venerdì 20 giugno 2025

Campania - Napoli, MAN / Satiro dormiente

 

Il Satiro dormiente è una statua in bronzo avente come soggetto un satiro dal corpo disteso. L'opera è riconducibile all'età ellenistica e precisamente è datata al I secolo a.C.; è stata scoperta presso la Villa dei Papiri di Ercolano e attualmente è esposta presso il Museo archeologico nazionale di Napoli. Alta circa 142 centimetri, la sua composizione rassomiglia fortemente a quella che caratterizza il Fauno Barberini rinvenuto presso Villa Adriana: in entrambi i casi, infatti, potrebbe trattarsi di due sculture derivanti da un modello ellenistico comune, con il quale il Fauno avrebbe avuto maggiori affinità.
Il Satiro dormiente è una copia romana di un originale ellenistico. Secondo un'opinione risalente, la versione ercolanese sarebbe la copia di un prototipo ellenistico del III secolo a.C., più precisamente di un'opera di un artista proveniente dall'Asia minore. Il tipo iconografico, pur correttamente identificato come un satiro (o come un fauno), andrebbe ricollegato, per via delle sue piccole corna, al dio Pan, particolarmente apprezzato presso la corte macedone. Il satiro della Villa dei Papiri è stato recentemente interpretato come un libero adattamento del genere ellenistico, sapientemente adattato al gusto classicista prevalente nel periodo della fine dell'età repubblicana romana.
L'opera, scoperta il 2 marzo 1756, era posizionata su un basamento in muratura, mentre attualmente è esposta su di una base marmorea - nello specifico bardiglio - a forma di roccia. In antichità era posizionato all'estremità orientale della natatio, ossia della piscina, del peristilio rettangolare (la statua, infatti, ornava l'emiciclo orientale); caduto dal suo pilastro, fu ritrovato nella vasca. Assieme al Satiro ebbro, collocato all'estremità occidentale della natatio, il giovane satiro riprendeva e sviluppava il tema dionisiaco già presente all'interno dell'atrio della villa, che si presentava decorato da una serie di statuette di sileni e satiri.
La scultura bronzea rappresenta un giovane satiro addormentato, con il corpo disteso e rilassato. La testa, sulla quale crescono delle piccole corna tra i capelli irti, è dolcemente rivolta all'indietro e rivolta verso la spalla sinistra, trasmettendo una sensazione di rilassamento: ad accentuare ciò, le sue palpebre sono chiuse e le sue labbra appena socchiuse.
Il torso della giovane creatura è leggermente ruotato a sinistra, con il suo braccio destro che, piegato ad arco, sostiene la testa, mentre il sinistro cade, privo di forze, lungo il corpo. La posizione delle gambe, la destra allungata e la sinistra piegata, contribuisce a creare maggiormente l'effetto di distensione ricercato. Probabilmente il satiro reggeva nella sua mano sinistra un attributo, purtroppo andato perduto: forse si trattava di un pedum, ossia un bastone ricurvo; oppure di un tirso. La posizione verticale del corpo, che in larga misura contraddice l'atteggiamento rilassato del giovane, è stata interpretata come il risultato di un restauro sbagliato, oppure lascia immaginare la presenza di un sostegno dietro alla schiena, non ritrovato al momento dello scavo.


Campania - Napoli, MAN / Doriforo

 
Il Dorìforo ("portatore di lancia") è una scultura marmorea databile alla metà del V secolo conservata presso il museo archeologico nazionale di Napoli. La scultura è la miglior copia romana, ritrovata a Pompei, di un originale Doriforo bronzeo di età classica, eseguito da Policleto e databile intorno al 450 a.C. L'opera venne realizzata nel periodo in cui l'artista era attivo nel Peloponneso e raffigura probabilmente Achille con la lancia. Per realizzarla Policleto procedette a una serie di misurazioni di giovani fino ad arrivare a trovare un modulo matematico, che legasse le varie parti anatomiche.
Le sue scoperte, trascritte nel perduto trattato del Canone, sono oggi note a noi tramite le citazioni di autori successivi. Da esse si evince come, al pari di quanto accadeva negli stessi anni in architettura col modulo, Policleto arrivò alla conclusione che, stabilita la misura di un elemento quale il dito o la testa, tutte le proporzioni si potessero calcolare armoniosamente. Ad esempio, nel Doriforo, la testa è 1/8 dell'altezza, mentre 3/8 sono occupati dal busto e 1/2 dalle gambe.
L'opera fu tra le più replicate del mondo antico e se ne conoscono numerosissime versioni.
Tra le migliori figure quella proveniente da Pompei è conservata nel museo archeologico napoletano, praticamente completa a parte l'assenza della lancia. La versione napoletana fu rinvenuta durante gli scavi archeologici vesuviani, nella palestra Sannitica, il 12 giugno 1797.
Vi è poi una versione frammentaria al Kunsthistorisches Museum di Vienna, e numerose altre copie, spesso reintegrate con frammenti non pertinenti, nei Musei Vaticani, tra le quali la migliore è esposta nel Braccio Nuovo.
Due statue complete, ma con restauri, sono agli Uffizi, dove si trova anche un poderoso torso in basalto verde. Esistono poi numerosi frammenti della sola testa (ospitati nel Pergamonmuseum, nel Metropolitan, ecc.).
Un giovane nudo avanza leggermente sollevando il braccio sinistro, col quale tiene una lancia appoggiata sulla spalla. L'anatomia appare regolata dalle proporzioni del canone, con un grande equilibrio formale. Nuovo era, come ricordò Plinio (Naturalis Historia XXXIV, 56), il fatto che la statua si appoggiasse solo sulla gamba destra (aiutata però da un sostegno a forma di tronco nelle copie marmoree).
Esemplare è l'applicazione del chiasmo, ovvero del ritmo incrociato in grado di conferire estrema naturalezza alla rappresentazione. La gamba destra, infatti, è tesa e corrisponde al braccio sinistro in tensione; l'arto inferiore sinistro, al contrario, è rilassato come il braccio destro abbassato: ogni tensione trova quindi la sua adeguata contrapposizione, smorzandosi sul lato opposto in un rilassamento. L'arco del bacino inoltre si trova a essere inclinato verso la gamba flessa ed è opposto allo spostamento delle spalle. Ne consegue un dinamismo trattenuto che annulla ogni impressione di staticità, a differenza dei precedenti della statuaria arcaica e severa.
L'insieme è potente e muscoloso, con una testa dalla struttura robusta e dotata di un'espressione meditativamente sospesa.
L'originale opera era bronzea, eseguita con la tecnica a cera persa; essa differiva dalla copia marmorea dal tassello posto a sostenere il braccio destro di quest'ultima (elemento di sostegno inutile in una scultura bronzea) e dal tronco, avente funzione di scaricare il peso.

(da Wikipedia, l'enciclopedia libera)

Campania - Napoli, MAN / Pseudo-Seneca da Ercolano

 

Lo Pseudo-Seneca è un busto romano in bronzo della fine del I secolo a.C. scoperto a Ercolano nel 1754 e conservato presso il Museo archeologico nazionale di Napoli. Si tratta del più bell'esempio rinvenuto tra le circa due dozzine di busti raffiguranti lo stesso soggetto.
Inizialmente si credeva che rappresentasse Lucio Anneo Seneca, il famoso filosofo romano del I secolo d.C., tuttavia, gli studiosi moderni concordano che sia probabilmente un ritratto immaginario, presumibilmente di Esiodo, anche se sussiste altresì l'ipotesi che possa trattarsi di Lucrezio.
Probabilmente il busto originale era un bronzo greco perduto del 200 a.C. circa.
Il busto è stato identificato come un "vero e proprio" ritratto contemporaneo di Seneca da Gallaeus (Theodor Galle) da una pubblicazione ad Anversa dell'opera di Fulvio Orsini Imagines et Elogia Virorum illustrium et Eruditor(um) ex Antiquis lapidibus et Nomismatib(us)... in un momento in cui si badava più alla qualità e al carattere che l'opera d'arte stessa incarnava che al soggetto.
Seguendo l'esempio di Cicerone, che aveva decorato il suo studio con diversi busti, o dell'immagina illustrium che popolavano la villa di Sorrento di Pollio Felice, descritta da Stazio, le importanti personalità dei secoli XVI e XVII miravano al possedimento di ritratti a busti di grandi scrittori dell'epoca classica. Per questo motivo si ipotizza che il busto potesse essere appartenuto ad una persona di cultura della città romana.
Ancora, nella versione ercolanese dello Pseudo-Seneca l'eccellente qualità fu subito riconosciuta da Johann Joachim Winckelmann, seppur inizialmente fu messa in dubbio il soggetto ritratto. Una menzione del busto è stata pubblicata nella magnifica serie di libelli, comparsi sotto il patronato reale di Ferdinando I delle Due Sicilie. 
Nell'occasione del ritrovamento, furono rinvenute circa una dozzina di copie dello "Pseudo-Seneca". Altri tre esemplari invece furono ritrovati qualche anno prima a Roma e entrarono a far parte della collezione Farnese. Tutti questi pezzi sono esposti sempre al museo archeologico di Napoli.
Una versione del XVII secolo, in marmo, oggi al Ashmolean Museum, era invece di proprietà del pittore Pieter Paul Rubens.

Campania - Napoli, MAN / Ercole Farnese

 

L'Ercole Farnese è una scultura ellenistica in marmo alta 317 cm di Glicone di Atene databile al III secolo d.C. custodita nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Essa risulta essere una copia dell'originale bronzeo creato da Lisippo nel IV secolo a.C. Sulla roccia, sotto la clava, è presente la firma del copista Glicone, scultore ateniese del II secolo d.C.
La statua, appartenente alla collezione Farnese, è stata rinvenuta alle terme di Caracalla a Roma intorno al 1546. La statua fu trovata per la prima volta priva di alcuni pezzi, tra i quali i due polpacci. Così Guglielmo Della Porta, allievo di Michelangelo, eseguì il restauro della scultura inserendo le suddette parti mancanti. Successivamente, quando furono ritrovati i due frammenti di arti inferiori, si decise di lasciare i pezzi di recente aggiunta in quanto considerati di maggior fattura. Solo durante il periodo dei Borbone di Napoli, alla fine del Settecento, si decise di ripristinare gli antichi arti sostituendoli a quelli di restauro. Oggi nel museo archeologico di Napoli è possibile vedere alle spalle dell'Ercole una parete sulla quale sono esposti i due polpacci scolpiti da Guglielmo Della Porta.
Successivamente è entrata a far parte della collezione del cardinale Alessandro Farnese. Per generazioni l'Ercole è stato posto nella sala d'Ercole del palazzo Farnese di Roma, e con esso, nello stesso palazzo, vi erano collocate anche gran parte delle sculture antiche. Nel 1787, grazie all'eredità ottenuta da Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese, l'intera collezione Farnese fu trasferita a Napoli e collocata prima nella reggia di Capodimonte, edificata proprio a tal scopo, e poi, successivamente, nel Palazzo del Real Museo.
La fama dell'Ercole era realmente europea e numerosi sono gli aneddoti che lo riguardano durante il periodo della rivoluzione francese e delle spoliazioni napoleoniche. Il non essere riusciti ad asportare l'Ercole Farnese in Francia sembra essere stato un vero e proprio cruccio dei rivoluzionari prima e dei napoleonici poi. ll vescovo Henri Gregoire davanti alla Convenzione del 1794: «Se le nostre armate vittoriose penetrassero in Italia, l'asportazione dell'Apollo del Belvedere e dell'Ercole Farnese sarebbe la più brillante delle conquiste. È la Grecia che ha ornato Roma: ma i capolavori delle repubbliche greche dovrebbero forse ornare il paese degli schiavi (i.e. l'Italia)? La Repubblica Francese dovrebbe essere la loro sede definitiva». Famoso un altro aneddoto raccontato da Antonio Canova nei suoi scritti. Il 12 ottobre 1810 lo scultore venne presentato a Napoleone dal general Duroc per esprimere il desiderio di rientrare in Italia, ma Napoleone oppose: "Questo è il vostro centro, qui vi sono tutti i capi d'arte antichi; non manca che l'Ercole Farnese, ma avremo anche quello" . Al che Canova rispose: «Lasci Vostra Maestà almeno qualche cosa all'Italia. Questi monumenti antichi formano catena e collezione con infiniti altri che non si possono trasportare né da Roma né da Napoli». Sorte diversa ebbero le altre opere oggetto delle spoliazioni napoleoniche in tutta Italia.
L'eroe personificava il trionfo del coraggio dell'uomo sulla serie di prove poste dagli dèi gelosi. A lui, figlio di Zeus, era concesso di raggiungere l'immortalità definitiva. Nel periodo classico, il suo ruolo di salvatore dell'umanità era stato accentuato, ma possedeva anche difetti mortali come la lussuria e l'avidità.
L'interpretazione che ne diede Lisippo rispecchiava questi aspetti della sua natura mortale e fornì all'eroe un ritratto al quale si guardò per il resto dell'antichità. Questa statua rappresenta Ercole, stanco al termine delle fatiche, che si riposa appoggiandosi alla clava, tenendo con la mano destra, dietro la schiena, i pomi d'oro rubati alle Esperidi.

Diverse sono le opere eseguite nei secoli con il medesimo soggetto. Si ricordano la copia presente nel cortile di palazzo Pitti a Firenze, fino al XVI secolo; un'altra bronzea in scala ridotta fu trovata a Foligno ed è oggi conservata nel Museo del Louvre (foto a destra); un'altra, chiamata Ercole Curino, sempre bronzea in scala ridotta del III secolo a.C., fu trovata a Sulmona ed è oggi conservata nel museo archeologico nazionale d'Abruzzo a Chieti; poi vi è una simile a quella di Napoli presente nel salone d'onore della reggia di Caserta, la stessa fu ritrovata assieme all'Ercole Farnese ed è chiamata Ercole Latino; ancora, un'opera in marmo ritraente lo stesso soggetto è presente nel museo dell'Antica Agorà di Atene; e ancora, a Kassel, città del nord Hessen in Germania, è presente una replica, posta su un edificio in pietra ottagonale ("Oktagon") che sormonta uno dei parchi più importanti della città. Nel complesso il sistema edificio-statua raggiunge 69 metri d'altezza: è secondo al mondo dopo la statua della Libertà di New York. In Francia, presso il Castello di Vaux-le-Vicomte, una copia in bronzo dorato della statua si trova posta nel punto prospettico dell'intero parco del castello.
Una copia dell'Ercole Farnese si trova a Palermo, nel parco della Favorita, posta su una colonna al centro della Fontana d'Ercole, da cui parte l'omonimo viale che dalla città porta alla Palazzina Cinese, residenza estiva dei re di Napoli.
Infine, un calco in gesso è esposto nella stazione "Museo" della linea 1 della metropolitana di Napoli.

Campania - Napoli, MAN / Ritratto di Paquio Proculo

 


Il cosiddetto ritratto di Paquio Proculo è un affresco conservato presso il Museo archeologico nazionale di Napoli, rinvenuto nella "casa di Pansa" negli scavi archeologici di Pompei.
L'affresco ritrae una coppia di borghesi pompeiani, quasi certamente marito e moglie. Essi vengono comunemente indicati come "Paquio Proculo e sua moglie", a causa di una scritta rinvenuta sull'esterno della casa; in realtà si tratterebbe del panettiere Terentius Neo, come rivelerebbe un graffito rinvenuto all'interno della casa, mentre la scritta esterna apparteneva ad un manifesto di propaganda elettorale a favore di Paquio Proculo, effettivamente poi eletto come duoviro di Pompei.
Il panettiere - che possedeva il suo pistrinum sulla via dell'Abbondanza - sull'affresco si presenta abbigliato con la toga, qualificandosi in tal modo come cittadino romano Si è ipotizzato, inoltre, che i caratteri somatici dei due personaggi raffigurati ne tradiscano le origini sannitiche, che spiegherebbe il desiderio di ostentazione dello stato sociale raggiunto: l'uomo raffigurato stringe infatti un rotolo di papiro (rotulus), mentre la donna tiene in mano una tavoletta cerata e lo stilo, suggerendo che l'uomo si occupasse di attività pubbliche o culturali e che la donna si occupasse invece dell'amministrazione della casa e degli affari: infatti le tavolette cerate rinvenute a Pompei che presentano ancora tracce di iscrizioni, sono tutte a carattere commerciale ed economico (contratti di fitto, ricevute, compravendite, note di addebito o di accredito, ecc.).

Campania - Napoli, MAN / Artemide Efesia

 
L'Artemide Efesia (o Artemide Farnese) è una scultura risalente al II secolo d.C. della dea Artemide. In alabastro giallo, fa parte della Collezione Farnese ed è conservata presso il Museo archeologico nazionale di Napoli (inv. 6278).
La statua rappresenta l'immagine cultuale presente nel tempio di Artemide a Efeso. Originariamente l'immagine cultuale era in ebano, ricoperta di vesti preziose e gioielli periodicamente rinnovati per mezzo di elaborate cerimonie.
Rinvenuta a Tivoli nella Villa Adriana, è una copia di epoca adrianea della statua di culto venerata nel santuario di Efeso. La sua postura rigida testimonia dell'arcaicità dell'iconografia. Dea della natura e dominatrice delle fiere, la statua è decorata con protomi di leoni, grifi, cavalli, tori, api, e anche sfingi e fiori. Il petto è caratterizzato da quattro file di mammelle (a volte interpretati come scroti di toro) simbolo di fertilità, mentre il pettorale racchiuso da una ghirlanda di elicriso e ghiande mostra due figure femminili alate e i simboli delle costellazioni dell'ariete, toro, gemelli, cancro e leone. Tipico della dea è anche il nimbo circolare intorno alla testa ed il copricapo a kalathos, qui a forma di torre o di mura cittadine. La testa, le mani ed i piedi in bronzo sono frutto di un restauro ottocentesco, effettuato in occasione del trasferimento da Roma a Napoli.
Come anche per altre copie di epoca romana tratte da originali greci antecedenti di secoli, vi si possono trovare libere variazioni nella forma, come negli abiti della dea.
In questa statua l'immagine veste un chitone (χιτών) stretto sotto un grembiule (ἐπενδύτης) legato da una cintura. Sul busto propendono un insieme di "mammelle", che secondo alcuni intendono rappresentare gli scroti di toro offerti alla dea: la castrazione di questi animali a lei sacrificati indica il potere che la dea ha sugli uomini e la garanzia che essa offre sulla loro fertilità. La corona cilindrica (πόλος) e l'aureola sono in alabastro, frutto del restauro di Alberto Albacini; la testa, i piedi e le mani sono in bronzo, opera del restauro di Giuseppe Valadier.

Campania - Napoli, MAN / Anforetta con amorini vendemmiatori


Anforetta con amorini vendemmiatori
, anche nota come Vaso blu di Pompei, è un'anfora risalente al I secolo d.C., rinvenuta negli scavi di Pompei e situata presso il Museo archeologico nazionale di Napoli. L'anforetta venne alla luce in una valente bottega campana, prima dell'eruzione del Vesuvio del 79. Poiché non si conosce, appunto, l'officina che la realizzò, si è ipotizzato che per affinità stilistiche si tratti della stessa bottega che produsse il vaso di Portland. Fu rinvenuta durante gli scavi archeologici di Pompei il 29 dicembre 1837, all'interno di una sepoltura. Precisamente fu estratta dalla nicchia di una tomba a camera, rivolta verso la Villa a Colonne di Mosaico.
Oltre ad essere un esempio della signorile prosperità in cui i pompeiani vivevano, nella prima età imperiale, è uno degli oggetti vitrei risalenti all'epoca romana che meglio si sono preservati fino ad oggi.
L'anforetta venne realizzata con la tecnica del vetro cammeo: su una superficie scura veniva applicato uno strato di pasta vitrea bianca, su cui venivano finemente incise le immagini che possiamo vedere, in questo caso, sul vaso.
Lavorando in tal modo gli artigiani potevano ottenere un effetto simile a quello dei cammei, in maniera certamente più economica e semplice, visto che sui cammei le forme complesse venivano realizzate con difficoltà. Inoltre quest'anfora è il più noto esempio di vaso realizzato in vetro cammeo assieme al vaso di Portland.
La forma allungata di quest'opera è un riferimento ai vasi fittili che venivano impiegati per il trasporto e la successiva conservazione del vino, ed è distesa ulteriormente dal bottone che conclude il puntale sul fondo.
Prima scena
Nella prima scena del recipiente vediamo una folta decorazione centrale di elementi naturali (foglie, papaveri, mele cotogne, rami d'alloro), che parte proprio dal corpo del vaso. Di seguito abbiamo un putto rilassato e disteso a metà su un letto, mentre mantiene un recipiente di ridotte dimensioni. Di fronte a ne vediamo un altro che suona la cetra.
I due si trovano in mezzo ad altri due amorini, alzati su dei piedistalli, che raccolgono grappoli d'uva, in una scena, quindi,
che ha riferimenti bacchici.
Seconda scena 
Nella seconda scena, che sempre ci viene introdotta dalla fitta decorazione vegetale, abbiamo modo di vedere, a destra, un giovane che, munito di tirso, bastone rituale proprio di Dioniso, si occupa di pestare l'uva in un gran recipiente, che sta venendo versata da un altro fanciullo a sinistra. Seduti ai lati ci sono altri due amorini. Quello a destra suona il flauto di Pan e quello a sinistra il diaulòs.
Decorazioni 
Intorno alle scene ci sono ghirlande d'edera, rami di vite e i loro pampini e grappoli d'uva, riuniti in un girare di volute in cui si nascondono degli uccelli, con una grossa maschera da satiro bassa e centrale.
Per finire nella parte inferiore, vediamo animaletti pascolare e alberi alternati, sottostanti a un'accentuata linea orizzontale. Questi numerosi riferimenti al dio Bacco conferiscono a quest'opera un'atmosfera di giocosa leggiadria, in un ambiente naturale di magnanima fertilità nella cui vendemmia non c'è fatica.






Campania - Napoli, MAN / Battaglia di Isso

 

La Battaglia di Isso (o il Mosaico di Alessandro) è un mosaico romano del 100 a.C. circa (582 × 313 cm) conservato presso il Museo archeologico nazionale di Napoli. Il mosaico fu trovato il 24 ottobre 1831 a Pompei, nella pavimentazione della casa del Fauno, durante gli scavi archeologici. La scena ritratta è quella della battaglia di Isso compiuta da Alessandro Magno (a sinistra del mosaico) contro Dario III di Persia (a destra).
Il mosaico, realizzato con circa un milione e mezzo di tessere e commissionato probabilmente in quanto antenati del proprietario avevano rapporti con il re macedone, risulta essere una copia del dipinto eseguito dal pittore greco Filosseno di Eretria. Un'altra teoria meno accreditata afferma che potrebbe essere stato un originale mosaico ellenistico saccheggiato dalla Grecia e portato a Roma.
La scena illustrata è quella di una battaglia tra Alessandro e Dario e, seppure i due condottieri si siano affrontati più volte, prima a Isso (333 a.C.) e poi a Gaugamela (331 a.C.), la tradizione ed alcuni dettagli, come le aste lunghissime dei macedoni e la testa nuda di Alessandro, riconducono l'opera a quella di Isso.
Nel settembre del 1843 il mosaico fu trasferito a Napoli.
Nonostante il mosaico risulti parzialmente rovinato le due figure principali sono facilmente riconoscibili.
La raffigurazione di Alessandro è una delle sue più famose. Nella corazza è raffigurata Medusa e i suoi capelli ondulati rappresentano il tipico aspetto della ritrattistica reale dell'arte greca del IV secolo a.C. La sua figura, insieme al famoso cavallo Bucefalo, occupa la parte sinistra della scena, più danneggiata.
Dario è raffigurato su un carro. Dall'espressione sembra essere spaventato e preoccupato, con l'intenzione di fuggire dalla battaglia. Da notare come tenti di lanciare un ultimo, disperato assalto dei suoi uomini mentre il cocchiere già frusta i cavalli.
Oltre ai due personaggi principali, vi è rappresentato Dario Oxyathres, fratello di Dario III, che sacrifica sé stesso per permettere la fuga del congiunto, lasciandosi trafiggere dal condottiero macedone.
Nella rappresentazione del cavallo centrale, visto da dietro, si nota l'uso dell'ombreggiatura per trasmettere un senso di massa e volume e per aumentare l'effetto naturalistico della scena. Le lance e l'affollamento di uomini e cavalli evocano il frastuono della battaglia.
Nell'opera spiccano anche dettagli drammatici, come il cavallo caduto e il soldato persiano in primo piano che guarda sé stesso in agonia, riflesso in uno scudo.
Il mosaico è costituito da circa un milione e mezzo di piccole piastrelle policrome, disposte in curve graduali. La tecnica è quella dell'opus vermiculatum: le tessere vengono posizionate in maniera asimmetrica, seguendo il contorno delle immagini raffigurate.
Il mosaico è un'opera insolitamente dettagliata per una residenza privata e probabilmente è stato commissionato da una persona o una famiglia benestante.
Infine, l'uso di soli quattro colori, bianco, giallo, rosso, blunero, conferma la classicità dell'opera.

Campania - Napoli, MAN / Statua di Traiano da Minturno

 
La statua di Traiano da Minturno, in marmo grechetto, è opera della fine del I secolo d.C. Fu trovata nei pressi del fiume Liri-Garigliano a Minturno, l'antica Minturnae nella Regio I Latium et Campania. Appartiene alle collezioni del Museo archeologico nazionale di Napoli.
La statua rappresenta Traiano in un momento di vita militare, ossia mentre alza la mano destra per parlare ai suoi soldati, ma nello stesso tempo ricorda la sua attività di legislatore, evocata dal papiro che stringe con la mano sinistra.
La statua ha un'importanza particolare perché, nel XX secolo, è stata ripetutamente scelta come modello per ricavarne repliche, poste in varie città italiane ed estere.
La statua va inquadrata nel contesto dei ritratti di Traiano, che presentano l'imperatore in modo semplice e obiettivo, coi tratti fermi e pacati, dai quali emergono comunque la suprema autorità e la dignità del comando. Gli attributi prettamente militari (in questo caso la corazza) sono presenti, ma non sono preponderanti, perché affiancati ad elementi che richiamano l'attività di governo (in questo caso quella di legislatore). Le sculture che raffigurano Traiano sono contraddistinte inoltre da un certo realismo tipico della tradizione romana augustea e dall'abbandono delle tendenze ellenistiche del periodo di Domiziano.
In quest'opera, l'imperatore è vestito di lorica, la corazza militare decorata a rilievo con scene mitologiche e simboli epici o divini. In questo caso si tratta di lorica musculata, cioè del tipo che riproduce la muscolatura del tronco. La figura presenta la classica disposizione della ponderatio, con appoggio sulla gamba sinistra e con la destra arretrata.
L'imperatore reca una clamide avvolta sul braccio sinistro, mentre quello destro è alzato nella posa dell'adlocutio, ossia mentre parla ai suoi soldati. La mano sinistra stringe un papiro, per richiamare l'attività di legislatore di Traiano, per la quale è particolarmente ricordato. Il parazonio pende a tracolla e la tunica è corta.
La corazza è a due ordini, con squame istoriate. Sul petto è rappresentata Minerva attorniata da due figure danzanti. Queste hanno l'iconografia della Nike e brandiscono gli scudi compiendo una danza sacra per onorare la dea. L'identificazione con Minerva è data dalla presenza di una civetta. Sono presenti però anche altre immagini, non solitamente accostate alla Dea, ma che richiamano divinità in qualche modo collegate ad essa: un serpente, attributo tipico della Dea Madre, e una testa di lupa, che rimanda alla Dea Roma ed è posta sul capo di Minerva, secondo l'usanza dei velites, ossia dei soldati romani armati alla leggera del periodo repubblicano.
Nella parte più alta della corazza è presente un gorgoneion, elemento non raro in corazze dello stesso tipo, ma che qui è da collegare alla rappresentazione di Minerva, che sull'egida aveva proprio la testa della Gorgone.
La statua presenta diversi elementi ricostruiti nel restauro, prendendo come modello altri ritratti scultorei di Traiano. Le parti integrate sono: la testa da sotto al naso fino alla parte superiore del capo (comprendendo naso, occhi, fronte e orecchie), il braccio destro, la mano sinistra, la parte sinistra della corazza, l'impugnatura del parazonio, il lembo del manto cadente a sinistra dal ginocchio in giù, oltre a numerosi tasselli qua e là.

Nonostante l'esistenza di altre statue che rappresentano Traiano, come quella agli Uffizi, proprio questa è stata scelta come modello per ricavare varie repliche, spesso in bronzo, da collocare in contesti in cui fu ritenuto necessario ricordare l'opera di colui che gli stessi contemporanei chiamavano l'ottimo imperatore. Le copie sono collocate in varie città italiane ed estere; si segnalano le seguenti (elencate in ordine cronologico di realizzazione).
Un calco in gesso è presente a Roma, all'interno del Museo della civiltà romana, nella sala XII, dedicata appunto a Traiano e Adriano.
L'opera risale almeno al 1937, quando il museo attuale non esisteva ancora e molte opere che esso ora conserva, tra cui il calco della statua di Traiano da Minturno, erano esposte alla "Mostra Augustea della Romanità". In questa mostra erano presenti sia copie appositamente realizzate, sia quelle provenienti dal "Museo della Romanità", inaugurato nel 1927 per opera dell'archeologo Giulio Giglioli; la copia in questione potrebbe quindi risalire anche al 1927, ma le fonti disponibili non precisano né l'epoca di realizzazione del calco, né la data di ritrovamento dell'originale.
A loro volta, le opere raccolte nel Museo della Romanità erano state in parte realizzate nel 1911, per la mostra archeologica allestita alle Terme di Diocleziano, parte dell'esposizione nazionale per il cinquantenario dell'Unità d'Italia; il curatore era Rodolfo Lanciani. La mostra alle Terme di Diocleziano costituì quindi il primo nucleo dell'attuale Museo della civiltà romana. Il calco ora esposto al Museo della civiltà romana potrebbe di conseguenza risalire anche al 1911.
A Roma, nel 1933, fu collocata una replica bronzea della statua lungo via dei Fori Imperiali, di fronte all'area dei Mercati traianei (costruiti tra il 100 e il 110 d.C.) e del Foro di Traiano (107-112). Nel ventennio fascista, la via era detta "via dell'Impero".
Nello stesso anno, oltre che quella di Traiano, in via dei Fori Imperiali furono collocate anche le statue di Cesare, di Augusto e di Nerva, ciascuna in corrispondenza del foro rispettivo. L'idea della collocazione delle statue, con intento sia decorativo, sia didattico, fu dell'architetto Armando Brasini, che a proposito di questa scelta aveva dichiarato: …Le statue dei maggiori imperatori romani, oltre a costituire un motivo altamente decorativo, ricorderebbero al popolo, che non sempre visita i musei, … i nomi e le effigi dei creatori di quella potenza di Roma, che nei secoli continuerà nel mondo.
Sul basamento della statua è presente la seguente iscrizione:
«SPQR
IMP CAESARI NERVAE F
TRAIANO
OPTIMO PRINCIPI
»
Ad Ancona, nel 1934, fu collocata una replica bronzea della statua in via XXIX Settembre, strada che si affaccia sulle banchine del porto, in epoca antica ampliato proprio da Traiano.[14] La statua era stata donata dal governo ed inaugurata solennemente domenica 16 settembre 1934, in un nuovo spazio urbano, denominato "Largo Traiano", originatosi dalla demolizione di alcuni edifici situati sul fronte del porto.
Nella città c'era stato un dibattito a proposito del luogo in cui porre la statua: un'associazione cittadina di artisti aveva sostenuto che sarebbe stato più opportuno collocarla nella zona prossima all'arco di Traiano, che si erge proprio sul molo fatto costruire dall'Imperatore, ma alla fine prevalse la scelta di un sito più centrale. Questo dibattito sull'opportunità di collocare la copia della statua nei pressi dell'arco romano oppure in una zona più neutra dal punto di vista storico è analogo a quello che si visse anche a Benevento, descritto nel seguente paragrafo; analoga fu anche la decisione adottata nelle due città.
Il legame tra Traiano ed Ancona è dato da tre circostanze: anzitutto dal fatto che l'ottimo imperatore decise l'ampliamento del porto (100), al fine di renderlo accessum Italiae, ossia "ingresso d'Italia" per chi vi giungeva dall'oriente, poi dalla presenza nel porto della città di un arco in onore di Traiano eretto per decisione del Senato romano (contemporaneo all'intervento sul porto), e infine dal fatto che, nel 105, l'imperatore scelse Ancona come porto di imbarco dell'esercito in occasione della Seconda guerra dacica; la scena è rappresentata sulla Colonna Traiana (scena 58 di Cichorius).
Sul basamento della statua è presente la seguente iscrizione:
«IMP CAESARI NERVAE F
TRAIANO
OPTIMO PRINCIPI
»
A Benevento, su sollecito dell'amministrazione cittadina, fu donata dal governo nel 1934 una replica bronzea della statua. Il fatto va inserito nella volontà dell'amministrazione di dare una nuova sistemazione all'area circostante l'Arco di Traiano, nell'intento di renderla più monumentale. Nel 1935 vennero infatti presentati due progetti in cui si prevedeva la costruzione, di fronte all'Arco, di una cortina muraria con un varco di accesso alla città, in asse con il fornice; ai due lati di quest'ingresso sarebbero dovute essere collocate la statua di Traiano arrivata l'anno precedente ed una di Benito Mussolini (mai realizzata).
Questa soluzione fu bocciata dal dicastero allora competente, ovvero il Ministero dell'educazione nazionale, ritenendo gravemente pregiudizievole all'augusta e sacra maestà dell'Arco Traiano lo sviluppo di un qualsiasi partito architettonico di un portico o di un colonnato all'intorno. Il progetto venne così modificato: al posto del muro fu prevista una semplice esedra a tre gradini delimitata da un parapetto lungo il quale realizzare un lungo sedile continuo. Nel 1936 iniziarono i lavori, durante i quali vennero alla luce le due statue di Traiano e Plotina ora conservate nel Museo del Sannio. Al termine dei lavori, la statua di Traiano non venne posta nelle vicinanze dell'arco, come prevedevano i primi progetti, ma nella zona centrale della città, nel giardino della Rocca dei Rettori.
La volontà del comune di Benevento di accogliere una statua di Traiano fu dettata da due motivi: innanzitutto perché l'imperatore ordinò l'apertura di una strada di collegamento tra Benevento e Brindisi che sostituì, in quanto più breve ed agevole, un tratto della via Appia Antica; la variante fu realizzata tra il 108 e il 110 ed ebbe il nome di via Traiana o anche via Appia Traiana; inoltre perché a Benevento sorge il noto arco dedicato a Traiano (costruito nel 114-117).
Sul basamento della statua è presente la seguente iscrizione:
«SPQB
IMP CAESARI NERVAE F
TRAIANO
OPTIMO PRINCIPI
»
Una replica bronzea, realizzata dalla Fonderia artistica Chiurazzi, è collocata nei pressi di Tower Hill a Londra, all'esterno di un tratto della cinta di mura romane. La statua ha una storia molto particolare: fu infatti scoperta in un deposito di rottami dal reverendo Philip "Tubby" Clayton, rettore dal 1922 al 1962 della vicina parrocchia "All Hallows-by-the-Tower" (a volte detta anche "All Hallows Barking"), e installata nei pressi delle mura romane della città nel 1980, come suo lascito, come risulta dalla targa apposta sul monumento:
«STATUE BELIEVED TO BE OF THE ROMAN EMPEROR TRAJAN
A.D. 98–117
IMPERATOR CAESAR NERVA TRAJANUS AUGUSTUS
PRESENTED BY THE TOWER HILL IMPROVEMENT TRUST AT THE
REQUEST OF THE REVEREND P. B. CLAYTON, CH, MC, DD,
FOUNDER PADRE OF TOC H.
»


Campania - Napoli, MAN / Eroe greco con fanciullo

 
L'Eroe greco con fanciullo, conosciuto anche come il Gruppo statuario raffigurante Neottolemo ed Astianatte, è una scultura marmorea di epoca romana databile agli inizi del III secolo e conservata presso il museo archeologico nazionale di Napoli. Il gruppo scultoreo fu rinvenuto presso gli scavi delle terme di Caracalla a Roma. Fu così dapprima esposto nel cortile di palazzo Farnese, e poi, quando per volere di Ferdinando IV di Borbone venne ultimato il trasferimento della collezione Farnese a Napoli, avviata da Carlo di Borbone qualche decennio prima, nel 1787 l'Eroe greco fu trasferito nella capitale del regno e collocato nella villa reale, dove trovarono posto anche altre sculture romane. Nel 1826 invece la scultura trovò definitiva sistemazione al museo archeologico di Napoli dove tuttora è esposta.
La statua è frutto di importanti restauri di epoca borbonica che hanno interessato soprattutto le teste dei personaggi. Per questo motivo, l'attribuzione certa della scena è tutt'oggi di incerta interpretazione.
Di certo è che viene raffigurato un guerriero greco che sorregge un bambino completamente nudo ed ormai esanime. Lo sguardo spietato del guerriero e la fierezza con cui regge il cadavere lasciano intendere che abbia ucciso lui il fanciullo. Tuttavia, i soggetti potrebbero riferirsi a più personaggi: a Neottolemo, nell'atto di uccidere il piccolo Astianatte; oppure ad Achille e Troilo; o ancora ad Atamante e Learco.
La testa dell'eroe greco, non pertinente, è invece dell'imperatore Commodo.

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...