lunedì 14 luglio 2025

Piemonte - Museo di Antichità di Torino


Il Museo di Antichità di Torino, è l'erede del Regio Museo di Antichità, fondato nel 1724 e pertanto uno dei più antichi musei archeologici d'Europa.
Conserva numerose testimonianze del Piemonte antico, con le sale dedicate alla storia di Torino affacciate sui resti del teatro romano.
La prima collezione di antichità si deve al duca Emanuele Filiberto I di Savoia che nel 1572 concentrò nel Teatro ducale le sue collezioni di antichità, con una biblioteca e un museo.
Il suo successore Carlo Emanuele I ampliò la collezione originale con oggetti provenienti dal Piemonte e degli Stati sabaudi, e ne ricollocò la parte più pregiata nella nuova Galleria d'arte, terminata nel 1608. Nel 1658 questa galleria venne distrutta da un grave incendio, e la parte di oggetti salvatisi vennero trasferiti nella nuova galleria costruita da Carlo Emanuele II, che venne nuovamente distrutta da un nuovo incendio nel 1811. Di quella collezione non rimane che un inventario sommario, redatto nel 1631.
Nel 1723, le demolizioni nel centro di Torino portarono in luce numerose vestigia dell’antica Augusta Taurinorum e importanti testimonianze archeologiche si aggiunsero al nucleo primigenio della raccolta sabauda. Vittorio Amedeo II ne ordinò il riordino, commissionando nel 1723 a Scipione Maffei la sistemazione delle lapidi provenienti dal bastione della consolata, demolito l'anno
precedente, e decretando così la nascita nel 1724 del Regio Museo di Antichità presso il palazzo della Regia Università, dove si trovavano ancora al momento dell'invasione napoleonica e da dove vennero prelevate dai francesi, che ne restituirono solo una parte dopo la caduta dell'impero, nel 1815.
Nel 1832 si pensò di riunire le collezioni di antichità nel Palazzo dell'Accademia delle Scienze, dove già si trovavano, dal 1824, le raccolte egizie di Bernardino Drovetti, acquistate da re Carlo Felice. Venne così a crearsi un unico museo delle antichità, comprendente anche nuove acquisizioni greco-romane, la raccolta di reperti della Magna Grecia ceduta da Luigi Moschini e gli oggetti rinvenuti negli scavi effettuati in Piemonte in quel periodo.
La collezione crebbe ancora a metà XIX secolo con l'acquisizione di reperti etruschi e ciprioti effettuata durante la direzione di Ariodante Fabretti.
Nel 1940 si scelse di separare la collezione egizia dalle altre, al fine di valorizzarla maggiormente. Questo fu fatto a discapito delle altre
collezioni, che venivano a trovarsi in uno spazio troppo piccolo per permetterne l'esposizione completa. Nel 1948 venne creata una mostra permanente al piano terra del Palazzo dell'Accademia delle Scienze, con esposti solo i pezzi più pregevoli, mentre gli altri erano immagazzinati in locali adiacenti a disposizione dei soli studiosi.
Negli anni settanta le collezioni furono collocate presso le serre nei giardini di Palazzo Reale, i cui spazi sono stati adattati alla funzione di museo permettendone la riapertura nel 1989.
Negli anni novanta si raggiunge la configurazione odierna, con il collegamento delle serre alla cosiddetta Manica nuova (detta anche Manica lunga) di Palazzo Reale..
Nel 2012 è avvenuto il trasferimento della Galleria Sabauda nella Manica Nuova. Nei locali al piano seminterrato è stata quindi creata una nuova collezione con i materiali archeologici torinesi ed inaugurata nel maggio 2013 la mostra "Archeologia a Torino".
Infine, nel 2022 le preziose collezioni del museo sono state
riallestite nella suggestiva Galleria Archeologica della Manica Nuova di Palazzo Reale
Il museo si compone di tre sezioni:
- Galleria Archeologica: statuaria greca e romana, antichità cipriote, preistoriche e protostoriche, etrusche e ceramiche da Grecia e Magna Grecia.
- Archeologia del Territorio: oggetti e reperti provenienti da scavi effettuati sul territorio regionale, con ritrovamenti attestanti il popolamento stabile del territorio piemontese dal mesolitico e paleolitico.
- Archeologia di Torino: dedicata alla lunga storia della città, nei locali affacciati sul teatro della romana Augusta Taurinorum.

Nelle immagini:
- Testa di Sileno, marmo bianco, II secolo d.C.
- unguentario, vetro, circa 250 - 199 d.c.
- Ritratto maschile in bronzo, bronzo, primo quarto I secolo d.C.
- brocchetta in argilla, circa 850 - 700 a.C.


Piemonte - MAO Museo d'Arte Orientale di Torino

 

Il MAO Museo d'Arte Orientale di Torino è tra le più recenti istituzioni museali ad inserirsi nel già copioso contesto del capoluogo piemontese. Da tempo le istituzioni locali si interrogavano su come meglio organizzare le collezioni orientali, già precedentemente conservate nel Museo Civico d'Arte Antica e, con il contributo della Regione Piemonte, della Compagnia di San Paolo e della Fondazione Agnelli, nel corso dei primi anni Duemila si è giunti ad un ragguardevole numero di reperti. Un concreto sostegno è stato garantito anche dal Comune di Torino, che ha messo a disposizione del nascente polo museale il pregevole Palazzo Mazzonis.
Già noto come Palazzo Solaro della Chiusa e dimora dell'omonima famiglia, l'edificio fu ampiamente rimaneggiato già nel Seicento e, nel 1870, divenne proprietà del Cav. Paolo Mazzonis di Pralafera, industriale tessile. A seguito di lavori di restauro egli adibì parte del palazzo a sede della Manifattura Mazzonis S.n.c., che qui rimase per quasi cent'anni. A seguito della sfavorevole congiuntura economica, l'attività cessò nel 1968 e, dopo lunghi anni di degrado, nel 1980 l'edificio fu ceduto al Comune di Torino che lo destinò ad ospitare parte degli uffici giudiziari. Nel 2001, in seguito al trasferimento di questi ultimi presso il nuovo Palazzo di Giustizia, l'edificio fu completamente restaurato e, dal 2008, è sede del MAO. Il museo è stato diretto fino al 2013 da Franco Ricca, docente universitario di meccanica quantistica, da tempo appassionato cultore di arte orientale.
Frutto della necessità di fruire di un nuovo strumento per la conoscenza di mondi lontani, il MAO accoglie le collezioni orientali già precedentemente conservate nel Museo Civico d'Arte Antica ma
deve molto anche al contributo dei reperti provenienti dalle collezioni della Regione Piemonte, della Compagnia di San Paolo e della Fondazione Agnelli. È obiettivo del museo custodire e rendere note al pubblico opere emblematiche della produzione artistica orientale e divenire un accesso privilegiato a studiosi della cultura asiatica, anche con l'ausilio di iniziative specifiche.
L'allestimento interno, curato dall'architetto Andrea Bruno, prevede l'esposizione a rotazione di circa 1.500 opere, alcune di notevole rilevanza, disposte in cinque sezioni. I criteri che hanno suggerito le scelte progettuali hanno consentito di realizzare un godibile percorso museografico, malgrado la planimetria tipica di un edificio antico e quindi non sempre favorevole. L'atrio d'ingresso, in cui è stato realizzato un ampio spazio vetrato, ospita i giardini zen giapponesi, con sabbia e muschio. Attraverso uno scalone monumentale si accede alle gallerie, divise in cinque aree, caratterizzate da scelte cromatiche e stilistiche differenti, con ampio uso di legno, acciaio, vetro e una grafica museale evocativa dei luoghi di provenienza.
Il primo piano ospita le gallerie dell'Asia Meridionale, del Sud-est asiatico, della Cina e la prima parte della sezione dedicata
al Giappone, mentre la seconda parte della galleria Giappone si trova al secondo piano. Al terzo piano è ubicata la galleria Himalayana, mentre il quarto piano conclude il percorso con la sala, rigorosamente verde, dedicata all'arte islamica.
A queste collezioni, che consistono in circa 2.300 opere, si aggiungono più di 1.400 reperti di scavo di periodo pre-islamico provenienti dagli scavi iracheni di Seleucia e Coche.
Asia meridionale e sud-est asiatico
In questa sezione sono ospitate le collezioni di tre grandi aree geografico- culturali: India, Gandhara e Indocina.
India
Nelle sale dedicate all'India si trovano opere di ispirazione induista e buddhista provenienti dal Kashmir, dall'India vera e propria e dal Pakistan Orientale. Si tratta di sculture in pietra, bronzi, terrecotte e dipinti su cotone che vanno dal II sec. a.C. al XIX sec. Nelle sale destinate all'arte indiana sono collocati rilievi e sculture che mostrano esempi dell'arte Shunga, Kushana, Gupta e del Medioevo
Indiano.
Gandhara
Con Gandhara si intende l'area geografica compresa fra Afghanistan e Pakistan nord-occidentale. Lo stesso termine designa però la produzione artistica di ispirazione buddhista fiorita proprio in quella zona tra il II secolo a.C. e il V sec. d.C. Nelle sale del MAO si trovano fregi del grande stūpa di Butkara, frutto degli scavi condotti negli anni '50 dalla sezione piemontese dell'IsMEO, e alcune statue in scisto, stucco e terracotta.
Sud-est asiatico
In queste sale sono collocate opere provenienti dell'area che comprende Thailandia, Birmania, Vietnam e Cambogia insieme ad alcune importanti sculture del periodo Khmer.
Cina
Nella collezione cinese si può constatare quanto la millenaria cultura della Cina e la sua immensa estensione abbiano generato una grande varietà di rappresentazioni artistiche. Tuttavia, la coesione
della sua struttura sociale e politica ha favorito l'evolversi di uno stile omogeneo e fortemente caratterizzante. La collezione comprende vasellame neolitico, esemplari di bronzi rituali e lacche dal periodo pre-imperiale alle dinastie Han e Tang.
Giappone
La collezione giapponese svela l'unicità del connubio tra tradizione, artigianalità e sapiente conoscenza dei materiali. In questa sezione si trovano statue lignee (dal XII al XVII secolo), paraventi dal XVII al XIX secolo, tessuti, dipinti e xilografie, nonché oggetti laccati, armi e armature. La galleria giapponese è soggetta a periodiche rotazioni delle opere che coinvolgono prevalentemente tessuti, opere pittoriche e stampe.
Himalaya
In questa suggestiva collezione si può cogliere il lato mistico del Buddhismo, che coinvolge l'arte dei suoi paesi (Bhutan, Ladakh, Nepal, Sikkim e Tibet) in tutte le sue forme: dalla scultura alla pittura, dalla scrittura all'architettura. In questa sezione
si trovano sculture in legno e in metallo, strumenti rituali, dipinti a tempera (thangka) e alcune copertine lignee di testi sacri, intagliate e dipinte.
Islam
La collezione islamica è caratterizzata da manoscritti e suppellettili provenienti da Turchia, Persia ed ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale, dove si evidenzia l'importanza della calligrafia. La galleria ospita velluti ottomani, ceramiche, bronzi nonché rari manoscritti persiani e copie calligrafiche del Corano.

Piemonte - Industria, colonia romana


Industria 
era un'antica colonia romana sita nell'odierno comune di Monteu da Po, nella città metropolitana di Torino.
La colonia sorse probabilmente tra il 124 e il 123 a.C., nell'ambito di una serie di fondazioni di colonie nelle terre del Monferrato volute dal console Marco Fulvio Flacco, presso il precedente villaggio celto-ligure di Bodincomagus ("luogo di mercato sul fiume Po", dal nome ligure del fiume, Bodincus) citato da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia. La città era iscritta alla tribù Pollia ed era compresa nella regio IX dell'Italia augustea.
Grazie alla sua posizione geografica, presso la confluenza della Dora Baltea nel fiume Po, che la metteva in comunicazione per via fluviale con la Valle d'Aosta e le sue miniere, fu un centro commerciale e artigianale (metallurgia). Qui facevano scalo le chiatte, cariche di lastre di pietra delle Alpi che poi erano spedite nelle varie località della Repubblica romana.
La città venne abbandonata nel V-VI secolo, probabilmente a causa delle ripetute incursioni unne nel territorio, e nella località sorse una pieve.
Vi furono condotti scavi a partire dalla metà del XVIII secolo. È stato riportato in luce un santuario, dedicato a divinità orientali Iside e Serapide, consistente in un cortile con portico semicircolare a un'estremità e due ambienti rettangolari sul lato opposto. Nell'area sacra si trovavano anche una struttura per la purificazione e le abitazioni dei sacerdoti.
Il santuario fu costruito in epoca augusteo-tiberiana e subì interventi alla metà del I secolo d.C. e sotto l'imperatore Adriano. Il santuario cessò le proprie attività nel IV secolo.
Negli scavi furono rinvenute numerose statuette e oggetti in bronzo, conservati presso il Museo di Antichità di Torino. L'area degli scavi di proprietà dello Stato italiano, otre che sito archeologico è teatro anche di eventi museali, musicali e artistici. Nel 2016 ha fatto registrare 2 989 visitatori.
Grazie alla definitiva pacificazione della regione monferrina seguita alle campagne militari del console Marco Fulvio Flacco (124-123 a.C.), la città romana di Industria poté sorgere e svilupparsi nei pressi del villaggio celto-ligure di Bodincomagus, sulle rive del Po, vicino alla confluenza con la Dora Baltea. La posizione sulle sponde del “fiume più ricco d'Italia”, secondo la definizione di Plinio il Vecchio, in un punto favorevole agli scambi mercantili, si rivelò fondamentale per l'economia della città, poiché facilitava il trasporto e lo smercio dei prodotti delle attività estrattive provenienti dalle miniere della Valle d'Aosta. La fiorente attività manifatturiera e commerciale era gestita da famiglie di mercanti italici, giunti sul luogo accompagnate da abile manodopera. Il ritrovamento di numerosi oggetti bronzei, sia prodotti localmente, sia d'importazione, le monete, le strutture di botteghe artigiane e di abitazioni d'impronta signorile, testimoniano il livello di agiatezza raggiunto dagli abitanti nel periodo compreso tra I e II secolo d.C. Industria era inoltre un notevole polo religioso per la presenza di un importante santuario, legato a culti di origine greco-orientale.
La città romana di Industria subì una notevole contrazione tra il IV e la fine del V secolo d.C., anche se una parte dell'abitato continuò a essere utilizzata con la relativa funzione cimiteriale.
Si suppone che il progressivo abbandono non sia legato a una crisi demografica, ma piuttosto alla distruzione dei grandi templi pagani e alla ridistribuzione degli abitanti in nuclei sparsi sul territorio, facenti capo a un edificio religioso (pieve). La comunità cristiana di Industria è antica ed è citata in una lettera di Sant'Eusebio inviata da Scitopoli (Palestina) tra il 356 e il 361 d.C. La presenza di un edificio usato collettivamente dalla popolazione favorì il mantenimento del nome, anche se modificato in Dustria oppure Lustria e limitato all'area in cui sorse la chiesa, lungo un'antica via di pellegrinaggio, dal Po verso i santuari pagani. Nel X secolo la pieve di Dustria dipendeva dalla diocesi di Vercelli; durante il Basso Medioevo l'abitato si concentrò sul colle vicino, si dotò di una nuova parrocchiale e diede origine a Monteu da Po. Gli scavi ottocenteschi, eseguiti nell'area circostante la struttura, portarono alla luce tombe, frammenti di ceramica e iscrizioni; un'altra tomba altomedievale, priva di corredo, venne rinvenuta nel 1960. I resti murari attualmente visibili sono ascrivibili a due fasi, la più recente delle quali è del XII secolo, e si inseriscono in un complesso di edifici religiosi del Romanico astigiano, studiato con particolare cura dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Piemonte per le sue notevoli caratteristiche architettoniche. In tale gruppo, il cui capofila è rappresentato dalla canonica di Santa Maria di Vezzolano, si inserisce la vicina Abbazia di Santa Fede a Cavagnolo.
Per l'individuazione di Industria, annoverata da Plinio il Vecchio tra le nobilia oppida della regione augustea IX Liguria, fu fondamentale il ritrovamento, presso il paese di Monteu da Po, di un'iscrizione in bronzo riportante il nome degli antichi abitanti. La scoperta, pubblicata nel 1745 a Torino nel volumetto Il sito dell'antica città di Industria scoperto e illustrato, a cura di Giovanni Paolo Ricolvi e Antonio Rivautella, diede impulso a nuove indagini. Tra il 1811 e il 1813 gli scavi condotti dal conte Bernardino Morra di Lauriano produssero importanti risultati documentati da tavole estremamente accurate.
Vennero riportati alla luce un grande edificio di forma semicircolare allora erroneamente interpretato come un teatro oltre a una grande quantità di reperti, in particolare numerosi bronzetti, alcuni dei quali di notevole raffinatezza. Nel corso del XIX secolo il sito, in mancanza di leggi di tutela, subì sistematici saccheggi.
Tornò a destare interesse scientifico alla fine del secolo, grazie all'opera di Ariodante Fabretti, direttore del Regio Museo Egizio e di Antichità, al quale si deve la ripresa delle ricerche. In tempi più recenti (1961 – 1963) le campagne di scavo condotte dall'Università di Torino in collaborazione con la Soprintendenza hanno portato, tra l'altro, all'interpretazione della struttura semicircolare come tempio dedicato ai culti orientali. Nell'ultimo trentennio la Soprintendenza ha ampliato l'area di scavo e catalogato i reperti definendo la cronologia precisa delle trasformazioni urbane.
Industria era un centro urbano di piccole dimensioni, di forma pressoché quadrata (lato 400 m circa), caratterizzata da un impianto rettangolare formato da isolati rettangolari (40 x 70 m). L'area riportata alla luce misura circa 15 000 m², corrispondente a un decimo della città originaria; le strutture rinvenute, conservate solo a livello di fondazioni, appartengono ad abitazioni, botteghe e luoghi di culto. La strada, con andamento est-ovest che dà accesso all'area archeologica, è fiancheggiata da abitazioni risalenti al I secolo d.C. Nel gruppo di edifici sulla destra è presente una domus che si sviluppa intorno a un cortile circondato da un porticato, il peristilio, sul quale si affacciano gli ambienti residenziali; lungo la stessa via sulla sinistra sorgevano case con laboratori artigiani e botteghe. Svoltando a destra all'incrocio si percorre l'ampia strada porticata che attraversa la città da nord a sud, separando i blocchi abitativi dall'area sacra, sino a raggiungere un grande ambiente di forma quadrata, presumibilmente destinato alle riunioni dei fedeli.
Di fronte sorgono i resti di quello che fu l'imponente tempio di Iside (metà I secolo d.C.). La struttura, di pianta rettangolare, è inserita in un peristilio ed è preceduta da un pronao (atrio) articolato in due camere; la cella è unica e la scalinata d'ingresso è posta a est. Dietro all'edificio, alcune strutture costituivano il percorso delle processioni durante le cerimonie e immettevano nel tempio di Serapide (metà/fine II secolo d.C.). Questo edificio monumentale si sviluppa con un grande cortile centrale, circondato da un corridoio semicircolare e presenta una cella poligonale ubicata in fondo, al centro dell'emiciclo, e affiancata da due tempietti.
I dati archeologici sulla prima fase di vita di Industria sono scarsi: le costruzioni più antiche presentano una tecnica edilizia accurata in pietra locale sbozzata, con raro impiego di laterizi. Dalla seconda metà del I secolo d.C. l'area è dominata dal tempio di Iside, posto al centro di un sistema regolare di strade, edifici e spazi aperti pianificati. All'inizio del II secolo l'area sacra viene ampliata con l'edificazione di un grande tempio semicircolare dedicato a Serapide, la conseguente demolizione di precedenti edifici e la costruzione di un portico intorno all'area del foro. Tra il I e il II secolo d.C. la città vive un periodo di splendore, grazie alla florida economia e al richiamo esercitato dall'importante centro religioso. Lo spazio urbano viene abitato ininterrottamente fino alla fine del IV secolo d.C.; in seguito le tracce di vita si fanno più labili. Con il formarsi sul posto di una comunità cristiana, l'area pagana viene abbandonata, saccheggiata e parzialmente distrutta. L'abitato invece perdura nell'Alto Medioevo: vi sono tracce di abitazioni e dell'utilizzo di aree pubbliche per sporadiche sepolture, tra le quali una tomba longobarda dotata di corredo (inizi VII secolo d.C.).

Il culto della dea madre è presente in tutte le religioni antiche. In Egitto la dea madre è Iside, la quale forma con Osiride e Horus la triade che rappresenta la vita oltre la morte. Con l'avvento della dinastia tolemaica (323 a.C.) il culto di Iside si diffonde in tutto il Mediterraneo, in associazione con Serapide, che unisce il greco Zeus-Hades con l'egizio Osiride-Apis, divinità a forma di toro adorata a Menfi, i cui animali sacri erano sepolti nel Serapeo di Saqqara. Nello stesso periodo Horus, sempre raffigurato come un bimbo, viene denominato anche Arpocrate. Nel II secolo a.C. il culto isiaco si diffonde nell'Italia centro-meridionale, raggiunge Roma dove viene istituito il collegio dei pastophoroi (sacerdoti di Iside, letteralmente “portatori di sacri oggetti”) e per il tramite del porto di Aquileia si diffonde nel Nord Italia. A Industria approda insieme ai mercanti italici accompagnati da manodopera servile di origine greca, da tempo impegnati in traffici tra il mare Adriatico e la Grecia, tra i quali spiccano le famiglie degli Avilii e dei Lollii (attestate anche nell'isola di Delo e a Padova). La notevole quantità di manufatti in bronzo restituiti dagli scavi condotti nell'area sacra comprende fra l'altro la lastra che ricorda il locale collegio dei pastophoroi, firmata dall'artigiano Trophimus Graecanus, un sistro, ossia uno strumento musicale scosso ritmicamente durante le cerimonie, secondo la descrizione fornita da Apuleio nelle Metamorfosi, e numerosi piccoli tori offerti a Serapide.
 
Le strutture riportate alla luce a Industria sono estremamente fragili e risentono dell'azione degli agenti atmosferici; inoltre in anni recenti il sito archeologico è stato penalizzato dall'espansione urbanistica. Ora la collaborazione tra l'amministrazione comunale e la Regione Piemonte, grazie anche al Sistema delle aree protette della fascia fluviale del Po, apre nuove possibilità di tutela e valorizzazione. Nell'allestimento del Museo di antichità di Torino si è dato particolare spazio al materiale di Industria per la loro straordinaria importanza storica, archeologica e artistica. I reperti in bronzo sono esposti integralmente in più vetrine: alcuni sono strettamente legati ai riti, come le statuine di Iside-Fortuna, di Tiche (la sorte), un sistro e una situla (sorta di secchiello votivo) a forma di testa di giovane, oltre a lucerne votive (II secolo d.C.), torelli offerti a Serapide e bronzetti raffiguranti altri animali. Si ammirano opere estremamente raffinate: il tripode, decorato da figure i Bes, di sfingi, di Vittorie alate, sormontato da piccoli arbusti di Bacco, l'altorilievo con danzatrice velata, il complesso di statuine che decoravano un balteo, ossia un pettorale da parata per cavallo, raffigurante una scena di combattimento tra Romani e barbari. Il noto Sileno, un pezzo di qualità straordinaria, è stato attribuito a un'officina ellenistico-pergamena (II secolo a.C.). Ricordiamo infine la lastra bronzea che riporta la dedica al collegio dei pastophoroi (sacerdoti di Iside) da parte di L. P. Herennianus, di cui vengono ricordate le cariche pubbliche, e una placchetta con l'immagine di Arpocrate (IV secolo d.C.) che documenta la presenza di fedeli della dea Iside anche in epoca tardo romana.


Piemonte - Porta Palatina, Torino

 

La Porta Palatina, impropriamente ma comunemente nota col nome plurale di Porte Palatine (Pòrta Palatin-a o Tor Roman-e in piemontese), è l'antica Porta Principalis Sinistra che consentiva l'accesso da settentrione alla Iulia Augusta Taurinorum, ovvero la civitas romana oggi nota come Torino.
Essa rappresenta la principale testimonianza archeologica dell'epoca romana della città, nonché una delle porte urbiche del I secolo a.C. meglio conservate al mondo.
Insieme al teatro romano, posto a ridosso della manica lunga di Palazzo Reale, è compresa nell'area del Parco Archeologico inaugurato nel 2006.
Già nota come Porta Doranea a causa della presenza poco lontana della Dora Riparia nell'XI secolo, il nome Porta Palatina è da considerarsi sicuramente successivo all'epoca romana e deriva dal latino Porta Palatii. L'origine di tale termine può essere riconducibile a diverse ipotesi. La prima e più attendibile di queste, suggerisce che sia da attribuire alla contiguità del Palatium, ovvero l'edificio destinato ad ospitare i sovrani Longobardi. Una seconda ipotesi potrebbe ricondurre alla contigua presenza di un presunto anfiteatro edificato nei pressi dell'attuale Borgo Dora. La rapida caduta in rovina dell'ipotetica struttura circense, potrebbe averle valso l'attribuzione del nome Palatium.
La Porta Principalis Sinistra consentiva l'accesso al cardo maximus orientato nord-sud, attualmente identificabile nella via Porta Palatina e via San Tommaso. I suoi imponenti resti sono attualmente visibili al centro di un'area aperta, l'odierna piazza Cesare Augusto. Del tutto analoga alla Porta Decumana, inclusa nella successiva struttura medievale dell'attuale Palazzo Madama, essa testimonia un esempio di tipica porta ad cavædium, ovvero una struttura a doppia porta con statio, un cortile quadrangolare sul lato interno i cui resti, posti davanti ai varchi, ne sono la testimonianza. Alte più di trenta metri, le due torri angolari sono caratterizzate da una base quadrata e dal corpo scandito da una sfaccettatura a sedici lati. È doveroso specificare però che soltanto la torre destra e l'interturrio centrale risalgono all'epoca romana. Il prospetto dell'interturrio è lungo circa venti metri e presenta monofore ad arco nel primo ordine e finestre con piattabanda piana nel registro superiore. Nella porzione sottostante si aprono i due fornici carrai e due più piccoli varchi pedonali posti lateralmente; le scanalanature presenti lungo le pareti interne dei varchi suggeriscono l'originaria presenza di cateractæ, ovvero un probabile sistema di saracinesche, o semplici grate, manovrate dal piano superiore. Sul terreno nelle immediate vicinanze della porta è ancora presente parte del basolato di epoca romana, su cui si possono notare ancora i solchi sulle pietre provocati dal transito del carri. La coppia di statue bronzee raffiguranti Cesare Augusto e Giulio Cesare non sono originali ma copie risalenti all'ultimo, radicale intervento di restauro del 1934.
Edificata nel I secolo a.C. durante l'Età Augustea o nell'Età Flavia, la Porta Principalis Sinistra potrebbe aver preceduto l'edificazione della cinta muraria e forse fu edificata su una precedente porta di epoca repubblicana. La porta, aperta sulla via che conduceva a Ticinum (l'attuale Pavia) e a Mediolanum, mantenne a lungo la sua funzione di varco cittadino e già nell'XI secolo venne trasformata in castrum, anche se nel corso del tempo perse la struttura interna del cavædium. Nel 1404, dopo secoli di incursioni e parziale degrado, venne ricostruita la torre sinistra ed entrambe vennero completate da merli a scopo difensivo; l'accesso continuò comunque a essere garantito, anche se da un solo fornice.
l processo di rinnovamento urbanistico avviato nei primi decenni del Settecento da Vittorio Amedeo II prevedeva la scomparsa della Porta Palatina. Lo smantellamento non venne poi attuato grazie all'intervento dell'ingegner Antonio Bertola, che riuscì a convincere il duca della necessità di preservare l'antica opera architettonica; tuttavia, la porta perse la sua funzione, a vantaggio del varco, previsto dal progetto di Filippo Juvarra, nella vicina Piazza Vittoria. Nel 1724 le torri dell'ormai inutilizzata porta vennero adibite prima a carcere della vicina Vicarìa e in seguito a istituto di reclusione femminile.
Nel 1860, con la costruzione delle carceri Le Nuove commissionate da Vittorio Emanuele II, la fatiscente Porta Palatina venne sottoposta ad un ulteriore restauro. Nei primi anni del Novecento, contestualmente alla riscoperta del vicino teatro, l'architetto Alfredo D'Andrade operò un radicale restauro, mirando ad un'attenta cancellazione degli interventi precedenti e liberando la struttura di tutti gli orpelli aggiunti nel corso dei secoli e alla struttura in muratura ad essa addossata.
Riportata al suo aspetto attuale, la Porta Palatina fu nuovamente oggetto di restauro dal 1934 al 1938, su decisione del regime fascista. Vennero dunque aperti tutti i fornici e fu isolata la struttura dal contesto urbano circostante, abbattendo un gruppo di vecchie case a ridosso del monumento. Tuttavia, alcuni di questi interventi furono considerati erronei dagli archeologi, poiché la porta in origine era a ridosso dell'abitato circostante ma, soprattutto, venne contestata l'errata collocazione della coppia di statue bronzee. Esse, infatti, sono poste erroneamente nell'area interna occupata originariamente dalla statio e non in quella esterna, dove avrebbero trovato una collocazione più credibile. Nel 1961, in occasione delle celebrazioni del centenario dell'unità d'Italia, venne realizzata una nuova illuminazione della Porta Palatina su progetto di Guido Chiarelli.
Fino agli anni settanta del Novecento la Porta Palatina fu percorribile dal traffico automobilistico, consentendo il transito al di sotto dei fornici, ma la nuova risistemazione urbanistica degli anni ottanta rese l'area interamente pedonale preservandone l'integrità.
Nel 2006, in occasione di XX Giochi Olimpici Invernali, l'area è stata completamente ridisegnata. Il progetto è stato commissionato dalla Città di Torino e realizzato dagli architetti Aimaro Isola, Giovanni Durbiano e Luca Reinerio. Il nuovo Parco Archeologico intende in primo luogo riportare la Porta Palatina alla sua funzione primaria, consentendo al visitatore un "ingresso ideale" nella zona della città più antica e ricca di storia. L'intera area corrispondente a piazza Cesare Augusto è divenuta così un ampio giardino, delimitato da opere murarie e filari di alberi. Nella parte antistante corso Regina Margherita è stato realizzato un bastione simile a quello che Napoleone Bonaparte fece demolire nel 1800, destinato a ospitare nottetempo i carretti del vicino mercato di Porta Palazzo. Alcuni contestano la realizzazione di tale opera, denunciando una scarsa coerenza stilistica delle strutture murarie realizzate con le vestigia romane presenti.
Nel 2014 l'intera opera muraria è stata sottoposta ad un totale restauro conservativo terminato nel marzo del 2015.

Piemonte - Menhir di Cavaglià

 

menhir di Cavaglià, impropriamente chiamati cromlech di Cavaglià, sono menhir riutilizzati per formare un monumento recente dalle sembianze di cromlech, non lontano dal torrente Elvo a Cavaglià, in Piemonte.
Il monumento tenta la ricostruzione di un cromlech, ricollocando in cerchio i menhir che già originariamente facevano parte di un monumento megalitico rituale, ma realizzando un allineamento arbitrario delle pietre e non rispettando il luogo originario, ormai urbanizzato. Il sito risulta comunque di interesse, dato che le pietre sono preistoriche e presentano incisioni rupestri quali una coppella e incisioni cruciformi probabilmente tardomedievali.
Poco si sa dei menhir di Cavaglià, databili secondo alcune fonti tra il 4000 a.C. e il 5000 a. C., secondo altre all'Età del Ferro, o secondo altre fonti ancora « molti menhir sono di epoca neolitica, ma la loro costruzione si protrasse fino all'età del bronzo e anche in epoche più vicine a noi (fino alle soglie del Medioevo)». Le pietre facevano parte di un luogo di culto dove probabilmente si svolgevano rituali legati all'astronomia, secondo le conoscenze astronomiche dell'epoca. Esse sarebbero testimoni della presenza di insediamenti di tribù celtiche nell'area.
I menhir sono stati delocalizzati, ammassati e lasciati in stato di incuria e abbandono già negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, a seguito di lavori di costruzione del nuovo quartiere. Negli anni Sessanta essi attorniavano un laghetto, secondo le testimonianze degli abitanti.
La situazione di degrado si è protratta fino al 2005, quando lo studioso di storia locale Luca Lenzi, l'associazione culturale Anticaquercia di Biella e il Gruppo Archeologico Canavesano hanno sollecitato l'intervento della Sovrintendenza ai Beni Archeologici della regione Piemonte e del Comune. Le istituzioni hanno permesso la valorizzazione dei reperti, ma la mancanza di studi preliminari e l'oggettiva distruzione del sito archeologico non ne hanno permesso una collocazione filologica.
Il monumento è liberamente visitabile presso l'incrocio della statale per Biella.


Piemonte - Teatro romano di Torino

 


Il Teatro romano di Torino è parte delle vestigia romane dell'antica Augusta Taurinorum, comprese nell'area del Parco Archeologico di Via XX Settembre. Risalente al 13 a.C., fu attivo fino al III secolo e rappresenta l'unica infrastruttura della città romana (Quadrilatero) ad aver lasciato cospicue testimonianze delle tre fasi costruttive successive. La sua riscoperta in età moderna avvenne nel 1899, durante i lavori di demolizione di alcune ali di Palazzo Reale.
Il monumento è visitabile all'interno del Musei Reali di Torino.L’edificio venne realizzato probabilmente sotto il principato di Augusto (27 a.C. - 14 d.C.), prima ancora che venisse completata la cinta muraria, e fu uno dei primi edifici pubblici della nuova colonia di Augusta Taurinorum.
Frutto di un progetto accurato, era tuttavia una struttura molto semplice: un edificio rettangolare di circa 61 x 47 m, forse già dotato di un porticato dietro la scena, che doveva ricordare molto il teatro di Augusta Praetoria (Aosta), realizzato nello stesso periodo.
Gli spettatori entravano da porte disposte lungo le vie, che immettevano in un grande spazio di accoglienza retto da pilastri. Da qui raggiungevano i posti a sedere per assistere alle rappresentazioni: i migliori si trovavano nella cavea (gradonata) semicircolare, realizzata in muratura, ma i cittadini meno abbienti avevano a disposizione un ampio “loggione” raggiungibile con comode scale.
Secondo un modello tipico in età romana, lo sfondo del palco era decorato con una semplice frontescena rettilinea decorata con colonne addossate ai muri. Gli attori facevano la loro apparizione passando da tre porte monumentali, mentre il grande spazio semicircolare davanti al palco, detto orchestra, era destinato al coro e ai danzatori.Nei decenni successivi il teatro fu oggetto di una serie di interventi di rinforzo strutturale e di abbellimento.
Il loggione venne probabilmente ricostruito in muratura ed è forse in questo momento che il frontescena colonnato venne completamente ricostruito con un disegno più fastoso, che prevedeva colonne libere e torri ai lati della scena. Fu anche realizzato il porticato rettangolare dietro l’edificio che, estendendosi fino alla cortina delle mura urbiche, ospitava un fresco giardino dove gli spettatori si intrattenevano nelle pause degli spettacoli.
L’orchestra venne ridotta per ricavare alcune file aggiuntive di sedute con sedili di marmo (proedria), dedicati alle autorità.
Alcune di queste opere sono forse dovute al generoso contributo di Cozio II o a suo figlio Donno, rispettivamente figlio e nipote del prefetto Marcus Julius Cottius, come attesta una iscrizione in marmo esposta al Museo di Antichità.
Grazie al prolungato periodo di pace e di prosperità economica intercorso tra il 70 e il 90 d.C., il teatro fu completamente ristrutturato. Per aumentarne la capienza la cavea fu ingrandita con l'aggiunta di un ordine di scalinate più esterno e fu realizzata una nuova facciata curvilinea in sostituzione della precedente, con le porte ci accesso all'edificio.
Ogni settore della cavea poteva contare su una specifica via di ingresso e di uscita, che garantivano sicurezza e rapidità di accesso e deflusso degli spettatori.
Anche le due torri di parascenio furono raddoppiate in larghezza, in modo da ospitare al piano terreno dei foyer per gli ospiti (basilicae), dai quali si poteva accedere ad un nuovo peristilium colonnato dietro la parete di scena e un giardino a disposizione degli spettatori negli intervalli tra gli spettacoli (un frammento di intonaco dipinto raffigurante fogliame e uccellini in volo rinvenuto negli scavi del 1900 è l'unica traccia della decorazione del portico risalente a questo periodo).
Ampliato fino ad una capienza di tremila persone, il teatro, forse ospitò anche alcune naumachìe, come sembrerebbero testimoniare alcuni canali di scolo rinvenuti nelle sue immediate vicinanze e sotto il tracciato iniziale dell'attuale via Roma.
Il teatro fu utilizzato per più di due secoli fino all'affermarsi del cristianesimo che impose il divieto delle rappresentazioni teatrali. Al termine del IV secolo l'edificio, ormai abbandonato, divenne cava di materiali edilizi per la contestuale costruzione della prima cattedrale, la basilica dedicata a Cristo Salvatore, e il complesso episcopale.
Quasi irriconoscibile e in gran parte spogliato dei marmi più pregiati, i resti del teatro furono quasi completamente distrutti dal primo assedio francese del Cinquecento. Dopo secoli di oblìo, gli attuali resti furono riportati alla luce soltanto tra il 1899 e il 1906, durante gli scavi per la costruzione della nuova ala di Palazzo Reale, commissionata da re Umberto I. Di fondamentale importanza fu l'intervento dell'architetto e studioso Alfredo D'Andrade; egli si oppose fermamente alla demolizione delle vestigia e, a seguito di rilievi e scavi sul posto, fece opportunamente modificare il progetto di ampliamento della manica di Palazzo Reale, consentendone il restauro e la conservazione dei resti. I lavori di risistemazione terminarono nel 1911 e i resti del teatro sono attualmente visibili sia nella parte esterna accanto al vicino Duomo di San Giovanni, che nella parte sotterranea del palazzo adiacente, prestigiosa sede del Museo di Antichità. Il teatro occupava un intero isolato nel quadrante nord-orientale della città, ovvero il quartiere più agiato, circondato da numerose abitazioni patrizie e non lontano dal forum. Il quartiere ha sempre rivestito una particolare importanza: collegato, grazie alle Porta Palatina, alla strada proveniente da Vercellae (Vercelli) e Mediolanum (Milano), fin dalla fondazione della colonia ospitava probabilmente strutture di servizio pubblico. È qui che dalla fine del IV secolo vennero poi edificate le prime chiese cristiane, la Cattedrale dedicata a Cristo Salvatore e la sede del potente Vescovado. Una “zona di comando” riconfermata nel Cinquecento quando anche i Duchi di Savoia decideranno di costruire proprio in questi isolati i loro palazzi.
Come consuetudine, fu edificato in prossimità di un declivio per sfruttarne la pendenza e a ridosso delle mura che racchiudevano il centro abitato. Dagli scavi emersi si può infatti ancora notare l'intervallum, ovvero il camminamento ricavato nello spazio che intercorreva tra il perimetro delle mura e gli edifici in prossimità di esse. Fu poi in seguito rimaneggiato e ampliato. Esso rappresenta uno degli esempi di teatro più piccoli nel suo genere ed è strutturalmente similare al teatro romano di Augusta Raurica, l'attuale Basilea.
L'edificio primigenio occupava un'intera insula ed era originariamente costituito dalla consueta cavea semicircolare realizzata con una gradinata di marmo e da una parete con tre portali che costituiva la scæna; essa era completata dal pulpitum, ovvero il palcoscenico, che era infine affiancato da due annessi laterali detti parascænia. Il sipario, ovvero l'aulæum era azionato da meccanismi lignei i cui pali erano fissati nei dodici pozzetti ancora visibili.
Per ovviare al sole estivo o al clima piovoso nelle altre stagioni la cavea era probabilmente coperta da una seconda sovrastruttura lignea che probabilmente sosteneva un velarium, ovvero una grande copertura in tela. L'intero edificio era quindi circondato da una cinta muraria che era parte integrante delle mura urbiche e che si raccordava a un rettangolare porticus post scænam. Con molta probabilità la parete nord che cingeva il teatro era dotata di due torri simili a quelle della vicina Porta Principalis Dextera e che probabilmente erano anch'esse dotate di appositi ingressi che probabilmente consentivano l'accesso diretto al teatro da chi proveniva da fuori città. Ciò potrebbe suggerire che fosse abitualmente frequentato anche dagli abitanti delle campagne vicine.
Tuttavia il teatro non era l'unica struttura di intrattenimento della piccola Augusta Taurinorum, poiché vi sono supposizioni sulla presenza di un anfiteatro che, secondo alcune ipotesi ancora del tutto prive di riscontri, avrebbe forse trovato luogo al di fuori della Porta Principalis Dextera, presso l'attuale via Borgo Dora, oppure al di fuori della Porta Principalis Sinistra[Nota come Porta Marmorea, ubicata presso l'attuale incrocio tra via Bertola e via XX Settembre e distrutta intorno al 1660 ], in prossimità dell'attuale piazza San Carlo. (Una prima ipotesi della presenza dell'anfiteatro nell'antica Augusta Taurinorum, è quella che vedrebbe nell'andamento descrivente un'ellisse di via Borgo Dora l'unica testimonianza superstite del profilo dell'anfiteatro. L'ubicazione (a poca distanza dal teatro e dalle terme della città), le misure riscontrabili dalla lunghezza della via e dall'ipotetica ellisse generata potrebbero essere infatti compatibili con quelle di un piccolo anfiteatro.)

(da Wikipedia, l'enciclopedia libera)

Piemonte - Libarna

 

Libarna era una città romana situata sulla riva sinistra dello Scrivia, sul tratto della via Postumia tra Genua e Dertona, nelle vicinanze dell'odierna frazione Libarna del comune di Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria. L'area degli scavi di proprietà dello Stato Italiano, oltre che sito archeologico è teatro anche di eventi museali, musicali ed artistici. Nel 2015 ha fatto registrare 4 568 visitatori. L'ingresso è gratuito.
Il villaggio fondato dai Liguri Dectunini, potrebbe essere uno dei quindici oppida che, secondo Livio, si arresero al console Q. Minucio Rufo nel 191 a.C. È menzionata per la prima volta nel II secolo a.C. L'apertura della via Postumia nel 148 a.C. ne favorì senza dubbio la crescita, trasformando Libarna in un importante centro economico e sociale. Ottenuto ben presto il riconoscimento giuridico della cittadinanza latina, fu eretta a colonia soltanto più avanti nel I secolo d.C., quando raggiunse il massimo splendore. Da qui la Via Postumia si dirigeva verso il Passo della Bocchetta. Caduta in declino in seguito alle invasioni barbariche, fu definitivamente abbandonata nel 452, quando gli abitanti lasciarono le case ormai insicure, rifugiandosi sulle colline circostanti, aggregandosi alle comunità esistenti o fondandone di nuove, quali Precipiano, Serravalle e Arquata.
Ricordata ancora in alcuni documenti del monastero di Precipiano (Vignole Borbera) e del catasto di Varinella del 1544, se ne perdette ogni memoria, divenendo incerto perfino il luogo della sua ubicazione.
Identificata dal Settecento con varie località del Bobbiese e del Tortonese, solo nel secolo XIX, in corrispondenza dell'affiorare alla luce dei resti, grazie all'opera dell'abate Bottazzi, veniva accertato il suo inquadramento storico-topografico.
Libarna era un capoluogo autonomo di un vasto territorio che confinava a est con Velleia, a sud con Genua, a ovest con Aquae Statiellae e a nord con Derthona. Situata in una zona particolarmente fertile, l'economia agricola era fondata sulla viticoltura, sulle colture arboricole per lo sfruttamento del legno e sull'allevamento del bestiame. Tra le altre attività dell’epoca si annoverano la produzione della ceramica e l'industria laterizia. Grazie alla posizione geografica costituiva inoltre un importante nodo commerciale.
Pur mancando notizie certe sull'esistenza di edifici di culto nella città, dalle iscrizioni votive ritrovate si desume che i cittadini di Libarna erano devoti a Giove, Diana, Ercole. Attestato anche il culto imperiale
La scoperta dell'antica città fu casuale, grazie all'affioramento di reperti, durante i lavori della cosiddetta strada regia (odierna Strada statale 35 dei Giovi) destinata a collegare Genova, da poco entrata nel Regno di Sardegna, con la capitale Torino, a partire dal 1820.
Sono stati riportati alla luce due quartieri in prossimità dell'anfiteatro, di 60x65m di lato, l'anfiteatro e il teatro. I reperti di scavo sono per la maggior parte conservati nel Museo di antichità di Torino, dove figurano tra le opere di maggior pregio, pavimenti musivi, marmi, bronzi e ambre figurate.
La città sorgeva su un terreno pianeggiante, ricco di acque, circondato da colline. Era attraversata in senso longitudinale dalla via Postumia, che ne costituiva il principale asse da nord-ovest a sud-est. Altro asse principale era il decumano che, orientato da sud-ovest a nord-est, conduceva all'anfiteatro. Le strade dividevano la città in tanti spazi di forma tendenzialmente quadrata, ma di dimensioni differenti. Esse erano lastricate, rettilinee con collettori di scarico convogliati verso l'odierno rio della Pieve. La città riceveva acqua tramite un acquedotto, era ricca di sorgenti, pozzi e fontane.
Nel punto di incontro tra le due principali vie, sorgeva il foro, grande piazza lastricata su cui sorgevano portici ed edifici, che finora è stato solo parzialmente esplorato. Le terme erano situate nell'estremo settore nord-est e verso il limite settentrionale sorgeva il teatro.


Piemonte - Vestigia romane di Susa

 
Le notevoli vestigia romane di Susa, capoluogo dell'omonima valle in Provincia di Torino, comprendono anche una cerchia di mura pressoché intatta, risalente nelle parti più antiche al III secolo e comprendente anche una porta urbis, la Porta Savoia, ancora integra ed utilizzata oggi. Segusio era probabilmente un tempo città celtico-ligure, capitale del regno dei Cozii. Le indagini archeologiche parlano di una città sviluppatasi nella piana ai piedi della rocca che ospitava il Pretorium e l'Arco di Augusto, quest'ultimo simbolo dell'alleanza tra Celti e romani. La cinta muraria è stata costruita per difendere Susa, porta di accesso all'Italia dal Nord-Europa, dai possibili attacchi dei barbari, probabilmente intorno al terzo secolo, secondo le evidenze archeologiche modificando l'assetto urbano preesistente). Le mura sono state costruite variando l'assetto urbano della città di Susa tagliandone fuori ampie porzioni, come ad esempio il foro. La cerchia dà alla città romana un peculiare assetto triangolare, ancora oggi dibattuto dagli studiosi. Un lavoro fatto in urgenza, come testimoniano gli ampi reimpieghi di materiale lapideo e addirittura marmi (i torsi loricati al Museo di Antichità di Torino sono stati recuperati dalla cinta segusina). La cinta muraria comprendeva cortine a sacco in muratura (pietrame), riempite con materiali di recupero e intervallate da torri di raccordo aperte sul lato interno. Il perimetro murario di Susa ha una peculiare forma triangolare, sul quale si aprivano le diverse porte di origine romana. Caposaldo della cinta doveva essere già in epoca romana il palacium che sorgeva sulla rocca della città. Facendo fare immaginariamente perno sul castello al triangolo costituito dalle mura, si può percorrere a sud il primo cateto, la cinta munita di torri lungo la zona dei Fossali (così chiamata per un antico vallo che proteggeva le mura) che culmina a oriente nella Porta di Piemonte. Sulla parte che da est va a nord, ipotenusa immaginaria del triangolo di cinta, la cerchia si avvicinava gradualmente al fiume della Valle di Susa, la Dora Riparia. Nel tratto più vicino al fiume, sullo spigolo nord-ovest, le mura fanno angolo con l'altro cateto, che va di nuovo a impostarsi sul castello e sul quale si apre la occidentale Porta Savoia.
Nel 312 Costantino conquistò la città, alleata con Massenzio. Intorno al X secolo il palacium sulla rocca dovette essere stato sostituito dal castello medioevale. Il primo recinto venne munito di altre porte fortificate da permettere le comunicazioni con l'esterno, come quella che doveva sorgere nei pressi della chiesa di Santa Maria Maggiore e della Casa dei Canonici. Sulla spianata a ovest delle mura dovette in seguito sorgere un secondo caposaldo, la torre del Vescovo, detta di S. Andrea.
La cerchia di mura non racchiudeva nel medioevo il cosiddetto Borgo dei Nobili, sorto lungo di fronte alla Porta di Piemonte e probabilmente attraversato dal percorso del tumultuoso rio Gelassa. Un secondo recinto, racchiudeva gli spazi della città occupati dai nobili e probabilmente dai mercanti. Rimangono quali vestigia di un tempo che fu, antichi portali di palazzi nobiliari e una casa-forte simile per certi versi alla Casaforte di Chianocco.
Rimaneggiamenti e adattamenti sono stati compiuti durante il Medioevo. Inoltre, stando alle notizie tramandate dal Settecento, l'altezza delle mura deve essere stata dimezzata da 12 a 6 metri. Analoga sorte, ma con un ribassamento meno cospicuo, ha subito la Porta Savoia, mentre in epoca imprecisata sono andate distrutte quasi del tutto le altre due porte urbane.
Le mura si presentano oggi in un buono stato di conservazione per la maggior parte del loro tracciato secondo alcuni studiosi uno dei migliori esempi conservati di città fortificata gallica della tarda antichità: il perimetro murario è facilmente visibile ed in gran parte ancora in opera per lunghi tratti. La parte sud-est è stata manomessa con interventi del primo ‘900, ma i vicini “fossali” mantengono il fascino antico. Le mura aiutano il centro storico di Susa a mantenere la peculiare forma urbis medievale della città che è passata pressoché indenne attraverso i secoli, nonostante alcune ricostruzioni settecentesche abbiano fatto perdere esempi edilizi certo importanti dell'età di mezzo, come la Pieve battesimale di Santa Maria Maggiore e il collegato ospizio per i pellegrini, la domus helemosinaria della Via Francigena del Moncenisio.

Piemonte - Augusta Bagiennorum

 

Augusta Bagiennorum
 è una città romana, fondata negli ultimi decenni del I secolo a.C., nella piana della Roncaglia, nelle vicinanze dell'attuale Bene Vagienna (CN). Il suo nome è ricordato da Plinio il Vecchio tra i nobilia oppida della Regio IX - Liguria. Il toponimo ricorda il nome del popolo Bagienni (uno degli antichi popoli Liguri) stanziato nel territorio compreso tra il medio corso del Tanaro e lo Stura di Demonte, oggi compreso nell'attuale provincia di Cuneo. I resti archeologici della città antica oggi visibili (l'area forense, il teatro, l'anfiteatro) sono compresi all'interno dell'Area archeologica di Augusta Bagiennorum, gestita dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Alessandria, Asti e Cuneo. Nel 2016 l'Area archeologica ha fatto registrare 11 560 visitatori.
La città antica era situata a circa 2 km da quella odierna e sorgeva nell'odierna frazione di Roncaglia, una zona pianeggiante delimitata a sud-est dalla valle del torrente Mondalavia, affluente del Tanaro, e a nord-ovest dalle colline che delimitano più oltre la valle della Stura di Demonte.
L'area archeologica della città è sottoposta a tutela fin dal 1933. Nel 1993 vi è stata inoltre creata una riserva speciale di 243 ha, attualmente gestita dall'Ente di gestione del Parco naturale del Marguareis.
I Bagienniavevano come capitale la zona della città che, ai tempi dei Romani, fu chiamata Julia Augusta Bagiennorum (ora Bene Vagienna). Cacciati dalle popolazioni celtiche, e in particolar modo dai Boi, che distrussero il centro ligure, si spinsero nella Val Trebbia in Emilia-Romagna nella zona di Bobbio dove fondarono un loro centro. Furono conquistati dai Romani verso la metà del II secolo a.C. e poi inglobati nell'impero romano.
In epoca romana quindi, si ebbe la rinascita del centro che fu caposaldo dell'urbanizzazione e dello sfruttamento agricolo del territorio insieme ai centri di Pollentia (Pollenzo) e di Alba Pompeia (Alba), collocati ai vertici di un triangolo e lungo i tracciati viari più importanti. La fondazione romana, non sorta su un precedente insediamento, risale probabilmente all'epoca di Augusto, alla fine del I secolo a.C., insieme a quella di Augusta Taurinorum (Torino) e di Augusta Praetoria (Aosta).
Nell'anno 2000 il Comune di Bene Vagienna festeggiò il bimillenario dell'antica colonia romana di Augusta Bagiennorum, poiché la fondazione ufficiale fu fissata, per convenzione, proprio all'inizio del I secolo d.C.

I limiti della città erano segnati da torri situate agli angoli e alle porte di ingresso, mentre la cinta muraria doveva essere costituita da un semplice fossato (vallum) su tre lati, essendo il quarto, a sud-est, già difeso dal ripido pendio verso il torrente Mondalavia. Della città romana è noto a grandi linee l'impianto urbano (il sentiero che oggi percorre l'area sembra seguire il tracciato dell'antico decumano massimo) e resti di terme e abitazioni, oltre ad una parte del Foro cittadino. Il Foro aveva portici con botteghe dalle pareti intonacate sui due lati lunghi; su uno dei lati corti sorgeva una basilica civile a tre navate, mentre su quello opposto si apriva un secondo spazio porticato sui tre lati, dominato da un tempio su alto podio e ha permesso di riconoscere più fasi costruttive tra il I e il IV secolo. Davanti al tempio è stato rinvenuto un altare, ancora in ciottoli e malta, e resti di sepolture a inumazione di epoca altomedioevale, successive all'abbandono.
A sud-est del Foro sono presenti un teatro con annesso quadriportico, al cui centro sono i resti di un basamento templare: sul podio fu edificata una piccola basilica paleocristiana con tre absidi (V-VI secolo), in seguito rimaneggiata (VII-VIII secolo).
Fuori dalla città si trovava un anfiteatro, non ancora scavato: una parziale indagine ha permesso di riconoscere il muro perimetrale esterno, muri radiali, avancorpi ad U con tracce di scale che dovevano salire ai piani superiori, e un corridoio voltato che portava direttamente all'arena. La tecnica di costruzione in opus incertum con ricorsi in laterizi suggerisce una datazione entro la prima metà del I secolo d.C.
Oltre l'attuale strada comunale per Roncaglia si conservano resti di una possibile struttura produttiva, costituita da più ambienti affacciati su una corte centrale, pavimentati in cocciopesto e canalette e scarichi di fornace (I-II secolo d.C.). Emergono dal terreno anche le strutture dell'antico acquedotto, a cui si addossa una chiesetta campestre, e di un monumento funerario quadrangolare.


Piemonte - Ciota Ciara

 
La Ciota Ciara (“grotta chiara”) è una cavità di origine carsica sulle pendici del Monte Fenera, in provincia di Vercelli. È registrata nel catasto speleologico nazionale con la sigla 2507PI.
Contiene le uniche testimonianze dell'uomo di Neanderthal in Piemonte, ed è stata abitata in vari momenti del Paleolitico. Le industrie litiche musteriane sono realizzate prevalentemente con materie prime locali, prevalentemente la selce e il quarzo. Tra i mammiferi del Pleistocene di cui sono stati trovati resti, si annoverano Ursus spelaeus e Ursus arctos ma anche specie erbivore come Rupicapra rupicapra, Cervus elaphus, Bos sp. e micromammiferi come Clethrionomys glareolus, Pliomys coronensis, Glis glis e Microtus arvalis che permettono di ricostruire il clima della regione nel periodo intorno a 80000-70000 anni fa (MIS 5), relativamente temperato e simile al clima attuale.
La Ciota Ciara fu occupata temporaneamente anche in età tardoromana e altomedievale, forse da parte di una comunità monastica.
La grotta è facilmente raggiungibile tramite la rete sentieristica del Parco naturale del Monte Fenera, ma l'accesso è normalmente interdetto per garantirne la conservazione.
Sebbene le grotte del Monte Fenera (Ciutarun, Ciota Ciara, Belvedere) siano state oggetto di scavi occasionali a partire dal 1951, solo nel decennio successivo prese il via uno studio sistematico della Ciota Ciara, e la grotta è stata poi oggetto di ulteriori ricerche archeo-speleologiche anche nei decenni successivi.
A partire dal 2009 sono stati avviati nuovi scavi archeologici condotti dall'Università di Ferrara[6], che hanno portato nel 2020 alla scoperta di denti appartenenti ad un giovane individuo di Homo neanderthalensis.
Alcuni dei reperti archeologici di epoca preistorica e tardoromana sono ora esposti al Museo archeologico di Torino.

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...