Il
teatro romano di Catania è
situato nel centro storico della città etnea,
tra piazza S. Francesco, via Vittorio Emanuele, via Timeo e
via Teatro greco. Il suo aspetto attuale risale al II secolo ed
è stato messo in luce a partire dalla fine del XIX secolo. A
est confina con un teatro minore, detto Odeon. Di un teatro a
Catania si fa riferimento nelle fonti classiche in merito
alla consultazione delle polis siceliote da parte
di Alcibiade, che tenne nel 415 a.C. un discorso
all'assemblea civica riunita appunto nel teatro. Di questo teatro
però non era chiara l'ubicazione e la tradizione tendeva a
identificarlo con il teatro di età romana oggi visibile. Tale
associazione diede adito a numerose fantasticherie sull'edificio, al
punto che è ancora oggi chiamato Tiatru grecu dalla
comunità locale, mentre la strada che lo costeggia a nord è
chiamata via Teatro Greco. Ciò che ha dunque mosso gli studiosi
dell'edificio sin dai primi lavori di sgombero delle strutture
antiche è stato anche il quesito se il teatro delle fonti fosse il
medesimo che si ammira oggi, ossia se su una preesistente struttura
greca possa essere nata la struttura romana. Per un certo
periodo venne persino messo in dubbio che potesse esistere davvero un
teatro in epoca greca a Catania e che si trattasse di una errata
traduzione delle fonti ad aver generato la credenza di detto
edificio. Diverse quindi le ipotesi a favore dell'identificazione del
teatro romano con quello greco: la posizione alla base di una collina
a differenza dell'usanza romana di edificare in pianura o la scena
rivolta verso il mare. Sul monumento però le fonti sono piuttosto
silenti e ne tacciono le vicissitudini storiche: per capirne quindi
la storia si fa ricorso ai ritrovamenti archeologici che gettano un
po' di luce sull'edificio.
Le fasi più
antiche testimoniano la presenza di un edificio teatrale costruito
con grossi blocchi di pietra arenaria con lettere
in greco in pianta rettangolare, un tipo di planimetria più
diffusamente ellenistica. Tale struttura, già identificata negli
anni 1884 e 1919 e attribuita a un teatro greco
di V-IV secolo a.C., potrebbe essere propriamente il teatro
in cui Alcibiade tenne il discorso ai Katanaioi per
convincerli ad allearsi con Atene contro Syracusae.
Il
teatro di epoca greca venne dunque restaurato nel corso del I
secolo, probabilmente a seguito dell'elezione a colonia romana di
Catania, avvenuta ad opera di Augusto. A questo periodo
appartengono un rifacimento della cortina quadrangolare con la
sostituzione dei blocchi in arenaria mancanti con conci lavici
squadrati, l'aggiunta della scena e le gradinate più antiche
dell'edificio.
Nel corso del II secolo, forse a seguito di finanziamenti
ottenuti da Adriano, assistiamo a un progressivo processo di
monumentalizzazione dell'area che coinvolge anche le vicine strutture
termali e numerosi edifici cittadini (tra cui anche
l'anfiteatro). A questo periodo risale il plinto conservato nel museo
civico al Castello Ursino, in cui è rappresentata una vittoria che
incorona un trofeo su un lato e dei barbari resi schiavi a lato; tale
plinto potrebbe rappresentare una vittoria sui Germani di Marco
Aurelio o di Commodo. Le tracce della
monumentalizzazione si notano anche nell'assunzione di una pianta
emiciclica dell'edificio, la realizzazione di un proscenio decorato
da lussuosi marmi, l'ampliamento della scena e la realizzazione di
due massicce torri laterali, atte a ospitare le scale d'accesso ai
diversi piani dell'edificio. La struttura si dota in questo
periodo di numerosissimi elementi architettonici, tra fregi, statue,
bassorilievi e colonne, in passato spesso trafugati o raccolti ed
usati come materiale da costruzione per gli edifici della città
barocca, come ad esempio per la facciata della Cattedrale
di Sant'Agata.
Caduto in
declino e abbandonato nel corso del VI e del VII
secolo come per molti altri edifici monumentali di età
classica, venne presto sfruttato per ricavarne modeste abitazioni
già dall'Alto Medioevo. L'area dell'orchestra fu interessata da una
macelleria bovina, mentre lentamente e inesorabilmente le strutture
venivano intaccate e scavate per ricavarne nuovi edifici.
Nonostante le dure manipolazioni nel
corso dei secoli, tra cui l'aggiunta nel XVI secolo di
piccole stradelle che tagliavano il monumento da parte a parte,
l'emiciclo dell'ultimo ambulacro era perfettamente
leggibile dall'esterno e tale veniva riprodotto dai
cartografi cinque e secenteschi. Il terremoto del
Val di Noto del 1693 rovinò molte abitazioni che erano nate
sulla cavea, le cui macerie vennero sfruttate per realizzare le
fondamenta di nuove abitazioni. Nel XVIII secolo viene
eretta la via Grotte, i cui archeggiati sono ancora visibili a
testimonianza della sua esistenza, che tagliava in senso sud-nord
l'edificio, mettendo in comunicazione la strada del corso (oggi via
Vittorio Emanuele II) con lo spiazzo alle spalle del teatro. La
strada, come si nota da alcune fotografie precedenti al suo
abbattimento, era in comunicazione con alcune stradelle minori e
persino una piazza, ricavate sulla cavea tra il XVIII e il XIX
secolo.
Sul finire del XIX secolo il
proprietario del palazzo che si addossa all'adiacente odeon, il
barone Sigona di Villermosa, fece abbattere l'ultimo fornice del
medesimo odeon, per ampliare il suo immobile. Questo increscioso
avvenimento mobilitò la Soprintendenza alle Antichità per la
Sicilia Orientale, all'epoca diretta da Paolo Orsi, che adottò
il pugno duro nei confronti di chi abitava sopra i due teatri e avviò
una campagna di esproprio e liberazione delle antiche strutture mai
del tutto completata. Da un primo sgombero della fine dell'Ottocento
che interessò quasi esclusivamente l'odeon, si riprese solo
negli anni cinquanta del XX secolo in misura
massiccia l'opera di sgombero, interrotta dopo una ventina d'anni.
Una campagna di scavo venne condotta nei primissimi anni
ottanta che restituì nel 1981 l'ingresso orientale
degli attori, costituito da una scaletta e un accesso trabeato,
realizzato in grossi blocchi di pietra lavica.

Dalla seconda metà degli anni
novanta venne riaperto il cantiere di scavo, con un obbiettivo
diverso da quello che aveva caratterizzato i lavori fin lì condotti.
Il servizio per i Beni Archeologici della Soprintendenza BB. CC. AA.
di Catania, sotto la direzione della dottoressa Maria Grazia
Branciforti, ha infatti intrapreso una nuova serie di campagne di
scavo, demolizione atto allo sgombero, rifunzionalizzazione e
restauro di ciò che rimane ancora ingombrato del monumento con la
finalità di conservare alcuni edifici rappresentativi del proprio
periodo, sorti sul teatro e ritenuti utili testimoni della storia del
monumento e della città successivi all'abbandono della funzione
teatrale della struttura. Sotto quest'ottica infatti sono nati gli
ambienti allestiti per ospitare l'Antiquarium regionale del Teatro
Romano, con sede in Casa Pandolfo (del Settecento) e
nella Casa Libérti (realizzata nel secolo successivo su
una struttura del Cinquecento di cui rimangono due eleganti
portali), situata nella zona nord-est della summa cavea.
Dagli anni settanta fu utilizzato per spettacoli
estivi, ma questo utilizzo fu abbandonato dal 1998, quando gli
fu preferito l'anfiteatro del Centro fieristico le
Ciminiere. Attualmente è quasi interamente visitabile ad eccezione
delle parti ancora in restauro e degli approfondimenti in corso sulle
vestigia greche che si stanno esplorando.
Il Teatro di epoca romana, ben visibile
nel tessuto urbano della città medioevale, venne studiato per primo
dal Bolano e dal Fazello, trattato dai vari
autori secentisti che si occuparono delle antichità di
Catania, così come da Vito Maria Amico. La prima vera indagine
archeologica compiuta in un'area adiacente al Teatro venne compiuta
nel XVIII secolo dal principe Ignazio Paternò
Castello, che in anticipo sui tempi sperimentò nell'area est - forse
perché costretto dalla situazione - la trincea di scavo e ad
occidente ricolmò lo scavo con il materiale di risulta dello stesso,
rendendolo riconoscibile per le future indagini, probabilmente perché
- come egli stesso avrà modo di scrivere in proposito - intenzionato
a completare le indagini archeologiche qualora ne avesse avuta
l'occasione. Lo scavo occidentale mise in luce un lastricato romano
che chiudeva nella scala d'accesso orientale dell'edificio, un
monumentale arco che venne prontamente rilevato da Sebastiano
Ittar, che ne realizzò un rilievo su lamina di rame oggi esposta al
Museo civico.

Alla fine del XIX secolo Adolf
Holm ne visita la struttura e ne ipotizza per primo la capienza
di 7000 persone, un dato poi non più verificato, ottenuto da un
calcolo relativo alle dimensioni dell'edificio che poté desumere
all'epoca, mettendole a confronto con gli edifici teatrali a lui
noti. Nello stesso periodo inizia la lunga opera di sbancamento delle
abitazioni che alterarono la natura dell'edificio, coronata
nel 1884 dal ritrovamento di un muro in pietra arenaria
identificato con parte dell'antico teatro greco delle fonti e
successivamente nella campagna del 1919-1920 col
rinvenimento di blocchi cui era incisa la sigla KAT,
interpretata come l'abbreviazione di Katane, antico nome della
città.
Durante gli anni cinquanta vennero
compiuti i più impegnativi lavori di sbancamento sotto la direzione
di Guido Libertini che riportarono alla luce gran parte
della cavea, partendo dal settore orientale, e restituirono una
grande quantità di marmi decorativi, accatastati man mano che si
procedeva lungo il corridoio nord. Gli scavi, interrotti durante il
ventennio successivo, ebbero seguito a partire dal 1980 nel
settore orientale e in diversi punti della cavea, oltre che
focalizzati sull'orchestra per liberarla dai detriti e dal materiale
di crollo del sisma del 1693. In quest'ultima zona si rinvenne un
frammento della testa di Marco Aurelio, completata grazie ad un
secondo frammento rinvenuto durante la campagna dei primi anni
2000. In quest'ultima campagna, iniziata nel 1998, si sono
liberate ampie porzioni del settore occidentale e nel contempo è
stato predisposto un percorso visite, preservando diversi ambienti
sorti sull'edificio per ricavarne uffici amministrativi o sale
espositive. Gli scavi, condotti dall'allora soprintendente ai
BB.CC.AA. Maria Grazia Branciforti, hanno anche permesso di conoscere
meglio l'edificio nel suo rapporto con la città e con la storia, nel
suo evolversi nel tempo e nello spazio, mettendo in luce anche le
parti più antiche dell'edificio, quali ad esempio un ambiente chiuso
creato con gli stessi blocchi in arenaria siglati kat che
hanno permesso di datare meglio le strutture sfruttate dal teatro
romano al IV secolo a.C., piuttosto che al V come si
credette nel 1919. Inoltre si è potuta ricostruire l'estensione del
primo impianto e identificare l'area sacra del tempio cui il teatro
era legato.

Con gli ultimi scavi degli anni
2014-2015, diretti da Fabrizio Nicoletti, è stato del tutto liberato
l'atrio orientale con la facciata d'ingresso su piazza San Francesco,
è stata restaurata la cavea, e, sul lato esterno nord, è stata
messa in luce una sequenza stratigrafica di epoca neolitica ed
eneolitica.
La struttura teatrale visibile
appartiene alle grandi costruzioni del genere di epoca antonina,
composta da una complessa scena, originariamente decorata da colonne
marmoree in seguito resa monumentale con l'aggiunta di nicchie e
finti ambienti prospettici che dovevano creare l'illusione di una più
vasta profondità, un pulpitum riccamente strutturato e
decorato da marmi, l'orchestra dal diametro di circa 22 metri
originariamente rivestita in opus sectile con una fantasia
di cerchi inscritti in quadrati, danneggiata più volte e restaurata
un'ultima volta malamente nel IV secolo, e sovente allagata da
una polla di acqua sorgente scambiata in passato con
l'Amenano, i due parodoi fortemente rovinati dai lavori
effettuati per ricavarne ambienti e persino scarichi per le acque
nere, una delle carceris resa nel XVIII secolo una
palazzina privata, l'ampia cavea dal diametro di 98 metri costituita
da ventuno serie di sedili, divisi orizzontalmente da
due praecinctiones e verticalmente da nove cunei e otto
scalette. Le due precinzioni separano le tre parti della
cavea: ima (poggiata direttamente sul declivio del colle
Montevergine), media e summa (queste ultime messe
in comunicazione dagli ambulacri che si aprono verso l'esterno
tramite diversi vomitoria ai vari cunei e tra loro con un
fitto sistema di scale).
Gli ambienti scenici erano riccamente
decorati da marmi, tra colonnati, statue e bassorilievi con un
repertorio iconografico legato al mondo mitologico quanto alla
celebrazione di eventi o personalità pubbliche. Tra le figure a
carattere mitologico spicca il gruppo scultoreo della Leda col
cigno copia romana di un originale del 360
a.C. di Timotheos, mentre tra gli ornamenti funzionali del
teatro una lastra di marmo bianco rappresentante un delfino, ritenuto
quale bracciolo per un seggio d'onore o più probabilmente (vista la
certa presenza di almeno altri due delfini identici immortalati dalle
foto degli anni trenta) divisori per segnalare la zona riservata
al pubblico più importante. In marmo bianco erano pure i
rivestimenti dei sedili, costruiti in blocchi di arenaria per la ima
cavea e in opus coementitium per le altre due cavee, i
quali dovevano creare un singolare aspetto cromatico con il nero
delle otto scalinate in pietra lavica. Molti elementi decorativi
vennero trafugati o adoperati per la realizzazione
della cattedrale del 1094, dove ancora si possono
notare alcuni capitelli, colonne o elementi decorativi in marmo.
Secondo la ricostruzione di Sebastiano Ittar le colonne -
numerose - dovettero costituire un loggiato sulla sommità della
scalea, analogamente al teatro antico di Taormina, esemplare più
grande e reso famoso dai viaggiatori del Grand Tour. All'esterno
si aprivano diversi accessi, molti dei quali sono oggi liberi sebbene
non praticabili a causa della mancanza delle scale, chiusi da lesene
che creavano un notevole gioco di ombre e luci, tendenza
chiaroscurale già presente in Sicilia dai tempi del Teatro
di Thermae Himerae; quattro grandi avancorpi emergevano dalla
facciata curvilinea dell'edificio e vi erano ricavate altrettante
nicchie, probabilmente ospitanti statue di divinità.
La scena è ancora ingombrata da
palazzi del XVIII secolo, tra cui una palazzina a un piano che funge
da ingresso e che conserva notevoli resti di epoca medioevale, tra
cui una scalinata e una colonna, ricollocata a reggere il soffitto
ligneo settecentesco. Questa palazzina è anche sede
dell'antiquarium, in cui sono esposti i rilievi architettonici
dell'edificio, dal I al XVII secolo, e vi si possono
osservare i resti di un abitato del XVI secolo dall'orientamento
diverso rispetto al Teatro, segno che il tessuto strutturale del
medesimo era ormai illeggibile. Sull'orchestra si possono ancora
vedere gli archi della vecchia via Grotte, una interessante struttura
che testimonia l'edilizia del XVIII secolo. Sulle carceris e
su una piccola parte della cavea sono ancora presenti diverse
abitazioni, una di esse è il Palazzo Gravina Cruyllas che
confina ad est. La media cavea presenta le maggiori
manipolazioni subite nei secoli, con ampie parti di sedili asportate
per ricavare dei pavimenti piani. Tra le residenze sorte nella zona
della summa cavea di notevole importanza è la Casa
del Terremoto, una vera e propria capsula del tempo, che ha
preservato integro il corredo abbandonato l'11 gennaio 1693: le
macerie che la ostruirono vennero quindi sfruttate per ricavare le
fondamenta di una casa settecentesca, resa oggetto di discordia tra
il comune che intendeva espropriarla e due anziane signore che vi
risiedevano. Altre due case che insistono nella zona orientale sono
la Casa dell'Androne e la Casa Libérti, entrambe
sfruttate come spazi espositivi o per conferenze.
Ai lati due diversi ingressi confinano
uno a est con la trincea di scavo effettuato da Ignazio Paternò
Castello situata tra le proprietà dei Principi di Valsavoja e i
Gravina, l'altro a ovest con l'odeon. A nord-est, all'interno di uno
dei locali della Casa dell'Androne si sono rinvenuti i
resti di un temenos, il recinto sacro del tempio cui il Teatro
era legato. La presenza di una stipe votiva: quella della
vicina piazza San Francesco d'Assisi ha fatto pensare che
possano essere messi in relazione col culto di Persefone o Demetra.