domenica 23 marzo 2025

CROAZIA - Pola, Tempio di Augusto e della dea Roma

 


Il tempio di Augusto e della dea Roma di Pola è un tempio romano costruito nel I secolo d.C. per glorificare l'imperatore e la città. Sorgeva nell'antico foro di Pietas Iulia, insieme al tempio gemello probabilmente dedicato a Diana. Il tempio sorse sui resti del podio di un precedente santuario edificato tra il 42 a.C. e il 16 a.C., quando l'Impero Romano era in piena espansione e la città di Pietas Iulia era ancora fuori dai suoi confini e possedeva dunque lo status di colonia. La costruzione si colloca nel grande piano voluto dall'imperatore Ottaviano di rinnovo dell'urbanistica di gran parte delle città allora sottomesse a Roma, nell'ottica di celebrare la neonata istituzione imperiale, che aveva sostituito una repubblica durata quasi cinque secoli. Costruito tra il 2 a.C. e il 14 d.C., il tempio era dedicato all'imperatore stesso.
Il luogo di culto venne anche dedicato alla dea Roma, poiché Augusto era restio alla costruzione di edifici in suo nome che non fossero dedicati anche alla figura dell'Impero divinizzato, in modo che il passaggio alla nuova forma di governo non sembrasse troppo brusco e radicale. Il tempio fu chiuso alla fine del IV secolo, quando il Cristianesimo divenne religione di Stato e i culti pagani furono soppressi. Come molti altri edifici simili (tra cui il Pantheon, la Maison Carrée e i due tempietti del Foro Boario) deve la sua preservazione alla trasformazione in chiesa dedicata a Maria durante l'VIII secolo, quando l'Istria venne annessa dai Bizantini. Nel XVI secolo uno dei lati della cella fu danneggiato da un incendio. Il danno fu riparato solo nel XVII secolo dai Veneziani, che avevano conquistato le coste dell'Istria e della Dalmazia. Diversi edifici sorsero attorno al tempio, che venne inglobato in un complesso più esteso. Il pronao divenne un loggiato, mentre l'interno venne trasformato in un granaio. Nel XVIII secolo venne trasformato in una stalla, ma con la riscoperta dell'arte classica l'erudito Scipione Maffei propose di trasportare il tempio a Venezia, come eccelso esempio di architettura, insieme all'anfiteatro romano della stessa città, ma l'idea non venne eseguita a causa dell'alto costo dell'operazione.
Tra il 1920 e il 1925 vennero demolite le strutture che si erano insediate attorno all'edificio. Quest'ultimo venne restaurato negli stessi anni e riportato alle forme originarie dall'architetto Alessandro Rimini su incarico della Soprintendenza di Trieste. Durante la Seconda guerra mondiale, il 3 marzo 1944, il tempio subì danni a causa di un bombardamento alleato sulla città di Pola, la quale era occupata dalle forze naziste. Il restauro durò fino al 1947 e venne curato dalla Soprintendenza delle Belle Arti di Trieste, poiché la città era ancora italiana (lo sarebbe stata fino al febbraio, quando venne firmato il Trattato di Parigi). Ciò ha permesso alla struttura di giungere in buone condizioni sino ai giorni nostri.
L'interno dell'edificio ospita un piccolo museo di lapidi e sculture romane rinvenute durante gli scavi archeologici della colonia di Pietas Iulia, istituito nel 1806 dal generale francese Marmot, governatore delle Province Illiriche, durante le conquiste napoleoniche. Alcune tracce di affreschi sono ancora visibili sui muri della cella.
Un tempio gemello venne costruito nella stessa area, ma già nel XIII secolo l'edificio non era più in buone condizioni, tanto che nel 1296 venne inglobato nell'edificio del Comune. Il retro del tempio è ancora visibile all'esterno del palazzo. l tempio misura 8.05 metri in larghezza, 17.5 metri in profondità e 12 metri in altezza e poggia su un alto podio. Una scalinata composta da sette gradini unisce il livello della pavimentazione con quello del pronao.
Il tempio è tetrastilo prostilo, ossia con quattro colonne sul fronte principale, e due posizionate lateralmente, per un totale di sei colonne. L'ordine è corinzio, nonostante la scelta atipica di utilizzare colonne a fusto liscio invece che scanalato (come nel Pantheon). La cella ha ai quattro angoli pilastri scanalati, mentre l'ingresso al tempio è decorato con paraste. Il materiale usato per la costruzione dell'edificio è marmo bianco. Il tempio non aveva frontoni decorati, ma solo una dedica scritta a caratteri bronzei sull'architrave, che recitava "Romae et Augusto Caesari Divi F. Patri Patriae".
Nel complesso l'edificio appare slanciato ed elegante, con un forte contrasto tra parti aggettanti e rientranti, in particolar modo a livello del pronao, dove è presente un grande contrasto tra luci ed ombre. La struttura venne studiata da Andrea Palladio nel XVI secolo.

CROAZIA - Siscia

 

Siscia fu un importante centro militare dal 35 a.C. fino all'epoca della dinastia dei Flavi quando divenne colonia con il nome di Colonia Flavia Siscia (probabilmente sotto Vespasiano).
La lunga storia di questo centro urbano risale ad almeno duemila e cinquecento anni fa, per la sua posizione estremamente favorevole alla confluenza di due fiumi: la Sava e la Kupa. La regione in origine fu abitata dalle tribù celtiche e illiriche della Pannonia, che diedero a questo nuovo centro fin dal IV secolo a.C., non il nome di Siscia, ma Segestica. Questo oppidum sembra che fosse per quell'epoca, il più grande dell'alta valle della Sava.
Ottaviano era deciso ad occupare l'alta valle del fiume Sava. Si racconta che l'esercito mosse da Senia, lungo il fiume Kupa, occupando prima e non senza difficoltà, la fortezza di Terponus degli Arupini, poi quella di Metulum (vicino a Josipdol-Ogulin), capitale degli Iapodi. E mentre un contingente fu lasciato nella capitale, il grosso dell'esercito proseguiva, seguendo l'alta valle della Kupa in direzione di Segesta, capitale dei Segestani e futura Siscia. Questa località, di importanza strategica fondamentale per un'avanzata verso est, cadde dopo 30 giorni di duro assedio. Una volta conquistata questa importante roccaforte, Ottaviano vi lasciò 25 coorti agli ordini di Fufio Gemino, e tornò a Roma. Al termine di tra duri anni di campagne militari nell'area, Ottaviano lasciò, sembra in modo permanente, a presidio di Emona e Siscia, un paio di guarnigioni legionarie.
La conquista di Siscia doveva costituire la fase preliminare per un'avanzata contro Bastarni e Daci, orfani ormai di Burebista, e divisi tra lotte interne di fazione. Ottaviano ottenne, inoltre, che anche i Pannoni offrissero a lui la loro alleanza senza dover prolungare la sua avanzata verso est, cosa che fu rimandata ad un ventennio più tardi.
Una volta divenuto imperatore, Augusto programmò l'occupazione dell'intero Illirico a sud dei fiumi Sava e Drava. Fu così che nel 14 a.C. fu inviato Marco Vinicio, in qualità di Legato imperiale sul fronte illirico, a causa delle continue ribellioni delle genti dell'area di Emona e Siscia. Quest'ultimo cominciò l'avanzata, cercando di soggiogare le genti pannoniche che si trovavano tra i fiumi della Drava (a nord) e della Sava (a sud).
E mentre Tiberio stava ormai spingendo le sue armate nel cuore della Boemia contro il regno dei Marcomanni di Maroboduo, nel 6 scoppiava una terribile rivolta tra dalmati e pannonici, che durò fino al 9. Siscia ebbe un ruolo strategico fondamentale. Si racconta, infatti, che qui Tiberio raggruppò ben cinque legioni (VIIII Hispana, XIII Gemina, XIIII Gemina, XV Apollinaris e XX Valeria Victrix), prima di condurle verso Sirmio, ed occupare così l'intera valle della Sava. Da qui sarebbe poi partita l'avanzata verso il "cuore" della rivolta, nei monti dell'attuale Bosnia. Tiberio sapeva che avrebbe così diviso i Pannoni, a nord della Sava, dai Dalmati dell'area montuosa ed interna dell'attuale Bosnia. La rivolta fu soffocata dopo quattro anni di durissimi scontri e l'Illirico entrò a far parte dei domini romani in modo definitivo. Siscia lungo la Sava costituiva un importante centro militare ai fini dell'organizzazione della difesa imperiale lungo i suoi confini.
La fortezza legionaria ospitò nell'ordine, prima la legio IX Hispana dal 10 al 43 e poi, anche se solo per pochi anni, la legio XV Apollinaris (dal 43 al 50), prima che quest'ultima si trasferisse sul Danubio a Carnuntum, a cui seguì la definitiva chiusura del castrum di Siscia. Sotto Vespasiano (attorno al 71) divenne colonia con il nome di Colonia Flavia Siscia, e nel 297 divenne la capitale della nuova provincia della Pannonia Savia durante la riorganizzazione tetrarchica di Diocleziano.
Si racconta che nel corso della guerra condotta da Costanzo II nel 351 contro l'usurpatore Magnenzio, quest'ultimo ottenne una vittoria proprio a Siscia, mentre le armate di Costanzo "avanzavano senz'armi e disordinatamente (non sospettavano infatti ciò che sarebbe accaduto), le truppe piombarono loro addosso avendoli seppelliti tutti (si direbbe con le pietre), ed impedirono loro di proseguire". Il successivo assedio alla città di Magnenzio non fu però fortunato, poiché gli assediati "colpiva con le frecce quelli che volevano raggiungere la riva del fiume Sava, e si opponeva a quelli che voleva attraversare il ponte d'accesso alla città, cosicché molti furono massacrati, e parecchi spinti dai loro compagni, caddero nel fiume. Grande fu la strage" mentre Magnenzio si salvò a stento con uno stratagemma. Poco dopo però attaccò di nuovo la città di Siscia riuscendo questa volta ad impadronirsene ed a distruggerla.


CROAZIA - Narona

 

Narona era il nome che gli antichi romani diedero alla città che si trovava nella valle della Narenta, oggi in Croazia. Faceva parte della provincia romana dell'Illyricum e poi di quella della Dalmazia. La città romana fu fondata dopo le guerre illiriche su un precedente insediamento. Si trovava sui piani alluvionali poco distante dalla foce del fiume Narenta, presso l'odierno villaggio di Vid nel territorio del comune di Metković. Il primo insediamento risale almeno al V secolo a.C. e fu emporio e porto fluviale prima del popolo illirico dei Daorsi, poi ellenistico, ed è citato per la prima volta nel capitolo 24 del Periplo dello Pseudo-Scilace. Narona divenne la principale roccaforte romana della regione nel I secolo a.C. e fu elevata anche a capitale dell'Illirico. Dopo una parentesi sotto i regni romano-barbarici, nel 535 passò sotto l'Impero bizantino. Fu sede di un vescovado.
L'insediamento cessò di esistere nel VII secolo in seguito alle invasioni delle tribù degli Avari e degli Slavi che razziarono e distrussero la città. In seguito gli slavi insediatisi nella regione, che diverranno poi noti come Narentani, ripopolarono e riportarono in vita l'antica città. I narentani si dedicarono al commercio tra i centri costieri e l'entroterra proprio attraverso la comoda via di comunicazione costituita dal corso e dalla valle del fiume Narenta, ma soprattutto essi divennero abili e temuti pirati, capaci di recare danni in quasi tutto il bacino adriatico. Narona divenne così un mercato ed un baluardo di questi pirati adriatici. Sul sito, dopo la conversione dei Narentani al Cristianesimo (di rito Ortodosso, trovandosi essi sotto l'influenza bizantina), venne edificata una chiesa dedicata al loro protettore San Vito che estenderà il suo nome all'abitato, che da allora sarà conosciuto anche come Vid o Vido.
Dopo alterne vicende, saranno i nuovi invasori ottomani, tra il 1463 e il 1464, a saccheggiare, bruciare e distruggere fino alle fondamenta Narona, che per la sua posizione strategica costituiva un potenziale pericolo. La popolazione fu massacrata, deportata o fuggì e si disperse in altre località. L'antica città scomparse così per sempre senza riuscire più a risorgere.
Fu forse nativo di Narona Marco Aurelio Caro, imperatore romano tra il 282 e il 283.
Nel 1995 fu scoperto un tempio romano, che era stato dedicato dal governatore Dolabella e conteneva le statue degli imperatori Claudio e Vespasiano, così come due di Augusto e di sua moglie Livia Drusilla. Le statue erano state vandalizzate alla fine del IV secolo, forse dai cristiani o durante tumulti antiimperiali: erano sul pavimento e le loro teste e mani erano state tagliate. Le teste di Vespasiano e una di Livia furono trovate nel territorio circostante da Arthur Evans nel 1878. Le teste sono state così riunite ai propri corpi. Le famose statue romane hanno girato grandi musei europei.

CROAZIA - Salona

 

Salona (in croato Solin) è una città della regione spalatino-dalmata, in Croazia. La prima menzione del nome di Salona è del VII secolo a.C., come un insediamento illirico vicino alle sorgenti del fiume Jadro. Nel primo millennio i greci istituirono un emporio greco, potenziato dalla colonia di Tragyrion (attuale Traù). Sembra però che il primo insediamento sia dei Traci Manii, in seguito conquistato dai illiri dei Delmatae (IV secolo a.C.).
Nel 118 a.C. il proconsole dell'Illirico, Lucio Cecilio Metello, condusse una campagna militare vittoriosa contro i Delmatae, tanto da meritarsi il trionfo ed il Cognomina ex virtute di Dalmaticus. Appiano aggiunge che: «Sebbene [i Dalmati] fossero stati colpevoli di alcuni reati, poiché [Metello] desiderava un trionfo, fu ricevuto come un amico e svernò fra loro presso la città di Salona. Quando in seguito fece ritorno a Roma, ottenne il trionfo» (Appiano, Guerra illirica, 11 e 33.)
Il proconsole dell'illirico, un certo Gaio Cosconio, combatté i  Delmatae per almeno un paio d'anni (78-76 a.C.). La guerra terminò con la presa di Salona, che divenne una base permanente in mano ai Romani, tanto che dopo venticinque anni qui vi venne inviata una colonia romana. Vent'anni più tardi venivano inviati cittadini romani in questa stessa città. Narona era invece utilizzata come base militari per le spedizioni verso l'entroterra dalmata.
Gaio Giulio Cesare avrebbe voluto intraprendere una campagna contro le popolazioni illiriche a sud del "quartier generale" di Aquileia, ma nuove sollevazioni in Gallia lo costrinsero a tornare nel paese dei Celti. Sappiamo, infatti, di un suo soggiorno e di operazioni militari/diplomatiche condotte nei pressi di Salona attorno al 3 marzo del 56 a.C.
Nel 49 a.C., allo scoppio della guerra civile, il pompeiano Marco Ottavio, dopo aver ottenuto un successo contro i cesariani Gaio Antonio, fratello di Marco Antonio e Publio Cornelio Dolabella nel golfo del Quarnaro, iniziò ad attaccare i porti delle città rimase fedeli a Cesare. Mosse quindi contro la città di Salona, che resistette validamente, anche grazie al supporto degli schiavi, che furono liberati, e delle donne, che combatterono al pari degli uomini. Questo insuccesso costrinse però Ottavio a ripiegare con la flotta su Dyrrachium, peraltro dopo aver fallito di impossessarsi di altri insediamenti lungo la costa. Sappiamo da Cesare che Salona fu eletta conventus iuridicus almeno da questo periodo.
Nel 48-47 a.C., dopo la vittoria di Cesare su Pompeo a Farsalo (9 agosto del 48 a.C.), i Pompeiani, guidati da Marco Ottavio, utilizzarono l'Illirico per riprendere a compiere nuove azioni militari contro i Cesariani. Fu così che, per contrastare l'avanzata dei Pompeiani e contemporaneamente quella dei Delmatae, Cesare inviò contro di loro, un ex-partigiano di Pompeo, Aulo Gabinio, a capo di quindici coorti e tremila cavalieri, il quale si incamminò via terra girando intorno all'Adriatico, cosa mai accaduta prima d'allora. Gabinio, dopo essere penetrato nel territorio dei Delmatae, lungo il fiume Cigola (Čikola) nei pressi di Synodion, subiva una dura sconfitta, perdendo cinque delle sue coorti e i rispettivi vexilla. Non demordeva però continuando la sua avanzata fino a raggiungere Salona nell'inverno del 48-47 a.C.. La campagna militare continuò all'inizio dell'anno successivo (47 a.C.), soffrendo di numerose altre perdite da parte romana, tra cui 4 tribuni, 38 centurioni e 2.000 legionari.
Sotto l'Impero romano, fu la capitale della regione della Dalmazia: qui nacque l'imperatore romano Diocleziano (regno 284-305) che, nel 305, quando si ritirò a vita privata, si trasferì in un palazzo a pochi chilometri a sud di Salona, ad Aspalathos (Spalato).
Salona fu poi la sede dei magistri militum per l'Illyricum, Marcellino e Giulio Nepote; quest'ultimo vi ritornò dopo essere stato deposto dal soglio imperiale romano nel 476 e qui morì nel 480, forse per opera del vescovo di Salona, quel Glicerio, che era stato imperatore prima di Nepote ed era stato obbligato a prendere i voti.
Nel 600 gli Slavi vi giunsero senza entrarvi. Intorno al 614 Salona fu distrutta da un attacco degli Avari: i superstiti si trasferirono a Spalatum, il villaggio fortificato che era sorto attorno al palazzo di Diocleziano e che divenne poi la città di Spalato.

CROAZIA - Spalato, Museo Archeologico

 

Il Museo Archeologico di Spalato è il più antico museo della Croazia, istituito nel 1820 con un decreto del governo del Regno di Dalmazia a Zara. Circa 150000 reperti coprono la preistoria, il periodo della colonizzazione greca dell'Adriatico, l'epoca romana e paleocristiana, l'alto Medioevo e il periodo dei domini popolari croati. Vi è una collezione di iscrizioni in pietra provenienti da Salona e collezioni di oggetti in ceramica di epoca greco-ellenistica, vetri romani, antiche lampade in argilla, ossa, oggetti in metallo, gemme e monete.
Il museo ha sede in Zrinsko-Frankopanska 25 a Spalato. Esiste anche una sede distaccata a Solin (Salona e Tusculum) e due centri regionali a Vid presso Metković (Collezione Narona) e sull'isola di Lissa.
Il complesso museale è costituito da un edificio principale a due piani con le sale espositive al piano terra e la biblioteca del museo e le sale di studio al primo piano, oltre a una fila di portici che circondano l'edificio principale (per il lapidarium) e un giardino annesso.
All'inizio del XVI secolo, l'umanista spalatino Dominicus Papalis riunì nella sua casa una collezione di antiche tavolette scritte e illustrate, che lui e il poeta Marco Marulo avevano trovato nelle rovine dell'antica Solin (Salona). Nel 1750 a Spalato fu fondato il museo diocesano, contenente una grande quantità di iscrizioni latine, per lo più provenienti dalla antica Salona.


Il Museo archeologico di Spalato fu fondato nel 1820 con un decreto del governo dalmata di Zara, dopo la visita dell'imperatore Francesco I in Dalmazia nel 1818. L'edificio originario del museo fu eretto nel 1821 accanto alle mura orientali del Palazzo di Diocleziano, ma divenne presto troppo piccolo per ospitare il numero crescente di reperti.
Il sacerdote cattolico, archeologo e ricercatore storico Frane Bulić fu il direttore del museo a partire dal 1884 per oltre cinquant'anni. Fondò la prima società archeologica croata nel 1894 e sviluppò la costruzione del secondo edificio del museo dal 1912 al 1914. Il nuovo edificio fu costruito secondo i progetti degli architetti viennesi August Kirstein e Friedrich Ohmann in stile neoromanico. La prima guerra mondiale ritardò l'apertura del nuovo edificio museale e il governo lo aprì al pubblico solo all'inizio del 1922.
Gli oggetti esposti si basano principalmente su reperti di Spalato e Salona.
Una parte centrale del museo è costituita da una collezione di iscrizioni in pietra provenienti da Salona e da oggetti in ceramica di epoca greco-ellenistica, vetri romani, antiche lampade in argilla, oggetti in osso e metallo, gemme, monete medievali e una collezione archeologica subacquea.
Il museo effettua ricerche archeologiche a Salona, Lissa e Narona. Il museo possiede altre due collezioni a Vid, vicino a Metković, e sull'isola di Lissa.
Dal 1878 il Museo pubblica la prima rivista archeologica, intitolata Bullettino di archeologia e storia dalmata.
Le collezioni coprono l'intera storia della Dalmazia, dalla preistoria all'alto Medioevo. Il museo possiede anche una vasta collezione di oltre 70000 monete antiche e medievali e un'importante biblioteca e archivio.
Il museo dispone di otto collezioni:
  • Collezione paleocristiana sull'archeologia cristiana della Dalmazia
  • Collezione croata antica sulla conquista dei croati nei Balcani
  • Collezione epigrafica
  • Collezione greco-ellenistica sulla colonizzazione greca della Dalmazia
  • Archeologia subacquea nel Mare Adriatico
  • Collezione numismatica
  • Collezione sulla storia della provincia romana di Dalmazia
  • Collezione preistorica sulla storia degli Illiri


CROAZIA - Museo archeologico di Zagabria

 

Il Museo archeologico di Zagabria (in croato: Arheološki muzej u Zagrebu, in acronimo AMZ) è un museo archeologico di Zagabria che custodisce numerosi reperti di varie epoche storiche della Croazia tra cui il Liber linteus e lo Psephisma di Lombarda. Il museo gestisce inoltre il Parco archeologico di Andautonia a Šćitarjevo. Fu fondato nel 1846 come Museo nazionale, venendo poi posto sotto la gestione dello Stato asburgico nel 1866 col nome di Istituto statale di Croazia, Slavonia e Dalmazia sotto la direzione dell'Accademia jugoslava delle Scienze e delle Arti. Nel 1940 il museo iniziò ad operare come istituzione indipendente e nel 1945 ha trasferito la propria sede presso il palazzo Vranyczany-Hafner.

CROAZIA - Liber linteus Zagrabiensis

 


Il Liber linteus Zagrabiensis (Latino: Libro in lino di Zagabria; abbr.: LLZ), più comunemente conosciuto come Mummia di Zagabria e più raramente chiamato Liber Agramensis, è il più lungo testo in lingua etrusca di cui disponiamo (circa 1200 parole) e il solo libro in lino esistente.
È considerato anche il libro più antico d'Europa
Si tratta di un drappo di lino suddiviso in dodici riquadri rettangolari, che era stato utilizzato per bendare la mummia di una donna del periodo Tolemaico, ritrovata in Egitto a metà del XIX secolo. È detta "di Zagabria" (nel cui museo archeologico è ancora conservata) perché fu riportata dall'Egitto come cimelio dal croato Mihajlo Barić, impiegato della cancelleria del Regno Apostolico di Ungheria e Croazia a Vienna. Il testo, che reca un calendario rituale, fu riconosciuto e studiato solo alla fine del secolo.


Tra il 1848 e il 1849 Mihajlo Barić acquistò una mummia di una giovane donna ancora avvolta nelle sue bende, che apparivano coperte da misteriose scritte. Nel 1862 la mummia e le bende furono donate al museo nazionale di Zagabria da Ilija Barić, fratello di Mihail nel frattempo defunto. Quasi trent'anni dopo le bende furono inviate a Vienna per essere studiate dell'egittologo Jacob Krall, che tuttavia si rese conto che la lingua era l'Etrusco. Krall ricostruì la forma che il libro doveva avere prima di essere tagliato per creare le bende. In origine il libro era costituito da un telo lungo circa 340 cm ed alto circa 40 cm; il libro, scritto nel senso della lunghezza da destra verso sinistra, era distribuito su dodici colonne larghe circa 24 cm; le varie colonne erano demarcate da linee rosse. Probabilmente in origine il libro era piegato a fisarmonica.
La mummia e il libro sono ora conservati in una sala refrigerata del museo archeologico di Zagabria, in Croazia.
Secondo lo studioso Van der Meer sarebbe stato scritto da una confraternita sacerdotale aruspicina dell'antica Ena, oggi San Quirico d'Orcia. Pur non completamente decifrabile, il testo sembra essere un calendario rituale.
Su basi paleografiche, il manoscritto è datato al 250 a.C. circa (sebbene la datazione al carbonio collochi la produzione del tessuto di lino nel 390 a.C. +/- 45 anni). Alcune divinità locali menzionate nel testo permettono di restringere il luogo di produzione del Liber Linteus a una piccola area nel sud-est della Toscana, vicino al Lago Trasimeno, dove si trovavano quattro importanti città etrusche: le attuali Arezzo, Perugia, Chiusi e Cortona.
Il libro è disposto in dodici colonne da destra a sinistra, ognuna delle quali rappresenta una "pagina". Gran parte delle prime tre colonne è mancante e non si sa dove inizi il libro. Verso la fine del libro il testo è quasi completo (manca una striscia che corre per tutta la lunghezza del libro). Alla fine dell'ultima pagina la tela è vuota e la cimosa è intatta, mostrando la fine definitiva del libro.
Ci sono 230 righe di testo, con 1330 parole leggibili, ma solo circa 500 parole o radici distinte.[8] Si ritiene che solo il 60% circa del testo si sia conservato. È stato utilizzato inchiostro nero per il testo principale e inchiostro rosso per le linee e i diacritici.
In uso, sarebbe stato piegato in modo da sovrapporre una pagina all'altra come un codice, anziché essere avvolto come un rotolo. Si dice che Giulio Cesare abbia piegato i rotoli in modo simile a fisarmonica durante le sue campagne militari.
Sebbene la lingua etrusca non sia del tutto comprensibile, è possibile decifrare molte parole e frasi, sufficienti a darci un'indicazione dell'argomento trattato. Nel testo si trovano sia date che nomi di divinità, dando l'impressione che il libro sia un calendario religioso. Nel mondo romano sono noti calendari di questo tipo, che riportano non solo le date delle cerimonie e delle processioni, ma anche i rituali e le liturgie previste, la disciplina etrusca perduta a cui fanno riferimento diversi antiquari romani.
L'ipotesi che si tratti di un testo religioso è rafforzata da parole e frasi ricorrenti che si suppone abbiano un significato liturgico o dedicatorio. Alcune formule degne di nota sul Liber Linteus includono una ripetizione simile a un inno di ceia hia nella colonna 7, e variazioni della frase śacnicstreś cilθś śpureśtreśc enaś, che viene tradotta da van der Meer come "dalla sacra fraternità/prete di cilθ, e dalla civitas di enaś".
Sebbene molti dettagli specifici dei rituali non siano chiari, sembra che siano stati eseguiti al di fuori delle città, a volte vicino a specifici fiumi, a volte su (o almeno per) cime di colline/cittadelle, a volte apparentemente in cimiteri. Sulla base delle due date inequivocabili sopravvissute - il 18 giugno in 6.14 e il 24 settembre in 8.2 - si suppone che le colonne da 1 a 5 trattino dei rituali che si svolgevano nei mesi precedenti a giugno (probabilmente a partire da marzo, e forse anche qui c'era del materiale introduttivo o di altro tipo), la colonna 7 potrebbe riferirsi ai rituali di luglio e forse di agosto, e le 9-12 ai riti da eseguire da ottobre a febbraio. Vengono citati altri numeri che probabilmente sono anche date, ma poiché i mesi non sono indicati, non possiamo essere sicuri di dove cadano esattamente nell'anno.
In questo calendario c'è anche una progressione abbastanza chiara di quali tipi di divinità devono essere propiziate in quali mesi e stagioni. Solo due divinità sono precedute dal termine farθan fleres, probabilmente "il Genio (o Padre?) dello spirito di/in..."; si tratta di Crap- e Neθuns, il primo probabilmente equivalente a Tinia, il secondo approssimativamente equivalente al Nettuno latino. È da notare che Crap-/Giove è menzionato nella prima metà del testo (nelle colonne 3, 4 e 6), cioè fino a giugno (in particolare prima del solstizio d'estate del 21 giugno), ma non è mai menzionato in seguito nel calendario (per quanto possiamo vedere nel testo leggibile). D'altra parte, Neθuns/Nettuno non compare (di nuovo, per quanto possiamo vedere) in questi passaggi/mesi/stagioni precedenti, ma solo dopo l'equinozio di primavera del 21 settembre (in particolare subito dopo il 24 settembre, menzionato in 8.3, poi anche 8.11, 9.18 e 9.22). Allo stesso modo, da un lato, altre divinità della luce, come θesan "l'alba" e Lusa, sono menzionate solo nella parte iniziale del calendario: θesan a 5. 19-20 θesan tini θesan eiseraś śeuś probabilmente "Alba di Giove (luminoso) (e) Alba delle divinità oscure", (probabilmente riferendosi a Venere come stella del mattino e della sera) e Lusa a 6,9; mentre, d'altra parte, vari termini che si pensa o si sa che si riferiscono a divinità specificamente infere compaiono esclusivamente più avanti nel calendario: Satrs "Saturno/Crono" (11,f4), Caθ- (nelle colonne 10 e 12), Ceu- (a 7,8), Velθa (7, 10 e 11) e Veive-/Vetis = Veiovis/Vedius latino, (descritto da van der Meer come un "Giove sotterraneo", il Veiove latino) in 10 e 11. Ma alcune delle apparenti divinità infere, come Zer, compaiono in entrambe le metà (4, 5, 9), mentre Lur, anch'essa ritenuta ctonia, appare solo nelle colonne 5 e 6. van der Meer sostiene che molte delle posizioni nell'anno dei rituali di queste divinità corrispondono alle posizioni delle stesse divinità sul Fegato di Piacenza e in altre fonti etrusche che alludono al modo in cui dividevano i cieli o il regno divino. D'altra parte, Belfiore considera Crap una divinità degli inferi.
Nel testo sono descritti diversi tipi di rituali (il cui termine generale sembra essere eis-na/ ais-na, letteralmente "per gli dèi, atto (divino)"). I più frequentemente citati includono vacl, probabilmente "libagione", di solito di vinum "vino" (a volte specificamente "vino nuovo") ma anche di olio, ossia faś, ed altri liquidi la cui identità non è chiara; nunθen "invocare" o forse "offrire (con un'invocazione)"; θez- probabilmente "sacrificio" ma forse "presentare" sacrifici o offerte (fler(χva)) spesso di zusle(va) "maialino(i)" (o forse qualche altro animale). Le offerte e i sacrifici venivano collocati su un indefinito hamΦeś leiveś destro e/o sinistro oppure sul fuoco raχθ; su una pietra (altare?) luθt(i); sul terreno cel-i; o con/su un lettino decorato (?) cletram śrenχve. Venivano spesso eseguiti tre volte ci-s-um/ci-z e spesso avvenivano o si concludevano durante la mattinata cla θesan (un termine che sembra segnare la fine dei rituali in questo testo, dato che le righe vuote lo seguono, seguite da una nuova data (parziale o completa)). La colonna 7 (luglio e/o agosto?) potrebbe essere dedicata alla descrizione di una serie di riti funebri legati alla festa dell'Adonia, in cui si piangeva ritualmente la morte dell'amante di Afrodite, Adone. Vengono menzionati diversi tipi di sacerdote cepen (ma in particolare non le autorità civili), ma le distinzioni esatte tra loro non sono del tutto chiare: tutin "del villaggio"(?); ceren, θaurχ entrambi "della tomba"; cilθ-l/cva "della/e cittadella/e / della/e cima/e". Meno chiari sono i tipi di sacerdote indicati dai seguenti (se si riferiscono a sacerdoti): zec, zac, sve, θe, cluctra, flanaχ, χuru ("arco"?), snuiuΦ ("permanente"?), cnticn- (ad hoc?), truθur ("interprete del presagio del fulmine"?), peθereni ("del dio Peθan"?), saucsaθ ("sacerdote" o "area sacra del dio Saucne") a 3,15. Se l'ultima equazione è corretta, potrebbe indicare un collegamento tra il Liber Linteus e il secondo testo etrusco più lungo, che si dà il caso sia anche un calendario rituale, la Tabula Capuana (riga 2), dal momento che la radice sauc- sembra comparire in entrambi i testi in una parte che probabilmente corrisponde al mese di marzo (anche se questo mese non è nominato direttamente in alcun modo evidente in nessuno dei due testi).


CROAZIA - Pola, Arco dei Sergi

 

L'arco dei Sergi è un arco trionfale romano della città di Pola, in Croazia. L'arco venne eretto a proprie spese da Salvia Postuma, per commemorare il marito Lucio Sergio Lepido, che aveva partecipato alla battaglia di Azio ed era stato tribuno della legione XXIX, in seguito soppressa nel 27 a.C. e insieme a lui il padre, omonimo, e il fratello Gaio.
La datazione della costruzione è attribuita agli anni 25-10 a.C..
La famiglia dei Sergi era e rimase anche in seguito una delle più importanti della colonia. L'arco venne realizzato addossato all'interno di una porta delle mura cittadine, che prese in seguito il nome di "Porta aurea". Per questo motivo si presenta decorato sul lato verso la città, mentre il lato esterno, visibile solo con la demolizione della porta nel 1829 non era stato rifinito.
L'arco è di piccole dimensioni, con un unico fornice di 8 m di altezza e 4,5 m di larghezza. Il passaggio è fiancheggiato da coppie di colonne corinzie, addossate alla muratura, ma sporgenti per oltre tre quarti della circonferenza. La trabeazione principale sporge al di sopra delle coppie di colonne rispetto alla parte centrale, dove si trova sul fregio l'iscrizione di dedica, tra due bighe raffrontate, con i cavalli al galoppo. Al di sopra della trabeazione l'attico è articolato in tre basamenti, che dovevano sorreggere le statue dei membri della famiglia onorati: al centro quella del tribuno e sui lati quelle dei suoi parenti.
La decorazione è arricchita dai rilievi con Vittorie alate nei pennacchi degli archi, dal fregio con Amorini, ghirlande e bucrani al di sopra delle coppie di colonne, da lesene decorate con intrecci vegetali sul lato interno del passaggio. All'interno dell'arco, decorato con motivi floreali, vi è un riquadro con la raffigurazione di un'aquila che uccide un serpente.
L'arco ispirò molti artisti, tra cui Michelangelo.

CROAZIA - Pola, Arena

 

L'arena di Pola (in croato: Pulska Arena), chiamato anche anfiteatro di Pola, è per grandezza il sesto nel suo genere. Il suo nome deriva dal latino ărēna, che indica la sabbia che ricopriva le platee degli anfiteatri romani. Tra i polesi, il monumento emblema della città, dal grandissimo valore simbolico ed affettivo, è chiamato solitamente Rena, dal dialetto istroveneto.
L'anfiteatro venne costruito tra il 27 a.C. ed il 68 d.C. sotto l'imperatore Augusto, prelevando il materiale dalle note cave di pietra situate alla periferia della città ed ancora oggi esistenti. In seguito, l'imperatore Vespasiano, che aveva commissionato il Colosseo a Roma, lo fece ampliare (secondo la leggenda, egli voleva rendere omaggio a Cenis, liberta di origine istriana nativa di Pola, già segretaria di Antonia - figlia minore di Marco Antonio triumviro - e sua amante, che l'imperatore tenne in conto di moglie per un trentennio, prima e dopo la morte della moglie).
L'anfiteatro, in pietra calcarea bianca, è articolato in tre ordini grazie alla sovrapposizione di due serie di archi; una parete alleggerita da aperture quadrangolari corona l'edificio formando il terzo ordine.
Dopo l'ampliamento di Vespasiano, l'ovale della pianta raggiunse le dimensioni di 132,5 m x 105. Visto dal litorale, ha un'altezza di 32,5 m, ma dato che la costruzione si erge su un pendio, il lato opposto al mare (ad est) è di altezza notevolmente ridotta: presenta solo il secondo ordine, di 72 arcate. Sempre a causa della pendenza del terreno, dalla parte del litorale gli ordini si appoggiano su un massiccio basamento.
Degli avancorpi distribuiti sulla circonferenza danno ritmo alla costruzione.
In origine la cavea, divisa in due meniani, comprendeva quaranta gradini per ospitare fino a 23.000 spettatori.
Come il Colosseo, veniva utilizzato prevalentemente per combattimenti di gladiatori o per naumachie. Si presume che sia rimasto intatto, seppure in uno stato di sempre maggiore trascuratezza ed abbandono, fino al XV secolo. In seguito sarebbe stato saltuariamente utilizzato come cava di pietra per alcune costruzioni della Repubblica di Venezia, oltreché degli abitanti locali. Secondo una tarda tradizione storiografica, sarebbe salita all'onore delle cronache nel 1583 quando al Senato veneziano, versando Pola in uno stato di sempre maggior decadenza e desolazione, si propose di smontare l'Arena pezzo per pezzo e di ricostruirla a Venezia. A sventare tal proposito sarebbe stata l'azione del senatore veneziano Gabriele Emo e per questo suo impegno, nell'anno successivo la città di Pola pose su una torre dell'Arena, lato mare, una lapide a perenne memoria e gratitudine. In realtà non esiste alcuna prova che la lapide - pur presente in situ - faccia riferimento a questo presunto tentativo: non risulta alcun documento coevo che parli dello smontaggio o della demolizione dell'Arena, mentre le prime notizie in tal senso sono apparse solo nel XIX secolo, per opera di storici o cronachisti locali.
Fu oggetto di ampio restauro durante l'epoca napoleonica.
Viene utilizzato tutt'oggi, similmente all'Arena di Verona: è un ambito centro di teatro e musica e nel 1993 ha ospitato il festival di Pola e gli Histria festivals, oltre a una puntata di Giochi senza frontiere nel 1981. Ogni estate è il palco privilegiato del Pola Film Festival. Personaggi di fama mondiale come Sting, Julio Iglesias, Anastacia, Luciano Pavarotti, Grace Jones, Norah Jones, Alanis Morissette, David Gilmour si sono esibiti in questa arena. Attualmente, è in grado di ospitare cinquemila spettatori.

CROAZIA - Spalato, Acquedotto di Diocleziano

 

L'acquedotto di Diocleziano è un antico acquedotto romano che si trova in Croazia vicino alla città di Spalato, costruito durante l'Impero Romano per rifornire d'acqua il palazzo dell'imperatore Diocleziano, che oggi racchiude il centro storico di Spalato.
L'acquedotto fu costruito tra la fine del III e l'inizio del IV secolo d.C. nello stesso periodo in cui è stato costruito il Palazzo di Diocleziano e prende acqua dal fiume Jadro, a 9 chilometri a nord-est da Spalato, e la porta al Palazzo ad un dislivello di 13 metri. Intorno alla metà del VI secolo l'acquedotto venne distrutto durante l'invasione dei Goti e non funzionò per i successivi tredici secoli quando fu ricostruito tra il 1877 e il 1880 durante l'Impero austro-ungarico.
Nel 1932 però l'acquedotto venne abbandonato quando fu costruita la moderna stazione idrica di Kopilica.
La parte meglio conservata dell'acquedotto si trova vicino a Dujmovača nei pressi di Salona e ha un'altezza massima di 16,5 metri una lunghezza di 180 metri. L'acquedotto è attualmente in fase di restauro.

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...