martedì 17 giugno 2025

Puglia - Colosso di Barletta

 
Il Colosso di Barletta, meglio noto localmente come Eraclio (Arè nel dialetto locale), è una gigantesca statua di bronzo, alta 4,50 m, risalente al V secolo.
Situata dinanzi al fianco sinistro della basilica del Santo Sepolcro di Barletta, l'opera, di fattura bizantina, raffigura probabilmente l'imperatore Teodosio II e fu eretta con molta probabilità da Valentiniano III a Ravenna nel 439.
La tradizione, narrata dagli scritti di un gesuita del XVII secolo, vuole che il Colosso, forgiato da tal Polifobo, fosse asportato dai veneziani durante il sacco di Costantinopoli del 1204, e abbandonato durante il viaggio di ritorno sulla spiaggia di Barletta a causa della navigazione resa critica da una tempesta e dal pesante carico. Analisi chimiche inquadrate negli ultimi restauri non hanno riscontrato, però, segni di un'eventuale permanenza in mare della statua.
La versione preferita dagli storici negli ultimi anni proviene da un resoconto del 1279 del frate minorita Tommaso da Pavia. A cavallo tra il 1231-1232 fu infatti rinvenuta, durante degli scavi effettuati dall'imperatore Federico II di Svevia a Ravenna, una statua colossale: pertanto è possibile che proprio Federico II, appassionato ricercatore di antichità e impegnato nella renovatio imperii, abbia fatto trasportare in Puglia la preziosa statua.
Le uniche notizie certe e documentate del Colosso risalgono invece al 1309, quando i domenicani di Manfredonia chiesero e ottennero da Carlo II d'Angiò il permesso di asportare e fondere gli arti della statua, situata a quel tempo presso la dogana di Barletta, per farne delle campane per la loro chiesa. Infatti recenti studi hanno attestato che almeno la testa e il busto della statua sono originali, mentre le gambe sono posteriori.
La statua rimase nella dogana del porto di Barletta fino al 1491 quando, su commissione dei cittadini di Barletta, rifatte le gambe e le braccia dallo scultore Fabio Alfano di Napoli in forma molto differente dallo stile originale, venne posta nella sua attuale collocazione sotto il Sedile del Popolo, una loggia marmorea a sesto acuto di epoca rinascimentale edificata sulla parete orientale della basilica del Santo Sepolcro e abbattuta nel 1925.
L'identificazione tradizionale e popolare con l'imperatore Eraclio I (610-641), collegato alla statua per aver recuperato la Vera Croce contro i Sasanidi, va scartata decisamente per ragioni stilistiche.
Sono state proposte queste identificazioni:
  • Valentiniano I (364-375);
  • Teodosio I (379-395);
  • Arcadio (395-408);
  • Onorio (395-423);
  • Marciano (450-457);
  • Leone I (457-474);
  • Giustiniano I (527-565).
La difficoltosa identificazione ha recentemente ottenuto una possibile soluzione con l'ipotesi che l'imperatore raffigurato possa essere Teodosio II, mentre il committente sarebbe stato il suo cugino e genero Valentiniano III, il quale aveva con l'imperatore d'Oriente un debito di riconoscenza per essere stato posto sul trono d'Occidente da Teodosio in opposizione all'usurpatore Giovanni. Un indizio importante è la presenza sul diadema della statua di un gioiello di arte gota, riconducibile a Elia Eudossia, figlia di un generale goto e madre di Teodosio II. La raffigurazione di un uomo di trentotto-trentanove anni è compatibile con l'età di Teodosio all'epoca del matrimonio di Valentiniano con Licinia Eudossia, figlia di Teodosio. Nel 439, infatti, Teodosio celebrava il trentennale del regno, e nell'agosto di quello stesso anno Licinia dava alla luce una figlia e veniva elevata al rango di Augusta: uno di questi due eventi sarebbe stata l'occasione giusta per erigere una statua al padre dell'imperatrice, che deteneva un'effettiva superiorità sul genero e collega d'Occidente.


Puglia - Stele Daunie

 
Le stele daunie sono monumenti in pietra diffusi presso la civiltà dei Dauni (una delle tre compagini culturali che costituivano gli Iapigi, gli abitanti della Puglia nell'Età del Ferro). Furono realizzate tra la fine dell'VIII secolo a. C. e il VI secolo a. C.
Si tratta di lastre parallelepipede, decorate su tutte e quattro le facce, e dalla cui sommità sporge una testa. Le dimensioni variano tra i 40 e i 130 cm di altezza, e, conseguentemente, tra i 20 e gli 80 cm di larghezza; gli spessori sono compresi tra 3 e 12 cm. La decorazione, realizzata con incisioni più o meno profonde, riproduce schematicamente delle figure umane, rappresentando invece con un certo dettaglio l'abbigliamento, gi ornamenti e l'armamento. Accanto alla decorazione principale sono presenti scene figurate, forse di vita quotidiana, di rituali o di racconti che non ci sono stati trasmessi. Nel museo nazionale di Manfredonia ne sono custoditi circa duemila esemplari, ma solo alcuni di essi sono esposti al pubblico.
La loro recente scoperta, avvenuta negli anni '60, la si deve ai contadini, che rimasero attratti da questi "strani" reperti, e al fondamentale interessamento di un farmacista antiquario di Mattinata, Matteo Sansone che avendone riconosciuta la rilevanza culturale, storica ed archeologica interpellò l'archeologo Silvio Ferri, chiedendo un suo intervento. Il farmacista intanto continuò a recuperare e preservare i reperti, alcuni dei quali ancora presenti nella sua farmacia.
Ritrovate in numero consistente soprattutto in siti dei centri antichi di Siponto (area a sud di Manfredonia, compresa grosso modo tra i tratti finali dei fiumi Candelaro e Cervaro), Salapia (localizzata in contrada Giardino-Lupara), Teanum Apulum (San Paolo di Civitate), Arpi (Foggia), Ausculum Apulum (Ascoli Satriano), Herdonia (Ordona), cioè nei più importanti insediamenti dauni del Tavoliere pugliese, del Gargano e del Subappennino dauno. In particolare, a Siponto, Salapia, Teanum Apulum e a Herdonia sono state anche localizzate officine con produzioni dalle specifiche caratterizzazioni.
Il filologo classico Silvio Ferri, interpretò i reperti come aventi funzione funeraria e lesse le incisioni in chiave omerica. Ad oggi questa interpretazione è molto dibattuta e in alcuni casi screditata. A tal proposito, l'archeologa Maria Laura Leone scrive:
«Primo: nessuno dei monumenti è stato trovato in un contesto comprovante la funzione sepolcrale originaria (tranne due rari casi di successivo riutilizzo). Secondo: soltanto due zone hanno restituito un numero significativo di stele, mentre se fossero state effigi di morti importanti le avremmo trovate in tutte le necropoli daunie. Ogni città daunia avrebbe dedicato sculture funerarie ai suoi prestigiosi cittadini. Terzo: tutte le stele riproducono solo due entità specialissime, una maschile e l’altra femminile, piuttosto da collegare al pantheon daunio. Quarto: le sculture maschili sono numericamente molto inferiori rispetto a quelle femminili; e questo è strano, dal momento che i guerrieri sono più esposti alla morte. Quinto ed ultimo punto importante è che nessuno si è mai chiesto: “Dove hanno raffigurato, i Dauni, le loro divinità?” Ancora oggi, e non senza pigrizia intellettuale, molti continuano ad insistere sulla teoria funeraria e a riproporre acriticamente gli assiomi del Ferri privi di fondamento contestuale.» (Maria Laura Leone, in «Oppio. “Papaver Somniferum”, la pianta sacra ai Dauni delle stele»)
Uno dei grafemi più ricorrenti è quello sferoidale spesso rappresentato rivolto verso il basso oppure quello di un cerchio o più cerchi concentrici con un punto al centro; le interpretazioni sono diverse: Ferri riteneva questi ultimi kymbala apotropaici, mentre la figura sferoidale ritenne rappresentare la melagrana; Nava e Rocco li interpretano come delle melagrane; D’Ercole li chiama “pendenti a melagrana”; Leone riconduce i grafemi al simbolo del papavero da oppio, e dopo un'attenta analisi sia degli elementi iconografici che delle scene, arriva all'ipotesi che le stele rappresentino mitologemi e momenti di un culto magico-rituale-terapeutico basato sull’impiego di questa pianta dalle note proprietà antidolorifiche, narcotiche e psicotrope.
Uno studio dei ricercatori del Dipartimento di Chimica dell'Università "La Sapienza" di Roma, durato quattro anni, ha evidenziato tracce di tebaina, codeina e morfina all'interno di vasi dauni datati tra il VIII e IV sec. a.C.. Questi tre alcaloidi sono presenti nel Papaver Somniferum. I risultati di questo studio si muovono, dunque, nella direzione interpretativa promossa da Leone.
Sono in genere ricavate dal calcare proveniente da cave localizzabili della parte meridionale del Gargano e ne sono state rinvenute circa 2000 esemplari. La loro decorazione, eseguita con incisioni più o meno profonde in origine sottolineate da colorazione in rosso e bruno, probabilmente, socondo una delle interpretazioni, rappresenta schematicamente un defunto nella sua veste funebre (decorazione primaria), sulla quale sono altresì rappresentati oggetti del corredo personale, ornamenti o armi. Le steli sono completate da scene figurate che si riferiscono alla vita quotidiana, al mondo dell'oltretomba ed alle credenze escatologiche dei Dauni; sono ancora presenti rappresentazioni di animali (volatili, pesci), con funzione di riempitivo (decorazione secondaria).
Le stele sono divise in due categorie a seconda della presenza nella raffigurazione di armi, oppure di ornamenti. Alla prima categoria, riferibile a guerrieri, appartiene circa il 14% delle stele rinvenute, mentre al secondo gruppo, che comprende tutte le altre, appartengono anche le poche stele riferite a personaggi femminili, circa il 6% del totale delle steli rinvenute, che presentano una caratteristica acconciatura con lunga treccia sul dorso, presente anche nelle raffigurazioni sulla ceramica.
Nelle rappresentazioni con ornamenti, che si riferiscono sia a uomini che a donne, la veste ricopre tutto il corpo, tranne le braccia, ripiegate sul petto e coperte da lunghi guanti ricamati che giungono sino al gomito, e la testa, coperta da un alto copricapo conico che si allunga a coprire la nuca. Tra gli ornamenti sono presenti collane a più giri, grandi fibule a lunga staffa e con pendagli compositi sul petto, cintura con nastri triangolari affiancati da pendenti circolari o a forma di melograno. I fermatrecce con tre pendenti circolari completano posteriormente al centro delle spalle le figure femminili.
I guerrieri presentano sul petto un cardiophylax (placca di protezione per la parte superiore del petto) rettangolare con i lati concavi, che sostiene una spada "a crociera", custodita nel fodero e disposta trasversalmente, con l'elsa sotto la mano destra; al di sotto della spada pendono nastri decorativi. Le braccia sono sempre strette al petto, ma prive guanti. Posteriormente, alle spalle è appeso un grande scudo circolare, di tipo oplitico, con "episema" (motivo centrale) geometrico (a raggiera e a vortice, i motivi più diffusi), o più raramente figurato. Le teste sono in questo caso ricavate in un blocco separato e inserite sul collo per mezzo di un apposito foro; hanno forma sferica e alludono ad un elmo o altro copricapo.
Le scene figurate sono rese con incisioni più sottili e rappresentano sia personaggi umani, sia animali, sia esseri fantastici, sia divinità teriomorfe (raffigurate con fattezze animali). Secondo alcune interpretazioni, sono incise le scene dei funerali, con processioni di portatrici di offerte con contenitori sulla testa, accompagnate da un suonatore di lira; si trovano anche rappresentazioni di attività quotidiane: pesca, navigazione con navi dalla vela quadrata, vari tipi di caccia, sia a cavallo con la lancia (cacce al cervo), sia a piedi con la fionda (uccelli). Le stele di guerrieri presentano processioni di bighe o scene di combattimento, tra guerrieri appiedati o cavaliere e desultor (cavaliere in piedi sulla groppa del cavallo) che sono state interpretate anche come giochi in onore del defunto, o ancora altre scene di caccia e duelli, i cui protagonisti sono guerrieri con elmo o maschera in forma di bucranio a tre corna. Spesso vi compaiono anche animali fantastici (pegasi, chimere e serpenti marini, oltre ad altri non riconducibili alla mitologia classica), rari invece nelle steli con ornamenti.
La presenza di scene figurate, espressione del pensiero e del credo religioso dei Dauni, permette di ricostruire l'aspetto spirituale della loro cultura, andando oltre i pochi dati giunti dalle fonti antiche greche e latine, e arricchendo il quadro delle conoscenze, fornito dai ritrovamenti della cultura materiale.


Puglia - Grotta dei Cervi, Otranto

 

La Grotta dei Cervi è una grotta naturale costiera, situata lungo il litorale salentino in località Porto Badisco nel Comune di Otranto (Lecce).
È stata scoperta il 1º febbraio del 1970 da cinque membri del "Gruppo Speleologico Salentino Pasquale de Lorentiis" di Maglie (Isidoro Mattioli, Severino Albertini, Remo Mazzotta, Enzo Evangelisti e Daniele Rizzo, a cui si sono aggiunti anche Nunzio Pacella e Giuseppe Salamina) ed è il complesso pittorico neolitico più imponente d'Europa. In un primo momento le si diede il nome di “Antro di Enea”, per via della leggenda secondo la quale Enea sbarcò in Italia proprio a Porto Badisco. Il nome attuale deriva dalle successive scoperte dei pittogrammi.
La grotta non è accessibile al pubblico.
Si suddivide in tre ampi corridoi percorsi da pitture scoperte al loro interno:
  • Il primo corridoio è lungo circa 200 metri, ed a un certo punto si sdoppia in due rami uno in direzione nord alla fine del quale furono ritrovati due scheletri, e l'altro in direzione sud-est;
  • Il secondo corridoio è ricco di pitture, e anch'esso è lungo 200 metri e vi si accede da un cunicolo passante dal I corridoio. Questo corridoio verso la fine si allarga dando accesso a due sale successive. Verso la metà il percorso si interrompe e vi è la presenza di un laghetto naturale formatosi dalle acque di stillicidio, e successivamente vi è la presenza di un deposito di guano adoperato dall'uomo neolitico per dipingere;
  • Il terzo corridoio è lungo anch'esso 200 metri e al suo interno vi si accede dal II corridoio attraverso un'apertura molto bassa.
Per accedere all'interno del complesso sono presenti due ingressi; uno occidentale, che si immette solo nel primo corridoio; uno orientale, che dà accesso a tutti e tre i corridoi.
Vi è inoltre la presenza di un cunicolo che dà accesso ai corridoi, ed è stato prontamente scavato e rinforzato lungo le pareti da muretti a secco, da parte dell'uomo neolitico.
I pittogrammi, in guano di pipistrello e ocra rossa, raffigurano forme geometriche, umane e animali, che risalgono all'epoca neolitica, tra il 4.000 ed il 3.000 a.C.
Le figure rappresentano cacciatori, animali (cani, cavalli, cervi), oggetti, simboli magici, geometrie astratte e molte scene di caccia ai cervi (da cui il nome della grotta). Uno dei pittogrammi più famosi del mondo è il cosiddetto Dio che balla, che raffigura uno sciamano danzante.

Puglia - Petre de la Mola

 
Petre de la Mola
 è una formazione naturale di roccia calcarenitica che si trova all'interno del Parco regionale di Gallipoli Cognato Piccole Dolomiti Lucane, non distante dalla cima del Monte Croccia.
Si ritiene che il complesso di rocce sia stato modificato dall'uomo nell'età del bronzo per essere usato come "calendario di pietra" e, più precisamente, per indicare sia il mezzogiorno che il tramonto del solstizio invernale (foto a sinistra).
Gli studiosi non sono riusciti a rintracciare alcuna documentazione sull'origine del nome del complesso megalitico conosciuto nel dialetto locale come Petre de la Mola.
In lucano, la 'mola' è il tipo di pietra utilizzato per affilare le lame. Tuttavia, l'arenaria che compone il complesso megalitico non è adatta a questo uso, in quanto troppo tenera.
Vito Francesco Polcaro (INAF) e Leonardo Lozito hanno ipotizzato che il nome del sito possa derivare dalla radice indoeuropea 'mul', la stessa di mulo: animale sterile risultante dall'incrocio tra specie diverse. Quindi, Petre de la Mola potrebbe essere inteso come un sito che serviva a propiziare la fertilità.
Questo insieme di rocce è collocato a quasi 200 metri a est della porta principale dell'insediamento di Croccia-Cognato che, secondo Tramonti, nell'epoca mesolitica era già un luogo molto popolato, anche se non si può dire con certezza se lo fosse in modo abituale o soltanto temporaneamente. Sotto la necropoli la sequenza stratigrafica va dal VI secolo a.C. al protovillanoviano, anche se reperti al momento in fase di restauro sembrano suggerire la presenza di materiali più antichi.
Nel 2008, grazie a una scansione laser del megalite, sono stati mostrati due allineamenti, visibili da un unico punto d'osservazione posto a nord del complesso megalitico e consistente in una rottura della parte che demarca il piccolo spazio di fronte al megalite. Tali allineamenti sono:
  1. il sole, poco prima del tramonto astronomico (quando si trova quasi all'altezza di 5°) del giorno solstizio d'inverno, passerà dal piccolo spiraglio aperto risultante dal masso posto sopra la spaccatura naturale tra i due massi più grandi del complesso megalitico.
  2. il sole, a mezzogiorno del giorno del solstizio di inverno, si andrà ad accomodare su un masso che forma una piccola conca.
Gli unici indizi certi sull'intervento umano in questa zona sono:
  • Due bacini, scavati nella parte sovrastante l'area di Petre de la Mola e usati per raccogliere l'acqua piovana sulla sua cima; ciò fornisce una prova del fatto che tale complesso riguardasse il culto.
  • Un piccolo muro a secco, eretto con ogni probabilità per creare con terra da riporto lo spiazzo che si trova tra il complesso megalitico e il punto d'osservazione.
  • Alcuni petroglifi sulle rocce circostanti. Tra questi è particolarmente importante quello (vedi foto a destra)  posto in prossimità del punto d'osservazione, costituito da cinque incisioni, che indica la linea che demarca il nord e il sud (la linea del meridiano) e la linea posta a 238° (in linea con il solstizio e con il tramonto).
In ogni caso, anche se statisticamente risulta poco probabile che tali allineamenti siano casuali, solo una nuova serie di scavi potrà dimostrare l'uso intenzionale del megalite come calendario di pietra.

Puglia - Dolmen di San Silvestro

 

Il Dolmen di San Silvestro è una tomba megalitica dell'età del bronzo situato nel comune di Giovinazzo, nella città metropolitana di Bari. Il dolmen fu scoperto casualmente nel 1961 quando una ruspa tagliò nel mezzo il monumento funerario, mentre si cercava di prelevare del pietrisco. È un bell'esempio dell'architettura megalitica del secondo millennio A.C. nel sud Italia.
In origine aveva la forma di una collina circolare racchiusa da muretti a secco, di circa 40 metri di diametro e 10 metri di altezza. Come altri sistemi di questo tipo, può essere fatto risalire all'età del bronzo (1500-1200 A.C.). Probabilmente fu edificato da una comunità che viveva sul basso promontorio su cui sorge il paese di Giovinazzo.
All'interno della collina si trova una lunga galleria orientata da nord a sud fatta di lastre e muratura, che è ricoperta da grandi lastre. Alla sua estremità meridionale si trova una grande camera circolare in muratura a secco a forma di tholos. Sul lato nord, la camera, alta circa 50 cm, è piena di pietre. Qui sono stati trovati i resti di 13 persone con corredi funerari di varie culture, il che fa supporre che probabilmente il dolmen sia stato utilizzato ininterrottamente nel tempo.
A differenza degli analoghi complessi megalitici di Bisceglie, il dolmen di San Silvestro è ancora poco conosciuto a 50 anni dalla sua scoperta e restauro.

Puglia - Satùro

 

Satùro è una località sulla Litoranea Salentina della marina di Leporano, in provincia di Taranto, e ospita sul suo promontorio l'omonimo parco archeologico.
Posta a circa 12 km da Taranto, Saturo è raggiungibile percorrendo la litoranea salentina. La località si estende sia nel versante interno della litoranea (fino a raggiungere il territorio della città di Leporano), sia in quello esterno (fino a raggiungere la costa e le spiagge di Saturo, Canneto e Porto Pirrone).
È molto frequentata nei mesi estivi, poiché costituisce una zona residenziale di villeggiatura, ma è poco abitata per il resto dell'anno. Non sono presenti industrie di alcun tipo: solo appezzamenti di terreno destinati all'agricoltura e alla coltivazione di uve, olive e ortaggi. La sua importanza è dovuta, principalmente, alla presenza di un sito archeologico che ricopre un intervallo storico che inizia dal XVIII secolo a.C. e termina al XVI secolo d.C.
La leggenda racconta che Taras, uno dei figli di Poseidone, circa 2000 anni prima di Cristo, sarebbe giunto in questo luogo e avrebbe fondato un insediamento dedicato a sua madre Satyria o a sua moglie Satureia. Il toponimo è incerto anche tra la derivazione sat ur (città del sole), e quella mediorientale satyr (valle).
Un'altra leggenda, complementare, racconta che in questo luogo approdarono nell'VIII secolo a.C. i coloni greci provenienti da Sparta e guidati da Falanto (Φάλανθος in) greco), i quali dopo aver sottratto il territorio agli Iapigi, fondarono la città di Taranto che in seguito sarebbe diventata una delle più importanti della Magna Grecia.
L'area compresa fra le baie di Saturo e Porto Perone, nella quale sorge il Parco Archeologico di Saturo, è uno dei luoghi più significativi del Mediterraneo, sia per quanto riguarda le fasi della preistoria e della protostoria, sia per le vicende relative alla colonizzazione del tarantino da parte dei coloni greci provenienti dalla Laconia.
Le due insenature contigue offrivano, infatti, riparo alle navi con qualsiasi condizione del vento e il promontorio offre una posizione privilegiata per il controllo dell'orizzonte. In più, la presenza di ricche sorgenti, consacrate come santuari già da prima della fondazione della colonia greca di Taranto, ha fatto sì che la zona fosse abitata fin dall'Età del Bronzo (a partire dal XVIII secolo a.C.) e frequentata da viaggiatori e mercanti micenei.
In età romana imperiale, la bellezza dei luoghi e la salubrità dell'ambiente hanno determinato la costruzione di un'importante villa romana già nota agli storici locali dei secoli scorsi. In epoca tardo antica, dopo l'abbandono nel VI secolo della villa, l'insediamento si sposta all'interno per ragioni di sicurezza e di lì a poco, con l'incastellamento degli abitati precedentemente organizzati in nuclei sparsi e non fortificati, nascerà il borgo di Leporano.


Durante la I Età del Bronzo (1800-1700 a.C.) e sino al XVI secolo a.C. sulla collinetta dell'Acropoli e sui suoi spalti si stabilisce una comunità che ha stretti rapporti culturali con il mondo egeo, come dimostrano anche le capanne costruite con il muro perimetrale in pietre irregolari e pavimenti formati da strati di frammenti di vasi misti a ceramica; i frammenti vascolari fanno capire come attraverso il Mar Ionio giungessero merci dalla Grecia e soprattutto dal Peloponneso. Nel periodo di tempo compreso tra i secoli XV e XIV a.C. la zona non è abitata, come dimostra uno strato di terreno sterile, probabilmente per il carattere mobile delle comunità di pastori dell'epoca. All'inizio della fase Tardo Appenninica (XIII secolo a.C.), il villaggio rinasce con aspetti proto-urbani: le capanne sono di forma sub-circolare e ricostruibili grazie alle tracce dei pali di legno che fungevano da strutture portanti, mentre le pareti erano in incannucciata e intonaco a base argillosa. Tutto il villaggio era circondato da un grande muro a secco, ora non più visibile, che aveva un'altezza di tre metri e una base larga cinque metri (muro che costituiva anche opera di terrazzamento), e che all'esterno era circondato da un fossato (forse per il drenaggio delle acque piovane) e da un altro muro più piccolo. Quest'opera di ingegneria rivela il carattere organizzato della comunità di Saturo/Porto Perone, che ricevevano modelli culturali dal Mediterraneo orientale, come provano i numerosi frammenti di ceramica micenea rinvenuti. A partire dall'XI secolo a.C., e sino alla fondazione di Taranto, il villaggio che viene nuovamente costruito presenta gli aspetti tipici della cultura iapigia dell'Età del Ferro.


Il toponimo Saturo è esattamente il nome che i greci usavano per indicare questo luogo. Tale nome è indicato dalle fonti antiche che narrano la colonizzazione greca e la fondazione di Taranto.
Il geografo Strabone, che ha scritto un trattato, la Geografia, nell'Età di Augusto, ci ha tramandato il racconto di uno storico greco del V secolo, Antioco di Siracusa: dopo le guerre messeniche, i Parteni ovvero gli abitanti della Laconia che erano nati illegittimamente durante la guerra, insieme con gli schiavi, ordirono una congiura per prendere il potere a Sparta, ma furono scoperti. Così il capo dei congiurati, Falanto, venne consigliato dall'Oracolo di Delfi di andare a colonizzare Satyrion[2] e la regione di Taranto, e a diventare il flagello degli Iapigi.
Questa tradizione riflette molto da vicino la realtà emersa dalle ricerche archeologiche: il villaggio di Satyrion fu distrutto, e tutta l'area intorno a Taranto fu occupata da insediamenti rurali. Il ruolo predominante di Saturo si rivela, oltre che dalla tradizione storica, anche dalla presenza di due santuari, uno all'esterno del parco e l'altro sull'acropoli, chiamato «Santuario della Sorgente», per la pratica del culto della Dea Basilissa, cioè della Dea Regina. Il Santuario della Sorgente, successivamente viene ampliato con la costruzione di un nuovo sacello in muratura a pianta rettangolare all'interno del quale viene posta una statua in marmo della divinità principale e diversi oggetti d'argento che costituirono il tesoro del santuario.


L'età romana: dall'era repubblicana (secoli II - I a.C.) all'era tardo-imperiale (secoli III - VI)
Lungo tutta la litoranea, ad ogni promontorio corrispondeva una villa, che univa le funzioni di luogo di piacevole soggiorno e di produzione agricola.
Sono state individuate le ville di Gandoli e di Saturo, ma si devono citare anche quelle di Luogovivo e Lido Silvana nel contiguo territorio di Pulsano. Alla fase romana è pertinente anche la lunga cisterna tagliata nel versante sud dell'acropoli, che si conserva per tutto l'alzato e che è stata individuata nel corso dei lavori per la realizzazione del parco.
Un lago sotterraneo che si trova tra Leporano e Saturo, chiamato «Pozzo di Lama Traversa», rappresentava, insieme ad altri pozzi sorgivi, la riserva acquifera del territorio. Un acquedotto di 12 km, risalente al I secolo a.C., chiamato Aquae Nimphalis, utilizzò l'acqua di Lama Traversa per fornire l'intera città di Taranto e i suoi territori sub-urbani, mediante la derivazione di una serie di canali che attraversano le vallate del litorale tarantino (inclusa quella di Saturo).


Il passaggio dall'Età Romana al Medioevo può essere collocato intorno al VI secolo; in quel periodo, infatti, si svolge la guerra tra Goti e Bizantini per il possesso dell'Italia, conclusasi a favore dell'esercito romano di Giustiniano I nel 553. Fra il VII ed il VIII secolo l'insediamento sembra collocarsi più all'interno, probabilmente per difendersi dalle scorrerie arabe. Nel XII secolo, l'arabo El Edrisi ricorda Saturo un luogo di ancoraggio per le navi.
L'esigenza di proteggere le coste dagli assalti della pirateria prima saracena e successivamente turca nasce nell'Italia assai presto; la torre di Saturo, che risulta dai documenti già esistente nel 1569, si collega alla sistematica costruzione di torri costiere anticorsare voluta a partire dal 1563 dal viceré di Napoli spagnolo Pedro Afán de Ribera duca di Alcalà. La torre è situata a 9 m. s.l.m., proprio a ridosso delle vecchie cave e dell'antico porticato della villa romana, è a base quadrata e, inizialmente si sviluppava su due livelli, si è estesa in altezza con la costruzione di un altro corpo che si fa risalire agli inizi del 1900. Oggi, il maestoso edificio presenta dissesti statici ed è stato dichiarato pericolante.

Parco Archeologico Promontorio di Saturo
L'istituzione di un parco archeologico sottolinea l'importantissima valenza storica ed archeologica del sito in questione, difatti estesa all'intera località formata da un'ampia valle fluviale ricca di testimonianze archeologiche comprese tra l'età Neolitica e quella Alto-medievale, non tutte tutelate e ricadenti in proprietà private.
La lunghissima fase di vita di questo promontorio costiero e della valle retrostante dipende dalla sua particolare conformazione geologica e posizione geografica, la prima la inserisce tra quelle località costiere dotate di doppio approdo, la seconda dipende dalla stretta vicinanza con il grande Porto di Taranto.
In particolare, all'interno del Parco è possibile ammirare e visitare parte del grande insediamento indigeno dell'età del Bronzo e del Ferro, caratterizzati da un piccolo aggere di consolidamento, i resti di un santuario poliadico dedicato ad Atena, due ampie porzioni riguardanti una villa romana di Età imperiale (II-IV secolo) che occupava gran parte del promontorio costiero. La grande struttura romana si poggiava, a sud, verso la costa, su un cripto-portico utilizzato come passeggiata di belvedere e che congiungeva l'abitazione privata alle terme pubbliche dotate di una grande piscina. Risale a quest'epoca la costruzione di un probabile pontile o molo di attracco, secondo altri interpretabile come barriera frangi-flutti (visitabile).
All'interno del parco è visibile, inoltre, una torre costiera di avvistamento del XV secolo, ancora integra, ma in attesa di restauro.
Il parco abbraccia un promontorio di notevole interesse naturalistico e paesaggistico.
Il terreno del parco è di proprietà comunale. Dal 2006, la cooperativa PoliSviluppo, formata da archeologi, realizza visite guidate, progetti didattici, laboratori di archeologia sperimentale, promozione e si occupa della manutenzione ordinaria, apertura del Parco e realizzazione di progetti scientifici.


Nel parco archeologico sono ancora visibili:
i resti della villa romana (in figura contrassegnata con A1-4 e B1-4) e del suo porticato (in figura contrassegnato con C);
la torre anticorsara (in figura contrassegnata con F);
l'acropoli con i suoi spalti (in figura contrassegnati con G1-2);
la necropoli (in figura contrassegnata con H);
la grande cisterna tagliata (in figura contrassegnata con I);
il Santuario della Sorgente (in figura contrassegnato con J);
la scalinata che scende dall'acropoli al santuario (in figura contrassegnata con K);
le varie costruzioni realizzate durante la II Guerra Mondiale (in figura contrassegnata con L1-4);
le opere murarie ormai sommerse che fungevano da frangiflutti e moli per l'approdo delle navi (in figura contrassegnate con M).
Nella figura sono anche contrassegnate:
le zone dove sorgeva il ninfeo (in figura contrassegnata con E), distrutto dalla costruzione del deposito militare, oggi sede del punto di ristoro del Parco;
le zone dove sorgevano i giardini della villa (in figura contrassegnata con D), oggi occupate dalla macchia mediterranea (tra cui, piante di rosmarino e malva, alberi di mimose, di ginestre, canneti ecc.) e da varie panchine per i visitatori del Parco;
l'ingresso principale del Parco (in figura contrassegnata con N).
Il porticato dell'antica villa romana è interrotto nel suo percorso dalla costruzione di un bunker, una collinetta in cemento armato ricoperta con la terra. Nel bunker è ancora visibile un ascensore manuale, costituito da un piano elevatore asservito da contrappesi in cemento, che permetteva ad un grosso faro di fuoriuscire dalla sua sommità, per l'illuminazione del mare (a favore delle batterie costiere) e del cielo (a favore delle batterie contraeree). Ai piedi del bunker è ancora presente una casamatta, così come se ne trovano alla sommità dell'antica acropoli.


La villa di Saturo risale, nella sua prima costruzione, alla prima Era Imperiale (I secolo a.C.), come dimostra la presenza di frammenti di ceramica sigillata (ceramica fine da mensa, ovvero destinata ad essere utilizzata come servizio da tavola), di vasellame per uso domestico, frammenti di lucerne del tipo africano e di marmi policromi, e di una moneta bronzea (custodita al Museo archeologico nazionale di Taranto) dell'età di Settimio Severo ritrovata sotto un pavimento a scacchiera di color rosso e bianco.
La villa di Saturo si estendeva da un porticciolo all'altro; i due nuclei che si vedono ai lati della torre costiera sono relativi alla stessa unità abitativa, ed erano collegati da un porticato con affaccio a mare in opera incerta.
Bisogna precisare che le strutture murarie attualmente visibili della villa risalgono all'era Tardo Imperiale, fra il III e IV secolo, rimanendo in uso sino a tutto il VI.
La sua ultima planimetria ha caratteristiche simili a quelle della Villa di Sirmione, della Villa dei Misteri di Pompei e della Villa dei Papiri presso Ercolano: infatti, in comune hanno la posizione assiale, la piscina termale e il lungo porticato.
L'edificio si divide in due parti: la prima parte costituisce gli ambienti residenziali, denominata pars urbana; la seconda parte costituisce gli ambienti termali, denominata «grandi terme».
Nella prima parte, ad uso privato, disposte attorno ad un'area scoperta, si trovano diversi ambienti, tra cui un piccolo edificio termale, un atrio tetrastilo di ordine dorico al centro del quale un probabile impluvium per la raccolta delle acque, ambienti di servizio (cucina, piccole terme ad uso domestico e alcuni vani usati dalla servitù), un piccolo edificio termale, e un'ampia e capace cisterna con volta a botte.


Nella seconda parte, ad uso pubblico, si trova un ampio complesso termale di cui fanno parte, tra gli altri ambienti, una grande vasca (natatio) fornita di un sistema di riscaldamento delle acque, una vasca per acqua tiepida (tepidarium), degli spogliatoi (apodyterium), una palestra e delle stanze di servizio, mentre, più ad est (in prossimità della torre), un ambiente triabsidato interpretato come sala per banchetti (dietae).
La villa romana era completata in genere da un giardino ed un podere, le cui specie vegetali, unite a quelle indigene della macchia mediterranea, sono state usate per la forestazione della zona. Inoltre, ci sono testimonianze di un ninfeo, una fontana di grandi dimensioni, situato sulla spiaggia di Saturo, di cui si sono persi i resti a causa dell'usura e, successivamente, della cementificazione per la costruzione del deposito militare risalente alla II Guerra Mondiale.


Puglia - Herdonia


Herdonia o Erdonia è un'antica città romana sita su un poggio a sud-ovest di Ordona (nell'attuale provincia di Foggia), riscoperta grazie a una campagna di scavi iniziata nel novembre 1962 dall'archeologo Joseph Mertens
La prima campagna di scavi è durata ininterrottamente per trent'anni, e si stima che abbia portato alla luce solo il 20% dell'antico abitato romano. Successivamente, nel 2000, la campagna si è dovuta interrompere a causa del contenzioso tra le autorità statali e i proprietari dei terreni su cui insistevano gli scavi. Nel 2014 parte di questi terreni è stata acquistata dal MIBACT , e nel maggio del 2022 il Mibact ne ha acquistato anche la restante parte, dando il via alla fase di progettazione di una nuova campagna di scavi.
Gli scavi hanno riportato alla luce il percorso delle mura cittadine, i resti di due templi, di una basilica, del foro, del mercato, delle terme e anche di un piccolo anfiteatro.
Diversi reperti dovuti a questa campagna di scavi sono ora esposti nel museo archeologico Herdonia.
La città, di fondazione dauna, entrò a far parte dei territori di dominazione greca, quindi romana.
La città, dopo la sconfitta romana nella battaglia di Canne del 216 a.C., revocò la propria fedeltà a Roma.
A seguire si ebbe la prima battaglia di Herdonia combattuta nel 212 a.C., durante la seconda guerra punica, tra l'esercito cartaginese di Annibale e l'esercito romano guidato dal Pretore Gneo Fulvio Flacco: anche in questo caso l'esercito romano fu completamente annientato, cancellandone così la presenza in Apulia per molto tempo.
In epoca romana, la città era attraversata dalla via Minucia (successivamente rifatta e ribattezzata via Traiana) e collegata alla via Appia grazie alla via Aurelia Aeclanensis, meglio nota come via ad Herdoniam. 


Puglia - Villa di Faràgola

 

La villa di Faràgola è una villa romana tardo antica presente nel territorio di Ascoli Satriano in provincia di Foggia.
La villa, che conobbe la fase di massima espansione tra il IV e il VI secolo, occupa un'area molto estesa presso il fiume Carapelle, distante 9 km da Herdonia (presso Ordona) e 5 km da Ausculum (Ascoli Satriano), lungo il percorso della via Aurelia Aeclanensis (che collegava Herdonia ad Aeclanum, mettendo in comunicazione la via Appia e la via Traiana).
La villa, forse appartenente alla famiglia senatoria degli Scipioni Orfiti, era sorta sui resti di un insediamento daunio del IV-III secolo a.C. (con tracce risalenti ai secoli precedenti), di una villa di epoca romana (I-III secolo d.C.). La villa tardoantica ebbe due fasi principali: una relativa al III-IV secolo, caratterizzata da una pianta legata alla tradizione delle ville romane classiche, con un grande peristilio e un atrio, con numerosi vani disposti intorno; l'altra, databile al V-VI secolo, profondamente modificata, pur riutilizzando in parte vani e spazi della villa precedente, con grandi terme, una spettacolare sala da pranzo estiva (cenatio), numerosi ambienti di servizio e uno sviluppo in altezza, con ambienti residenziali posti al piano superiore, secondo un modello tipico della tarda antichità.
Il sito venne quindi occupato da un villaggio altomedievale (VII-VIII secolo), probabilmente identificabile con una curtis longobarda.
L'area, acquisita nel 1997 dal comune di Ascoli Satriano, è stata oggetto di scavi archeologici sistematici da parte dell'Università di Foggia a partire dal 2003,. sotto la direzione di Giuliano Volpe e Maria Turchiano. Nel 2009 il sito è stato parzialmente aperto al pubblico (parco archeologico di Faragola), con la musealizzazione della sala dal pranzo estiva (cenatio). Negli anni successivi la sistemazione museale ha riguardato anche le terme e alcuni ambienti di servizio.
Nella notte tra il 6 e il 7 settembre 2017 un incendio doloso ha distrutto l'intera copertura danneggiando buona parte delle strutture della villa e delle sue decorazioni. I colpevoli non sono stati individuati.
Della villa tardoantica sono stati rimessi in luce in particolare il grande settore termale e una lussuosa sala da pranzo (cenatio), oltre a vari ambienti di servizio, magazzini, cucine e anche una fornace per la produzione di laterizi.
La villa del III-IV secolo

Il primo impianto della villa è stato individuato solo in parte. I resti finora evidenziati dimostrano che la villa aveva sicuramente grandi dimensioni ed era caratterizzata da notevole lusso: si tratta di un nucleo residenziale, posto nella stessa area in cui successivamente verrà edificata la grande cenatio, di un grande peristilio porticato e, forse, dell’originario impianto termale ubicato a Sud-Ovest. Il peristilio si presenta di forma quadrangolare, circondato su quattro lati da un portico probabilmente scandito da pilastri e, con un cortile centrale scoperto (Amb. 100). Le ali settentrionale, orientale e occidentale si presentano uguali dal punto di vista dimensionale (lungh. m 35 ca. e largh. m 5 ca.), mentre l’ala meridionale si contraddistingue per una superficie leggermente inferiore (lungh. m 25 ca. e largh. m 3 ca.). L’estensione complessiva (1225 m2 ca.) permette di collocare il peristilio della residenza ascolana nel gruppo di ville di maggiori dimensioni a cui appartengono, ad esempio, le ville di piazza Armerina e Patti Marina.
Lungo il braccio occidentale del peristilio sono stati indagati una serie di ambienti (Amb. 97, 98, 99), verosimilmente preesistenti, inglobati e ristrutturati contestualmente alla realizzazione del monumentale giardino. Tali interventi sono leggibili nel rialzamento dei livelli di calpestio e nello spostamento dell’accesso ai vani sul fronte orientale, con una apertura diretta sul portico. La mancata conservazione dei piani pavimentali, dei rivestimenti parietali e delle stratigrafie pertinenti alle fasi di frequentazione, impedisce di cogliere la destinazione funzionale di tali vani, probabilmente interpretabili come sale da pranzo e aule di rappresentanza.
Gli interventi di profonda ristrutturazione effettuati nel pieno V secolo, con la sovrapposizione delle nuove monumentali strutture di questa fase (in particolare la cenatio), la demolizione sistematica, la rasatura dei muri del settore occidentale del peristilio e degli ambienti gravitanti sul lato orientale del portico e l’asportazione dei rivestimenti, impediscono di ricostruire, se non nelle grandi linee, l’articolazione planimetrica generale della villa di III-IV secolo. Oltre al nucleo del peristilio sono stati individuati un atrio (Amb. 66), circondato da un portico (Amb. 61, 64, 65) e da una serie di ambienti (Amb. 67, 68, 69, 70) la cui destinazione funzionale è ancora ipotetica (cubicula, ambienti di servizio, vani riscaldati) e alcuni vani delle terme (Amb. 14, 18, 25, 19, 20, 21, 22, 23, 31) riutilizzati nelle grandi terme del V-VI secolo.
Molte di queste strutture furono abbandonate intorno alla seconda metà del IV secolo d.C., mentre altre, come ad esempio le terme e il corridoio orientale del grande peristilio, furono inglobate dalla nuova costruzione. Non sappiamo se tali significativi cambiamenti siano stati determinati dai danni provocati dai terremoti che colpirono la Daunia con epicentro in Irpinia, il più grave dei quali, quello del 346 d.C., danneggiò numerosi edifici pubblici e privati nella vicina città di Herdonia, oppure se siano stati legati ad un cambio di proprietà e/o, più semplicemente, alle scelte di un dominus facoltoso e desideroso di attribuire una veste ancor più monumentale e ‘à la page’ alla propria residenza rurale.
La villa tardoantica del V-VI secolo

La villa fu interessata da notevoli interventi edilizi nel V secolo, quando, in particolare, fu costruita una lussuosa sala da pranzo, le terme conobbero un notevole ampliamento e abbellimento, acquisendo la fisionomia di un doppio impianto termale e furono realizzati vari ambienti di servizio e magazzini.
La pianta risulta attribuibile al tipo della villa a padiglioni, con una distribuzione orizzontale degli spazi, non priva di anomalie se rapportata ai modelli classici, forse per effetto della stratificazione delle fasi edilizie. Secondo una tendenza propria dell’edilizia tardoantica, che si caratterizza per una predilezione per lo sviluppo verticale, analogamente ai casi di San Giovanni di Ruoti e di Quote S. Francesco, anche la villa di Faragola era dotata di un piano superiore, come confermano alcune scale e i sistemi di sostruzione, anche se non è possibile ricostruirne l’aspetto.
Le terme

La centralità delle terme nell’articolazione planimetrica della residenza tardoantica è leggibile anche nella volontà di creare un collegamento tra la sala da pranzo e il balneum, attraverso un lungo corridoio, concepito come un vero e proprio percorso ufficiale (Amb. 5/26). L’ampio e articolato complesso, con un nucleo originario forse già risalente al I-II secolo d.C., fu oggetto di successive ristrutturazioni, ampliamenti e modifiche nel corso del III, IV e V secolo d.C. Le terme di Faragola, sia pur parzialmente indagate, rappresentano uno dei più grandi complessi termali privati finora individuati in Italia. L’impianto sinora esposto, esteso su una superficie di oltre 1000 m2, si compone di due corpi di fabbrica contigui, contraddistinti da accessi indipendenti e da caratteri edilizi e dimensionali differenti e forse connotati da diverse tipologie di fruitori o da una frequenza d’uso diversificata. Il piccolo balneum, ubicato a Nord-Ovest del grande complesso termale (Amb. 27, 28, 32, 40, 41, 43, 44), sembrerebbe essere stato costruito in una fase posteriore e dotato prevalentemente di ambienti riscaldati concepiti in alternativa o in sostituzione dei caldaria e tepidaria originari, forse poco frequentati per problemi tecnici o per le dimensioni notevoli e probabilmente non più utilizzati o solo parzialmente usati quando fu edificato il secondo impianto termale.
Tipologie architettoniche peculiari e alto livello degli apparati decorativi pavimentali e parietali consentono di accostare il complesso termale della villa di Faragola ai balnea delle più lussuose residenze aristocratiche tardoantiche, sebbene la planimetria generale del complesso appaia discostarsi dai modelli canonici. Colpiscono le dimensioni di alcuni ambienti, quali un vano (Amb. 3) grande m2 100 ca., caratterizzato da versatilità funzionale, destinato ad area per gli incontri, stanza per l’intrattenimento, i massaggi e forse per limitati esercizi ginnici, decorato con raffinato rivestimento musivo policromo con un ampio repertorio di motivi geometrici inseriti all’interno di una articolata composizione, o il grande frigidarium (Amb. 19) dotato di due vasche (Amb. 20, 23) e di una natatio (Amb. 31), con volte ornate con tessere musive policrome in pasta vitrea e decorazioni parietali verosimilmente realizzate in opus sectile con zoccolo in marmo cipollino, e una pavimentazione in lastre lisce di marmo bianco con emblema centrale. Mosaici, rivestimenti parietali in crustae marmoree e stucco con cornici a palmette e ovoli, connotano anche i due tepidaria indagati (Amb. 18, 25), mentre le superfici pavimentali del lungo caldarium rettangolare tripartito da pilastrini aggettanti (Amb. 21, 22, 23) e delle due sudationes (Amb. 24-27) sono realizzate con l’impiego di lastre marmoree in breccia di colore rosato. L’uso differenziato di marmi bianchi e del cipollino per gli ambienti freddi e la messa in opera di litologie dai colori rosati nei vani caldi, tradisce una combinazione cromatica studiata in relazione alla destinazione funzionale delle architetture, parallelamente ad una omogeneità modulare e compositiva, riscontrabile in tutti gli ambienti del complesso termale, che rinvia all’utilizzo di marmi di primo impiego, forse commissionati appositamente per la decorazione dell’edificio, a differenza di quanto riscontrato nella cenatio.
Non si conservano tracce dell’originario apparato decorativo scultoreo, ad eccezione di una scultura in marmo raffigurante un bambino cacciatore, con le sembianze di un satirisco, databile al II secolo d.C., ed esposta forse in uno dei vani del complesso come pregevole oggetto d’arte di reimpiego. La statua è stata rinvenuta tra le stratigrafie di crollo della pavimentazione del caldarium del piccolo impianto termale, ma è probabile che originariamente fosse destinata alla decorazione della natatio (Amb. 31)
La cenatio
La cenatio, con il suo ricco apparato decorativo parietale e pavimentale, fornisce senza dubbio le indicazioni più chiare sul progetto architettonico, decorativo e ideologico posto alla base dell’intervento edilizio promosso dal dominus, pienamente integrato nelle forme di vita e nelle manifestazioni tipiche della classe aristocratica tardoantica cui apparteneva e finalizzato ad esaltare il banchetto come momento centrale nelle pratiche aristocratiche.
Nella sua prima fase, databile agli inizi del V sec., la cenatio presentava una pavimentazione musiva simile a quella delle terme, mentre l’imponente ristrutturazione, consistente nella costruzione del divano per il banchetto e nella ripavimentazione, è collocabile intorno alla metà del secolo.
La cenatio esprime, tradotta in pietra, l’adesione culturale e ideologica del dominus al sistema sociale tardoantico, come emerge dalla concezione gerarchica della grande sala (m2 128,50), dall’articolazione su tre differenti livelli pavimentali, dalla accentuata verticalità in corrispondenza dello stibadium, dalla presenza di percorsi cerimoniali sottolineati dai tre ingressi, uno centrale, ‘ufficiale’, sormontato da un grande arco in mattoni, ad uso del proprietario e dei suoi ospiti, e due laterali, minori e di servizio, verosimilmente utilizzati dagli inservienti. Il ricco apparato decorativo, l’evidente ricerca di effetti scenografici dal forte impatto, lo spiccato gioco cromatico dei rivestimenti, la studiata collocazione degli elementi d’arredo e la definizione di percorsi e spazi riservati a varie funzioni e a diversi frequentatori, e, non ultima, l’integrazione tra la struttura architettonica e il paesaggio circostante, fanno della cenatio di Faragola uno dei migliori e più eloquenti documenti materiali del ruolo svolto nelle ricche dimore dai riti conviviali nel quadro dell’ideologia aristocratica tardoantica..
Le esigenze sociali e di rappresentanza del dominus sembrano ‘modellare’ non solo l’organizzazione architettonica ma anche l’apparato decorativo: se i raffinati rivestimenti dello stibadium sottolineano l’importanza di questo dispositivo quale elemento di maggior spicco all’interno della sala da pranzo, la studiata collocazione dei pannelli in opus sectile vitreo e marmoreo, inseriti quali emblemata sull’asse centrale dell’ambiente, è strettamente legata al punto di vista dei commensali sistemati sul letto semicircolare. Il pavimento, composto da lastre marmoree prevalentemente di reimpiego (forse recuperate dai vani abbandonati delle villa precedente), è organizzato in maniera da suggerire la specializzazione dei vari spazi della cenatio, con una maggiore regolarità nella porzione centrale ed una significativa assenza di decorazione nel settore prossimo all’ingresso, dove la presenza di lastre in marmo bianco sembra legata alla necessità di uno spazio destinato ad accogliere giochi e spettacoli ben visibili dalla posizione frontale degli ospiti. La posizione differente dei due tappeti quadrangolari con specchiature in giallo antico e pavonazzetto inquadrate da cornici in serpentino, collocati specularmente ai lati dello stibadium, oltre a sottolineare l’accesso al settore più importante della sala, sembra indicare un preciso percorso all’interno della sala in relazione al complesso cerimoniale tardoantico.
Completano il quadro complesso decorativo originale e ricercato anche nella qualità redazionale i pannelli in opus sectile vitreo e marmoreo, estremamente rari e attestati solo in edifici particolarmente lussuosi.
La sala da pranzo doveva avere, mediante grandi aperture sui lati lunghi con l’utilizzo di colonne o di pilastri, un contatto visivo diretto con il paesaggio circostante, evidenziando una volontà di ‘sfondare’ le pareti e di fare della cenatio una sorta di lussuoso gazebo per banchetti in campagna. Efficaci dovevano essere i giochi di luce naturale (in particolare al tramonto, quando il sole calante inondava di luce lo stibadium) e artificiale, come dimostra il ritrovamento di lampade vitree.
Altro elemento caratterizzante era l’acqua. La parte centrale della sala da pranzo, posta ad una quota più bassa rispetto alle ali laterali e chiusa su tutti i lati, si ricopriva di un velo di acqua, trasformandosi in una sorta di laghetto artificiale, grazie ad un effetto assai scenografico: una cascatella che sgorgava dallo stesso stibadium, la cui vasca sottostante la mensa marmorea si riempiva d’acqua per mezzo di un complesso sistema di adduzione. In tal modo l’acqua corrente non solo rinfrescava l’ambiente nelle calde giornate estive, ma enfatizzava anche l’effetto cromatico dei pannelli in opus sectile e delle lastre marmoree, rendendo lo spazio assai scenografico. L’acqua fuoriusciva dal vano, trasformato in una sorta di ninfeo, verso l’esterno tramite un pozzetto di scarico nel pavimento e un canale di scolo in muratura, probabilmente a vista, che attraversava il portico dirigendosi verso valle, dando vita a una sorta di ‘ruscello’, e confluiva in un pozzo. Si tratta di espedienti di un uso ‘architettonico’ dell’acqua proprio di tali strutture per banchetto, come nei celebri casi del ninfeo imperiale di Punta Epitaffio a Baia, o delle note descrizioni dello stibadium della villa di Plinio e della cenatiuncula della villa di Avitacum di Sidonio Apollinare, o, ancora, del monumentale stibadium del Canopo di villa Adriana a Tivoli, in particolare del giardino-cenatio, il cosiddetto ‘ninfeo-stadio’, o della cenatio della villa spagnola di El Ruedo, della “fontana” Utere Felix di Cartagine, o, infine, della villa del Casale di Piazza Armerina.
In particolare in quest’ultimo caso si riscontrano alcune interessanti analogie, nonostante le evidenti diversità planimetriche, dimensionali e strutturali, tra la cenatio di Faragola e il cd. portico ovoidale-xystus antistante la sala tricora, un complesso ora assegnato, in maniera convincente, ad una fase costruttiva collocabile tra tardo IV e V secolo. In particolare gli scavi recenti hanno dimostrato che lo spazio centrale, scoperto e delimitato da muretti, e pavimentato significativamente con un mosaico con un motivo ad onda, era destinato ad essere coperto dall’acqua. Giustamente si è pensato, in analogia con il caso di Faragola, che, in occasione dei banchetti organizzati nella sala triabsidata, questo ‘laghetto’ realizzato al centro del portico ovoidale potesse garantire refrigerio e giochi di luce e riflessi. Gli ospiti dovevano, dunque, godere uno spettacolo davvero straordinario, con effetti scenografici molto simili a quelli descritti da Sidonio Apollinare grazie alla visione del lago dalla cenatio estiva della sua villa. Non si può escludere, inoltre, che lo stesso portico ovoidale fungesse da cenatio estiva, grazie alla possibile sistemazione di uno stibadium in legno all’interno dell’abside, in particolari occasioni di banchetti riservati ad un numero più ristretto e selezionato di convitati, ai quali, grazie ad un complesso sistema di rubinetterie, pompe, tubature e fontane, era riservato uno spettacolo molto suggestivo, simile a quello prodotto da un banchetto allestito al bordo di un laghetto.
Altri ambienti

A sud della cenatio erano posti alcuni vani utilizzati come magazzini e dispense, oltre ad una latrina. Altri vani al piano superiore erano raggiungibili mediante una scala di cui restano cospicui resti.
A nord della cenatio è stato rinvenuto un altro blocco di ambienti, con vari spazi di servizio al piano terra (cucine, magazzini) e verosimilmente residenze al primo piano, secondo un modello edilizio tipico dell'epoca tardoantica.
Ad alcune decine di metri dalla cenatio si collocava un edificio di grandi dimensioni, interpretabile forse come un horreum, un grande magazzino granario.
La fase altomedievale
Molto importante anche la fase altomedievale, dopo la fine della villa, quando furono realizzati sia nuovi ambienti residenziali e strutture produttive (fornaci, vasche di decantazione dell'argilla, fosse per la fusione di metalli, ecc.), sia furono riutilizzati gli ambienti della precedente villa, e capanne lignee disposte nell'area della antica villa. La fase altomedievale si articolò di un due momenti con caratteri distinti, rispettivamente nel VII e nell'VIII secolo d.C. Sulla base di vari indizi, si ritiene che possa trattarsi di una azienda agricola (curtis) appartenente alle proprietà fiscali beneventane.

Puglia - Siponto

 


Siponto (Sipontum in latino, Σιπιούς in greco antico e bizantino) è una località, nonché quartiere, della città di Manfredonia in Puglia, distante circa 2 km dal centro storico manfredoniano e oggi inglobata nell'area urbana della città di cui risulta essere una zona residenziale oltre che quella più vicina all'omonimo parco archeologico, tra i maggiori del Mezzogiorno d'Italia. Fu un'antica città e porto dell'Apulia. Siponto, divenuta poi Manfredonia, fu una delle più attive colonie romane. Il sito archeologico, di cui solo una parte è stata oggetto di scavi, è di grandissimo pregio per le evidenze che presenta, risalenti prevalentemente alla fase romana. L'area del Parco Archeologico è quella più prossima alla basilica medievale in stile romanico pugliese, sorta accanto ai resti di una basilica paleocristiana, tuttavia l'area di interesse archeologico è molto più vasta ed, in parte, ricade in proprietà private, fattore che ha fortemente limitato le attività di ricerca. Infatti la città era un centro importante non solo per quel che riguarda i commerci ma anche per la posizione strategica di cui godeva, porto naturale del nord della regione posto innanzi al golfo protetto dal Gargano. Il nome Siponto sembrerebbe derivare da Sepiunte, Σιπιούς, o Sepius per l'abbondanza di seppie pescate in passato in questa località.
La piana a sud del Gargano era abitata sin da epoca neolitica. La grotta Scaloria - Occhiopinto fu frequentata attorno alla metà del IV millennio a.C. per scopi cultuali e come necropoli. Sono stati rinvenuti contenitori di ceramica dipinta collocati su tronconi di stalagmiti spezzate e con all'interno stalattiti concrezionate per lo stillicidio delle acque ricadenti dalla volta. L'insediamento di Coppa Nevigata sorge nel VI millennio a.C. su uno dei dossi ai margini di un'antica laguna costiera, odierna località Cupola-Beccarini. Della prima metà del II millennio a.C. si hanno tracce di una capanna a margini curvilinei, che in epoca immediatamente successiva lasciò posto ad un grande muro difensivo, largo metri 5,5, nel quale si aveva un accesso realizzato con blocchi megalitici. Più tardi la fortificazione diventa più complessa con stretti passaggi, postierle e torri. Nel sito si ritrova ceramica micenea, importata dall'Egeo che poi veniva rirpodotta anche in loco. E murici frantumati per estrarre la porpora.
Dal 1500 circa a.C. fino al IV secolo a.C. con l'arrivo degli Iapigi dalle regioni dell'Illiria, nella penisola Balcanica, fiorisce e si sviluppa, nella Puglia settentrionale, tra i fiumi Ofanto e Fortore, la civiltà Daunia. Nella Piana di Siponto furono ritrovate centinaia di stele daunie, monumenti antropomorfi istoriati in pietra del VII e VI secolo a.C. Secondo la leggenda, Siponto (e altri centri Dauni) fu fondata dall'eroe omerico Diomede che sposò la figlia del re Dauno, Evippe.
Nel 335 a.C. fu conquistata assieme ad altre città italiche da Alessandro I, re dell'Epiro (e zio di Alessandro Magno), chiamato in aiuto dalla città magno-greca Taranto. L'occupazione avrà accelerato il processo di ellenizzazione.
Durante le Guerre puniche i Dauni e altri popoli italici si schierano con i Romani, ma passano (a esclusione di Lucera) dalla parte dei Cartaginesi dopo la sconfitta alla battaglia di Canne nel 216 a.C. Nel 194 a.C. Roma fece aspra vendetta sulle antiche città che le furono infedeli. Tra queste, vi fu Arpi alla quale fu tolta la libertà, furono abbattute le mura, le monete proprie e ogni altro diritto, fu confiscato il territorio (e l'approdo marittimo) di Siponto. Il centro dauno diventò colonia di cittadini romani. A seguito del progressivo impaludamento della laguna e la conseguente insalubrità l'insediamento fu spostato più a nord nell'attuale Santa Maria di Siponto. Otto anni dopo fu però necessario l'invio di un nuovo contingente di coloni, perché la città era già spopolata, a causa della malaria o della scarsa appetibilità di tale territorio causata dalla siccità. I primi cristiani perseguitati si rifugiano sottoterra per pregare negli Ipogei di Siponto. Nel IV secolo con l'Editto di Milano il cristianesimo diviene la religione permessa dall'impero. Secondo una leggenda, Siponto diventò una delle prime sedi vescovili d'Italia, il suo primo vescovo Giustino di Siponto sarebbe stato nominato direttamente da San Pietro. Il primo vescovo di cui si abbia notizia certa fu Felice I, il quale partecipò al Sinodo romano del 465. A lui viene attribuita la prima chiesa paleocristiana ad una sola navata con mosaici pavimentali a tessere bianche e nere, situata accanto all'odierna Basilica di Santa Maria Maggiore.
Nel V-VI secolo il santo vescovo Lorenzo Maiorano amplia la chiesa a tre navate a forma di croce latina, ornata di pavimento musivo policromo. I resti di entrambi i mosaici pavimentali del V e VI secolo sono esposti sulla parete sinistra della Basilica di Santa Maria Maggiore. Costruisce anche il Battistero e la Basilica dei Santi Protomariri Agata e Stefano (oggi chiamato Ipogeo Scoppa I). Sotto il suo episcopato inizia il culto di San Michele nell'area dell'odierno Santuario. Avrebbe fermato la distruzione di Siponto assediata dall'ostrogoto Totila. Nella metà del VI secolo l'area viene invasa dai Longobardi, che si scontrano più volte con i Bizantini per il possesso della Puglia. Siponto divenne sede di un Gastaldo.
Durante il IX secolo Siponto fu occupata per alcuni anni dai Saraceni. Negli ultimi decenni del X secolo la Puglia torna in mano ai Bizantini. Dal 1042 i Normanni la eressero a sede di una delle loro dodici baronie della Contea di Puglia. Nell'XI secolo Siponto dové conoscere una rapida decadenza, probabilmente a causa dell'interramento del porto, e della presenza della malaria dovuta alle paludi circostanti la cittá. Siponto era sugli itinerari di pellegrinaggi. Fuori le mura, alla fine dell'XI secolo o inizi del XII viene edificata l'abbazia di San Leonardo. Nel 1117 viene consacrata l'attuale chiesa romanica di Santa Maria. Nel 1223 la città fu scossa da un violento terremoto. Un altro terremoto (e forse maremoto) la ridusse in rovine nel 1255. Manfredi di Sicilia stabilì allora che la città fosse ricostruita in una più a nord, sulla costa rocciosa. Nacque così Manfredonia. Da ciò il nome di manfredoniano o sipontino per gli abitanti della città.

Puglia - Rudiae

 

Rudiae (in greco antico Ροδίαι, in italiano Rugge, in salentino Rusce ['ruʃe]) è un'antica città messapica, posta nell'area di influenza della colonia spartana di Taranto. Il centro è noto soprattutto per aver dato i natali allo scrittore latino Quinto Ennio. Viene generalmente identificata con i resti archeologici situati nel comune di Lecce, lungo la strada per San Pietro in Lama. Rudiae è identificata con i resti archeologici rinvenuti nella prima periferia di Lecce, a circa 3 chilometri dal centro abitato, in direzione sud-ovest. Una menzione di Rudiae come collocata presso Lupiae, l'antica Lecce si ha in un resoconto di epoca normanna. Successivamente, nel XVI secolo, l'umanista Antonio De Ferrariis detto il Galateo avanzò per primo l'ipotesi di identificare la patria di Ennio con la località di Rusce, ipotesi poi accettata dallo storico ed epigrafista Theodor Mommsen.
Secondo un'ipotesi oggi superata dall'evoluzione degli studi archeologici e storiografici, il sito di Rusce era stato primariamente considerato un sobborgo dell'antica Lupiae, a sua volta caratterizzata da insediamenti umani sparsi "a macchia di leopardo" sul territorio.
Nel sito sono visibili le tracce di un anfiteatro, una necropoli e due cinte murarie in blocchi di pietra calcarenitica (tufo). A giudicare dall'estensione della cinta muraria si conta che l'intera area vanti un'estensione di circa 100 ettari, il doppio delle dimensioni che raggiunse la vicina Lupiae nel periodo romano.
I materiali rinvenuti ne attestano la frequentazione già a partire dal IX-VIII secolo a.C. e la nascita di un insediamento di una certa importanza tra la fine del VI e il III secolo a.C. Successivamente la città perse di importanza e già nel I secolo d.C. - secondo la testimonianza di Silio Italico - era ridotta a un modesto villaggio, in coincidenza del progressivo affermarsi di Lupiae, che proprio in quel periodo (tra I e II secolo) si dotava di un anfiteatro e di un teatro.
Nonostante oggi sia quasi unanimemente accettata l'identificazione della patria di Ennio con i resti della città sita vicino a Lecce, sono state proposte anche altre ipotesi.
Secondo alcune fonti antiche Rudiae era collocata sui "monti calabri" (Ovidio), ossia sulle Murge, e a nord di Brindisi (Pomponio Mela e Plinio il Vecchio). A ciò si aggiungeva la testimonianza di Aulo Gellio, secondo cui Ennio si definiva di cultura latina, greca e osca (non citando quindi la cultura messapica). Ennio stesso tuttavia in un passo citato dal grammatico Servio, si vanta di discendere dal re Messapus (Messapo), eponimo della Messapia e dei Messapi.

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...