Kàinua è un'antica
città etrusca che sorgeva sul Pian di Misano e sulla
soprastante altura di Misanello presso l'attuale comune
di Marzabotto, nella città metropolitana di Bologna. In
passato era nota con il nome di Misa dal nome del luogo del
ritrovamento.
Fondata nel V secolo a.C. a
poca distanza dal fiume Reno, Kainua fu una
delle città-stato più importanti dell'Etruria padana,
assieme a Felsina (Bologna) e Spina, nonché un
importante snodo commerciale tra l'Etruria tirrenica e
la Pianura Padana, fino ad oltralpe. L'esistenza della
città è nota fin dal 1551, quando frate Leandro
Alberti nel suo Descrittione di tutta Italia ipotizza
la presenza di una città antica sulla base del ritrovamento di
alcune rovine di edifici, mosaici e monete.
A soli 28 km dalla vicina Bologna,
si accede all'area archeologica e all'annesso Museo nazionale
etrusco di Marzabotto risalendo la Strada statale 64
Porrettana (Bologna-Pistoia).
Il sito, seppur andato in parte perduto a causa dell'erosione
della marna dovuta al fiume Reno (che sgretolò la parte
più a sud del pianoro su cui era fondata la città, provocandone il
crollo), rimane unico nel suo genere poiché ha perfettamente
conservato le tracce della sua planimetria. Esso si
presenta caratterizzato da un impianto urbano ortogonale di
stampo coloniale ed è costituito per lo più da
numerose case-bottega, un'acropoli, due necropoli (necropoli
nord e necropoli est) e diverse aree sacre. Della
maggior parte degli edifici sono rimaste le sole fondazioni, a
causa dei lavori agricoli che si sono succeduti nel corso dei secoli
e che hanno ridotto l'alzato degli edifici.
Espansione etrusca in Valle PadanaLa presenza degli Etruschi è
attestata in Valle Padana fin dalla fase villanoviana (IX
secolo a.C.). Nel VI secolo a.C. una nuova fase
espansionistica, dettata questa volta dalla necessità di trovare
nuovi sbocchi commerciali (a seguito del declino dell'Etruria
campana), spinsero gli Etruschi di nuovo in Valle Padana, dove venne
sviluppata l'Etruria padana, occupata, oltre che da centri di nuova
costituzione, anche da antichi insediamenti etruschi di epoca
villanoviana. È a questo periodo che viene fatta risalire la
fondazione della città di Kainua.
Le due fasi di fondazione della cittàSecondo i ritrovamenti venuti alla luce
in seguito agli scavi, la fondazione della città avvenne in due
fasi:
-
Marzabotto I (550 - 500
a.C.): in questa prima fase l'insediamento etrusco era semplicemente
costituito da villaggi di capanne di stampo primitivo disposti su
tutto il pianoro. Qui gli Etruschi vivevano già ben organizzati:
oltre alle abitazioni e ai terreni adibiti all'agricoltura,
l'insediamento poteva vantare di templi o altari per il culto (a
nord-est del villaggio, in prossimità di una sorgente d'acqua), una
necropoli, un sistema di canalizzazione delle acque, una fonderia e
almeno una bottega artigianale. Un reperto di particolare rilievo
attestante la datazione a questo periodo è stato trovato sul fondo
del pozzo sulla plateia D: un coperchio di pisside in
avorio molto elaborato e prezioso (soprannominato il signore dei
leoni -
nella foto), in stile orientalizzante, databile tra il 620 e
il 580 a.C. e probabilmente appartenuto a un nobile di alto
rango.
-
Marzabotto II (500 - 350
a.C.): a questo periodo risalirebbe la fondazione della città vera e
propria secondo l'etrusco ritu, e cioè costruita rispecchiando la
suddivisione del templum celeste. La città così costituita
comprendeva case-bottega di tipo atrium tuscanicum,
un'acropoli, diversi santuari e luoghi di culto, almeno due
necropoli, acquedotti, sistemi fognari e una grande fornace, oltre
alla fonderia preesistente.
Verso la prima metà del IV secolo
a.C. le popolazioni celtiche, già da tempo presenti
nel nord Italia, più precisamente a nord del Po, invasero
l'Etruria padana. I Galli Boi iniziarono ad occupare le
città etrusche, una dopo l'altra, per poi scendere verso il sud
Italia fino ad arrivare a Roma, che saccheggiarono. Essi
erano soliti modificare la funzione dei territori occupati a seconda
della posizione geografica: i territori in pianura venivano
trasformati in terre da coltivare, mentre quelli in altura in presidi
militari. Kainua, proprio per la sua posizione sopraelevata, divenne
un presidio da cui poter controllare l'intera Valle del Reno.
Anche le tratte commerciali furono
modificate: vennero ridotti drasticamente gli scambi con l'Etruria
tirrenica, in favore di una più fitta rete di scambi con la Romagna,
attraverso la Valle dell'Idice. Obiettivo dei Galli Boi era quello di
strappare agli Etruschi il controllo commerciale, provocando in
questo modo il crollo dell'economia interna della regione. Per questo
motivo l'occupazione celtica provocò una fuga generale degli
Etruschi verso le città costiere (come Spina e Mantova,
non ancora occupate), mentre coloro che rimasero furono coinvolti in
un tentativo di fusione tra le due culture (attestato da tombe i cui
corredi funebri presentavano elementi riguardanti entrambe le
civiltà). L'occupazione celtica di Kainua, in parte già da tempo
abbandonata dagli Etruschi (specialmente quelli residenti nella parte
meridionale dell'abitato) e lasciata per lo più in stato d'abbandono
dagli stessi celti (che si concentrarono maggiormente nell'area nord
dell'abitato), si protrasse fino alla seconda metà del III
secolo a.C.
Le testimonianze della presenza celtica
sul suolo etrusco sono date per lo più dal ritrovamento di resti
umani all'interno dei pozzi per il rifornimento idrico
(dove sono stati trovati scheletri di guerrieri armati), di sepolture
ai piedi dell'acropoli e di sepolcreti in mezzo all'area urbana.
Il sovvertimento delle funzioni originarie di alcune infrastrutture
cittadine etrusche trova facile spiegazione nello stato di degrado in
cui il settore meridionale dell'abitato e quello legato all'acropoli
versavano a seguito del disinteresse o dell'abbandono da parte degli
Etruschi all'epoca dell'occupazione celtica; pertanto quei territori,
e le strutture lì edificate, si presentavano ai Galli coperti da
strati di terreno accumulatosi naturalmente, mentre i pozzi urbani,
in disuso da tempo, si erano oramai riempiti di terra, laterizi,
pietre e altri materiali rendendoli usufruibili per altre funzioni.
Espansione
romanaNel II secolo a.C., quando
l'Etruria padana passò sotto il dominio romano, si verificò
una romanizzazione generale dei territori. Tuttavia, il
processo riguardò solo marginalmente Kainua e la ragione può
consistere nel fatto che la strada che collegava Roma all'Etruria
padana si trovava molto più ad est della città, risparmiandola così
dalla diretta occupazione dei nuovi conquistatori (concentratisi
prevalentemente nella città di Bononia). La presenza romana
nell'antica città è testimoniata solo dai resti di una villa
romana di stampo rustico, costruita lungo il margine nord-est di
quella che fu Kainua (più precisamente occupante l'Insula
3 della Regio III e parte della plateia B), in un
tempo in cui probabilmente il sito etrusco era già stato coperto da
alcune decine di centimetri di terreno formatosi naturalmente, che
rese il territorio ideale per l'agricoltura e la pastorizia.
Databile tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.
la fattoria sembra avere una planimetria molto simile a quella delle
case etrusche: una serie di vani rettangolari, di cui soltanto uno
presenta al centro un pozzo per il rifornimento idrico (la cui
tecnica di costruzione ricorda molto da vicino quella etrusca);
inoltre, sono stati trovati resti di due fornaci e un canale di scolo
per lo smaltimento delle acque. Nel complesso la fattoria aveva tutto
ciò che era necessario per renderla autosufficiente.
Dal
Cinquecento ad oggiLa
prima notizia sul sito archeologico risale al 1551 quando
frate Leandro Alberti, nella Descrittione di tutta Italia,
parla di un'antica città sul pianoro di Misano, secondo quanto
riportatogli dagli abitanti della zona e come lui stesso sembra aver
accertato visitando il luogo di persona. Altre sporadiche notizie
sono dei successivi secoli XVII e XVIII; in
particolare è proprio nel tardo Settecento che un altro
religioso, l'abate e storiografo Serafino Calindri, fa
riferimento all'insediamento sul pianoro di Misano nel suo Dizionario
Corografico Georgico Orittologico Storico dell'Italia. Qui accenna
anche a delle attività di scavo attive in quel periodo, i cui
reperti portati alla luce erano però destinati al commercio[8]. Solo
a partire dal XIX secolo si avrà una documentazione più
precisa sul sito.
Nel 1831 i terreni agricoli
di Pian di Misano e la villa secentesca annessa (Villa di
Misanello, fino ad allora conosciuta come Villa Barbazza, dal nome
della famiglia proprietaria Barbazzi) divennero di proprietà del
conte Giuseppe Aria, il quale diede ordine di eseguire dei lavori di
ristrutturazione della villa (originariamente classificabile come
castello-palazzo, poiché costituito da quattro corpi di fabbrica
snodati attorno a un cortile e preceduto da una torre
d'avamposto) e di riqualificazione dell'area circostante, che
comprendevano anche la realizzazione di un parco
all'inglese attorno alla villa, di un laghetto
artificiale e di una nuova strada d'accesso alla villa dal lato
sud. Furono proprio i lavori di scavo effettuati per la realizzazione
di quest'ultima a portare alla luce i primi ritrovamenti
archeologici, quello di due stipi votive ai piedi di quella
che, in seguito, sarebbe stata identificata con l'acropoli cittadina.
Lì i lavori vennero eseguiti in due fasi: la prima, avvenuta nella
primavera del 1839, portò al recupero di trenta bronzetti
votivi antropomorfi ai piedi dell'acropoli, mentre la seconda
fase (avvenuta nella primavera del 1841) portò al rinvenimento
di otto bronzetti antropomorfi. Nel 1856, in concomitanza con i
lavori di scavo effettuati per la realizzazione del parco sull'altura
di Misanello e del laghetto artificiale nei pressi della villa,
vennero portati alla luce gli edifici dell'acropoli e alcune
tombe della necropoli settentrionale (per la maggior parte ancora
occultata all'epoca). Proprio in questo periodo arrivò a Marzabotto
un archeologo, Giovanni Gozzadini, già promotore ed esecutore
degli scavi presso la sua proprietà (Villa Gozzadini) di Villanova
di Castenaso e riportanti alla luce un sepolcreto di
una comunità villanoviana. Fin da subito Gozzadini notò una
stretta somiglianza nella composizione tra le strutture templari
appena scoperte a Marzabotto e le tombe villanoviane, portandolo
immediatamente a pensare di trovarsi di fronte ad un'altra necropoli.
Nel 1861, terminati i lavori per la realizzazione del parco e
del laghetto artificiale adiacente, si decise di smantellare le
poche tombe a cassa della necropoli nord rinvenute
per trasferirle in prossimità dello stesso laghetto, causando il
grave danneggiamento di parte del sito archeologico.
I lavori di riqualificazione alterarono
in parte la struttura dell'area archeologica, ma la scoperta continua
di nuovi ritrovamenti e la loro successiva raccolta (seppur avvenuta
in maniera caotica, decontestualizzata e senza alcun metodo
scientifico) fece presupporre di trovarsi di fronte a qualcosa di
molto vasto. Fu così che nel 1862 il conte Aria decise di
finanziare i primi veri e propri scavi archeologici ufficiali, che
furono affidati proprio a Giovanni Gozzadini. Due furono le
campagne di scavo susseguitesi nell'arco di un decennio: la prima
avvenne tra l'agosto del 1862 e l'ottobre
del 1863 nell'area meridionale del Pian di Misano; la
seconda avvenne tra il 1865 e il 1869, dove furono
portate alla luce la necropoli settentrionale (scavando
l'invaso del laghetto artificiale realizzato nell'area settentrionale
del parco) e quella meridionale (la cui scoperta avvenne
casualmente nel 1867). Il ritrovamento di sole tombe, qualche
scheletro e diversi corredi funerari persuase sempre più il
Gozzadini nella sua convinzione di trovarsi di fronte ad un'immensa
necropoli. Solo il 2 ottobre 1871, in occasione del V
Congresso Internazionale di Antropologia e Archeologia
Preistoriche tenutosi a Bologna, venne messa in discussione la
conclusione del Gozzadini e contestualmente, grazie
all'etnologo Gaetano Chierici (che trovava le strutture
similari a quelle ritrovate a San Polo d'Enza e
attribuibili a case), venne avanzata l'ipotesi di riconoscere nei
resti fino ad allora emersi la struttura di un vero e proprio
impianto cittadino.
Nel 1883 a Gozzadini si
sostituì l'archeologo Edoardo Brizio, sotto la cui direzione
vennero svolti altri scavi: quello avviato nello stesso anno, quello
succedutosi nel 1885 (concentratosi nel settore meridionale
della città), fino alla campagna ufficiale di scavo che si protrasse
da novembre 1888 a maggio 1889, finanziati sempre
dalla famiglia Aria. Inizialmente i reperti rinvenuti furono esposti
nella Villa Aria, in cinque sale appositamente ampliate per essere
adibite a museo (Museo di Marzabotto, inaugurato il 20
ottobre 1886). Alla morte di Pompeo Aria e di Brizio, nonostante
un accordo con l'erede Adolfo Branca Aria (figlio di Pompeo), che
concedeva i permessi di scavo per un periodo di 10 anni, a causa di
nuove difficoltà divenne sempre più problematico occuparsi
dell'area archeologica, oramai versante in stato di degrado;
iniziarono così delle difficili trattative tra lo Stato italiano e
la famiglia Aria per la cessione dell'area archeologica, che si
conclusero soltanto dopo 25 anni, con un contratto d'acquisto
stipulato l'8 giugno 1933, con cui lo Stato acquisiva non
soltanto l'area archeologica (i cui confini vennero stabiliti
arbitrariamente sulla base delle scoperte fino a quel momento
rinvenute, poi riconosciuti insufficienti), ma anche tutti i reperti
conservati nella villa (o almeno quelli rimasti a seguito del furto
avvenuto nel 1911, dove furono depredati tutti gli oggetti in
oro trovati durante gli scavi, perlopiù facenti parte di corredi
funerari).
Fin da subito vennero organizzati scavi
e massicci interventi di restauro dell'intero sito archeologico, per
la prima volta finanziati dallo Stato, il quale decise anche,
nel 1938, di spostare il museo in un'altra zona, ma sempre
all'interno del pianoro di Misano, in un edificio che originariamente
era una casa colonica, poi trasformato in museo e inaugurato
nel 1939. I lavori di restauro e di scavo si interruppero
bruscamente in concomitanza con lo scoppio della seconda guerra
mondiale, durante la quale l'acropoli fu trasformata in una
postazione per la contraerea, rendendo l'intera area soggetta ai
bombardamenti, che in parte la demolirono. Neppure il museo si salvò:
nel 1944 esso venne coinvolto in un incendio causato da un
bombardamento che distrusse gran parte del materiale archeologico lì
conservato. Tra il 1946 e il 1948, sotto la direzione
del Soprintendente archeologo Paolo Enrico Arias, si procedette
ad un pesante intervento di restauro di quella parte del sito (in
particolare l'acropoli) danneggiato dai bombardamenti, mentre i
reperti scampati all'incendio del museo furono trasferiti in una
nuova sede, inaugurata il 25 aprile 1950.
Il museo venne ampliato nel 1958,
sotto la sopraintendenza dell'archeologo Guido Achille
Mansuelli, che, già a partire dall'anno prima, diresse anche altre
campagne di scavo in vari punti della città, iniziando pure una
duratura collaborazione con l'Università di Bologna. Il 4
novembre 1979 venne inaugurato l'attuale Museo
Nazionale Etrusco "Pompeo Aria". Dal 1988 ad oggi
proseguono le campagne di scavo nel pianoro di Misano, sotto la
direzione del Dipartimento di Archeologia dell'Università di Bologna
e della Soprintendenza per i Beni Archeologici
dell'Emilia-Romagna.
Situato su un pianoro reclinato di
circa 11 gradi verso il fiume Reno, delimitato da un ingresso
monumentale ad est (di cui rimangono solo le fondamenta in ciottoli a
secco, mentre al momento è solo supposta l'esistenza di una porta
nord nei pressi della necropoli settentrionale) e privo di mura
difensive, ma dotato di un terrapieno con fossato che
circondava l'abitato, Kainua rimane a tutt'oggi l'unico caso
conosciuto di una città etrusca avente una planimetria regolare
studiata preventivamente e basata su un preciso progetto teorico.
Considerando proprio l'aspetto regolare della planimetria, per
risalire all'originaria pianta urbana si è proceduto a proiettare in
maniera speculare il settore settentrionale dell'abitato a sud del
decumano (plateia C).
L'impianto cittadino risultante si
presenta attraversato da quattro principali
assi ortogonali (plateiai in greco), orientati secondo
i punti cardinali. Di essi, uno (plateia A) attraversa l'abitato
in senso nord-sud (equivalente al cardo romano) e tre
invece (plateiai B, C, D) in senso est-ovest (con funzioni
equivalenti al decumano romano), ortogonali all'asse
nord-sud. Il reticolato di strade suddivide l'abitato in otto aree
quadrangolari regolari chiamate "regioni" (regiones in
latino), mentre una serie di strade secondarie (chiamate stenopoi in
greco) parallele al cardo, ma poste a distanze irregolari tra loro,
suddividono ulteriormente le regioni in isolati (insule in
latino) dalla forma stretta ed allungata.
È da notare come i confini meridionali
della città fossero costruiti sul fiume Reno, la cui naturale
erosione - associata alla friabile composizione geologica
della marna - provocarono la frana di quella parte del
pianoro, causando anche il collasso delle strutture etrusche lì
erette (fra cui probabilmente un'altra necropoli).
Altra considerazione riguarda i confini
settentrionali dell'area etrusca di Kainua che, probabilmente, vanno
ben oltre i confini attualmente conosciuti, ma i cui territori non
possono essere esplorati né tantomeno oggetto di scavi archeologici,
poiché a tutt'oggi di proprietà privata della famiglia Aria.
Rito
di fondazioneL'etrusco ritu, ovvero il rito di
fondazione di una città etrusca secondo quanto previsto dai Libri
Rituales dell'Etrusca Disciplina, si fonda sulla proiezione
degli assi della volta celeste (templum celeste) sul luogo dove
sarebbe nata la città, rendendola - in questo modo - un'area sacra.
Secondo gli Etruschi la volta celeste si presenta attraversata da due
rette perpendicolari (il cui incrocio era chiamato croce
sacrale): l'asse nord-sud e l'asse est-ovest, che la dividono in
quattro principali settori. Per proiettare le due rette
perpendicolari sul terreno il sacerdote etrusco preposto al rito si
basava sui punti di levata e di tramonto del sole sull'orizzonte in
due particolari periodi dell'anno: il solstizio d'estate e
il solstizio d'inverno, ovvero i momenti in cui il sole -
sorgendo dal mondo degli inferi all'alba e ritornandovi al tramonto -
sembrava toccare l'orizzonte terrestre, unendo idealmente i tre mondi
(Cielo, Terra e Inferi) e rendendo l'attimo propizio per trarre gli
auspici.
Secondo l'archeologo Antonio
Gottarelli la prima fase (detta auguratio) constava
nell'individuare gli assi spaziali di orientazione
del templum celeste: da un punto d'osservazione
(auguraculum) situato in posizione elevata, così da dominare
l'orizzonte e il luogo su cui doveva essere fondata la città, il
sacerdote munito di lituo delimitava una porzione di cielo,
la consacrava a templum e vi scrutava eventuali segni
mandati dagli dei (interpretando, ad esempio, il volo degli uccelli).
La seconda fase prevedeva la spectio, ovvero la proiezione degli
assi cardinali del templum celeste sul punto terreno dove
sarebbe sorta la città (templum in terris); in particolare il
sacerdote osservava il punto sull'orizzonte da cui sorgeva il sole e
quello in cui tramontava in due specifici giorni dell'anno: il 21
dicembre e il 21 giugno, ovvero nel solstizio d'inverno e in quello
d'estate; i quattro punti individuati di levata e tramonto del sole
venivano proiettati sul terreno e costituivano gli estremi delle due
diagonali (di cui una avente un estremo nel punto di tramonto al
solstizio d'estate e l'altro estremo nel punto di levata al solstizio
d'inverno, mentre per l'altra diagonale era l'opposto), il cui punto
d'incrocio avrebbe identificato il centro della croce sacrale e,
quindi, il centro della futura città.
In realtà, per completare il rito di
fondazione nello stesso giorno (senza aspettare il ciclo delle
stagioni, quindi), si procedeva con lo stabilire le estremità della
prima diagonale solstiziale (spesso chiamata diagonale
generatrice) il 21 dicembre, osservando dalla sedes
augurationis dell'acropoli (il primo estremo della diagonale,
che coincideva con il punto di tramonto al solstizio d'estate a
nord-ovest) la levata del sole al solstizio d'inverno (sud-est);
seguendo la mira si stabiliva arbitrariamente l'altro estremo della
diagonale. Il punto mediano della diagonale avrebbe costituito il
centro della croce sacrale e, quindi, della città. In corrispondenza
di quel punto il sacerdote, attraverso un cerimoniale, scavava una
fossa (mundus o, più correttamente, umbiliculus) e vi
interrava il cippo con decussis (ovvero con un'incisione a
croce, i cui bracci erano orientati secondo gli assi cardinali).
Questo "pozzo sacrale" avrebbe costituito sia il canale di
comunicazione tra il Cielo, la Terra e gli Inferi (tenendo allo
stesso tempo i tre mondi separati - come l'omologo pozzo sacrale
presente nell'acropoli), sia il punto dove stabilire la sedes
inaugurationis, da dove il sacerdote iniziava la fase di inauguratio,
ovvero la proiezione della seconda diagonale osservando il punto di
tramonto del sole la sera stessa del solstizio d'inverno (la cui
opposta estremità avrebbe coinciso inesorabilmente con la levata del
sole al solstizio d'estate). Proiettando la suddivisione del templum
celeste sul terreno venivano, quindi, interrati con particolari riti
dei cippi di delimitazione in corrispondenza degli incroci e degli
estremi dei quattro assi principali (limitatio), tutti perfettamente
allineati con il cippo centrale. L'ultima fase, infine, prevedeva il
tracciamento dei due assi ortogonali principali e, quindi,
dell'intero reticolato viario, partendo dal punto appena individuato
del centro cittadino. Il rito di fondazione prevedeva, poi, l'uso
dell'aratro per tracciare il perimetro delle mura, avendo cura di
sollevare l'aratro in corrispondenza delle porte e prestando
attenzione affinché le zolle di terra sollevate ricadessero
all'interno del perimetro. Infine, adiacente al perimetro veniva
sancito il pomerium, uno spazio all'interno e all'esterno delle
mura che non poteva essere né edificato né utilizzato per alcuno
scopo.A lungo si è discusso sull'origine
della planimetria di Kainua: se rispecchiasse il modello cosmologico
del templum celeste etrusco, così come prevedeva il rito
di fondazione, o se invece fosse più compatibile con le pragmatiche
e laiche teorie urbanistiche ippodamee del mondo greco,
ovvero una pluralità di assi viari in grado di garantire
funzionalità al traffico interno e agli scambi commerciali con le
altre città, escludendo una qualunque ingerenza religiosa.
Osservando la planimetria cittadina si può infatti notare che, se da
una parte le due strade principali ortogonali sono orientate secondo
gli assi cardinali, ripartendo l'abitato in quattro macro regioni,
esattamente come il templum celeste, dall'altra parte il fitto
reticolato viario, costituito da altri due assi est-ovest principali
e svariate strade secondarie, rendono la planimetria di Kainua
assimilabile a quella di varie città coloniali greche del V
secolo a.C. (come ad esempio Paestum e Metaponto).
La soluzione al dibattito la rivelò un
particolare ritrovamento avvenuto tra il 1963 e il 1965:
nel punto d'incrocio dei principali assi viari vennero trovati,
interrati, quattro ciottoli di fiume, di cui solo uno
presentava incisa sulla sommità una croce (decussis in latino)
orientata secondo gli assi cardinali. Il cippo con decussis era
stato trovato in corrispondenza dell'incrocio fra il cardo (plateia
A) e l'asse trasversale centrale (plateia C). Tale scoperta indusse
gli archeologi a pensare che quel cippo indicasse il centro
della croce sacrale che, come già accennato, nell'ambito
del rito di fondazione di una città etrusca costituiva il punto di
partenza da cui tracciare l'intero reticolato cittadino. L'ipotesi
sarebbe comprovata dal ritrovamento sull'acropoli dei resti di
strutture necessarie alla fondazione, fra cui un altare e
l'auguraculum (oggi non più presente): una sorta di piattaforma
da cui il sacerdote effettuava la trasposizione degli assi della
croce sacrale celeste sul piano terrestre (spectio). Questo farebbe
dell'acropoli (punto più alto della città, da cui si aveva la
migliore visuale del territorio) la sedes augurationis, mentre
in corrispondenza del centro della croce sacrale (dove venne infisso
il cippo con decussis) era con tutta probabilità disposta
l'altra sede necessaria al rituale di fondazione: la sedes
inaugurationis.
Da qui la conclusione che la
planimetria di Kainua non deve essere vista come specifica
espressione della cultura etrusca o, per contro, di quella greca, ma
piuttosto come fusione tra le due che, più precisamente, si
concretizzava nell'adozione da parte degli Etruschi di quegli
elementi culturali ellenici che ben si accordavano con la propria
tradizione, spesso valorizzandola; in definitiva, la forma urbana
ortogonale di Kainua è indubbiamente frutto dell'influenza dello
schema urbanistico ippodameo greco ma, allo stesso tempo,
rispetta e rispecchia fedelmente anche il rito di fondazione previsto
dall'etrusca disciplina, con cui si conciliava perfettamente.
StradeIl cardo (plateia A), così come le tre
principali traverse (plateiai B, C, D), vantavano una larghezza di 15
metri, di cui solo i 5 metri centrali erano adibiti a carreggiata,
mentre i 5 metri laterali fungevano da marciapiedi per
i pedoni. Le strade secondarie (stenopoi), invece, erano larghe
soltanto 5 metri: esse avevano, infatti, il compito principale di
smistare il traffico interno e delimitare ciascun isolato (insula).
Il fondo stradale era costituito per lo
più da ciottoli di fiume, mentre in alcuni punti grosse pietre
venivano disposte trasversalmente per favorire l'attraversamento
pedonale. I marciapiedi erano coperti di ghiaia ed erano separati
dalla carreggiata centrale grazie ad una fila di ciottoli disposti
per tutta la lunghezza della strada. Il ritrovamento di un grande
quantitativo di tegole al centro della strada e la presenza di buche
ad intervalli regolari sul limitare dei marciapiedi fanno supporre
che in origine essi fossero coperti da una tettoia (una sorta
di porticato) inclinata verso la strada, sotto la quale i
bottegai esponevano i propri manufatti.
Oltre alle strade interne sono state
trovate tracce di due strade extraurbane: una a nord dell'abitato,
che garantiva il collegamento con Felsina, mentre l'altra a
sud-est, e collegava Kainua con l'Etruria tirrenica.
Sistema
fognarioAi lati delle strade principali sono
presenti le canalette, ovvero canali di scolo della
larghezza di 50 centimetri, costruiti per la raccolta e lo
smaltimento delle acque piovane e delle acque di scarico delle
abitazioni. Soltanto alcune di esse presentano al loro interno delle
tubazioni fittili per facilitare lo scarico delle acque
verso l'esterno della città. Le canalette era delimitate da due
muretti in ciottoli a secco, di cui uno adiacente alla strada e
l'altro adiacente alle abitazioni. Il fondo del canale di scolo era
costituito da ciottoli di fiume, oppure anche soltanto da terra
pressata. Una copertura in ciottoli di fiume appiattiti, inoltre,
permetteva di coprire le canalette. Lo smaltimento delle acque veniva
garantito sfruttando le pendenze naturali del territorio (nord-sud ed
ovest-est); più precisamente, le acque venivano fatte confluire
nelle canalette del cardo per poi essere immesse nelle canalette
delle strade trasversali e, infine, scaricate nel fiume Reno.
Come già accennato, le canalette dovevano garantire un corretto
deflusso delle acque; pertanto era necessario sia sfruttare la
pendenza naturale del terreno di Misano sia, laddove questo non era
possibile, creare artificialmente la pendenza corretta o le
deviazioni necessarie.
La maggior parte delle strade
secondarie sono prive di queste canalette; tuttavia, esse presentano
una inequivocabile forma convessa per impedire il ristagno dell'acqua
al centro della strada e convogliarla ai lati di essa.
Sistema
idrico
PozziIl settore residenziale delle
abitazioni era spesso munito di un pozzo posto nell'area
cortilizia, usato per il fabbisogno idrico personale di ogni unità
abitativa. L'uso dei pozzi era possibile grazie allo sfruttamento di
una grande falda acquifera che si estendeva per tutto il
pianoro di Misano. A seconda della posizione si doveva scavare (in
maniera svasata verso il fondo) più o meno in profondità fino ad
incontrare la falda nella marna, dopodiché si incamiciavano le
pareti del pozzo con uno strato di ciottoli a secco (anche due o tre
strati per rendere la struttura solida) e se ne copriva l'imboccatura
(costituita da pietre di grandi dimensioni) semplicemente con una
lastra di pietra, oppure con un puteale (parapetto in
terracotta di forma circolare o rettangolare, lavorato con
decorazioni a rilievo e forse dipinto) da dove, per mezzo di una
corda e relativo recipiente, si raccoglieva l'acqua di cui si aveva
bisogno. Per poter garantire la disponibilità idrica durante tutto
l'anno, spesso si creava alla base del pozzo un pozzetto-deposito di
raccolta, a cui poter attingere anche nei mesi estivi (quando il
livello dell'acqua della falda si abbassava).
Inoltre, come ulteriore forma di
rifornimento idrico, il pozzo veniva posto in posizione decentrata
dell'area cortilizia, più precisamente sotto a una falda
del compluvio, in modo da poter raccogliere l'acqua piovana
rimanendo al riparo.
Il ritrovamento delle rovine di un
pozzo non all'interno delle abitazioni, bensì adiacente a una delle
strade principali (plateia D, nella parte meridionale dell'abitato),
profondo 6 metri e originariamente dotato di copertura fittile, fa
presupporre l'esistenza anche di pozzi pubblici, che potevano
essere dotati o meno di copertura.
Con le invasioni celtiche i
pozzi, già abbandonati da tempo e ricoperti di terra e frammenti di
vasellame, persero la loro funzione originaria e vennero utilizzati
come tombe (diversi sono, infatti, i pozzi che contengono al loro
interno ossa di scheletri umani, risalenti appunto all'epoca
celtica).
AcquedottiSe il pozzo di ogni singola casa
forniva il quantitativo di acqua sufficiente per una famiglia, lo
stesso quantitativo non era abbastanza per lo svolgimento delle
attività artigianali, specialmente per la lavorazione dell'argilla.
Per questo motivo vennero costruiti dei veri e propri impianti
idrici, come quello trovato ai piedi dell'acropoli, a più di 5 metri
di profondità. Riportato alla luce integralmente nel
giugno 1872 (dopo quasi due anni di scavi), venne rimosso
dal terreno e poi rimontato in vista all'esterno, sempre nei pressi
del luogo di ritrovamento; al suo posto, nel punto esatto in cui era
stato scoperto l'impianto, venne realizzato un pozzo di captazione
idrica. La struttura originaria, della misura di 1,20 x 1,85 metri,
era costituita da un "cassone" (alto 50 centimetri)
composto da 6 lastre parallelepipede di travertino e
presentava internamente un diaframma che lo suddivideva in due vasche
adiacenti: una vasca di decantazione e una vasca per la raccolta e
distribuzione dell'acqua. L'impianto sfruttava una sorgente idrica
posta ai piedi dell'altura di Misanello, le cui acque venivano
convogliate in due condutture in ciottoli (una in direzione nord-sud
e l'altra in direzione ovest-est) che immettevano in una conduttura
di raccordo unica (in blocchi di travertino) e scaricavano l'acqua in
una prima vasca (vasca di decantazione), più profonda rispetto a
quella adiacente. Qui le scorie, essendo più pesanti, si
depositavano sul fondo (questo passaggio era fondamentale per
impedire l'ostruzione delle condutture da parte dei detriti),
cosicché solo l'acqua pulita risaliva la vasca fino a ricadere, per
sfioramento, nella vasca contigua, dove veniva convogliata in
un'apposita conduttura (con direzione ovest-est) e distribuita in due
aree dell'abitato, probabilmente in prossimità della
grande fornace nel settore settentrionale e di
alcune case-officina nel settore meridionale.
Successivamente fu aggiunta un'altra conduttura di distribuzione
all'impianto idrico, questa volta in direzione nord-sud e collegata
direttamente alla vasca di decantazione. Le condutture hanno una
forma parallelepipeda all'esterno e circolare all'interno (dove
scorreva l'acqua) con un diametro di 14 centimetri.
Un altro impianto idrico lo si trova in
corrispondenza del santuario fontile, nell'area sacra posta a
nord-est dell'abitato.
Edifici
Case-bottegaIl reticolato formato dall'intersezione
delle strade (plateiai e stenopoi) suddivideva
ogni regio in diverse insule, ovvero aree della
diversa larghezza su cui venivano eretti gli edifici. La maggior
parte degli edifici presenti a Kainua era costituita da case. Queste
erano ad un solo piano, ma disponevano di molteplici ambienti
sviluppati in larghezza e alcune di esse vantavano di una superficie
che andava dai 609 m² agli 805 m² (come nella Regio
IV, Insula 1 -
nella foto). Pur presentando una diversa planimetria e
lunghezza, in genere gli edifici occupavano l'intera larghezza
dell'isolato (ad esempio 35 metri, che era la larghezza dell'Insula
1, Regio IV).
Le case di Kainua vengono comunemente
definite case-bottega o case-officina poiché
generalmente divise in due aree: l'area produttiva e l'area
residenziale. Quest'ultima era posta nella parte più lontana
rispetto all'entrata, mentre la parte adibita ad officina era posta
il più vicino possibile alla strada, così da avere accesso diretto
alle vie di comunicazione e favorire gli scambi commerciali. L'area
produttiva era costituita da una serie di ambienti, ognuno dei quali
destinati ad una differente fase di lavorazione: ad esempio la Casa
1 della Regio IV, Insula 2, specializzata nella
produzione delle ceramiche, presenta un vano che fungeva
da cava per l'estrazione diretta della materia prima
(argilla), un vano contenente delle vasche destinate alla raccolta
delle acque per la lavorazione dell'argilla, un vano (posto vicino
all'area cortilizia a cielo aperto) per l'essiccazione dei prodotti
da cuocere e diversi vani adibiti a vere e proprie fornaci per la
cottura dei prodotti.
Nella maggior parte delle case si può
notare una planimetria ad atrium tuscanicum, tipico dell'età
coloniale etrusca. L'entrata, in alcuni casi probabilmente porticata,
dava su un corridoio che percorreva la casa per tutta la sua
lunghezza e portava ad un cortile cruciforme porticato a cielo
aperto. Dal cortile si aveva l'accesso ai diversi ambienti, mentre
all'interno del cortile, in posizione decentrata (e più precisamente
in corrispondenza di una falda del compluvio), era spesso
presente un pozzo per il rifornimento idrico.
Tutte le case erano adiacenti le une
alle altre, ma senza avere muri in comune; una canaletta di scolo
posta fra un'abitazione e l'altra, infatti, fungeva da confine di
proprietà.
Delle abitazioni etrusche sono rimaste
solo le fondazioni di muri continui (costituiti da ciottoli
a secco) profonde circa un metro, grazie alle quali è possibile
"leggere" le ripartizioni dei locali, ma senza avere la
possibilità di capirne la posizione esatta dell'entrata e, quindi,
l'esatta funzione del vano, poiché le fondazioni rinvenute
appartengono ad un livello più profondo rispetto al piano
pavimentale (dove venivano decise le entrate). Dell'alzato non si è
conservato nulla, probabilmente perché costruito con materiale
deperibile, come il legno e i mattoni in argilla cruda, semplicemente
essiccati al sole e parzialmente cotti, oppure con il sistema
del graticcio (ovvero un'intelaiatura in legno ricoperta con
argilla). Infine, durante gli scavi sono state trovate grosse
quantità di tegole di copertura e coppi riconducibili ai tetti delle
abitazioni che, per il loro notevole peso, dovevano essere
necessariamente sostenuti da pilastri o simili (non essendo, infatti,
i leggeri muri in graticcio in grado di sostenerne da soli il
carico). I tetti avevano una base in legno ricoperta da tegole
fittili, posizionati in modo da creare una struttura spiovente verso
l'esterno oppure verso l'interno (tetto a compluvium). Gli
interstizi tra una tegola e l'altra venivano coperte da coppi
fittili, i quali presentavano nella loro parte terminale
un'antefissa, ovvero un elemento in terracotta, spesso decorato, che
doveva impedire qualunque tipo di infiltrazione della pioggia sulla
base in legno del tetto, che ne avrebbe provocato il deterioramento.
La
grande fornaceNella Regio II, Insula
1 (parte settentrionale dell'abitato) sono stati rinvenuti i
resti di una grande fornace adibita alla produzione
di ceramiche e laterizi. Priva di qualunque struttura
che possa far pensare ad una qualche funzione residenziale, la
fornace, databile già a partire dalla fine del VI secolo a.C. è
in realtà un impianto artigianale composto da tre aree: l'area di
lavorazione dell'argilla, l'area destinata all'essiccazione dei
prodotti in attesa della cottura (a cielo aperto, ma protetta da
una tettoia, così come farebbero pensare le numerose buche in
cui probabilmente venivano conficcati i pali a sostegno della stessa)
e l'area occupata dai forni veri e propri. Inoltre, a cottura
ultimata i prodotti molto probabilmente venivano esposti sotto la
stessa tettoia (già usata per l'essiccazione), pronti per la
vendita.
Fra gli oggetti prodotti dalla fornace
sono stati rinvenuti diversi elementi architettonici, vasellame e
oggetti d'uso quotidiano e domestico, coppi, parapetti per
i pozzi ed elementi per le condutture dell'acqua.
Infine, essendo la fornace posta
nell'isolato adiacente (seppur separato dalla plateia A) a
quello dove sorge il tempio di Tinia, si pensa che gran parte
degli elementi costitutivi il tetto del tempio e i doni votivi ad
esso destinati siano stati prodotti proprio in questa fornace.
FonderiaNel centro della città (Regio
V, Insula 5) sorge una fonderia, adibita alla lavorazione
del ferro e alla fusione del bronzo. La sua posizione
al centro dell'abitato è alquanto curiosa e anomala rispetto ai
modelli delle città greche a cui Kainua (che, si ricorda, è una
città di stampo coloniale) si ispira, e dove le aree artigianali
venivano relegate nelle zone periferiche. La particolarità della
posizione denota una spiccata vocazione artigianale (e in questo
caso metallurgica) della città etrusca già a partire dal VI
secolo a.C., periodo a cui risalirebbe l'edificio.
Anche per la fonderia sono state
individuate tre fasi di vita: la prima risalirebbe appunto al VI
secolo a.C. ("Marzabotto I"), quando l'abitato era
costituito per lo più da un gruppo di capanne di stampo primitivo;
nel V secolo a.C. la fonderia sarebbe stata ampliata,
aggiungendovi numerose infrastrutture; infine una massiccia
ristrutturazione avrebbe interessato l'edificio a partire dalla fine
del V secolo a.C.
Dall'esame delle scorie di lavorazione
trovate all'interno della struttura si può accertare l'attività
prevalente di lavorazione del bronzo per la produzione di
oggetti come vasellame, fibule, statue votive ed ex-voto (dalla
forma di parti anatomiche quali braccia, piedi e gambe). Poiché non
è attestata l'esistenza di giacimenti minerari nella zona, è da
ipotizzare un'importazione dei minerali necessari
(soprattutto stagno e rame) dall'Etruria tirrenica,
prevalentemente dall'isola d'Elba e dalle colline metallifere
dell'alto Lazio. Nonostante l'assenza di giacimenti minerari Kainua
era considerato come uno dei principali centri per la trasformazione
dei minerali in metalli, grazie alla presenza sul territorio di
grandi quantità di acqua e di alberi (legno), necessari per la
lavorazione.
Aree
sacre e templi
AcropoliL'acropoli si trova a nord-ovest
della città, su un pianoro (altura di Misanello) posto a 15 metri
circa di dislivello sopra l'abitato e modificato dagli
Etruschi nel VI secolo a.C. in modo da ricavarne due
terrazzi naturali sui quali furono distribuiti gli edifici sacri, la
maggior parte dei quali orientati verso sud, ovvero verso la città.
L'acropoli era collegata all'abitato tramite la plateia B (oggi
solo parzialmente scavata), che in quel punto avrebbe assunto una
decisa pendenza per coprire il dislivello e raggiungere le pendici
dell'acropoli stessa.
Tra il 1830 e il 1860 circa
il conte Giuseppe Aria fece eseguire dei lavori per realizzare un
parco. Durante gli scavi vennero alla luce le rovine di edifici
sacri, più precisamente di cinque sul terrazzo inferiore (più ampio
rispetto al terrazzo sovrastante), mentre solo di uno su quello
superiore. Danneggiate pesantemente dall'erosione naturale del tempo
e dagli stessi lavori di riqualificazione dell'area di metà
Ottocento (che portarono alla demolizione ad opera di mine di parte
dei terrazzi dell'acropoli - specialmente il lato est del terrazzo
inferiore - e, quindi, delle strutture sacre sopra edificate), delle
costruzioni originarie rimangono per lo più solo le fondazioni in
ciottoli a secco, dei resti di porticati e alcuni altari-podio
in travertino modanato, ovvero piccoli altari posti in
posizione sopraelevata a cui si accedeva per mezzo di una breve
scalinata.
Sempre durante gli scavi ottocenteschi
furono trovati sul terrazzo superiore i resti di una piattaforma in
travertino che, però, proprio durante i lavori furono rimossi e
perciò oggi non sono più visibili. Questo ritrovamento, assieme
alla posizione sopraelevata, rendono il terrazzo superiore il luogo
adatto per essere la sedes augurationis (e in quest'ottica
la piattaforma rimossa avrebbe assunto la funzione originaria
di auguraculum) da cui esercitare il rito di fondazione della
città che, seppur eseguito una volta sola (all'atto della fondazione
vera e propria), veniva comunque commemorato annualmente grazie ad un
altare appositamente preposto.
A tutt'oggi non sono state trovate
prove archeologiche in grado di identificare il tipo di culto
praticato nell'acropoli; si può soltanto supporre che le divinità a
cui erano dedicati gli edifici sacri fossero quelle legate al rito di
fondazione e ai cicli stagionali, con una particolare attenzione nei
confronti delle divinità infere, vista la particolare posizione
dell'acropoli proprio nel quadrante dedicato agli dèi infernali
(nell'ottica della proiezione sul pianoro del templum celeste).
Edificio AÈ l'altare più settentrionale fra
quelli rinvenuti nell'acropoli, identificabile come un probabile
tempio a cella unica. Si trova proprio vicino al margine orientale
della terrazza inferiore e, proprio per questa sua posizione e per un
sottile spessore di terra che lo ricopriva (minore rispetto agli
altri altari riportati alla luce e meglio conservati), venne
particolarmente coinvolto durante i lavori di riqualificazione delle
proprietà Aria di metà Ottocento, dove le pietre che emersero
furono sistematicamente asportate (e probabilmente riutilizzate
altrove), alterando pesantemente il perimetro della struttura
templare. Da quanto rimasto si possono, tuttavia, osservare due muri
perimetrali perpendicolari che si incontrano nell'angolo nord-ovest e
si presentano costituiti da blocchi parallelepipedi di travertino che
poggiano sopra a tre strati di ciottoli a secco (solo in
corrispondenza dell'angolo nord-ovest lo strato di ciottoli è
sostituito da un ulteriore blocco di travertino di rinforzo), in
maniera del tutto coerente con le altre strutture presenti
sull'acropoli. Rimangono, tuttavia, ancora sconosciute le dimensioni
originarie dell'altare; si può solo supporre che dovesse misurare
almeno 13,93 metri in senso nord-sud e ben oltre gli 8,20 metri in
senso est-ovest. Nuove ipotesi attribuiscono a questo edificio la
forma originaria di un tempio periptero, poggiante su un podio e
con una cella centrale e pronao.
Edificio B: il pozzo-altarePosto ad ovest rispetto all'edificio A,
è l'altare-podio più antico di tutta l'acropoli; lo rivelerebbe la
struttura stessa dell'edificio, composta da grossi ciottoli a secco
di matrice arcaica. Realizzato su un podio con relativa scaletta di
accesso composta da cinque gradini, l'altare si presenta a pianta
quadrata delle dimensioni di poco più di 4 metri per lato, mentre
l'alzato, che emerge di 1,20 metri dal piano di calpestio,
proseguirebbe per oltre 5 metri sotto la superficie. La particolarità
di questo altare consiste nella presenza al centro di un pozzo
rivestito in ciottoli a secco profondo tanto quanto la struttura
stessa (tale profondità era dettata dalla necessità di raggiungere
la falda acquifera sotterranea), il cui interno si presenta
decisamente svasato verso il fondo. All'interno del pozzo sono
trovate embrici e frammenti di vasi, ma soprattutto offerte
votive di ossa animali (in particolare di bue, cervo, capra e
maiale); questo porta ad identificarlo come pozzo sacrale (mundus),
una sorta di porta che collegava, e allo stesso tempo teneva
separati, i tre mondi: il Cielo, la Terra e gli Inferi e al cui
interno venivano esercitati rituali sacrificali di animali proprio in
onore delle divinità infernali (si ricorda che l'intera
acropoli sorge, in riferimento alla proiezione in terra
del templum celeste etrusco, in corrispondenza del
quadrante abitato dalle divinità infere).
Durante gli scavi ottocenteschi venne
trovata (e poi demolita) una vasca (della misura di 1,59 x 1,08 x
0,80 metri) adiacente al lato est della scalinata d'accesso e
completamente rivestita da embrici, ovvero tegole, sia sul fondo che
ai lati. Inizialmente scambiata dal Gozzadini per un sepolcro, a
tutt'oggi non sono state trovate prove archeologiche che ne
individuino esattamente la funzione originaria (si è ipotizzato che,
presentandosi molto simile alle vasche per le fornaci trovate
nell'abitato, anche questa avesse la funzione di contenimento
dell'acqua presa dal pozzo dell'altare, forse per esigenze rituali).
Edificio CLe rovine del tempio, posto ad ovest
dall'altare-podio B, presentano diversi ambienti delimitati da muri
(erroneamente interpretati dal Gozzadini come celle sepolcrali), di
cui oggi soltanto 7 sono sopravvissuti e quindi visibili, anche solo
parzialmente; infatti, dell'intera struttura è rimasto solo il lato
ovest e nord (ovvero la parte posteriore del tempio), mentre la parte
frontale, ovvero il lato sud, è andata perduta (forse già in epoca
antica). Dopo che l'altare venne riportato alla luce, visto l'elevato
rischio di crolli, si procedette ad abbassarne i muri superstiti di
circa 40 centimetri per ragioni di sicurezza. Questo, assieme allo
stato d'abbandono in cui il sito archeologico versò per diverso
tempo, ai danni causati dai bombardamenti della guerra (che si
accanirono sull'acropoli) e ai successivi restauri, modificò
inesorabilmente la struttura dell'edificio sacro, rendendo difficile
risalire alle sue caratteristiche originarie. Secondo i rilievi
ottocenteschi le dimensioni planimetriche dovevano raggiungere i
18,20 metri di larghezza e almeno i 21,40 metri di lunghezza. Non
sono, invece, state trovate tracce delle fondazioni relative ad una
scalinata frontale d'accesso, come invece riscontrato nelle altre
strutture sacre dell'acropoli. Per quanto riguarda la pianta del
tempio, sulla base degli studi svolti è stata ipotizzata una
struttura templare tuscanica dotata certamente di un tetto
di copertura, di pronao a due ordini di colonne nel lato
sud (parte frontale o pars antìca) e forse di tre celle
contigue nel lato nord (pars postìca) oppure di un'unica cella
centrale munita di alae laterali, oltre ad un vano
retrostante poco profondo. Molte delle tegole ed antefisse trovate
durante gli scavi sono probabilmente attribuibili a questo tempio.
Edificio D: il podio-recinto a cielo apertoPosta ad ovest dal tempio C, è l'unica
struttura templare dotata di rivestimento di modanature in
travertino, a differenza delle altre rinvenute in sito. Altra
particolarità è rappresentata da un avancorpo nella parte
meridionale dell'edificio che termina con una scalinata d'accesso al
podio di cinque gradini. Fu oggetto di un primo restauro nel 1865,
poi di un secondo avvenuto prima del 1889 ed infine un ultimo
intervento di restauro (massiccio e pressoché integrale) venne
eseguito nel 1943, a seguito dei bombardamenti.
La piattaforma è a pianta quasi
quadrata (9,20 x 9,10 metri), mentre l'avancorpo misura 3,30 x 2,80
metri circa, compresa la pedata del primo gradino della scalinata.
Tutta la superficie templare (compreso l'avancorpo) presenta un piano
di calpestio costituito da almeno tre strati di ciottoli a secco, poi
fatti asportare in gran parte da Gozzadini che, nella convinzione di
trovarsi di fronte ad un sepolcro monumentale, sperava di trovare
all'interno una tomba e il relativo corredo funerario.
I muri perimetrali, costituiti da una
cortina interna di ciottoli a secco e da blocchi in travertino
modanati nella parte esterna, poggiano su una fondazione di ciottoli
fluviali e pietre squadrate, sormontate a loro volta da lastre
parallelepipede.
Dalle caratteristiche rilevate dagli
studi archeologici (l'assenza di muri in alzato e di una tettoia) si
ipotizza che questo altare-podio non fosse in origine un tempio
chiuso, bensì semplicemente un recinto cultuale monumentale a cielo
aperto, dove si sarebbero svolti rituali sacrificali e, forse,
cerimonie collegate al rito di fondazione (l'altare D si trova
adiacente al terrazzo superiore, dove avrebbe sede l'auguraculum, con
cui - forse - era in comunicazione).
Edificio EDell'antico edificio E gli scavi
ottocenteschi avevano portato alla luce soltanto un segmento di muro
perimetrale nordest-sudest (in ciottoli a secco) addossato alle
pendici del terrazzo superiore, a cui si intersecavano
perpendicolarmente tre brevi tratti di muri che, in alcuni punti,
raggiungevano una profondità di 3,80 metri (soltanto
nell'altare-podio B si era notata una profondità simile). Svariate
furono le ipotesi degli archeologi sulla natura delle rovine trovate:
secondo Gozzadini poteva trattarsi di un edificio funerario
articolato in diverse camere sepolcrali; Brizio lo ritenne un tempio
a tre celle di tipo tuscanico; Mansuelli, invece, lo interpretò come
un contrafforte murario, cioè una sorta di imponente muro
di contenimento non funzionale (ovvero costruito per monumentalizzare
l'area e non per contenere la collina), mentre per Giovanni
Colonna era da considerarlo come un tempio inconsueto avente la
facciata orientata verso est, ovvero verso il podio
D (contrariamente agli altri edifici sacri, tutti orientati
verso sud, ovvero verso l'abitato). A seguito dei recenti scavi
(svolti tra la fine del 1990 e il 2000) è stata riportata alla luce
l'intera pianta dell'edificio, che si scoprì essere un vero e
proprio tempio a pianta rettangolare delle dimensioni di 27 x 16
metri, costituito da una cella centrale e due celle laterali meno
ampie. Il tempio, avente la facciata orientata verso sud (ovvero
verso l'abitato) - in linea con gli altri edifici sacri
dell'acropoli, poteva avere funzioni di culto collegate probabilmente
a quelle svolte sul terrazzo superiore. Un recente intervento di
restauro ha nuovamente reinterrato parte del muro occidentale
dell'edificio E per proteggerlo dal rischio di crollo.
Questo edificio sovrastava una sorgente
ai piedi dell'acropoli, probabilmente dotata di una copertura
architettonica (come farebbe pensare il ritrovamento di tegole
ed antefisse in loco), presso la quale vi era probabilmente
localizzata anche un'area sacra (così come attesterebbero i reperti
ex-voto in bronzo a figura umana lì recuperati durante gli scavi
ottecenteschi).
Edificio YLa presenza di parecchi blocchi
parallelepipedi di tufo calcare sul terrazzo superiore dell'acropoli
fece presupporre la presenza di almeno un altro edificio sacro, poi
in gran parte scavato, asportato e distrutto durante gli scavi del
1856 per la realizzazione del parco. Testi di antichi scavi lo
descrivono come una torre in elevato angolata. Dallo studio di questi
blocchi ed altre rovine si può supporre che questo edificio era
probabilmente delle dimensioni di 14 x 3,20 metri ed era dotato di
una scalinata d'accesso e di un porticato addossato alla pendice
settentrionale dell'altura. A partire dal 1979 una nuova ipotesi
identificherebbe l'edificio con l'auguraculum, ovvero un osservatorio
posto necessariamente in posizione sopraelevata per poter avere una
visione ampia dell'orizzonte del cielo e del pianoro sottostante, da
cui esercitare il rito di fondazione della città.
Tempio di
TiniaGli scavi archeologici effettuati
nel 1999 portarono alla luce (nella Regio I, Insula
5) le rovine di un tempio monumentale, di cui rimangono solo le
fondazioni in ciottoli a secco. L'edificio di culto, l'unico presente
nell'abitato e non nell'acropoli, in origine vantava notevoli
dimensioni: 35,50 metri di lunghezza x 21,75 metri di larghezza e,
essendo posto nella parte più a nord dell'abitato, era la prima
struttura imponente della città a cui ci si trovava di fronte se si
proveniva dalla vicina Felsina. Posto all'incrocio tra il cardo
(plateia A) e la prima traversa (plateia B), il tempio mostra nella
planimetria una mescolanza di elementi architettonici tipicamente
etruschi con elementi di stampo ellenico richiamanti la classica
struttura periptera del tempio greco. Esso, infatti,
se da una parte presenta elementi architettonici tipicamente
etruschi, come un doppio ingresso (uno in corrispondenza
della plateia B e l'altra in prossimità dello stenopoi,
ovvero la strada secondaria ad est), oltre ad un podio (che lo
sopraelevava e a cui si aveva accesso grazie ad una imponente
scalinata frontale, di cui sono state trovate le tracce) e al
classico pronao, dall'altra parte presenta anche un elemento
tipicamente greco, ovvero un colonnato che circondava
interamente l'edificio (mentre nella piante templari etrusche le
colonne erano presenti solo sulla facciata d'entrata al tempio).
Analoghi esempi di templi etruschi di questo tipo sono riscontrabili
nel tempio di Vulci e nel tempio B di Pyrgi. L'interno
del tempio era costituito da un'unica cella centrale munita di
divisoria e bipartita nella parte retrostante.
Il tempio era molto probabilmente
dedicato al dio Tinia (massima divinità etrusca,
equivalente al dio Zeus greco e al dio Giove romano);
questo lo farebbe presupporre il ritrovamento al suo interno di un
fondo di olla riportante incisa la scritta etrusca Tinś,
che significa di Tinia, ovvero una dedica al dio Tinia. Tuttavia
si pensa che il tempio (oltre a svolgere funzioni cultuali),
assieme all'adiacente isolato, fungesse anche da luogo di
aggregazione della comunità etrusca (con funzioni simili
all'agorà greca e al foro romano).
Una curiosità sul tempio è data dalla
sua particolare posizione: secondo la suddivisione del templum
celeste, infatti, la posizione del tempio corrisponderebbe alla
proiezione terrena della sede celeste del dio etrusco Tinia.
Santuario
FontileA nord-est dell'abitato sono stati
ritrovati i resti di un altro edificio sacro. L'edificio misura 9 x
7,50 metri e sorge nei pressi di una sorgente naturale. Il
santuario, originariamente caratterizzato da una copertura, era
dedicato al culto delle acque salutari, così come testimonia
l'esistenza al centro dell'edificio di una vasca rettangolare adibita
alla raccolta delle acque con relativo pozzo di decantazione.
L'acqua della sorgente veniva fatta confluire nella vasca, per poi
farla defluire verso nord attraverso un canale di scarico costituito
da ciottoli di fiume ed elementi in travertino.
Molti furono i ritrovamenti nell'area:
a partire dagli ex voto costituiti da parti anatomiche
umane (braccia, gambe e piedi), ma anche altre statue votive
immortalate nella classica posa dell'orante (con le braccia allargate
e i palmi delle mani rivolti verso il basso), così come frammenti di
recipienti in ceramica e di bacili in bronzo, marmo e terracotta. Le
statue votive erano probabilmente esposte in uno spazio esterno
all'edificio, dove venivano fissate - in genere - attraverso appositi
perni appuntiti posti sotto i piedi della statuetta su basi modanate
in travertino. Di grande rilevanza è il ritrovamento di frammenti di
una coppa su cui sono rappresentati Agamennone e Achille mentre
giocano a dadi; tale rinvenimento è di grande importanza
archeologica, perché risalente alla seconda metà del VI secolo a.C.
e questo attesterebbe l'esistenza del santuario fontile già a
partire dalla prima fase di fondazione della città ("Marzabotto
I").
Santuario della Terza StipeFuori dall'impianto urbano, a circa 40
metri di distanza a nord-est dal santuario fontile, sono stati
trovati i resti di un'altra area sacra, costituiti per lo più da
cippi, doni votivi tipici delle stipi votive e da una
notevole quantità di elementi architettonici e frammenti di
blocchi ortostati in travertino che, assieme alle
sottostanti fondazioni in ciottoli, hanno fatto presupporre
l'esistenza di un edificio sacro (denominato santuario della
terza stipe); tutti i reperti sono stati rinvenuti nei pressi di
quello che si è rivelato essere un canale, originariamente largo
circa 20 metri, costruito per trasportare le acque fuori dalla città.
Gli scavi hanno permesso di
identificare tre fasi di occupazione dell'area. Una prima fase
risalerebbe al VI secolo a.C. ("Marzabotto I")
dove l'area sacra, fino ad allora costituita semplicemente da un
fossato naturale in cui confluivano le acque del pianoro di Misano,
venne sottoposta ad opere di ingegneria idraulica, culminanti
nella costruzione di un canale per la corretta distribuzione delle
acque. Durante una seconda fase, risalente agli inizi del V
secolo a.C., furono invece svolte le opere di riqualificazione
dell'area, costituite, oltre che dal riassetto del canale, anche
dalla costruzione di un santuario sulla sponda occidentale dello
stesso. La presenza nell'alveo del canale di elementi
architettonici (fra cui un acroterio) dell'edificio sacro e
di cippi votivi (cippi che presentano un foro centrale
ideato per porvi all'interno una statuetta votiva), oltre a corna di
cervo e frammenti di ceramica celtica fanno presupporre l'abbandono
dell'area sacra tra la fine del IV e gli inizi del III
secolo a.C. (terza ed ultima fase), ovvero in concomitanza con
l'occupazione dei Galli Boi; la mancata manutenzione del canale
ha probabilmente provocato un accumulo di detriti tale da causare un
innalzamento delle acque fino a provocare il crollo della sponda
occidentale del canale, trascinando con sé la parete adiacente
dell'edificio sacro e, quindi, gran parte del santuario. A prova di
tale ipotesi ci sarebbe l'esame al carbonio-14 a cui furono
sottoposti i frammenti lignei dell'interro del canale, che
confermerebbe la copertura totale del canale proprio nel periodo
indicato.
Fra gli elementi ritrovati, di
particolare interesse è una statuetta in bronzo che, a differenza
della maggior parte delle statue votive rinvenute, non è schematica
e approssimativa, bensì molto ricca di particolari. Alta 30
centimetri e prodotta probabilmente in una delle officine di
Marzabotto, la statua raffigura una fanciulla (denominata la
signora di Marzabotto) in atteggiamento solenne (proprio
delle korai ioniche, ovvero un braccio teso lungo il fianco
la cui mano tiene un lembo del chitone e l'altro braccio è
piegato nel gesto di porgere un'offerta - in questo caso un fiore)
che, seppur vestita e acconciata come le tipiche donne greche,
indossa la tebenna (mantello-toga), mentre ai piedi calza
i calcei repandi, entrambi elementi tipicamente etruschi. Il
modello di riferimento è, come già accennato, quello
della kore ionica, molto diffuso in tutta l'Etruria.
Secondo gli archeologi la statuetta, databile tra la fine del VI
secolo a.C. e gli inizi del V secolo a.C., potrebbe
raffigurare una donna etrusca di alto rango e, il suo luogo di
ritrovamento nei pressi del santuario, fa supporre si trattasse di un
dono votivo ad una divinità etrusca, come Turan (l'equivalente
della greca Afrodite e della romana Venere) o,
comunque, una divinità femminile, a cui solitamente venivano
dedicati i templi costruiti appena fuori città, in area extraurbana
(come in questo caso) e destinati ad accogliere i forestieri.
NecropoliCompletano il sito due necropoli,
di cui una a nord e l'altra a sud-est della città, fuori dalle porte
urbane. Ognuna delle due necropoli è costituita da due nuclei
principali di tombe (est e ovest per la necropoli nord,
mentre nord e sud per la necropoli est), separati nel mezzo da una
strada extraurbana che collegava Kainua da una parte
con Felsina (necropoli nord) e dall'altra con l'Etruria
tirrenica (necropoli est). In origine le tombe erano
totalmente ipogee e la loro presenza era segnalata solo da
un segnacolo funerario emergente e dalla forma più
disparata: dal semplice ciottolo di fiume (la cui forma era simile a
quella di un uovo, scelto probabilmente per il suo valore simbolico,
ovvero quello della rinascita riferita all'anima del defunto), al
cippo in marmo a pigna, o in pietra a bulbo sferico e a colonnetta.
Il dissotterramento delle tombe e,
talvolta, il loro spostamento, rese difficile risalire
all'orientamento e alla posizione originaria delle tombe. Sembra,
tuttavia, che esse non avessero un orientamento particolare (se si
esclude un unico caso nel nucleo settentrionale della necropoli est)
e che non ci fosse distinzione di classe sociale, anche se non è
possibile stabilirlo con certezza poiché i vari elementi dei corredi
funebri furono inizialmente mescolati. Quello che si può notare è
che le tombe della necropoli nord sembrano più pregiate rispetto a
quelle della necropoli est, non solo a livello di corredo funerario
(più standardizzato nella necropoli est), ma anche a livello di
segnacolo: infatti queste tombe presentano frequentemente cippi in
marmo lavorato, del tutto assenti invece nella necropoli est (dove
invece sono presenti solo semplici ciottoli di fiume). Infine, è
possibile distinguere le tombe femminili da quelle maschili solo se
in presenza di particolari oggetti del corredo funebre
come specchi, alabastra e ornamenti in generale. Gli
elementi del corredo funerario sono sia di produzione locale che di
importazione (specialmente dalla Grecia e dall'Etruria tirrenica) e
sono costituiti per lo più da reperti in terracotta e in bronzo,
come vasellame, statuette, cimase di candelabri ed altri oggetti
utili per il banchetto ultraterreno, come da concezione greca.
Tutte le tombe sono monosome, ovvero accolgono le spoglie o le ceneri
di un defunto; soltanto una tomba a fossa della necropoli est
accoglie i resti di tre corpi inumati.
Necropoli
NordOriginariamente la necropoli nord si
trovava in posizione leggermente sopraelevata rispetto a quella
dell'abitato, il cui collegamento oggi è interrotto dalla strada
Porrettana, lasciando isolato il sepolcreto.
I primi ritrovamenti di tombe avvennero
tra il 1856 e il 1861, in concomitanza con i lavori
eseguiti per la realizzazione di un parco all'inglese e
dell'adiacente laghetto artificiale nei pressi della villa, che
portarono alla luce diversi elementi funerari appartenenti ad almeno
due tombe a cassone della necropoli nord, mentre ci furono altri
rinvenimenti durante i lavori per la sistemazione della strada
statale Porrettana. All'inizio si pensava fossero tombe isolate;
pertanto furono spostate dal loro luogo di ritrovamento e posizionate
lungo i margini dello stesso laghetto a scopo ornamentale. Solo a
seguito degli scavi ufficiali (diretti dal Gozzadini tra il 1865 e
il 1869) fu portata alla luce la vera e propria necropoli,
costituita da 168 tombe monumentalizzate ripartite in due nuclei
distinti (di cui oggi sono visibili 53 sepolture nel nucleo
occidentale e 91 in quello orientale) e separati da una strada. Se a
seguito dei primi lavori di sbancamento fatti con mine la maggior
parte delle tombe a cassone, a fossa e a pozzetto appartenenti al
nucleo occidentale della necropoli andarono distrutte, quelle del
settore orientale (portate alla luce con gli scavi archeologici)
furono semplicemente dissotterrate, ma sostanzialmente lasciate in
corrispondenza del luogo di ritrovamento.
Necropoli
EstPosta a sud-est della città, su un
piano più basso rispetto all'abitato e più vicino alla riva del
fiume Reno, la necropoli est fu integralmente portata alla luce
a seguito degli scavi condotti dal Gozzadini tra il settembre 1867 e
il dicembre 1873, la cui presenza era segnalata
dall'affioramento di lastre tombali molto simili a quelle all'epoca
appena rinvenute nella necropoli nord. I documenti attestano la
presenza di 125 tombe monumentalizzate, raccolte in due nuclei
distinti e separati da una strada centrale (come per la necropoli
nord): il settore settentrionale (dove sono visibili 22 tombe) e
quello meridionale (con 28 tombe visibili). Si ipotizza, però, che
parte della necropoli est originaria (se non altro il lato orientale
e quello meridionale, ossia quelli prospicienti il fiume) sia franata
nel Reno e che, quindi, in origine il sepolcreto fosse più vasto.
La necropoli era collegata all'abitato
attraverso la porta monumentale est, di cui oggi rimangono solo le
fondamenta. Le tombe a cassone furono semplicemente portate in
superficie, ma sempre nel punto di ritrovamento delle stesse, mentre
le tombe a fossa e quelle a pozzetto furono distrutte. Come per la
necropoli nord, anche in questo caso non sembrerebbe esserci una
distinzione di classe tra le sepolture, né un orientamento comune
preciso; soltanto il settore settentrionale presenta una serie di
tombe allineate in file parallele alla strada e orientate in senso
est-ovest.
Tipologia
di tombe
Le tombe trovate nelle necropoli sono principalmente di tre
tipi: tombe a cassa, tombe a pozzetto e tombe a
fossa; nelle prime due il rituale era quello dell'incinerazione,
mentre le tombe a fossa erano ad inumazione. Sull'esempio di tombe
etrusche coeve, probabilmente anche queste presentavano l'interno
originariamente intonacato, anche se ad oggi non ne è rimasta
traccia.
Tombe a
cassaLe tombe a cassa (chiamate anche a
cassone o a cassetta) sono tombe rettangolari costituite da
lastre di pietra e infossate nel terreno. All'interno venivano
disposte le ceneri del defunto, probabilmente avvolte in un drappo di
tessuto, assieme al corredo funerario. La tomba veniva poi coperta da
una lastra, in piano oppure a doppio spiovente.
Tombe a
pozzettoTombe dalla forma circolare, scavate
nel terreno, le cui pareti venivano incamiciate con uno strato di
ciottoli disposti a secco. Nella tomba veniva disposto un vaso
cinerario (del tipo autoctono, ma anche di importazione) contenenti
le ceneri del defunto, assieme agli oggetti del corredo funebre.
Tombe a
fossaContrariamente ai due precedenti tipi
di tombe, in questo caso il defunto non veniva incinerito,
bensì inumato. La tomba, di forma rettangolare, aveva le
dimensioni poco più grandi di quelle del defunto ed era scavata nel
terreno; le pareti venivano rivestite, ma non necessariamente, di
ciottoli a secco. All'interno veniva disposto il defunto in posizione
supina, vestito e con indosso gioielli e ornamenti. Tutto intorno al
corpo venivano disposti gli oggetti del corredo funebre. Spesso nella
mano destra il defunto impugnava l'Aes rude, a cui gli archeologici
attribuiscono una funzione simile all'obolo di Caronte,
necessario per il viaggio del defunto nel mondo dei morti. Si
pensa che la tomba venisse coperta con delle assi di legno su cui
venivano disposti dei ciottoli di fiume.
Nella necropoli est è stata trovata
una tomba a fossa contenente le ossa di almeno tre corpi umani, unico
episodio finora trovato in entrambe le necropoli.
Produzione
artigianaleCome conferma la presenza
della fonderia, della fornace e dei settori ad uso
artigianale delle case-bottega, Kainua era una città con una
spiccata vocazione artigianale, specializzata nella lavorazione
della ceramica e del bronzo.
CeramicaLa materia prima per la lavorazione
della ceramica (argilla) veniva prelevata nelle vicinanze. Fra i
prodotti finiti sono stati rinvenuti molteplici tipi di vasi d'uso
domestico, atti sia al consumo dei cibi che alla loro
conservazione: olle, catini, coppe, brocche, piatti,
tazze, mortai ed altro. Prodotti sia in ceramica grezza che
depurata, alcuni di essi si presentano acromi, mentre su altri si
rilevano deboli tracce di pitture. Da segnalare anche la produzione
di vasi in bucchero, come da tradizione artigianale etrusca.
Oltre ad oggetti d'uso domestico venivano prodotti anche elementi
architettonici (coppi, tegole, antefisse ed altro) sia per
gli edifici sacri che per le case, oltre ai parapetti per
i pozzi idrici delle abitazioni e alle condutture
degli impianti idrici.
MetalliA differenza dell'argilla, che veniva
recuperata direttamente nelle vicinanze, la materia prima
(stagno e rame) per la produzione e la lavorazione
del bronzo veniva importata dall'Etruria tirrenica, non
essendoci tracce, in zona, di giacimenti da cui estrarre direttamente
i minerali necessari. Due erano le principali zone di importazione
dei metalli: l'isola d'Elba e le colline metallifere dell'alto
Lazio. Una volta estratti e importati i minerali necessari, gli
antichi Etruschi li trasformavano in bronzo utilizzando legno e
acqua, presenti in grandi quantità sul territorio, (elementi,
questi, che resero Kainua un importante centro di trasformazione dei
metalli).
Fra i prodotti finiti, a parte gli
oggetti d'uso quotidiano, è stato recuperato un numero considerevole
di piccole statuette bronzee di natura votiva, raffiguranti per lo
più l'offerente (sia di sesso maschile che femminile) nell'atto
della preghiera, ovvero con le braccia aperte e i palmi delle
mani rivolti verso il basso. Tali statuette presentano dei perni
sotto ai piedi per essere fissate su apposite basi in legno o in
travertino. Accanto ad esse, molto schematiche nella forma, sono
state trovate altre statuette di maggiore qualità artistica (più
delineate nella forma e ricche di particolari) che ricalcano da
vicino il modello ionico della kore.
Infine, frequenti sono stati i
ritrovamenti di ex voto rappresentanti parti anatomiche
quali braccia e gambe, specialmente nei pressi del santuario
fontile.
CommercioOltre alla produzione locale si ritiene
che Kainua fosse un'importante città commerciale posta in un punto
strategico lungo la via di transito che collegava l'Etruria padana
con l'Etruria tirrenica, le popolazioni d'oltralpe (via terra) e il
mondo greco (attraverso il fiume Reno, che all'epoca si immetteva in
un ramo terminale del fiume Po chiamato Spinete sfociante
nel mare Adriatico). Ne sarebbero testimonianza i numerosi
esempi di ceramica greca (in primo luogo di
tipo calcidese e attica), rinvenuti durante gli scavi
e l'ampia gamma di oggetti in bronzo di produzione tirrenica. Tali
commerci sarebbero iniziati fin dalla prima fase di
fondazione della città: il VI secolo a.C. La ceramica
greca sarebbe giunta direttamente dagli empori del porto
di Adria e successivamente da Spina durante la
prima fase di sviluppo, mentre nella fase successiva
attraverso Felsina e includeva oggetti sia di uso
quotidiano (anfore contenenti vino e olio -
spesso a loro volta esportati oltralpe - brocche, crateri ed
altro), ma anche da toletta - come le pissidi - per
riporvi profumi, gioielli e altri oggetti personali femminili,
oltre a ceramiche destinate alla sepoltura. Altro elemento che veniva
importato dalla Grecia era il marmo, sia allo stato
grezzo che lavorato, ed era destinato per lo più
a statue, bacili e cippi funerari.
Dall'Etruria tirrenica si importavano
invece oggetti in metallo, per lo più vasellame destinato all'uso
quotidiano, ma anche specchi e candelabri, mentre da
oltralpe i celti fornivano manodopera in termini di schiavi e forza
lavoro in generale, qualche uomo armato e soprattutto stagno e ambra.
Per contro, gli Etruschi avrebbero commerciato principalmente grano e
carne da allevamento (soprattutto pollame e suini).