venerdì 30 maggio 2025

Emilia Romagna - Fegato di Piacenza

 

Il fegato di Piacenza, noto più semplicemente come fegato etrusco, è un modello bronzeo di fegato di di pecora con iscrizioni etrusche, usato dai sacerdoti aruspici per le divinazioni. Risalente al II-I secolo a.C. e dalle misure di 126 × 76 × 60 mm, il manufatto venne rinvenuto da un contadino durante l'aratura il 26 settembre 1877 nella località Ciavernasco, nei pressi di Settima, frazione di Gossolengo, in provincia di Piacenza. È conservato nei musei civici di Piacenza, situati presso palazzo Farnese.
I sacerdoti etruschi (aruspici) usavano questi modelli per l'interpretazione delle viscere degli animali sacrificati e ricavarne auspici sul destino (estispicina ma anche, più nello specifico, extiscpicina o epatoscopia). La pratica del fegato divinatorio era diffusa anche nell'antica Grecia, e, oltre che negli Etruschi, anche negli Umbri e nell'antica Roma. Più anticamente, oggetti simili, anche se realizzati con materiali differenti, sono stati rinvenuti ad Ḫattuša, capitale degli Ittiti in Turchia, e nella valle del Tigri e dell'Eufrate.
Oltre al fegato di Piacenza, che è di epoca relativamente recente, in Italia sono stati trovati altri esempi, tra i quali il fegato di Falerii, che raffigura un fegato di pecora di terracotta, a suo tempo offerto come ex voto in un santuario di Falerii, città falisca all'interno del mondo etrusco.
Lo studioso Walter Burkert, uno dei massimi esperti del periodo orientalizzante, ritiene che la diffusione dell'epatoscopia in Grecia e in Italia sia uno degli esempi più chiari di contatto culturale nel periodo orientalizzante tra mondo occidentale e mondo orientale, e che sia dovuta a piccoli movimenti migratori di personaggi carismatici provenienti dal mondo orientale, di cui non possiamo aspettarci di trovare molte tracce archeologicamente identificabili.
Il fegato bronzeo si presenta suddiviso in sedici regioni marginali (che rappresentano la ripartizione della volta celeste – il templum celeste – secondo il principio etrusco) e ventiquattro regioni interne. Ciascuna regione riporta inciso il nome di una divinità (quaranta iscrizioni totali).
Nelle sedici regioni marginali sono incisi i nomi di numerose divinità, mentre nelle ventiquattro regioni interne, oltre alle divinità sopra citate, appaiono anche Ercole, Marte, Saturno ed altre figure mitologiche.
Secondo l'architetto Franco Purini il fegato di Piacenza assomiglia alla mappa delle mura di Roma, seppur non sia possibile dimostrare alcuna reale connessione.
Riproduzioni del fegato di Piacenza sono state autorizzate in due occasioni: per una casa farmaceutica di Piacenza e successivamente per una iniziativa culturale (Premio Coraggio Piacentino).




Emilia Romagna - Situla della Certosa


La situla della Certosa o situla Zannoni, dal nome del suo scopritore Antonio Zannoni, è una situla in bronzo con figure in rilievo.
Si tratta di un contenitore troncoconico conservato nel museo civico archeologico di Bologna e rinvenuto in una tomba ad incinerazione nella necropoli della Certosa, a Bologna e risale all'inizio del V secolo a.C. Fa parte di quegli oggetti definiti dall'"arte delle situle", uno stile di decorazione figurativa diffuso dall'Italia settentrionale alla Dalmazia tra il VI e IV secolo a.C.
La situla a lastre di bronzo è decorata a sbalzo, con finitura a linee incise. Per la qualità della sua composizione, la cura nella realizzazione e l'attenzione ai dettagli, questa situla si distingue dagli altri oggetti dello stesso tipo.
La decorazione è disposta in quattro fasce orizzontali separate da un cordolo continuo. Sulle tre fasce superiori spicca un motivo centrale.
  • Fascia inferiore. Sequenza di animali, da destra a sinistra: un cervo, due fiere con lingue pendenti, cinque leoni alati. Una gamba emerge dalla bocca del quarto leone alato.
  • Fascia medio bassa. Il motivo centrale è costituito da due musicisti seduti su un letto, circondati da due figure che indossano un ampio mantello a quadri. La decorazione è organizzata in modo quasi simmetrico rispetto a questo gruppo, con una scena di caccia sulla destra e una scena campestre sulla sinistra.
  • Fascia medio alta. Il motivo centrale rappresenta due uomini che trasportano una situla tenendola per il manico. Su entrambi i lati si svolge una processione, forse sacrificale, che avanza da sinistra a destra: un uomo conduce un bue; dietro di lui, tre uomini e tre donne portano vari oggetti (uno scrigno, una cesta, ecc.) che potrebbero essere delle offerte, e altri due uomini sostengono un palo al quale è sospesa una situla. Dopo il gruppo centrale, si nota un uomo che conduce un ariete, seguito da tre uomini e tre donne con dei vasi; dietro, un uomo trasporta una piccola situla e un altro una spada. Un animale (forse un cane) chiude la processione.
  • Fascia superiore. Parata militare, da destra a sinistra. Due cavalieri aprono la sfilata, seguiti da cinque fanti armati di lancia e scudo ovale. Successivamente, dopo il motivo geometrico centrale, avanzano quattro fanti armati di lancia e scudo ovale più piccolo dei precedenti e quattro fanti armati di scudo rotondo; chiudono il corteo quattro uomini con un'ascia in spalla; tra loro e i cavalieri descritti inizialmente troviamo un motivo geometrico paragonabile a quello precedentemente citato.

Emilia Romagna - Ravenna, Mausoleo di Teodorico

 

Il Mausoleo di Teodorico, a Ravenna, è la più celebre costruzione funeraria degli Ostrogoti. Non sappiamo con precisione quando e da chi fu costruito, vale a dire se alla sua realizzazione provvedesse lo stesso Teodorico il Grande (pertanto prima del 526), o se vi provvedesse la figlia Amalasunta a ridosso della morte del padre.
Il mausoleo è inserito, dal 1996, nella lista dei siti italiani patrimonio dell'umanità dall'UNESCO, all'interno del sito seriale "Monumenti paleocristiani di Ravenna". Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale dell'Emilia-Romagna, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Il monumento fu costruito all'esterno della cerchia muraria della città, in una zona da tempo occupata da una necropoli, che forse aveva un settore riservato ai Goti. Dopo la Prammatica Sanzione (a. 560) l'edificio entrò a far parte dei beni della Chiesa di Ravenna. Non sappiamo se l'edificio fosse riconsacrato in quella occasione. Il Protostorico Andrea Agnello, che visse nella prima metà del IX secolo, informa che ai suoi tempi l'edificio era adibito al culto con il nome di "Santa Maria ad Farum", per la vicinanza di un porto dotato di faro. Oggi il mausoleo è inserito in un parco nell'immediata vicinanza del centro di Ravenna.
La costruzione si distingue da tutte le altre architetture ravennate per il fatto di non essere costruito in mattoni, ma con blocchi di pietra d'Aurisina per ricordare il Palazzo di Diocleziano a Spalato; il mausoleo presenta una pianta decagonale e l'impostazione a pianta centrale riprende la tipologia di altri mausolei romani (come il Mausoleo di Cecilia Metella), ed è caratterizzato da due ordini:il primo è esternamente decagonale, con nicchie su ciascun lato coperte da solidi archi a tutto sesto, mentre all'interno ha un vano cruciforme, con destinazione di camera sepolcrale; il secondo è più piccolo, raggiungibile da una scala esterna e anticamente circondato da un deambulatorio con colonnine che lo rendevano più aggraziato e del quale restano solo tracce nell'attaccatura di archi alla parete.
È anch'esso a forma decagonale all'esterno, ma diviene circolare al livello del fregio. Il vano interno è circolare, con una sola nicchia ad arco provvisto di croce. Oggi vi si trova la vasca di porfido rosso, priva di lastra superiore e che conteneva il corpo del re, i cui resti furono rimossi durante la dominazione bizantina.
La caratteristica più sorprendente dell'edificio è costituita dalla copertura formata da un enorme unico monolite a forma di calotta, anch'esso in pietra Aurisina, di 10,76 metri di diametro e 3,09 di altezza, per un peso di circa 230 tonnellate. Fu trasportato per mare e issato sull'edificio tramite le sue dodici anse (occhielli). Il forte senso di massa dell'edificio dovuto all'utilizzo della pietra segnala la continuità di questo con gli heroon di tradizione romana (la calotta presenta una spaccatura che diede origine a diverse leggende riguardanti Teodorico). Come si sia riusciti a posizionare il monolite in cima alla costruzione non è ancora oggi del tutto chiaro; due possibili ipotesi potrebbero essere che esso sia stato alzato sull'edificio man mano che questo veniva costruito, o che gli architetti fecero costruire una specie di diga, una "piscina", attorno al mausoleo completato e che quindi abbiano trasportato con una zattera il monolite fino alla cima.
Inoltre qui si trova all'esterno una fascia decorativa con un motivo "a tenaglia", l'unica testimonianza a Ravenna di una decorazione desunta dall'oreficeria gota invece che dal repertorio romano-bizantino.
Oltre a rifarsi alla tradizione romana e nordica (gota), l'edificio presenta influssi siriaci nell'accentuata cornice di coronamento.

Emilia Romagna - Parco archeologico di Sant'Andrea

 


Il parco archeologico di Sant'Andrea è un sito archeologico riferibile al Neolitico posto nel comune italiano di Travo, in provincia di Piacenza. Il parco si trova in località Sant'Andrea, nei pressi della sponda del fiume Trebbia. La zona del parco archeologico fu abitata durante il Neolitico recente, sul finire del V millennio a.C., durante la diffusione in tutto il territorio dell'Italia settentrionale della cultura di Chassey, proveniente dalla zona francese.
A partire dal 1981 sono state condotte, a cura della soprintendenza per i Beni Archeologici delle Province di Parma e Piacenza una serie di ricerche mirate all'approfondimento e alla ricostruzione delle attività legate alla presenza di insediamenti preistorici nella media val Trebbia.
Dal 1995 sono iniziate le campagne di scavo nella località di Sant'Andrea, posta ai margini del centro abitato di Travo, sulle rive del fiume Trebbia, dove sono state ritrovate tracce di un insediamento neolitico. Da allora, periodiche campagne di scavo vengono organizzate tutti gli anni nella stagione estiva.
Nel 1997 è stato aperto all'interno del castello Anguissola, posto nel centro di Travo, il museo archeologico di Travo con la funzione di ospitare i reperti ritrovati nel sito di Sant'Andrea.
Il sito archeologico è stato aperto alle visite nel 2006 grazie ai finanziamenti della regione Emilia Romagna, del comune di Travo, della Comunità Europea e con il supporto della Fondazione di Piacenza e Vigevano[3]. Dal 2010 sono visitabili le ricostruzioni di alcuni degli insediamenti abitativi, allestiti con copie filologiche di manufatti originali rinvenuti durante gli scavi.
Le nuove campagne di scavo, incentrate su una zona del campo precedentemente non sottoposta a ricerche, sono dirette da Maria Bernabò Brea della Soprintendenza Archeologica e dal professor Alain Beeching dell’Università di Lione con la partecipazione di studenti e ricercatori da una serie di università italiane e francesi.
Dal luglio 2020, il parco archeologico, così come il museo, sono gestiti dall'impresa culturale ArcheoVea.
Nel luglio 2021 sono state inaugurate le ricostruzioni di un totale di 6 sepolture, 4 adulti tra cui una donna, e 2 bambini, di epoca longobarda, copia di alcune delle 117 tombe venute alla luce nel 2005, nelle immediate vicinanze del parco archeologico, durante i lavori di costruzione di alcuni edifici residenziali.
Il parco si estende sulla superficie di un ettaro e contiene i resti di una serie di strutture abitative e funzionali: alcune di queste sono parte del percorso di visita, mentre altre sono state interrate di nuovo al fine di garantirne la conservazione. Su un totale di 6 capanne i cui resti sono stati scoperti nel corso delle campagne di scavo, 2 sono state sottoposte al consolidamento delle canalette perimetrali, avvenuto tramite l'utilizzo di apposite resine. Per ottenere il duplice obiettivo di proteggere i resti e di permettere al visitatore di vedere come si presentavano in origine gli insediamenti abitativi, sono state realizzate coperture in legname il cui tetto, realizzato a doppio spiovente, è sovrastato da un manto di canne di palude. Queste coperture sono caratterizzate dalle stesse dimensioni e dallo aspetto che dovevano presentare gli insediamenti durante il Neolitico. Le ricostruzioni degli edifici presentano al loro interno una serie di manufatti, copie degli originali rinvenuti nelle campagne di scavo.
Le buche dei pali emerse sono state utilizzate per il collocamento di nuovi paletti in legno, in modo da ricostruire l'originale struttura di cinta del villaggio. Nella zona sud del parco archeologico è stato ritrovato l'originale muretto di cinta realizzato a secco in ciottoli: per garantirne la protezione è stata costruita una copertura in materiale legnoso e con tetto in cristallo.
Nella porzione meridionale del parco sono state ricostruite 6 sepolture di origine longobarda, parte di un totale di 117 tombe venute alla luce dopo la scoperta di una necropoli ampia 545 m² nelle vicinanze del parco. Tra le sepolture ricostruite spicca una tomba di una donna, l'unica tra quelle ritrovate caratterizzata dalla presenza di un corredo funebre, dotata di una copertura realizzata in laterizio decorato sulla quale era incisa un'iscrizione funeraria esposta.
Il percorso di visita è completato da alcuni pannelli relativi alla storia del sito, alle strutture abitative e funzionali, ad approfondimenti sul Neolitico italiano e locale e sull'ambiente naturale.
ono stati organizzati percorsi didattici che prevedono la visita al parco e al museo. I percorsi propongono attività finalizzate alla riproduzione delle antiche tecniche di lavorazione e cottura di vasi realizzati in materiale ceramico, delle procedure di scheggiatura della selce, di tessitura e di cottura dei cibi. Alcune attività prevedono la partecipazione a ricerche e scavi archeologici simulati da condurre in un'apposita porzione in cui sono state realizzate copie di alcuni elementi ritrovati nel parco archeologico.
I reperti provenienti da questo scavo sono conservati presso il museo archeologico di Travo collocato all'interno del castello Anguissola che contiene anche reperti paleolitici, romani e altomedievali rinvenuti in tutta la val Trebbia e, in parte, anche nelle valli limitrofe.

Emilia Romagna - Parco archeologico di Mevaniola

 

Il parco archeologico di Mevaniola è un sito archeologico nei pressi di Galeata, in Italia. Mevaniola venne annoverata da Plinio il Vecchio tra le città umbre.
Si hanno pochissime notizie sull'origine dell'insediamento, posto nelle adiacenze del rio Secco, in una zona ricca di acqua. Si presume che l'abitato sia stato fondato dagli Umbri, che nello stesso periodo diedero vita a diverse altre località, come Sarsina. Successivamente sarebbe stata ampliata dai Romani: le prime testimonianze risalgono al periodo repubblicano.
Mevaniola fu abbandonata intorno al IV-V secolo d.C. per ragioni ad oggi ignote.
Dagli scavi è emerso che il centro si sarebbe sviluppato lungo la via cittadina principale, che discendeva la vallata del Bidente; inoltre è stato rinvenuto un balneum, dal quale sono stati recuperati diversi mosaici ed una cisterna per la raccolta dell'acqua piovana.

Emilia Romagna - Museo nazionale etrusco di Marzabotto



Il Museo nazionale etrusco "Pompeo Aria" di Marzabotto conserva i reperti rinvenuti nell'annessa area archeologica di Kainua, una delle più estese e meglio conservate città etrusche di stampo coloniale.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale dell'Emilia-Romagna, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei dell’Emilia-Romagna.
Intitolato al conte Pompeo Aria, che per primo organizzò la collezione di reperti, il museo sorge al margine dell'area archeologica, quest'ultima di proprietà dello Stato italiano dal 1933. L'importanza del sito è dovuta al fatto che, a differenza della quasi totalità delle città etrusche, Kainua (originariamente nota con il nome di Misa) è rimasta per lungo tempo abbandonata ed emarginata dai successivi insediamenti e pertanto è rimasta leggibile nel suo originario tessuto urbano, risalente alla seconda metà del VI secolo a.C. e attivo fino alla metà del IV secolo a.C. (quando la città fu occupata dai Celti). Solo recentemente si è aggiunta la scoperta, sull'altro versante appenninico, di un altro insediamento simile, Gonfienti, vicino a Prato, che ha permesso di chiarire i rapporti sociali e commerciali della zona.
Le primissime notizie sull'antico insediamento etrusco risalgono alla metà del XVI secolo, ma fu solo dopo il 1831 che si ebbero i ritrovamenti più significativi, in occasione dei lavori di realizzazione di un parco adiacente alla villa dei conti Aria. Dal 1862 si susseguirono una serie di scavi ufficiali diretti da illustri archeologi, come Giovanni Gozzadini, Gaetano Chierici e Edoardo Brizio, a cui si deve anche la prima sistemazione dei reperti nel museo nel frattempo creato all'interno della villa. L'area archeologica, assieme ai reperti rinvenuti durante gli scavi, furono acquistati dallo Stato italiano nel 1933, col trasferimento del museo nell'attuale sede. L'allestimento attuale, che risente della parziale distruzione e dispersione dei reperti durante la seconda guerra mondiale, risale al 1979, con aggiornamenti continui legati agli scavi che regolarmente sono compiuti ogni estate, dagli anni cinquanta ad oggi.
Il percorso, diviso per aree di rinvenimento, presenta vasi attici, bronzi, segnacoli tombali e balsamari provenienti dalle necropoli, vari materiali provenienti dall'abitato, dall'acropoli e dal santuario fontile, terrecotte architettoniche dell'acropoli e delle case di abitazione, e rinvenimenti recenti, tra cui una testa di kouros greco, trovata nelle vicinanze di quello che, una decina di anni dopo, sarebbe poi stato scavato ed identificato come il tempio di Tinia. Nella quarta sala due corredi funebri provenienti da Sasso Marconi.


Emilia Romagna - Museo archeologico nazionale di Parma

 

Il Museo archeologico nazionale di Parma è situato in piazza della Pilotta a Parma, nell'ala sud-occidentale del palazzo della Pilotta; fondato nel 1760, è uno dei primi musei archeologici sorti nel territorio italiano.
In seguito alla fortuita scoperta nel 1747 di alcuni frammenti di una tavola bronzea d'epoca romana a Velleia, nel 1760 il duca di Parma Filippo di Borbone intraprese una campagna di scavi archeologici, che permise di portare subito alla luce il foro cittadino; le ricerche consentirono di rinvenire anche una serie di pregevoli reperti, che il Duca fece portare a Parma, fondando così, all'interno di un piccolo edificio adiacente al complesso della Pilotta, il Ducale Museo di Antichità.
La collezione si arricchì presto di nuovi materiali, provenienti sia dagli scavi di Velleia, che nella prima fase proseguirono fino al 1765, sia dal sito di Luceria, che, all'epoca appartenente al ducato di Parma e Piacenza, fu portato alla luce a partire dal 1776; altri pezzi, già appartenuti ai Farnese e ai Gonzaga, giunsero rispettivamente dal colle Palatino di Roma e da Guastalla.
Nel 1803, in epoca napoleonica, i reperti di maggior valore furono traslati a Parigi, ma dopo la Restaurazione furono restituiti al museo.
Nei decenni seguenti, la duchessa Maria Luigia arricchì ulteriormente il museo con nuovi materiali, in parte provenienti da Velleia, ove promosse una nuova campagna, e in parte dalla città di Parma, ove furono rinvenuti nel corso di scavi vari monumenti d'epoca romana; altri reperti giunsero grazie all'acquisto di monete, oggetti e ceramiche d'epoca greca, etrusca, italiota ed egizia, su iniziativa della Duchessa, che nel 1817 decise di spostare il museo nella sua sede definitiva, all'interno del palazzo della Pilotta.
Dopo l'Unità d'Italia, nel 1866 le dodici statue in marmo provenienti dalla basilica di Velleia, fino ad allora conservate nella vicina galleria, furono spostate nel museo d'Antichità; l'anno seguente il nuovo direttore Luigi Pigorini creò il primo nucleo della sezione preistorica, che presto si arricchì anche grazie alle ricerche di Pellegrino Strobel.
Nel 1965 il museo fu riallestito su due sezioni, corrispondenti a due diversi livelli dell'ala sud-occidentale del palazzo della Pilotta.
Nel 2009 la sezione dedicata all'Antico Egitto si arricchì grazie all'acquisizione in comodato della collezione Magnarini di scarabei, acquistata dalla Fondazione Cariparma l'anno precedente.
Nel 2017 furono avviati i lavori di ristrutturazione dell'Ala Nuova, per volere del direttore Simone Verde; il cantiere riguardò il restauro delle facciate sul cortile della Cavallerizza, progettate dall'architetto di Corte Ennemond Alexandre Petitot, e la creazione di nuove sale del museo: l'ampia sala delle ceramiche, in cui fu riportato alla luce l'antico soffitto ligneo a cassettoni, e le sale egizie, che furono ricavate da ambienti precedentemente occupati da uffici; le opere furono completate quattro anni dopo e il 22 dicembre 2021 ebbe luogo la cerimonia di inaugurazione. Anche le vecchie sezioni del museo, chiuso al pubblico dal 2019, furono completamente risistemate e riallestite; al termine dei lavori, il 10 novembre 2023 si svolse la cerimonia di inaugurazione alla presenza del ministro della cultura Gennaro Sangiuliano.
Il museo si articola in una serie di sezioni espositive.
Collezioni storiche

La sezione delle collezioni storiche, esposta in gran parte nella sala delle ceramiche, riunisce materiali raccolti dal museo tra il XVIII e il XIX secolo e provenienti da territori esterni al Parmense: gli oggetti d'epoca greca ed etrusca furono acquistati in gran parte dopo il 1830, durante la direzione di Michele Lopez; i marmi d'età romana, comprendenti una testa di Zeus (collocata di fronte al teatro Farnese), una copia del Satiro flautista di Lisippo, un torso di Eros, una grande testa di Giove Serapide e un busto di Lucio Vero, furono prevalentemente acquisiti nei decenni precedenti dalle collezioni Farnese di Roma e Gonzaga di Guastalla; i materiali paleocristiani, costituiti da lapidi funerarie e manufatti tardoromani, furono acquistati in più riprese.
Al centro della sala, dominata dal soffitto a cassettoni lignei, è posto un grande tavolo antico, recuperato nel corso del restauro dell'Ala Nuova; sul piano sono collocate, all'interno di teche in vetro, numerose ceramiche d'epoca greca, etrusca, italiota e romana; tra gli oggetti esposti, spiccano alcune anfore dipinte etrusche rinvenute a Vulci e vasi italioti provenienti dall'antica Apulia.
Lungo la corta parete settentrionale sono poste quattro vetrine, contenenti altri oggetti d'età etrusca, tra cui vari bronzi, specchi, statuette e terrecotte. Il lato occidentale, aperto sul Lungoparma attraverso cinque finestroni, accoglie quattro statue romane marmoree, collocate su piedistalli. Sul breve fianco meridionale, tra due porte delimitate da stipiti modanati e architravi in rilievo, è posizionata una vetrina, al cui interno è esposto un bassorilievo di Oceano. Infine, la lunga parete orientale ospita, su alti basamenti, cinque busti e una testa in marmo d'epoca romana, situati ai lati e in mezzo a due porte anch'esse decorate con cornici.
Preistoria

La sezione della preistoria, esposta in varie sale del piano terreno, riunisce materiali risalenti a un periodo compreso tra il Paleolitico e l'età del bronzo, raccolti a partire dall'insediamento nel 1867 del successore di Michele Lopez, Luigi Pigorini; il nuovo direttore, studioso di paletnologia, concentrò le proprie attenzioni soprattutto sulla civiltà terramaricola, di cui, insieme a Pellegrino Strobel, nel 1860 aveva rinvenuto le prime tracce di un villaggio a Castione Marchesi e nel 1864 a Gaione; altri materiali giunsero in seguito alla scoperta, nel 1871, di un'altra terramara a Quingento di San Prospero. Nei decenni successivi, nuovi reperti furono acquisiti dal museo grazie al ritrovamento di siti archeologici a Parma e nei suoi dintorni, soprattutto durante la direzione, iniziata nel 1991, di Maria Bernabò Brea, che concentrò le proprie ricerche sull'età del bronzo e riallestì la sezione preistorica.
L'esposizione prende avvio dagli utensili del Paleolitico rinvenuti da Pellegrino Strobel, tra cui compare una serie di lame e punte. Segue la sezione dedicata al Neolitico, che raccoglie numerosi oggetti, comprese varie asce, provenienti da necropoli e villaggi scoperti nel Parmense; in particolare, alla cultura dei vasi a bocca quadrata appartengono i reperti portati alla luce nelle necropoli di Gaione e Vicofertile. L'età del bronzo occupa poi una porzione importante, grazie all'abbondanza di manufatti provenienti dalla zona; all'età del bronzo antica appartengono vari reperti lignei provenienti dal villaggio di Castione Marchesi, mentre all'età del bronzo media risalgono i numerosi oggetti rinvenuti nelle terramare di Parma, Quingento di San Prospero, Castione Marchesi e Vicofertile.
Degna di nota per la sua rarità è una statuetta perfettamente integra riferibile alla cultura dei vasi a bocca quadrata, rinvenuta nel 2006 nella necropoli di Vicofertile all'interno della tomba di una donna, accanto a una piccola olla e a un vaso; la scultura, risalente alla metà del V millennio a.C., rappresenta una figura femminile seduta, probabilmente la Madre Terra, inserita nella sepoltura per proteggere nell'aldilà la defunta, che doveva sicuramente rivestire un ruolo importante all'interno del villaggio; il manufatto, realizzato in ceramica scura, presenta alcune tracce di pittura bianca.
Età romana, Parma romana, Veleia e Territorio parmense

Le sezioni, in fase di riallestimento, riuniscono materiali rinvenuti tra la città di Parma, fondata nel 183 a.C., e i siti archeologici di Velleia, Luceria e varie località del Parmense; i primi reperti romani, provenienti da Velleia, giunsero al museo tra il 1760 e il 1765, quando, alla morte del duca Filippo di Borbone, gli scavi furono interrotti; successivamente, grazie alla scoperta del sito di Luceria nel 1776, la collezione si arricchì di nuovi oggetti, che verso il 1785 furono accorpati dal direttore Paolo Maria Paciaudi, insieme ad altri provenienti dal capoluogo e da Fornovo di Taro. In epoca napoleonica, nonostante la spoliazione dei pezzi più importanti del museo, l'amministratore ducale Médéric Louis Élie Moreau de Saint-Méry promosse tra il 1803 e il 1805 nuovi scavi a Velleia, che tuttavia non consentirono di arrestare il degrado del sito archeologico. Dopo la Restaurazione e la restituzione delle opere trafugate in Francia, il museo divenne assegnatario di tutti i reperti antichi rinvenuti nel territorio ducale, per volere di Maria Luigia, che nel 1816 intraprese una nuova campagna a Velleia, durata a fasi alterne fino al 1847; la collezione si arricchì così di un notevole patrimonio, proveniente sia da enti religiosi e privati sia da rinvenimenti nel corso di opere pubbliche, che in quegli anni, su impulso della Duchessa, interessarono in particolare la città di Parma. Dopo anni di interruzione, gli scavi veleiati ripresero nel 1876, durante la direzione di Giovanni Mariotti, che vi rinvenne una necropoli dei Liguri veleiati, ma in seguito non avvennero più scoperte di rilievo nel sito. Successivamente il museo si arricchì grazie a scoperte fortuite nel corso di lavori pubblici e privati, avvenute sia in città che in provincia.
La collezione, divisa nelle varie sezioni, comprende oggetti etruschi, liguri, romani e longobardi, provenienti da Parma e il Parmense, tra cui sculture, mosaici, epigrafi funerarie, frammenti architettonici, gioielli e utensili, la maggior parte dei quali risalente all'età romana.
Velleia
Il cuore del museo è costituito dalla sezione dedicata a Velleia, che raccoglie numerosi reperti provenienti dalla città romana, fondata sui resti di un villaggio ligure veleiate nel 158 a.C., in seguito alla conquista romana del territorio, e abitata fino all'incirca al V secolo d.C.
La collezione è costituita innanzi tutto da una serie di bronzi figurati, in ottime condizioni di conservazione, tra cui una Testa di fanciulla del I secolo a.C., una Vittoria alata del I secolo d.C., un Ercole ebbro del II secolo d.C. e una coeva Testa di imperatore, raffigurante verosimilmente Antonino Pio.
Di particolare importanza risulta poi il ciclo statuario giulio-claudio, conservato nell'antica sala delle medaglie dal 1965. L'ambiente presenta, incastonato al centro del pavimento, un mosaico romano rinvenuto nel 1833 in una villa a Pontenure, mentre la volta a padiglione, affrescata da Francesco Scaramuzza nel 1845, è ornata con l'allegoria del Trionfo dell'Archeologia nel mezzo, quattro tondi ai lati raffiguranti i busti degli archeologi Giovanni Battista Visconti, Luigi Antonio Lanzi, Johann Joachim Winckelmann e Jean-François Champollion e sul contorno, tra ottagoni contenenti putti, i quattro principali siti archeologici d'epoca romana, etrusca, greca ed egizia, dipinti in chiaroscuro. 
Il gruppo di sculture, costituito da 12 statue marmoree provenienti dalla basilica a sud del foro di Velleia, raffigura vari membri della dinastia giulio-claudia; realizzato in tre fasi differenti intorno alla metà del I secolo, raccoglie nel primo gruppo le figure di Tiberio, Augusto, Livia Drusilla, Druso maggiore, Druso minore e Lucio Calpurnio Pisone, patrono di Velleia; del secondo gruppo fanno parte Caligola (nella terza fase modificato sostituendo la testa con quella di Claudio), Drusilla e Agrippina maggiore; nel terzo compaiono, accanto al suddetto Claudio, Agrippina minore e un giovane Nerone; infine un'ultima statua viene identificata dagli esperti come raffigurazione di Germanico o di Domiziano.
Un ruolo di considerevole rilievo è poi assunto dalla tabula alimentaria traianea, che costituisce la più grande iscrizione bronzea romana mai rinvenuta. L'ampia tavola rettangolare, della superficie di circa 3,9 m², fu scoperta fortuitamente nel 1747 dal sacerdote Giuseppe Rapaccioli e venduta a pezzi a più fonderie, ma, prima della sua distruzione, fu individuata come un reperto di notevole antichità e salvata dai conti Giovanni Roncovieri e Antonio Costa; trafugata ancora smembrata in 11 frammenti a Parigi nel 1803, fu restituita dal museo del Louvre nel 1816 e l'anno seguente fu ricomposta e restaurata da Pietro De Lama. L'iscrizione che ricopre la faccia anteriore della lastra si riferisce all'istituzione degli alimenta, prestiti ipotecari versati in due fasi tra il 101 e il 114 dall'imperatore Traiano ai proprietari di terreni nei dintorni di Velleia, i cui interessi, ammontanti al 5% di quanto percepito, erano destinati al mantenimento di giovani poveri nati liberi tra le città di Piacenza, Parma, Libarna e Lucca; la tabula riporta, su sei colonne, i dati dei percettori dei prestiti e delle loro proprietà e l'entità di quanto loro corrisposto.
Il museo espone inoltre la cosiddetta Lex Rubria de Gallia Cisalpina, frammento di una grande lastra bronzea rinvenuto nel 1760 nel portico ovest del foro di Velleia. La tavola rettangolare, realizzata presumibilmente tra il 49 e il 42 a.C., riporta, su due colonne, tre capitoli interi e due parziali della tavola IV di una legge riguardante la Gallia Cisalpina.
La collezione raccoglie inoltre numerosi reperti legati alla vita privata quotidiana, tra cui pinzette, spatole, anelli, fibule, contenitori in vetro per unguenti e strigili per la pulizia del corpo.
Infine, una sezione è dedicata agli oggetti legati al culto domestico dei lari e, d'epoca imperiale, della dea Iside.


Nelle foto, dall'alto in basso:
- Antica sala delle Medaglie
- Cratere a calice etrusco proveniente da Poggio Sommavilla, databile al 410 a.C. circa
- Busto di Lucio Vero del 161-169 circa
- Manufatti risalenti all'età del bronzo
- Statuetta di Vicofertile, databile alla metà del V millennio a.C.
- Urna cineraria romana
- Testa di fanciulla da Velleia, risalente al I secolo a.C.
- Ercole ebbro da Velleia, risalente al II secolo
- Lucio Calpurnio Pisone da Velleia, risalente al I secolo
- Urna cineraria con scena di combattimento tra Eteocle e Polinice, da Volterra
- Tabula alimentaria traianea da Velleia, risalente al 102-114 d.C.
- Lex Rubria de Gallia Cisalpina, da Velleia, risalente al 49-41 a.C.



Emilia Romagna - Museo archeologico nazionale di Ferrara

 


Il Museo archeologico nazionale di Ferrara è ospitato presso palazzo Costabili. Nella struttura sono esposti numerosi manufatti provenienti dagli scavi della città etrusca di Spina, fiorita tra il VI e il III secolo a.C.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale dell'Emilia-Romagna, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
La città di Spina, abbandonata durante il II secolo a.C., venne scavata in seguito alla riscoperta legata alle opere di prosciugamento delle Valli di Comacchio. Nella necropoli sono state trovate più di 4.000 tombe, alle quali vanno aggiunti gli scavi di una parte dell'abitato.
Il percorso espositivo è organizzato su due piani. Al piano terra si trovano le sale dedicate all'abitato di Spina e alle attività che vi si praticavano. Sezioni apposite sono dedicate alla vita religiosa e al variegato popolamento della città, visto attraverso le testimonianze epigrafiche.
Sempre al piano terra sono posizionate anche le due imbarcazioni monossili (comunemente indicate come "piroghe") recuperate nel 1948 in Valle Isola e risalenti ad epoca tardo-romana (III-IV secolo a.C.).
Al piano nobile sono esposti, con criterio cronologico, una selezione tra i corredi più significativi provenienti dalle numerosissime tombe rinvenute nella necropoli. Tra i pezzi più pregiati figurano le splendide ceramiche attiche a figure rosse (crateri, kylikes, anfore, hydrie) prodotte da importanti artisti ateniesi del V e IV secolo a.C. Le pitture rappresentano scene mitologiche e di vita quotidiana, e testimoniano la diffusione dell'arte greca in ambito etrusco. Altre ceramiche, prevalentementemente del IV e III secolo a.C. provengono dalla Magna Grecia e dalla Sicilia. Di produzione etrusca sono oggetti soprattutto in bronzo, quali candelabri, tripodi, sostegni. Da notare le ceramiche alto adriatiche, prodotte localmente quando cessarono i contatti con la Grecia.
Una menzione a parte meritano i gioielli in oro, argento, ambra e pietre semipreziose, che testimoniano l'abilità tecnica raggiunta dagli artigiani dell'Etruria padana e centroitalica.

nelle foto:
Balsamari in pasta vitrea. V-III sec. a.C.
Cratere attico a volute a figure rosse. Pittore dei Niobidi, Amazzonomachia. V sec. a.C.
Stamnos fallico attico a figure rosse. V sec. a.C.  

Emilia Romagna - Museo civico archeologico di Bologna

 


Il Museo civico archeologico di Bologna ha sede nel quattrocentesco Palazzo Galvani, in Via dell'Archiginnasio 2, 40124 Bologna, l'antico “Ospedale della Morte”. Inaugurato nel settembre 1881, nasce dalla fusione di due musei: l'Universitario – erede della “Stanza delle Antichità” dell'Accademia delle Scienze fondata da Luigi Ferdinando Marsili (1714) - e il Comunale, arricchitosi della collezione di antichità del pittore Pelagio Palagi (1860) e di numerosissimi reperti provenienti dagli scavi condotti in quegli anni a Bologna e nel suo territorio.
Il museo si colloca tra le più importanti raccolte archeologiche italiane ed è altamente rappresentativo della storia locale, dalla preistoria all'età romana. La sua collezione di antichità egizie è una delle più importanti d'Europa. Tra il 1972 e il 2012 il Museo ha ospitato oltre 150 mostre ed esposizioni a carattere archeologico e artistico.
Dal 2012 al 2022 il Museo civico archeologico ha fatto parte dell'Istituzione Bologna Musei, sostituita dai Musei Civici gestiti dal Comune di Bologna.
La sezione preistorica
- Espone materiali preistorici che vanno dal Paleolitico Inferiore (circa 700.000 anni fa) fino all'età del Bronzo Finale (X secolo a.C.). Il Paleolitico è documentato da strumenti in selce e ftanite: bifacciali, punte, raschiatoi e nuclei; più scarse sono le testimonianze per il Mesolitico (da 11.000 anni fa) ed il Neolitico (4.500-3.000 a.C.). Con l'età del bronzo i rinvenimenti si fanno più frequenti, come testimoniano i numerosi esemplari di recipienti in ceramica, gli strumenti in osso, corno e metallo, rinvenuti, insieme alle forme per la fusione, nei grandi villaggi in pianura della metà del secondo millennio a.C. Completano la sezione i materiali preistorici provenienti da località italiane, europee ed extraeuropee.
La sezione etrusca - Questa sezione del museo espone i materiali degli scavi effettuati nel XIX secolo e nella prima metà del XX secolo nel territorio bolognese e consente di ricostruire lo sviluppo dell'antico insediamento etrusco dalle origini (IX secolo a.C.) alla fondazione della città di Felsina (l'insediamento bolognese del periodo etrusco) fra la metà del VI ed il V secolo a.C.[6]
Le fasi più antiche della Bologna etrusca (villanoviana e orientalizzante, IX - metà del VI secolo a.C.) sono illustrate da una vasta scelta dei circa 4000 corredi tombali rinvenuti: vasi dalla caratteristica forma biconica (per la deposizione delle ceneri del defunto), oggetti di uso personale e strumenti in bronzo, nonché vasellame in ceramica e bronzo. Tra i pezzi esposti, si segnalano l'askos Benacci, una tipologia di vasi assai rara utilizzata per contenere l'olio per le lucerne, e il "ripostiglio di San Francesco" ovvero il deposito di una fonderia, costituito da un grande vaso (dolium) che conteneva oltre 14.000 pezzi di bronzo.
La fase urbana di Felsina (metà del VI secolo a.C. – inizio del IV secolo a.C.) è rappresentata prevalentemente da corredi tombali, fra i quali spiccano quelli della "Tomba grande" e della "Tomba dello sgabello" provenienti dalla ricca necropoli dei Giardini Margherita, con pregiati vasi di importazione greca per il consumo del vino e oggetti di lusso, quali un grande candelabro o un sedile in avorio. Da ricordare anche la "Situla della Certosa"(nella foto a sinistra), un raffinato recipiente in bronzo decorato con scene di vita militare, civile e religiosa.
Alla cultura villanoviana di Verucchio - il sito principale della Romagna della prima età del ferro - è dedicata una sala in cui è esposta una tomba principesca, caratterizzata da tavolini per offerte, vasellame, trono e poggiapiedi in legno, perfettamente conservati.
La sezione gallica - La civiltà etrusca si concluse a Bologna all'inizio del IV secolo a.C. con l'invasione dei Celti (o Galli), che occuparono gran parte dell'Italia a nord degli Appennini e le Marche. Nel bolognese si stanziò la tribù dei Boi. La sezione espone i corredi più significativi delle necropoli galliche del bolognese, caratterizzati dalla presenza di armi in ferro di tradizione transalpina e dall'uso del vasellame da banchetto di fabbricazione etrusca.
Il lapidario - Comprende soprattutto lapidi sepolcrali romane provenienti dalla città e della provincia databili tra la metà del I secolo a.C. e la metà del II secolo d.C. Di particolare interesse la statua con corazza dell'imperatore Nerone (metà del I secolo d.C.) rinvenuta nel XV secolo in Piazza de' Celestini, già sede del teatro romano della città. Nel cortile è presente anche una serie di pietre miliari della via Emilia.
La collezione greca
- In questa sala è esposto il reperto maggiormente rappresentativo della Collezione Palagi risalente all'antica greca: la testa dell'Atena Lemnia (nella foto a sinistra), copia in marmo di età augustea da una statua di bronzo eseguita da Fidia nel V secolo a.C.; anche gli altri reperti in marmo esposti nella sala sono in gran parte rielaborazioni romane di originali greci. Molto ricca è la raccolta di ceramiche greche, per lo più di fabbricazione attica, insieme a numerosi esemplari di fabbrica magnogreca. Pregevole è pure la raccolta di gemme antiche e moderne e di oreficerie. Due postazioni informatiche sono a disposizione per la consultazione della banca dati relativa alla sezione.
La collezione etrusco-italica - Raccoglie reperti provenienti dall'Italia centrale: di particolare interesse sono i buccheri, gli specchi etruschi a rilievo e incisi, e le urne etrusche in terracotta e marmo.
La collezione romana - La collezione romana comprende una ricca raccolta di vasellame di vetro, di bronzetti figurati e di instrumentum domesticum: chiavi, fibule, aghi, cucchiai, campanelli, pesi, bilance, vasellame. Pregevole la serie di avori paleocristiani (dittici e pissidi), decorati da motivi sacri e profani (V secolo d.C.). Le sculture in marmo comprendono rilievi, statue, ritratti pubblici e privati, documenti dell'attività delle botteghe romane di età imperiale.
La collezione egizia
- La collezione egizia del museo è una fra le più importanti d'Europa, ricca di più di 3500 oggetti, tra cui sarcofagi, stele e ushabti che documentano tremila anni di civiltà. Il moderno allestimento suggerisce un percorso di tipo cronologico, a partire dall'Antico Regno fino all'epoca tolemaica, con sezioni di approfondimento su tematiche di particolare interesse, quali il corredo funerario, la scrittura e gli amuleti. Tra i reperti più importanti spiccano i rilievi provenienti dalla tomba di Horemheb a Saqqara (XIII secolo a.C.), monumento riscoperto da scavi recenti, cui è dedicato un video in computer-grafica.
La collezione numismatica
- Il Museo archeologico vanta anche un'ampia collezione numismatica composta da circa 100 000 esemplari di monete, medaglie e conii. Tra le sezioni più significative si segnalano il consistente nucleo delle monete romane di età repubblicana e imperiale, la raccolta delle monete delle zecche italiane e il nucleo delle medaglie papali. La banca dati della raccolta, non esposta al pubblico, è consultabile su appuntamento presso il museo.
La gipsoteca - Una raccolta di copie in gesso di celebri sculture greche e romane (nella foto a sinistra).

Il museo è dotato di: sezione didattica, biblioteca specializzata con sala di lettura, archivio storico (consultabile su appuntamento), archivio fotografico (consultabile su appuntamento o tramite richiesta scritta), laboratorio di restauro, accesso per i disabili, sale per esposizioni temporanee, sala conferenze e libreria.





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Emilia Romagna - Parco archeologico e museo all'aperto della Terramara di Montale


Il Parco archeologico e museo all'aperto della Terramara di Montale è un sito archeologico con annesso museo e parco tematico situato a Montale Rangone, frazione del comune di Castelnuovo Rangone, in provincia di Modena. Il parco archeologico di Montale, situato a una decina di chilometri da Modena nel luogo stesso in cui sorgeva un abitato di 3500 anni fa, è dedicato alla valorizzazione della civiltà delle terramare, una fra le realtà culturali più significative dell'età del bronzo europea, fiorita intorno alla metà del II millennio a.C..
Nel parco coesistono l'area di scavo, indagata scientificamente e successivamente musealizzata, il museo all'aperto con la ricostruzione a grandezza naturale di una parte del villaggio, gli spazi destinati alle attività didattiche. Il complesso, dal carattere fortemente evocativo, offre l'opportunità di conoscere un momento significativo della preistoria con un approccio basato sull'esperienza diretta.
Il percorso di visita è segnalato da una serie di pannelli che inquadrano dal punto di vista storico-archeologico le terramare e illustrano la storia del sito dal momento della costruzione del villaggio fino alla successiva riscoperta avvenuta nel XIX secolo.
La prima tappa della visita è l'area archeologica, racchiusa da una struttura che con il suo profilo ricalca l'originario rilievo della collinetta, formatasi durante gli oltre tre secoli di vita dell'abitato. All'interno si possono ammirare l'imponente stratigrafia che testimonia le diverse fasi di vita del villaggio e il calco di uno strato che conserva significative testimonianze lignee di una delle abitazioni. L'area archeologica fornisce la chiave di lettura per la visita del museo all'aperto dove, sulla base dei risultati degli scavi, sono state ricostruite le fortificazioni del villaggio, il fossato e il terrapieno sormontato da una palizzata, due abitazioni arredate con vasellame, utensili, armi e vestiti che riproducono fedelmente gli originali di 3500 anni fa, le aree produttive collegate alla realizzazione di ceramica e oggetti in bronzo. Recentemente sono state impiantate le colture sperimentali di alcune delle piante coltivate dagli abitanti del villaggio.

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...