mercoledì 30 luglio 2025

TUNISIA - Relitto di Mahdia

 

Il relitto di Mahdia è un sito archeologico subacqueo situato circa 5 km al largo della città tunisina di Mahdia, a metà strada tra le antiche città di Tapsus e di Sullecthum.
Il sito ha restituito i resti di un'antica nave mercantile greca naufragata nel I secolo a.C., che trasportava opere d'arte ed elementi architettonici. Lo studio del carico della nave è stato importante per comprendere meglio i gusti dei committenti e la circolazione delle opere.
Il sito fu scoperto casualmente agli inizi del XX secolo e fu scavato sistematicamente in diverse campagne dall'archeologo francese Alfred Merlin fino al 1913, quando gli scavi si arrestarono per mancanza di fondi. Insieme allo scavo del relitto di Anticitera, scoperto nell'anno 1900, ha costituito l'inizio della disciplina dell'archeologia subacquea.
La maggior parte delle opere d'arte rinvenute sono custodite presso il Museo nazionale del Bardo di Tunisi e solo poche sono custodite presso il locale Museo di Mahdia.
Il relitto era situato a 4,8 km al largo del capo Africa, a una profondità di 39–40 m, su un fondale piatto e sabbioso.
Fu scoperto casualmente nel 1907 da pescatori di spugne greci che lavoravano per un armatore di Sfax. Il tentativo compiuto dagli scopritori di vendere alcuni oggetti sottratti al relitto, attirò l'attenzione della Direzione delle antichità (poi l'Istitut national du patrimoine della Tunisia) e dell'archeologo francese Alfred Merlin che ne era a capo, il quale il 21 giugno informò della scoperta, per mezzo di un telegramma, l'Académie des inscriptions et belles-lettres.
L'Académie finanziò, con il supporto dei governi francese e tunisino e della fondazione Piot, sei campagne di scavo archeologico subacqueo (1907, 1908, 1909, 1910, 1911 e 1913), i cui resoconti furono pubblicati sulla rivista dell'Académie, Comptes rendus des séances de l'Académie des inscriptions et belles-lettres. Le operazioni furono condotte con il supporto del Ministero della marina, che mise a disposizione una nave dalla squadra di stanza a Bizerta. Le operazioni si svolsero con difficoltà, sia per ritrovare il relitto in base alle notizie fornite, sia per la profondità a cui erano costretti a lavorare i palombari con le attrezzature tecniche disponibili all'epoca. Gli scavi permettono di recuperare gran parte dei materiali, ad eccezione dei fusti di colonna, troppo pesanti. Alfred Merlin si preoccupa inoltre di raccogliere i dati relativi ai resti della nave. Louis Poinssot redige una pianta della disposizione dei materiali in base alle informazioni fornite dai palombari.
Negli anni 1930 era stata realizzata una presentazione dei materiali recuperati dal relitto nelle sale del Museo del Bardo.
Gli scavi furono ripresi solo nel 1948 dall'archeologo Antoine Poidebard, dal capitano Philippe Tailliez e dall'oceanografo Jacques-Yves Cousteau del "Gruppo di ricerca sottomarina" della Marine nationale francese, con l'appoggio della Direzione delle antichità, guidata dall'archeologo Gilbert Charles-Picard. La nuova spedizione poté avvalersi di nuove attrezzature per immersioni. Nonostante la difficoltà nel ritrovare il sito sommerso, fu possibile recuperare una quarantina di fusti di colonna. Della spedizione fu prodotto il documentario Carnet de plongèe, di Jacques-Yves Cousteau e Marcel Ichac, che fu presentato all'edizione del 1951 del Festival di Cannes.
Nel 1953-1954 fu condotta una nuova spedizione, guidata dall'ingegnere Guy de Frondeville del servizio delle miniere presso la Direzione generale dei lavori pubblici, che permise di recuperare gli altri fusti di colonna che ingombravano ancora il ponte della nave, in modo da poter accedere alle zone ancora non esplorate del carico. Nonostante le difficoltà furono recuperati altri fusti di colonna, capitelli e un tratto di circa 26 m di lunghezza della chiglia della nave, divisa in tre parti e portata al Museo nazionale del Bardo, grazie alla quale fu possibile proporre una ricostruzione della nave. La chiglia della nave tuttavia si è danneggiata per essere stata collocata dopo il recupero nel cortile del Museo senza adeguata protezione.
Le sale del Museo del Bardo che ospitavano gli oggetti rinvenuti nel relitto vennero chiuse dal 1984 in seguito ad un principio di incendio. Una campagna di restauro venne iniziata nel 1987 grazie alla collaborazione del Rheinisches Landesmuseum Bonn. Nel 1993 tunisini dell'l'Institut national du patrimoine e tedeschi del Rheinisches Landesmuseum Bonn e della Deutsche Gesellschaft zur Förderung der Unterwasserarchäologie collaborarono a due nuove campagne di scavo in maggio e in settembre, che hanno permesso di fotografare e rilevare il relitto e a rimontare dei campioni di legno con alcune parti dello scafo. I risultati del restauro e dei nuovi studi hanno permesso di esporre gli oggetti recuperati dal relitto in una grande mostra a Bonn (8 settembre 1994 - 29 gennaio 1995), dopo la quale sono ritornati al Museo del Bardo in un nuovo allestimento.
Il carico comprendeva sia elementi architettonici provenienti da cava e destinati ad un edificio in costruzione, sia sculture in marmo, prevalentemente marmo pario, e in bronzo, elementi di arredo in marmo per giardini e mobili in legno rivestiti di bronzo. Le sculture sono di natura eclettica e alcune opere hanno traccia di usi precedenti.
Gli oggetti in marmo sono stati molto danneggiati dai datteri di mare nella parte che non era stata ricoperta dai sedimenti, mentre gli oggetti in bronzo, la cui superficie era protetta da un accumulo di concrezioni, erano in migliore stato di conservazione.
Le sculture in marmo sono opera di officine neoattiche che hanno mescolato influssi di diversa provenienza, ed elementi tradizionali con caratteristiche più innovative. Alcune delle statue erano state realizzate dall'assemblaggio di diversi frammenti di marmo, sia per ragioni di economia, che per facilitare il trasporto. Alcune delle sculture non erano completamente finite.
Diversi frammenti che inizialmente erano stati considerati come parti di statue, sono in seguito stati riconosciuti come busti da inserire entro clipei o tondi, per la presenza di tenoni sul retro della testa e per la lavorazione della parte inferiore. Queste sculture erano destinate ad essere fissate sulle pareti di un santuario o di una casa privata. Uno di questi busti, doveva raffigurare Afrodite o Arianna e costituisce forse una copia da un originale in bronzo di scuola prassitelica, eseguita tra l'ultimo terzo del II secolo a.C. e la seconda metà del I secolo a.C.
Tra le altre sculture in marmo si possono citare una testa del dio Pan, appartenente ad un busto o a un'applique, un gruppo con i Niobidi, di cui si conservano le teste della madre e di due dei suoi figli, che forse reinterpretava con variazioni il gruppo degli Uffizi[8], una statua di Artemide cacciatrice, che trae ispirazione da un modello del IV secolo a.C. reinterpretato in forme ellenistiche. Quattro piccole statue di fanciulli seduti dovevano essere destinati, in coppie dalla posa contrapposta, alla decorazione di una fontana.
Sculture in bronzo[modifica | modifica wikitesto]
Le sculture in bronzo erano state realizzate con la tecnica a cera persa: in un'unica colata per le statuette più piccole e in pezzi separati poi riassemblati per le sculture di maggiori dimensioni. Per ottenere una particolare patina di colore nero simile allo smalto erano state utilizzate leghe particolari.
Un'erma con la testa di Dioniso in bronzo, datato al II secolo a.C. porta la firma del bronzista Boeto di Calcedonia, nome di diversi artisti discendenti probabilmente da quello ricordato da Plinio come autore del gruppo con il Fanciullo che strozza l'oca, noto da numerose repliche. La firma venne incisa sul modello in cera prima della colata. La testa raffinatamente arcaistica contrasta con la resa realistica della stoffa del copricapo. Nella parte bassa del pilastrino era stato collocato del piombo per rendere l'opera più stabile.
L'Agone o Eros è una scultura ricomposta da più frammenti che rappresenta un adolescente alato che sta collocandosi una corona sulla testa. È datato al 125 a.C. circa e proviene forse dalla medesima officina di Boeto di Calcedonia dell'erma di Dioniso.
Tra le altre sculture in bronzo si possono citare una statuetta di Eros citaredo, destinata ad essere appesa come ornamento, una statuetta di satiro in corsa, probabilmente creazione ellenistica databile all'ultimo quarto del II secolo a.C. e appartenente forse a una coppia in posa contrapposta, una statuetta di Hermes oratore con clamide e ali sulle caviglie, due statuette di Ermafrodito e di Eros androgino che potevano essere utilizzate come lampade ad olio e databili intorno al 100 a.C., due volti di Dioniso e Arianna, con occhi inseriti a parte in altri materiali, che dovevano ornare la prua di una nave o di una fontana, forse collocate in un luogo di culto del Pireo e datata al 120 a.C. circa.
Facevano parte del carico della nave anche delle statuette burlesche raffiguranti nani, un buffone e due danzatrici, alte tra i 30 e i 32 cm., e numerose piccole sculture in bronzo appartenenti alla decorazione di mobili o oggetti di arredo (attori, Eros, levrieri accucciati, busto di Nike e busto di Atena con elmo, e ancora pantere, grifoni, maschere teatrali, satiri, protomi di animali).
Sono stati ricostruiti mobili con armatura in bronzo reinserendo gli elementi in legno scomparsi: sulla nave erano presenti circa 20 letti tricliniari, probabilmente realizzati a Delo, con cifre greche incise come indicazioni all'interno dei pezzi da montare. La nave trasportava anche treppiedi e bracieri, uno dei quali con piedi dotati di ruote, specchi e lampade. La nave trasportava anche candelabri in bronzo, rinvenuti in frammenti, che permettono di ricostruire la presenza di almeno cinque esemplari, destinati a sorreggere lampade. Sono probabilmente databili alla fine del II secolo a.C.
Sono stati individuati inoltre cinque candelabri marmorei con fusti scanalati, alti circa 2 m., composti da frammenti in tre diverse qualità di marmo. Erano costituiti da una base triangolare con protomi di grifone agli angoli, un fusto a quattro sezioni e una coppa superiore sul quale era collocato un bruciaprofumi. Erano destinati ad essere dipinti con colori e dorature. Provengono da un'officina ateniese che produceva questi elementi di arredo in serie, tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C.
Una serie di altri elementi di arredo erano forse destinati alla decorazione di un giardino, ricostruito nel Museo nazionale del Bardo: tre crateri monumentali in marmo, decorati con un tiaso donisiaco e molto simili al vaso Borghese del Museo del Louvre, hanno potuto essere ricostruiti, ma la nave ne trasportava dodici esemplari. Sono stati datati tra gli inizi del I secolo a.C.
Sono anche stati rinvenuti diversi frammenti in osso che rivestivano un cofanetto.
Tra gli elementi architettonici sono stati rinvenuti circa 70 fusti di colonna monolitici in marmo. Non erano state ancora scanalate e i fusti, di altezze diverse, sono solo sbozzati e dovevano essere rifiniti sul luogo di impiego. I fusti erano disposti nella stiva della nave su sette file diseguali, per una lunghezza di circa 24 m. La maggior parte dei fusti è stata lasciata nel relitto, due sono conservati nel Museo di Mahdia e alcuni altri sono esposti nel Museo nazionale del Bardo.
Insieme ai fusti il carico comprendeva inoltre numerosi capitelli, sia dorici, sia ionici sia figurati con teste di grifoni, di produzione attica ad opera di due gruppi di artigiani e di misure maggiori di quelle di solito impiegate per questo tipo. Tutti i capitelli sono databili tra il 150 e il 50 a.C. Sono anche state rinvenute basi di tipo attico e alcuni elementi di cornici.
Nel carico erano comprese quattro grandi lastre di marmo con iscrizioni della seconda metà IV secolo a.C.. Due iscrizioni sono decreti che erano collocati nel santuario del Paralion al Pireo, una delle quali anteriore al 322-321 a.C., un'altra riguarda dei doni offerti al dio Ammone dagli Ateniesi e un quarto è un'iscrizione funebre di un personaggio di un demo ateniese. Alla stessa serie appartengono anche dei piccoli rilievi votivi che raffigurano divinità, uno dei quali precisamente datato da un'iscrizione al 363-362 a.C.
La prua della nave (modellino ricostruito) nel Museo del Bardoa costruita in legno di olmo e aveva una lunghezza di 40,6 m per una larghezza di 13,8 m. Il suo carico al momento dell'affondamento era di circa 200 tonnellate.
Il ponte della nave aveva circa 20 cm di spessore; ponte e scafo erano ricoperti di piombo e il fasciame era fissato con un gran numero di chiodi in bronzo. La stiva era suddivisa in più compartimenti da divisori verticali, i cui resti furono visti al momento delle prime campagne di scavo del 1907-1913.
La nave trasportava una pompa di sentina e cinque grandi ancore per un peso totale di 13 tonnellate, rinvenute in corrispondenza della prua, del tipo in uso nella metà del I secolo a.C..
Era dotata inoltre di due catapulte e di una Balestra (arma), che potevano tuttavia essere anche trasportate per reimpiegarne il metallo. Delle pietre grezze e frammenti di ceramica erano state caricate come zavorra e questa funzione potevano avere anche delle macine. La nave trasportava anche lingotti di piombo proveniente dalla Spagna
Il carico comprendeva delle anfore, di origine punica o iberica o italiche del secondo o terzo decennio del I secolo a.C. per i vettovagliamenti, alcune chiuse da sigilli in piombo, e della ceramica d'uso, tra cui ceramica a vernice nera. Delle ossa di animali hanno permesso di ipotizzare che la carne fresca per l'equipaggio fosse assicurata da animali vivi.
Dopo il naufragio lo scafo si è aperto per il peso dei fusti di colonna e il carico della stiva si è disteso, venendo in parte coperto dai sedimenti del piano di marea.
L'allestimento del Museo nazionale del Bardo ospita un modellino della nave ricostruita.
Nel 1909 il naufragio era stato datato da parte degli scopritori dopo la fine del II secolo a.C., sulla base principalmente del rinvenimento di una lucerna di un tipo prodotto solo in quest'epoca, nella quale si conservava ancora lo stoppino carbonizzato.
Secondo l'ipotesi maggiormente accettata il naufragio sarebbe avvenuto tra l'80 e il 70 a.C. Le opere d'arte trasportate sarebbero state realizzate tra il 150 e il cambio d'era.
La nave proveniva certamente dall'Attica e la sua destinazione doveva essere probabilmente l'elite senatoria romana: non è chiaro se si trattasse di un insieme di oggetti di varia provenienza da rivendere sul mercato, oppure degli oggetti acquistati da un unico per uno scopo preciso. In quest'epoca l'aristocrazia romana raccoglieva avidamente opere d'arte e di alto artigianato provenienti dalla Grecia, utilizzate per ornare gli edifici pubblici come manifestazione della propria potenza e ricchezza, o destinate a decorare giardini e spazi privati.
È stato ipotizzato che la nave potesse essere stata una di quelle che trasportavano a Roma il bottino saccheggiato da Silla dopo la presa di Atene dell'86 a.C.. La nave avrebbe deviato dalla propria rotta a seguito di una tempesta, che ne avrebbe causato inoltre l'affondamento, anche a causa delle difficoltà di manovra dovute al grande peso trasportato.


TUNISIA - Arco romano detto di Traiano, Timgad


L'arco romano di Timgad (detto impropriamente arco di Traiano) è un arco romano costruito tra la seconda metà del II secolo e gli inizi del III, situato nella colonia romana di Timgad (antica Thamugadi), presso la città di Batna in Algeria.
L'arco, a tre fornici, fungeva da porta occidentale della città, all'inizio del decumano massimo, che proseguiva la via proveniente da Lambaesis.
L'iscrizione sull'attico ricorda la fondazione della colonia da parte di Traiano nell'anno 100, ma la struttura decorativa del monumento e inoltre la ricca ornamentazione degli elementi architettonici hanno fatto supporre una sua datazione più tarda: ai lati dei fornici laterali sono presenti colonne distaccate da parete, collegate da un frontone curvilineo, che creano due edicole laterali sporgenti e fortemente chiaroscurate, quasi indipendenti.
L'arco, insieme all'intero sito archeologico di Timgad, è stato inserito dal 1982 nella lista dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO
L'arco raggiunge un'altezza di 12 m, con il fornice centrale alto 6 m che permetteva il passaggio dei veicoli, le cui ruote hanno lasciato profondi solchi sul basolato della via. I fornici laterali, alti 3,75 m, erano riservati ai pedoni.
Sulle due facciate sopra i fornici laterali sono presenti profonde nicchie rettangolari, inquadrate da edicole con colonnine corinzie con fusti lisci in marmo colorato, sorrette da mensole. Le nicchie erano destinate ad ospitare statue oggi scomparse. L'insieme di ciascun fornice laterale e della nicchia soprastante era inquadrato da due colonne corinzie rudentate, distaccate da parete e innalzate su piedistalli. La trabeazione che corre sulla parete sopra i fornici laterali, sporge sopra le colonne e su di essa poggia a sua volta un frontone curvilineo. L'attico doveva essere sormontato da un gruppo statuario monumentale.
Altre sculture furono aggiunte all'arco successivamente: tra queste una statua di Marte e una della Concordia furono erette sotto l'imperatore Settimio Severo da Lucio Licinio Optaziano, in occasione della sua elezione a flamine perpetuo della colonia.

TUNISIA - Arco di Traiano, Maktar

 

L'arco di Traiano è un arco romano degli inizi del II secolo situato nell'antica città di Mactaris, oggi Maktar, in Tunisia. L'arco fu dedicato nel 116 d.C. all'imperatore Traiano, come riporta l'iscrizione dedicatoria ancora visibile, per celebrare la concessione della cittadinanza romana alle élite cittadine e la costruzione di un nuovo quartiere. Venne eretto come ingresso al nuovo foro, della stessa epoca. L'arco presenta un unico fornice, inquadrato su entrambe le facciate da due semicolonne con capitelli corinzi, che sorreggono una trabeazione con frontone. Sul fregio era presente l'iscrizione dedicatoria dell'arco. Al centro delle facce dei piloni due semicolonne più grandi sostengono una cornice con mensole di coronamento (non una vera e propria trabeazione, in quanto mancano fregio e architrave)

TUNISIA - Tavolette Albertini

 


Le Tavolette Albertini (in francese Tablettes Albertini) sono una serie di 31 documenti legali scritti con inchiostro in corsivo latino su 45 tavolette di legno di cedro, ancora in perfette condizioni, nel corso degli anni 493–496. Furono scoperte nel 1928 in un deposito segreto nella tenuta di Jabal Mrata sita vicino all'odierno confine tra Algeria e Tunisia, appena a sud dell'antica Theveste e oltre la frontiera meridionale del Regno dei Vandali. Sono tutte datati negli anni del re vandalo Gutemondo (r. 484–496). Prendono il nome da Eugène Albertini, che ne curò la prima trascrizione. Le tavolette sono attualmente conservate presso il Museo Nazionale di Antichità e Arte Islamica ad Algeri in Algeria.
Il luogo in cui sono stati ritrovati i documenti è il pre-deserto sahariano al limite della zona coltivabile e dell'insediamento umano. Le tavolette mostrano che nel periodo vandalico si praticava nella zona l'arboricoltura (anche dell'olivo) e l'irrigazione avveniva con acque alluvionali, sfruttando anche acque di superficie o sotterranee. Oltre all'agricoltura, le tavolette rivelano le pratiche legali, sociali ed economiche all'interno e ai margini del Regno dei Vandali. Forniscono anche informazioni utili sulla grammatica e sulla fonetica del tardo latino.

TUNISIA - Anfiteatro romano di El Jem

 

L'anfiteatro romano di El Jem è un anfiteatro nella moderna città di El Jem, in Tunisia (antica Thysdrus), spesso chiamato erroneamente colosseo poiché era in grado di ospitare 35 000 spettatori seduti. Solo il Colosseo di Roma, con più di 50 000 posti a sedere, e l'Anfiteatro campano di Capua erano più capienti. L'anfiteatro di El Jem venne costruito dai romani sotto il proconsole Gordiano I, il quale venne acclamato imperatore a Thysdrus intorno al 238. Fu probabilmente usato per spettacoli di gladiatori e corse dei carri. È possibile che la costruzione dell'edificio non sia mai stata completata.
Fino al diciassettesimo secolo rimase praticamente intatto. A partire da quel momento le sue pietre vennero usate per la costruzione del villaggio limitrofo di El Jem e della Grande moschea di Qayrawan e, durante un conflitto con gli Ottomani, i Turchi usarono l'artiglieria per stanare i ribelli nascosti al suo interno. I ruderi sono stati dichiarati patrimonio dell'umanità nel 1979.

TUNISIA - Bulla Regia


Bulla Regia era una città romana, situata nel nord della Tunisia, vicino all'attuale città di Jendouba.
È nota per il suo complesso abitativo sotterraneo di età adrianea, inteso come una protezione dal caldo e dagli effetti del sole. Molti dei suoi pavimenti mosaicati si trovano tuttora sul luogo; altri possono essere visti al museo del Bardo, a Tunisi. Presso il sito archeologico è presente un piccolo museo.
Le origini berbere di Bulla Regia sono probabilmente precedenti al suo periodo punico: sono state ritrovate ceramiche greche di importazione datate alla fine del V secolo a.C.; la città si ritrovò sotto l'egemonia di Cartagine durante il III secolo a.C.; le iscrizioni risalenti a quel periodo rivelano che gli abitanti veneravano Baal Hammon e seppellivano i defunti in urne, caratteri tipici dell'ambiente punico. Un capitello del tempio punico dedicato alla dea Tanit è conservato presso il locale museo.
La città fece parte del territorio conquistato per Roma nel 203 a.C. da Scipione l'Africano, ma nel 156 a.C. divenne capitale della Numidia, regno satellite di Massinissa, il quale "riunì i territori degli avi", secondo un'iscrizione, e conferì alla città il titolo di "Regia"; in seguito, anche suo figlio ebbe residenza nella città. Sotto il regno dei Numidi, un impianto urbanistico a strade ortogonali alla maniera ellenistica venne parzialmente sovrapposto al precedente sistema di vie e insulae dallo schema irregolare.
I romani assunsero il controllo diretto della regione nel 46 a.C., quando Gaio Giulio Cesare organizzò la provincia di Africa Nova. In tale occasione la condotta neutrale della città durante le guerre civili fu premiata e resa città libera. Sotto Adriano, la città fu rifondata come Colonia Aelia Adriana Augusta Bulla Regia, e venne concessa ai cittadini la piena cittadinanza romana.
Bulla Regia decadde lentamente sotto il dominio bizantino. Come in altre città del Tardo Impero, l'aristocrazia locale ebbe la possibilità di aumentare l'estensione delle proprie abitazioni a scapito dello spazio pubblico.
Infine, un terremoto distrusse Bulla Regia, facendo crollare gli edifici all'interno dei piani sotterranei. La sabbia ricoprì e protesse i luoghi abbandonati, che vennero dimenticati fino al tempo dei primi scavi, nel 1906. Questi furono in parte accelerati dalla distruzione dell'ingresso monumentale della città romana. Il foro venne scavato nel periodo 1949-52.
Nella Chiesa cattolica Bulla Regia sopravvive come sede titolare, con il titolo di Bullensis Regiorum.
Il suo piccolo anfiteatro, oggetto di una reprimenda in un sermone di Sant'Agostino di Ippona, ha mantenuto i dettagli architettonici e le gradinate grazie al fatto di essere stato sepolto fino al 1960-61.
Sul foro, circondato da portici, si apriva la basilica del foro, con un'abside sui due lati minori. Come cattedrale possiede un'inusuale fonte battesimale, inserito al centro della parte terminale (occidentale) della navata.
Nella particolare architettura di abitazione sviluppata nella città, un edificio a livello del terreno, esposto al tiepido sole invernale, risiedeva su un livello sotterraneo, sviluppato attorno ad un atrio a due piani. Recipienti di terracotta dal fondo aperto erano situati nelle volte, in modo che l'acqua spruzzata sul pavimento, oltre a rendere vividi i colori dei mosaici, evaporasse rinfrescando l'ambiente.
Nella Casa della Caccia, a forma di basilica con abside su un lato, un transetto e alcuni spazi collegati si aprivano su quella che in una chiesa sarebbe la navata: questa architettura è stata definita come un esempio di congiunzione fra architettura pubblica e domus della classe dirigente del IV secolo. Questi spazi sarebbero presto stati cristianizzati come chiese e cattedrali. La Casa del Pescatore venne ristrutturata in modo da collegare due insulae separate, trasformando un passaggio in un vicolo cieco.
Le abitazioni conservano mosaici con colori raffinati e accurata resa delle ombre e delle forme a tutto tondo. Il mosaico di Anfitrite con aureola (nella Casa di Anfitrite) viene spesso portato ad esempio. La Casa del Pescatore venne ristrutturata in modo da collegare due insulae separate, trasformando un passaggio in un vicolo cieco.

TUNISIA - Thugga


Thugga
 (nome moderno Dougga) è una città nordafricana che conserva numerosi resti di monumenti punici, numidi e romani, che ne fanno uno dei più importanti siti archeologici della Tunisia. Per l'eccezionale stato di conservazione di alcuni suoi monumenti, che rivelano la tipica struttura delle cittadine romane del Nordafrica, il sito è annoverato nella lista dei patrimoni mondiali dell'umanità dell'UNESCO.
Anche se l'etimologia del toponimo è controversa, sembra certo che esso sia di origine berbera. Ciononostante, l'impianto della città (posto inizialmente su una collina, il cui lato nord era delimitato da un ripido pendio) si deve a Cartagine (V secolo a.C.) che la mantenne fino a quando, dopo la sua sconfitta nel 202 a.C. (battaglia di Zama, seconda guerra punica), venne acquisita da Massinissa. Dopo la sconfitta di Giugurta, ma molto più probabilmente dopo la vittoria di Tapso ad opera di Gaio Giulio Cesare, passò sotto il controllo di Roma, nella provincia Africa, che durò diversi secoli. Fu inoltre sede di una guarnigione legionaria sotto il principato di Augusto, fino a quando la legio III Augusta non fu trasferita ad Ammaedara (oggi Haidra).
Mausoleo di Massinissa. Dougga ospita un importante monumento della cultura numidica: un mausoleo (foto a destra) che Micipsa fece erigere in onore del padre, Massinissa, nel 138 a.C. Questo mausoleo contiene, tra l'altro, una lunga iscrizione bilingue, in punico e numidico, che è stata molto importante sia per la decifrazione dell'antico alfabeto libico, sia per lo studio dell'organizzazione politica delle città numidiche dell'antichità.
Capitolium
, o tempio capitolino (foto a sinistra), eretto al tempo dell'imperatore romano Marco Aurelio nel 166-167 d.C., è un monumento imponente. Il tempio, dedicato alla Triade Capitolina (Giove, Giunone e Minerva), è particolarmente ben conservato ed è, anche per la qualità della sua esecuzione, uno dei più pregevoli monumenti romani dell'intera Africa settentrionale. Si tratta di un tempio prostilo (con colonne solo sulla fronte) tetrastilo (facciata a quattro colonne), con fusti scanalati sormontati da capitelli corinzi. La facciata è sormontata da un frontone che conteneva un bassorilievo raffigurante l'apoteosi dell'imperatore Antonino Pio, portato in cielo da un'aquila. I muri della cella vennero eretti secondo la tecnica dell'opus africanum, caratterizzata dall'utilizzo di grossi pilastri in pietra intervallati, i cui interstizi sono colmati con pietre di minori dimensioni.
Vi erano poi altri edifici pubblici, come una piazza fatta costruire da Commodo e di fronte al Capitolium. Più sotto un mercato, delle terme, l'arco di Alessandro Severo ed un teatro (foto in alto, in apertura) la cui cavea era appoggiata alla collina, con, di fronte, un bell'edificio scenico. Le abitazioni private erano spesso costruite a due piani, con entrate indipendenti sui diversi livelli.

TUNISIA - Adrumeto

 


Adrumeto (in latino Hadrumetum; in greco antico ᾿Αδρύμητος) è stata una colonia fenicia e poi città romana, oggi corrispondente alla città di Susa, capoluogo dell'omonimo governatorato in Tunisia. I resti della città antica si trovano in massima parte sotto la città moderna. Secondo la tradizione la città sarebbe stata fondata in epoca molto antica, prima della fondazione della stessa Cartagine, forse addirittura nell'XI secolo a.C., da coloni provenienti dalla città di Tiro. Le più antiche testimonianze archeologiche, raccolte nel tophet, risalgono al VII secolo a.C..
La città si impiantò inizialmente presso il fiume, utilizzando le pendici della collina come necropoli. Durante la spedizione siracusana in Africa, alla fine del IV secolo a.C., fu assediata e conquistata da Agatocle. Nel 203 a.C. servì di base all'esercito di Annibale, ritornato in Africa dopo la spedizione in Italia, prima della battaglia di Zama.
Dopo la distruzione di Cartagine da parte dei Romani (146 a.C.), ebbe lo status di città libera, collocata nella provincia dell'Africa. Aveva un vasto territorio, utilizzato per la coltivazione dell'olivo, e un porto attivo. Fu inoltre sede dell'amministrazione delle proprietà imperiali nella regione (procurator regioni Hadrumetinae). Sotto Traiano ottenne il titolo di colonia, con il nome di Colonia Concordia Ulpia Traiana Augusta Frugifera Hadrumetina.
Raggiunse l'apogeo in età antonina e severa, ma declinò a partire dal III secolo d.C.. Fu tuttavia capoluogo della provincia dioclezianea della Valeria Byzacena. Fu sede episcopale (Dioecesis Hadrumetina).
Sotto il regno dei Vandali la città, dopo essere stata saccheggiata, prese il nome di Hunericopolis (dal re vandalo Unnerico, 477-484). Dopo la riconquista bizantina la città prese il nome di Iustinianopolis, dall'imperatore Giustiniano (527-575). Fu poi presa dal califfato omayyade nel VII secolo. Al di sotto della chiesa cattolica di Susa sono stati rinvenuti i resti del tophet, in funzione tra il Vii e il I secolo a.C.; le necropoli puniche sorgevano, nelle vicinanze della città sulle pendici della collina che oggi ospita la qasba.
I monumenti cittadini sono scomparsi sotto la città moderna, ma sono stati ritrovati i resti di diverse abitazioni decorate da mosaici: dalla "casa di Virgilio" (III secolo) proviene un riquadro a mosaico con il ritratto di Virgilio conservato presso il Museo nazionale del Bardo a Tunisi; la "casa delle Maschere e del Poeta" ha restituito altri mosaici di epoca severiana. Il museo archeologico di Susa possiede una ricca collezione di mosaici e numerose sculture (un grande rilievo trionfale, un ritratto colossale di Traiano e due statue frammentarie in corazza provengono probabilmente dal foro cittadino).
Si conservano inoltre delle catacombe cristiane.

TUNISIA - Museo nazionale del Bardo: II, Statuaria e sala del periodo cristiano

 


Accanto ai mosaici, preponderanti sul resto dei reperti, sono esposte diverse statue raffiguranti divinità, eroi e personaggi mitologici, tutte di eccezionale fattura.
Una testa ciclopica di Giove, alta più di un metro, campeggia su un enorme salone il cui pavimento è ricoperto da un altrettanto enorme mosaico, del tutto integro. Un piede, anch'esso ciclopico (foto in alto), giace sotto la testa di Giove al cui gruppo scultoreo potrebbe appartenere facendone così intuire la grandezza colossale.
Diverse statue di Venere fanno da cornice agli onnipresenti mosaici mentre un Ercole ubriaco, in posa licenziosa, sembra osservare divertito. Sembrerebbe una figura futuristica relativa ai tempi in cui il vino costava pochi denari greci, e Bacco avrebbe fatto bere gli eroi e miti assieme al popolo.

Il museo contiene inoltre una sala che raccoglie opere del periodo cristiano della Tunisia, fra le quali figurano:
  • Mosaico tombale dell'Ecclesia mater: in questa rappresentazione schematica di
    una basilica paleocristiana, l'edificio è composto da un grande arco supportato da tre colonne che dà accesso, attraverso una scala, a un'abside vuota con una facciata con un frontone triangolare e tre finestre, una linea di colonne al centro della basilica, da una navata centrale dove si trova l'altare sul quale bruciano tre ceri e da un tetto a doppia inclinazione coperto da tegole piatte e semicilindriche con sopra un'iscrizione su due linee che recita: «Ecclesia mater» e «Valencia in pace». Questo pezzo, che data al V secolo, è stato ritrovato a Tabarka e costituisce una testimonianza fondamentale per spiegare il passaggio da un Cristianesimo più intimista che si sviluppava in luoghi per lo più privati a un'architettura che richiama alla successiva vita legata alla basilica cristiana, dopo l'editto dell'imperatore romano Costantino del 313.
  • Tomba doppia: questo mosaico ricopriva un sarcofago in cui sono stati rinvenuti due scheletri. Nella parte alta del mosaico è rappresentato uno scriba barbuto che indossa una tunica riccamente decorata seduto davanti a una scrivania nell'atto di tenere in mano una piuma d'oca. In basso, una donna di nome Vittoria, affiancata da numerosi uccelli e da un cero, è raffigurata mentre prega vestita da religiosa. Questo pezzo del V secolo è stato ritrovato a Tabarka.
  • Pavimento del mausoleo: questo pavimento è una composizione di rombi delimitati da immagini di piante intrecciate. Al centro è rappresentato un ottagono che illustra la scena biblica del profeta Daniele, nudo, mentre prega nella fossa coi leoni. Questo pavimento appartiene al mausoleo di un'importante famiglia romana, i Blossi, e data al V secolo.
  • Pavimento della cappella: questa rappresentazione di un cantiere per la costruzione di una
    cappella è articolata su differenti livelli che rappresentano scene di lavoro: in alto, un responsabile dei lavori impartisce ordini a un operaio che rifinisce una colonna, al centro alcuni muratori sono intenti a impastare malta mentre nella parte inferiore la colonna viene trasportata su un carro trainato da due cavalli. Questo pezzo del V secolo proviene dal Governatorato di Zaghouan.
  • Battistero di Kélibia: questo pezzo, non visibile al pubblico, rappresenta un battistero riccamente ornato di mosaici. È invece visibile un'altra fonte battesimale molto più semplice.

TUNISIA - Museo nazionale del Bardo: I, I mosaici

 


Il Museo nazionale del Bardo nell'omonima periferia occidentale di Tunisi, è un museo archeologico che contiene, fra le altre, la più ricca collezione di mosaici romani del mondo, tutti in perfetto stato di conservazione.
Situato nella fastosa residenza del bey del XIX secolo, circondata da un grande giardino ricco di essenze locali, si sviluppa su tre piani ed è caratterizzato da una particolare luminosità naturale che esalta i reperti esposti. Si tratta del più importante museo tunisino e allo stesso tempo del più antico museo del mondo arabo e dell'Africa. È stato inaugurato il 7 maggio 1888.
Il suo nome originario era Museo Alawi in onore del sovrano alawita dell'epoca, Ali Muddat ibn al-Husayn (1882-1902) e prese il nome attuale nel 1956, dopo l'indipendenza della Tunisia, dalla località in cui si trova, Bardo, nell'immediata periferia di Tunisi.
Il palazzo, che nel 1899 era stato ampliato con l'aggiunta del Piccolo Palazzo per ospitarvi le collezioni d'arte islamica, fu dichiarato monumento storico nel settembre 1985. Il 18 marzo 2015 il museo ha subito un attacco terroristico che ha causato 25 morti, molti dei quali erano turisti. Due terroristi sono stati uccisi dalle forze di sicurezza e numerose persone sono rimaste ferite. L'organizzazione museale si sviluppa in sei dipartimenti che riflettono le tappe archeologiche del paese: il periodo preistorico,  punico, romano, cristiano, arabo-islamico e quello relativo all'archeologia sottomarina.
L'esposizione dei reperti occupa 34 sale impegnandone i pavimenti, le pareti e, in alcune, i soffitti: solo sui pavimenti sono sistemati 2.115 m2 di mosaici.
Le sale hanno mantenuto nella nuova destinazione un'atmosfera calda e avvolgente che, specie per quanto riguarda i mosaici, fa sentire le opere esposte come se fossero state concepite e create per esse. La collezione più importante del museo è costituita da un'enorme quantità di mosaici romani del II-IV secolo, tutti di eccezionale fattura e conservazione, che di fatto sono il simbolo del museo stesso.
Oltre alle migliaia di metri quadrati di mosaici vi sono opere scultoree di particolare bellezza, reperti punici e le sale arabo-islamiche, altrettanto importanti sotto l'aspetto storico.
Il museo è noto in tutto il mondo per possedere una delle più importanti collezioni di mosaici romani. Tra i principali pezzi della collezione figurano:
  • Perseo libera Andromeda (a destra): l'eroe, che ha ucciso un mostro marino, aiuta con un gesto maestoso la
    principessa che era incatenata a una roccia. La scena è evocata da Ovidio. Questa opera è rilevante per essere stata eseguita con un ottimo effetto di ombre e luci e una grande maestria nel creare l'illusione dello spazio. Questo mosaico in origine costituiva la parte centrale di una sala di ricevimento di una ricca Villa romana di Bulla Regia (circa III secolo).
  • Virgilio tra Clio e Melpomene (a destra, in basso): quest'opera, rinvenuta a Susa (antica a Hadrumetum) e situata nella sala eponima, costituisce uno dei gioielli del museo, poiché è il più importante ritratto del sommo poeta romano Virgilio, che qui compare vestito di un'ampia toga bianca decorata di ricami. Assiso tra le muse Clio e Melpomene, egli regge, nella mano sinistra posata sulle ginocchia, un rotolo di pergamena, dove è contenuta dal proemio dell'Eneide l'invocazione: «Musa, mihi causas memora, quo numine laeso, / quidve... » (Aen., I, vv. 8-9).
  • Venere alla toilette: la dea per metà nuda regge in una mano i propri capelli e nell'altra uno specchio che prende da un contenitore aperto ai suoi piedi. Due Amorini le portano, l'uno una collana, l'altro un cestino e dei gioielli. Questo mosaico, datato al III secolo, proviene dal sito di Thuburbo Majus.
  • Corsa di carri in un circo: il circo romano è parte di un porticato ad arcate dove si ammassano gli spettatori: quattro logge (careceres) con alla loro entrata quattro personaggi in bronzo e, al margine, la predella della spina attorno alla quale girano le bighe in gara. La scena della corsa rappresenta la fase finale della competizione fra quattro quadrighe con i colori delle fazioni: il giudice al margine della pista si appresta a consegnare la palma della vittoria mentre un musico suona la fanfara. Nel resto dell'Arena sono presenti diversi impiegati del circo: sparsores che bagnano con l'acqua i cavalli e i carri, e i propulsores che attivano il treno delle trazioni. Questo mosaico, datato al VI secolo, proviene da Gafsa.
  • La proprietà del signore Giulio (a destra): uno dei pezzi principali del museo, rappresenta una grande proprietà al centro della quale è raffigurata una villa romana attorniata da scene ripartite su tre livelli. Nella parte a sinistra, il proprietario arriva a cavallo seguito da un valletto. A destra è rappresentata la partenza per una battuta di caccia. Nel livello superiore, il mosaico mostra scene che evocano l'inverno e l'estate. Al centro, si vede la moglie del proprietario dentro un boschetto all'ombra di cipressi. Infine, al livello inferiore, si vede la padrona appoggiata a sinistra su una colonna e il padrone della proprietà seduto a destra dentro un frutteto mentre riceve dalle mani di un servitore una lettera sulla quale si legge «D(omi) no Ju(lio) » (Al signore Julius). Questa opera data alla fine del IV secolo o all'inizio del V secolo e proviene da Cartagine.
  • Trionfo di Nettuno, l'allegoria di una delle stagioni presente nell'angolo inferiore destro
  • I ciclopi forgiano i fulmini di Giove: si tratta del pavimento di un frigidarium che mostra tre ciclopi: Bronte, Sterope e Arge (o Pyracmon).
  • Nudi, forgiano i fulmini di Giove che Vulcano, seduto davanti a loro, mantiene sulla forgia. Il mosaico data alla fine del III secolo e proviene da Dougga.
  • Trionfo di Nettuno (a destra): si tratta del pavimento di un atrium. Al centro figura, dentro un medaglione, Nettuno, con la testa
    aureolata, che monta su una quadriga trainata da quattro ippocampi. Agli angoli sono rappresentati, dentro dei recinti di foglie, quattro figure femminili simboleggianti le stagioni. Il mosaico data al II secolo e proviene da Chebba.
  • Ulisse e le sirene (in basso a destra): questa opera è ispirata all'Odissea: a bordo di un battello a due vele, ornato di una testa umana e di un ramo di palma, appare l'eroe greco con le mani legate all'albero maestro per evitare di soccombere alla musica delle sirene. Attorno ad Ulisse sono seduti i suoi compagni di viaggio con le orecchie tappate con la cera come riporta la leggenda. Ai piedi di alcune rocce si vedono tre sirene rappresentate con il busto di donna al quale sono attaccate delle ali e delle zampe da uccello. Una di queste regge un doppio flauto, l'altra una lira, la terza, senza strumenti, è considerata come la sirena incantatrice. L'opera, che proviene dal sito Dougga, è datata circa al 260.
  • Le nozze di Dioniso e d'Arianna: il decoro di questo mosaico è ripartito in tre livelli. In alto, Dioniso e Arianna sono semistesi su una pelle di leopardo all'ombra di una vigna. Il dio completamente nudo è munito di uno scettro e di un cratere d'oro conseguentemente Arianna è raffigurata di dorso, un ampio drappeggio che non gli copre che le gambe. Nella parte centrale, un personaggio barbuto che afferra con le mani un cratere che gli tende un satiro. Infine, nella parte inferiore, delle baccanti, dei satiri e un Pan animano la festa.
  • Teseo e il Minotauro: la scena rappresenta il momento in cui Teseo decapita il Minotauro al centro del labirinto, dove sono inoltre presenti i resti delle vittime giacenti al suolo. Questo mosaico, proveniente da Thuburbo Majus, ricopriva il suolo di un frigidarium e data circa al IV secolo.
  • Pavimento di Xenia: questo piccolo mosaico raffigura i resti di un pasto secondo i canoni estetici conosciuti nell'epoca ellenistica e tradotti in mosaico.
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ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...