lalibela, comprese le caratteristiche delle tradizionali case di terra e l'analisi del loro stato di conservazione.
La sua relazione descrive due tipi di alloggio rinvenuti nella zona. Un tipo sono un gruppo che si chiama "tukul", capanne rotonde costruite in pietra e di solito a due piani; il secondo sono edifici costruiti in "chika" che sono intorno. Il rapporto di Angelini comprendeva anche una classificazione degli edifici tradizionali di Lalibela, mettendoli in categorie di rating del loro stato di conservazione. 


SOMALIA - Laas Gaal

 

Laas Gaal (in somalo Laas Geel, che sta per la pozza d'acqua dei dromedari) è un complesso di grotte e anfratti del Somaliland, una autodichiaratasi repubblica internazionalmente riconosciuta solo come regione autonoma della Somalia. Famose per l'arte rupestre, le grotte si trovano in una zona rurale nella periferia di Hargheisa. Contengono alcune delle pitture rupestri conosciute più antiche del Corno d'Africa e formano il più importante sito africano di pittura rupestre del periodo neolitico. È stato stimato che i disegni di Laas Gaal risalgano all'incirca al periodo compreso tra IX-VIII millennio a.C. e III millennio a.C..
Il sito di Laas Gaal contiene grotte granitiche decorate con pitture del neolitico. Le grotte si trovano nella periferia di Hargheisa, in una zona che comprende un villaggio nomade, le colline di Naasa Hablood. Dal sito si ammira molto terreno, in cui i nomadi allevano il loro bestiame, e vivono le antilopi selvatiche.
I nomadi hanno usato le grotte come riparo durante la pioggia, e non hanno mai fatto troppa attenzione alle pitture. Il sito è ora controllato dagli abitanti locali.


Nel novembre e dicembre 2002, una squadra di ricercatori francesi svolse uno studio in Somalia settentrionale. L'obiettivo della spedizione era quello di cercare anfratti e grotte contenenti depositi sedimentari in grado di permetterne la datazione del periodo in cui, in questo luogo, apparve la produzione economica (circa tra il V ed il II millennio a.C.). Durante questo studio i francesi scoprirono le pitture rupestri di Laas Geel, analizzando una zona contenente dieci grotte. Erano in un eccellente stato di conservazione, e le pitture raffiguravano antichi uomini che alzano le mani adorando mucche senza gobbe e con tre grandi corni.
Le pitture rupestri erano note da secoli agli abitanti locali prima dell'arrivo dei francesi. L'esistenza del sito non era però stata portata all'attenzione della comunità internazionale. Nel novembre 2003 una spedizione fece ritorno a Laas Gaal, ed una squadra di esperti svolse uno studio dettagliato sulle pitture e sul loro contesto preistorico.
In Somalia settentrionale si trovano numerosi siti archeologici con arte rupestre simile, come Haylaan, Qa’ableh, Qombo'ul ed Elaayo. Molte di queste antiche strutture sono già state ampiamente studiate, un processo che potrebbe aiutare a fare luce sulla storia locale facilitandone la conservazione per i posteri.


Si pensa che le pitture di Laas Gaal siano le meglio conservate dell'intera Africa. Tra le altre cose, raffigurano mucche in abiti cerimoniali accompagnate da uomini, che si credono essere gli abitanti della regione. I colli delle mucche sono ornati con la parte piatta del guscio delle tartarughe. Alcune mucche sono raffigurate con addosso abiti decorativi. Oltre al bestiame dal lungo corno, sono disegnate anche immagini di cani domestici, altri vari canidi e giraffe.
Simon Reeve visitò la grotta durante il programma televisivo Places That Don't Exist. Colpito dall'eccellente conservazione e dai colori vibranti delle pitture, disse che «traspare il fatto che Laas Gaal sia probabilmente il più importante sito di pittura rupestre del neolitico dell'intera Africa», e che «poche persone sanno che la Somalia ospita questi tesori». Osman Bile Ali, che mostrò a Reeve il sito, descrisse le pitture di Laas Gaal come «magnifiche».

ZAMBIA - Kalambo

 
Kalambo
 è un sito archeologico dello Zambia, nei pressi delle cascate Kalambo.
La zona delle cascate, abitata da circa 250.000 anni, costituisce un importante sito archeologico. Gli scavi, iniziati nel 1953 da John Desmond Clark, hanno portato alla luce strumenti di pietra dell'età acheuleana e altri utensili, inclusa una clava di legno e strumenti da scavo. Le misurazioni al carbonio hanno permesso di stabilire che i reperti superano per età il limite massimo dei 50.000 anni, mentre la datazione con luminescenza, i resti di legno lavorato sono stati datati a circa 476.000 anni fa; i medesimi reperti lignei presentano tracce di lavorazione col fuoco. Reperti più recenti mostrano che dopo la tecnologia acheulana subentrarono quella sangoana e poi lupembana, correlate a quelle presenti nel bacino del fiume Congo. Seguirono culture magosiane (circa 10.000 anni fa) e di Wilton. Solo verso il IV secolo a.C. si insediarono nella zona popolazioni bantu.


ZIMBABWE - Grande Zimbabwe

 


Grande Zimbabwe (Great Zimbabwe in inglese, solo Zimbabwe in lingua shona) è il nome attribuito alle rovine di un'antica città dell'Africa meridionale, situata nell'odierno stato dello Zimbabwe, che proprio da queste rovine trae il proprio nome. La città era già abbandonata quando i primi esploratori portoghesi giunsero nella zona, e gran parte delle circostanze relative alla sua creazione, alla sua storia e ai motivi del suo declino sono incerte e controverse. In genere si ritiene che la città fosse il centro di un vasto impero di etnia shona, chiamato impero di Monomotapa, che controllava una vasta regione compresa fra gli odierni Zimbabwe e Mozambico.
Le rovine di Grande Zimbabwe sono il più importante monumento nazionale dello Zimbabwe e il sito fu dichiarato Patrimonio dell'umanità UNESCO nel 1986. Il simbolo nazionale del paese, l'uccello di Zimbabwe, è l'immagine di una scultura ritrovata in questo sito.
L'origine esatta del nome non è nota. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che la parola sia una contrazione di ziimba remabwe (o ziimba rebwe), che in chiKaranga (un dialetto della lingua shona) significa "le grandi case costruite con macigni". Una seconda teoria fa derivare il nome da un altro dialetto dello Shona, lo Zezuru; in questo caso, la parola "Zimbabwe" potrebbe essere una contrazione di dzimba woye, che significa "le case venerate" (espressione che in genere viene usata per riferirsi alle abitazioni o alle tombe dei capi). Se la parola deriva dalla lingua shona e non da un dialetto, infine, potrebbe essere una contrazione di dzimba dza mabwe, col significato di "case di pietra". I resoconti dei primi Portoghesi che giunsero nella zona riportano Symboa, col significato di "corte", come denominazione data al luogo dai nativi; questo dato potrebbe essere coerente con la prima interpretazione menzionata sopra, in quanto nella cultura locale i "macigni" erano spesso associati alle abitazioni dei regnanti e quindi al concetto di "corte" come potevano intenderlo gli Europei. Le rovine di Grande Zimbabwe si estendono in un'area di 7 km². Site a un'altitudine di 1 100 m s.l.m., nell'altopiano di Harare (20°16'23"S, 30°56'04"E), distano circa 250 km dalla capitale dello Zimbabwe. Sono fra le più antiche e imponenti strutture architettoniche dell'Africa del Sud precoloniale. La zona con più grande densità di rovine archeologiche è quella della moderna Bahlengwe, tra lo Zambesi a nord e nord-ovest e il medio corso del Limpopo a sud.
Complessivamente, il sito di Grande Zimbabwe comprende diversi bastioni, una torre conica, alcuni templi e altre costruzioni minori, tutte in pietra. Sebbene gli edifici siano realizzati con diversi tipi di pietra (forse in funzione dello status del proprietario), la maggior parte delle mura sono costruite da blocchi quadrangolari o trapezoidali di granito, preparati con martellatura a mezzo di utensili in pietra. Gli effetti decorativi sono stati ottenuti con lastre di roccia più scura inserite nella massa grigiastra del granito, a spina di pesce o a capriate, oppure incisi direttamente nella pietra. Non vi sono tracce di malta o cemento; la stabilità era ottenuta sfruttando l'ondulazione del terreno e la presenza di rocce su cui far poggiare le mura, o creando gradinate di sostegno.
Le rovine rivelano un piano urbanistico suddiviso in due parti: il complesso della collina e i complessi delle valli. Il complesso sulla collina era probabilmente il centro rituale della città; vi si trovano diverse aree chiuse da mura di pietra. Il re viveva in una zona più appartata (forse allo scopo di proteggerlo da malattie contagiose come la malattia del sonno), nella valle. L'edificio regale viene chiamato imba huru (il "grande recinto", talvolta detto anche impropriamente "il tempio"); la sua cinta muraria è quasi totalmente conservata. Il muro principale della cinta è alto 10 m e lungo 250 m circa, per un totale di 15 000 tonnellate di pietra.
La collocazione storica esatta delle rovine non è certa. In genere si ritiene che la maggior parte degli edifici siano stati costruiti in due fasi: fra il X e l'XI secolo la prima, e fra il XIII ed il XV secolo la seconda. Il radiocarbonio data alcuni reperti in legno a partire dal VII secolo; probabilmente si tratta di tracce della presenza umana nella zona prima dell'edificazione delle strutture in pietra. I reperti in ceramica che provano il commercio con l'Oriente sono databili fra l'VIII e il XV secolo.
Si ritiene che Grande Zimbabwe sia stata la città principale di un vasto impero, detto impero di Monomotapa, formatosi a partire dal VII secolo nella regione intorno al lago Kyle, fra il Matabeleland e il Manicaland, e poi giunto a controllare buona parte degli odierni Zimbabwe e Mozambico.
La quantità di edifici fa ritenere che la città, al suo massimo splendore, ospitasse circa 20.000 abitanti. L'etnia a cui appartenevano gli abitanti della città non è certa. I terrazzamenti rinvenuti a nord-est del sito fanno pensare a culture provenienti dall'Oceano Indiano o dal Madagascar; altri reperti mostrano che gli abitanti di Grande Zimbabwe conoscevano l'estrazione mineraria e l'irrigazione, elementi che farebbero ipotizzare l'influenza di culture più settentrionali. Le affinità con vestigia mozambicane fanno pensare a una continuità culturale di una vasta fascia dell'Africa centrale.
Oggi si ritiene che la città sia stata certamente costruita da un popolo appartenenti al vasto gruppo bantu, sebbene sia molto difficile identificare quale. Diverse etnie locali (per esempio gli Shona, i Venda e i Lemba) sostengono di essere i discendenti del popolo di Zimbabwe. In particolare, un clan Lemba viene addirittura chiamato dagli altri clan Tovakare Muzimbabwe, "coloro che costruirono Zimbabwe". Non tutti gli studiosi, comunque, ritengono che l'etnia a cui si deve la fondazione della città debba necessariamente coincidere con quella dei suoi abitanti nel periodo di massimo splendore.
Il ritrovamento di reperti come frammenti di ceramica cinese e persiana, monete arabe e altri oggetti di origine straniera fanno pensare che Grande Zimbabwe sia stata un importante nodo di una vasta rete commerciale che raggiungeva l'estremo Oriente. La presenza di miniere nei dintorni fa pensare che la popolazione locale commerciasse soprattutto in oro.
Nessuno sa di preciso per quale motivo il sito fu abbandonato. Gli abitanti potrebbero essere stati costretti ad allontanarsi da un prolungato periodo di siccità e carestia, da un'epidemia, o semplicemente da una situazione di crisi economica legata al declino del commercio dell'oro. Si ipotizza anche che la città (e l'impero) siano stati travolti a più riprese da migrazioni di popoli provenienti dal nord.
Le rovine furono descritte da diversi esploratori portoghesi del XVI secolo; all'epoca il sito era già abbandonato. Nel 1531 Viçente Pegado, capitano della guarnigione portoghese di Sofala, descrisse il luogo in questo modo:
«Fra le miniere d'oro delle pianure fra i fiumi Limpopo e Zambesi c'è una fortezza fatta di pietre di incredibili dimensioni, e che non sembrano essere unite da malta... L'edificio è circondato da colline, su cui se ne trovano altri, simili al primo per il tipo di pietra e l'assenza di malta; uno di essi è una torre alta più di 12 braccia (22 m).»
La descrizione di Pegado venne ripresa da João de Barros nel suo libro Da Asia (1552), in cui descriveva i possedimenti portoghesi nel mondo. Barros, che non era mai stato a Grande Zimbabwe, sostenne che le rovine fossero quelle della città di Axuma, possedimento della biblica Regina di Saba, e che le miniere nei dintorni della città fossero quelle meravigliose attribuite a Re Salomone.
Grande Zimbabwe fu poi dimenticata per qualche centinaio d'anni. Le rovine furono ritrovate nel 1867, durante una battuta di caccia, da Adam Renders, che nel 1871 le mostrò al geologo Karl Mauch. Mauch non trovò di meglio che avallare la spiegazione di Barros, arrivando a sostenere che vi si riconoscevano chiaramente "una copia del tempio di Salomone e una copia del palazzo della Regina di Saba". Il mito di Grande Zimbabwe come città di Salomone o della Regina di Saba continuò in seguito a circolare in Europa per lungo tempo.
Alla fine del XIX secolo il magnate britannico Cecil Rhodes conquistò buona parte degli odierni Zambia e Zimbabwe (ribattezzati Rhodesia settentrionale e meridionale). Rhodes fondò una società per la ricerca archeologica a Grande Zimbabwe, la Ancient Ruins Company, affidando il lavoro all'archeologo James Theodore Bent. Bent pubblicò le proprie osservazioni nel 1891 nel saggio The Ruined Cities of Mashonaland. Secondo Bent, i reperti "provavano" che la città non poteva essere stata edificata da africani e che probabilmente si trattava di vestigia di origine fenicia o araba. Questa linea era in perfetto accordo con gli interessi di Rhodes, che non era incline ad accettare l'idea che gli africani potessero aver dato luogo a una "civiltà" come quella che aveva creato Grande Zimbabwe. Conclusioni simili a quelle di Bent furono raggiunte pochi anni dopo da un altro archeologo, Richard Hall, nel suo saggio The Ancient Ruins of Rhodesia (1902).
Il primo archeologo a smentire la teoria dell'origine non-africana della civiltà di Grande Zimbabwe fu il britannico David Randall-MacIver, che condusse i primi scavi scientifici in loco fra il 1905 e il 1906. Nel suo saggio Medieval Rhodesia, Randall-MacIver osservò che molti degli artefatti ritrovati erano di origine certamente africana. In seguito a questa affermazione, gli inglesi bloccarono gli studi archeologici a Grande Zimbabwe per circa un ventennio. Nel 1929 gli scavi furono ripresi da Gertrude Caton-Thompson, che nel 1931 pubblicò The Zimbabwe Culture: Ruins & Reactions, un saggio in cui mostrava che la cultura di Grande Zimbabwe era non solo africana, ma chiaramente correlata a quella del popolo Shona.
A causa della disputa sull'origine africana o non africana delle rovine, correlata dal potere coloniale al tema della capacità dei neri di dar luogo a una "civiltà", Grande Zimbabwe divenne per gli independentisti della Rhodesia un simbolo dell'affrancamento dal potere bianco. Robert Mugabe, eletto nel 1980 come primo presidente nero della Rhodesia del Sud, decise di modificare il nome del paese in Zimbabwe per enfatizzare la continuità fra il nuovo stato e la tradizione culturale e politica africana.
Uno dei reperti più celebri ritrovati a Grande Zimbabwe è il cosiddetto Uccello di Zimbabwe, una statuetta che rappresenta un uccello rapace stilizzato, forse il falco giocoliere. Questa figura fu scelta come emblema della Rhodesia, e in seguito rimase come simbolo nazionale dello Zimbabwe, rappresentato anche nella bandiera del paese.

ZIMBABWE - Khami

 

Khami fu una città dell'Africa meridionale, situata in quello che al giorno d'oggi è lo Zimbabwe centro-occidentale. È posizionata 22 km ad ovest di Bulawayo, capitale della provincia di Matabeleland North. Le sue rovine sono un monumento nazionale dello Zimbabwe. Khami è stata anche inserita dall'UNESCO tra i Patrimoni dell'umanità nel 1986. Khami fu la capitale della dinastia Torwa dal 1450 al 1683. In quell'anno venne saccheggiata da Changamire Dombo e dalla sua armata di ribelli provenienti dallo Stato Munhumutapa. Gli scavi archeologici sembrano mostrare che il sito non sia più stato utilizzato dopo il passaggio dei Rozvi. I Rozvi spostarono la capitale a Danamombe (Dhldhlo).
La città di Khami aveva sette aree costruite ed occupate dalla famiglia reale, più altre usate dai cittadini. Le rovine includono fortificazione su di una collina, circondata da un muro di pietra, ed una croce cristiana che si crede abbandonata in quel luogo da missionari contemporanei. Esistono alcune rovine anche sul fianco orientale del fiume Khami. Altre costruzioni erano adibite a stalla o a mura di cinta. Scavi recenti (2000-2006) hanno mostrato che le mura della parte occidentale della collina erano decorate con scacchi, lische, corde e blocchi di pietra colorati.
La sua architettura fu un'innovazione per il Grande Zimbabwe, e si spanse ben oltre il complesso su cui era costruita. Il granito Matopan era difficile da estrarre e lavorare al fine di ottenere blocchi piatti necessari per la costruzione delle mura. Le pietre venivano ricavate da massi più grossi che, grazie alla loro struttura, si sfogliavano "a cipolla". Le pietre create in questo modo erano funzionali per la costruzione di piattaforme, ma non per erigere muri. La mancanza di colline piatte costrinse a modificare quelle esistenti spianandone la superficie con l'aggiunta di pietre e terreno.


ZIMBABWE - Matobo Hills

 


Matobo Hills o Matopos Hills sono un'area composta di colline granitiche e valli alberate posizionata circa 35 chilometri a sud di Bulawayo, nello Zimbabwe meridionale. Le colline si formarono circa 2 miliardi di anni fa ed ora, grazie all'erosione, hanno assunto una forma simile alla schiena di una balena, coperte da massi e costellate da macchie di vegetazione. Mzilikazi, fondatore della nazione Ndebele, diede alla zona il nome che significa Teste Calve.
Le colline coprono un'area di circa 3100 km², di cui 440 formano il Parco nazionale, il resto è composto per la maggior parte da terreni comunali, e da qualche fattoria. Parte del Parco Nazionale è adibita a Parco di divertimento, abitato anche da rinoceronti bianchi e neri. Questo parco giochi copre circa 100 km² e si affaccia sulla valle del fiume Mpopoma.
Le Matobo Hills sono state inserite nel 2003 tra i Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO. L'area esibisce una "profusione di rocce multiformi che nascono dal granito che copre la maggior parte dello Zimbabwe".
I San vivevano su queste colline circa 2000 anni fa, ed hanno lasciato una ricca eredità attraverso le centinaia di pitture rupestri. Nelle molte fessure e grotte sono stati ritrovati forni d'argilla ed altri manufatti.
Le colline furono sede delle famose indaba tra i coloni bianchi ed i leader Ndebele nel 1896 (la Seconda guerra Matabele) che si concluse con l'assassinio di Mlimo da parte di Frederick Russell Burnham, omicidio portato a termine in una delle grotte di Matobo. Cecil Rhodes ed altri leader dei primi coloni bianchi, incluso Leander Starr Jameson ed i membri del Shangani Patrol, sono stati sepolti sulla cima del Malindidzimu, la collina degli spiriti. Questo fatto è controverso dal momento che è considerato un luogo sacro da molti gruppi indigeni della zona.
La montagna è anche nota con il nome di Vista del Mondo (World's View), da non confondere con l'omonimo panorama di Nyanga, sempre nello Zimbabwe. Anche al giorno d'oggi vengono ritrovati nelle grotte molti oggetti di ceramica e d'argilla, resti del periodo della ribellione del 1896. Esistono altri ricordi di quel periodo, placche di bronzo sparse ovunque ricordano le postazioni di fortini armati utilizzati in brevi schermaglie.
Le colline vengono ritenute sacre dagli Shona e da molte altre popolazioni dell'Africa meridionale. Sulle colline vengono svolti molti riti ed attività religiose. Secondo la leggenda, fino a 50 anni fa si poteva sentire una voce all'interno delle caverne (Njelele). 

MALI - Timbuctù



Timbuctù (Tumbutu in koyra chiini; altre varianti: Timbuktu, Timbuctoo, Timbouctou, Tombouctou) è un'antica città del Nord del Mali. Da un punto di vista amministrativo, è un comune urbano, capoluogo del circondario e della regione omonimi.
Grazie alle sue caratteristiche architettoniche è stata dichiarata patrimonio dell'umanità dall'UNESCO ed è stata proposta come una delle sette meraviglie moderne.
Timbuctù è situata pochi chilometri a nord del fiume Niger nel Nord-Ovest del semideserto saheliano, lontana da altri agglomerati urbani e da formazioni naturali di rilievo, in un "habitat" arido e sabbioso. La morfologia del territorio è prevalentemente pianeggiante. Timbuctù ha un clima desertico, caldo e secco; le poche precipitazioni avvengono nei mesi estivi, da giugno a settembre. Le temperature massime sono solitamente superiori ai 40 °C nel periodo che va da aprile a giugno. L'escursione termica è elevata, come è tipico dei luoghi desertici e a bassa umidità; le temperature minime medie vanno dai 13 gradi di gennaio ai 26 di luglio, anche se occasionalmente possono scendere a pochi gradi sopra lo zero.
Città di origine Tuaregh o Songhai, Timbuctù raggiunse il massimo del suo splendore tra il 1300 e il 1500, quando fu un importante polo culturale e commerciale del mondo arabo e così ricca d'oro da essere considerata una sorta di Eldorado del tempo. Leone l'Africano raggiunse Timbuctù nel 1526 e scrisse che “qui c'è un gran stuolo di dottori, giudici, preti e altri uomini di cultura che sono mantenuti riccamente dalla generosità del re. Qui vengono portati diversi manoscritti e libri scritti da fuori della barbaria, che sono venduti qui ad un prezzo più alto di qualsiasi altro bene”. È celebre il suo Sultano Mansa Musa che organizzò un pellegrinaggio a La Mecca con oltre 8000 portatori e centinaia di dromedari.
Considerata, per le sue favolose ricchezze e per la sua inaccessibilità, un luogo più mitico che reale, in Europa si discusse della sua esistenza sino al 1806, quando l'esploratore Mungo Park la raggiunse seguendo il corso del fiume Niger, anche se non riuscì a tornare indietro. Il primo che ne diede un resoconto fu René Caillié.
La città, pur non godendo delle ricchezze materiali di un tempo, conserva una piccola parte delle eredità culturali del passato, tra cui 700.000 manoscritti arabo-islamici dei secoli XIII-XVI (vedi i Manoscritti islamici di Timbuctù), tra cui le opere di Avicenna, vari dei quali giunti dalla Spagna in seguito alla Reconquista, anche se un gran numero è scritto, usando caratteri arabi, in lingue africane locali, le cosiddette "lingue ajami".
Moltissime delle costruzioni della città sono state erette col fango - che garantisce una certa solidità -, dato che la città si trova in una regione desertica del Mali - l'Azawad - e la possibilità che piova è prossima allo zero.
La città è a rischio a causa della Guerra in Mali; nel luglio del 2012 è stato distrutto un santuario da una cellula di Al Qaida, e le demolizioni sono proseguite il 21 dicembre, interessando altri quattro edifici dichiarati patrimonio dell'Umanità: la Corte penale internazionale ha inflitto una condanna a nove anni al responsabile della milizia autrice di questi delitti.

MALI - Jenne-Jeno

 
Jenne-Jeno
 (chiamata anche Djenné-Jéno) è il sito originale di Djenné, in Mali, ed è considerato tra i più antichi centri urbani dell'Africa subsahariana. Il sito archeologico è stato oggetto di scavi da parte di Susan e Roderick McIntosh (ed altri), ed è stato datato al III secolo a.C. Esistono prove della produzione del ferro, dell'uso domestico di piante ed animali, e di un complesso sviluppo urbano già nel 900.
La datazione al radiocarbonio ha dimostrato che l'uomo colonizzò la prima volta questo luogo attorno al 250 a.C. Tra il 750 ed il 1000, dopo secoli di occupazione, esisteva un insediamento di 330'000 m² vicino al fiume Bani, composto da una grande collina a forma di goccia circondata da 69 collinette, fondato da questo popolo (che potrebbe aver contato fino a 27000 persone) che costruì e ricostruì le proprie case. In questo periodo sono stati osservati grandi cambiamenti. In precedenza, tra il V ed il IX secolo, le case di Jenne-Jeno erano costruite con fondamenta di fango o tauf, in seguito sostituite da un'innovativa architettura con mattoni cilindrici. 
Anche se esistono poche fonti che spiegano questa innovazione, si crede che il processo sia originario di questo luogo dato che i cambiamenti sono accompagnati dal solito stile di lavorazione della ceramica e lo stesso aspetto delle case. In ogni caso resta improbabile una qualsiasi modifica della composizione etnica della popolazione. La prima influenza islamica verificabile in città risale all'XI e XII secolo sotto forma di ottone, mandrini a spirale e case di forma rettilinea.
Gli abitanti di Jenne-Jeno erano un popolo basato sull'acqua e sull'agricoltura. Misero in piedi quella che viene considerata essere tra i primi esempi di coltivazione domestica del riso nel continente, e furono i primi nel Sudan occidentale ad utilizzare mattoni di fango, prima ancora dei Sudano-Saheliani. Possedevano anche una propria tecnologia di lavorazione del ferro, e crearono alcune delle migliori statuette di terracotta della regione.


MALI - Tomba di Askia


La tomba di Askia è un monumento funebre del XV secolo situato nella regione di Gao, in Mali, dichiarato patrimonio dell'umanità dall'UNESCO. Si ritiene che sia il luogo di sepoltura del primo imperatore Songhai, Askia Mohammad I.
L'UNESCO descrive la tomba come un ottimo esempio delle costruzioni monumentali in fango tradizionali nel Sahel (in Africa occidentale). Il complesso include una tomba piramidale, due moschee, un cimitero e una spianata che li raccoglie. Con i suoi 17 metri d'altezza, la tomba è il più imponente monumento dell'architettura precoloniale nella regione. È anche il più antico esempio di architettura di stile islamico, che in seguito si diffuse nella regione, e un esempio di come si siano fusi nell'architettura Islam e Nordafrica.
La tomba risente probabilmente anche dall'influsso stilistico del minareto della moschea di Agadez, costruita intorno al 1520 da Zakariya Abdullah.
Fra gli anni sessanta e la prima metà del decennio successivo è stato realizzato un ampliamento degli edifici della moschea, e nel 1999 è stato costruito un muro che circonda il sito. Nei secoli le sue strutture sono state sottoposte a manutenzione regolare tramite applicazioni di fango essenziali per la sua sopravvivenza. L'elettricità è stata introdotta nei primi anni del secolo ed ha permesso di installare luci e potenti altoparlanti. La tomba di Askia è usata regolarmente come moschea e centro culturale per la città di Gao. Il sito e la zona circostante sono protetti dalle leggi nazionali e locali.

GAMBIA/SENEGAL - Cerchi di pietra di Senegambia

 

Cerchi di pietra di Senegambia è il nome con cui è noto un sito inserito dal 2006 nell'elenco dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO che si trova sul confine fra il Gambia ed il Senegal. Questa regione, che si estende su di una superficie di circa 39.000 chilometri quadrati nella zona del fiume Gambia, è anche conosciuta col nome di Wassu in Gambia e col nome di Sine-Saloum in Senegal. Le pietre che compongono il sito vennero erette in un'epoca compresa fra il III secolo a.C. e il XVI secolo d.C. sopra a precedenti sepolture. Ogni cerchio è composto di un numero di pietre variabile fra 10 e 24, variabili in forma e dimensioni; le più pesanti superano le 10 tonnellate di peso, hanno altezze comprese fra 1 e 2,5 metri e sono composte di laterite. Sono stati censiti circa mille cerchi di pietre, con la più alta concentrazione situata nei pressi di Djalloumbéré (un migliaio di pietre divise in 52 cerchi). Il villaggio di Wassu ha dedicato un museo alle pietre.
Non è noto lo scopo che spinse queste popolazioni ad erigere i cerchi di pietra, ma recenti scavi archeologici, descritti dalla National Geographic Society nel 2006, suggeriscono scopi funerari a causa dei numerosi resti umani ritrovati nei diversi siti in cui le pietre si trovano. Una delle teorie degli studiosi sostiene che alcune parti dei corpi dei defunti siano state sepolte in tombe diverse ed in tempi diversi.

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...