domenica 29 giugno 2025

Abruzzo - Pallanum


Pallanum 
era un'antica città del popolo italico dei Frentani, oggi sito archeologico sul Monte Pallano. Il nome Pallanum appare per la prima volta nella Tavola Peutingeriana. Nel IV-V secolo d.C. parrebbe essere una stazione sulla strada che congiungeva Aternum (oggi Pescara) e Larinum (presso l'attuale Larino). Pallanum si troverebbe così al VII miglio da Anxanum (l'odierna Lanciano) ed al XII miglio da Histonium (l'odierna Vasto). Edward Bispham ipotizza che Pallanum sia una città di origine sannitica. Dal I secolo a.C. la popolazione incominciò a diminuire.
Vari storiografi se ne occuparono dal 700 all'800, Pietro Polidori, Domenico Romanelli, Antonio Ludovico Antinori, e in epoca più recente Valerio Cianfarani e Andrea Staffa. In occasione degli scavi archeologici degli anni 90, molto materiale in ceramica e in pietra è stato portato a Chieti, esposto nel Convitto nazionale "Giambattista Vico", e nel Museo archeologico nazionale d'Abruzzo a Villa Frigerj.
Ad est dell'insediamento si erge un'antica e possente muraglia difensiva (nella foto in alto) edificata in periodo italico, di cui ne restano circa 160 metri, alta in media 4 metri ed intervallata in origine da quattro porte, di cui ne sono sopravvissute due: la "Porta del Monte" e la "Porta Del Piano" (quest'ultima è coperta da un architrave - nella foto). La porta del Piano, larga 80 cm, si trova nella parte più alta del sito, mentre la porta del Monte è posta più a valle, laddove i blocchi diminuiscono di grandezza, ravvisando una diversa tecnica costruttiva. I blocchi utilizzati sono di tipo calcareo, provengono dalla stessa montagna e sono accatastati a secco. Una leggenda vuole edificate le mura megalitiche da Carlo Magno, in realtà furono edificate nel periodo italico tra il VI ed il III secolo a.C.
In un avvallamento ad un'altitudine leggermente inferiore, ad ovest delle mura megalitiche, si trovano le rovine di un insediamento romano di medie dimensioni. È composto da un complesso di costruzioni che si sviluppano attorno ad uno spazio vuoto centrale. Inoltre sono state rinvenute tegole di terracotta, varie monete di età romana ma soprattutto numerosi manufatti di ferro.
Molte murature sono state edificate a secco, altre in opera pseudo-isodoma. Le pavimentazioni, realizzate in argilla, gesso e pozzolana sono in opus signinum. Vari dislivelli lasciano supporre vari terrazzamenti dell'abitato.

Abruzzo - Museo archeologico "La Civitella"

 

Il museo archeologico "La Civitella" è sito nel parco archeologico de "La Civitella" a Chieti su progetto dell'architetto Ettore De Lellis, già progettista del Museo Paludi di Celano. La struttura museale odierna, che in parte è sita in piani sotterranei, è parte integrante di un complesso con giardini, zone pedonali, un auditorium, un laboratorio archeologico, ambienti per attività ludiche e didattiche ed un ambiente per mostre temporanee.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale dell'Abruzzo, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
La prima collezione di materiale archeologico, dopo gli scavi effettuati a Chieti, fu voluta dal soprintendente Vincenzo Zecca, che si adoperò per allestire una mostra della sua collezione presso il palazzo comunale. Tra queste opere c'era anche il sepolcro del liberto Lusius Storax, rinvenuto nel rione Santa Maria Calvona. Tuttavia dopo pochi anni, il museo chiuse per mancanza di fondi.
Il progetto del Museo nasce nuovamente nel 1938, quando si costituì l'Antiquarium Teatinum presso l'ex chiesa di San Paolo dei templi romani, che constava in una buona raccolta di reperti archeologici rinvenuti a Chieti. La collezione poi confluì nel Museo Archeologico Nazionale di villa Frigerj. Nel 1982 durante dei lavori di costruzione del nuovo acquedotto, si scoperse sotto lo stadio comunale "Civitella" l'anfiteatro romano, pertanto lo stadio nuovo venne costruito a Chieti Scalo, lo Stadio Angelini, e iniziarono i lavori di scavo dell'anfiteatro, terminati nei primi anni 2000. Venne inoltre realizzata la prima struttura del Museo archeologico "La Civitella", anche se l'allestimento attuale è frutto di interventi avvicendatisi tra il 2008 e il 2014. Il museo inserito nel complesso archeologico che gravita intorno all'anfiteatro romano, costituisce un'area qualificata in cui esporre la storia del sito della città di Teate fondata dai Marrucini e conquistata poi dai Romani, da cui sorse nel IX secolo la Chieti odierna.
A differenza del vicino Museo Archeologico Nazionale d'Abruzzo di Villa Frigerj, che contiene i maggiori pezzi d'archeologica della regione, questo si concentra solo sulla storia di Chieti, propone diverse possibilità di approccio, che possono essere sviluppate in un'unica visita o in più occasioni: "L'inizio della storia urbana - Da Roma a ieri - La terra dei Marrucini". La sezione "Il primo Museo archeologico" illustra la storia dell'archeologia teatina, attraverso la ricostruzione di uno dei più vecchi allestimenti che costituirono il museo; l'architettura del museo tende ad essere discreta all'esterno, integrandosi con i monumenti della sommità della Civitella, dominata dall'anfiteatro e dalla chiesa di Santa Maria; l'interno è caratterizzato da grande spaziosità e tende ad evidenziare i vari ambiti della città antica - necropoli, anfiteatro, vita quotidiana - attraverso ricostruzioni in scala reale (frontoni) e l'esposizione di tipo evocativo, utilizzando materiali tipici delle tecniche costruttive antiche.
Nel 2021 il museo chiude temporaneamente per mancanza di personale
L'esposizione permanente è così strutturata:


L'inizio della storia urbana
. In questa sezione vi sono i ruderi di età repubblicana (III-II secolo a.C.) tra cui dei frontoni in terracotta riferibili ad un tempio del II secolo a.C.

Lungo il corridoio che conduce alla Sala dei Templi, è visibile una sequenza di antefisse dell'Artemide Persiana e di Ercole seduto su roccia. All'interno del percorso sono stati ricomposti tre splendidi frontoni in terracotta policroma del complesso templare che sorgeva sull'acropoli della Civitella, più uno del gruppo dei Tempietti del nuovo Foro Romano (Piazza Tempietti). Del primo frontone relativo al Capitolium dell'antica Teate è stato possibile ricostruire 11 personaggi, al centro la Triade Capitolina a destra Mercurio che guida le Ninfe, a sinistra Marte armato e poi Apollo nudo. Il secondo frontone mostra al centro un uomo, identificabile come Giove, ai lati i Diioscuri accompagnati da Venere e la sorella Elena. Nel terzo frontone sono collocati al centro APollo affiancato dalle Muse, negli angoli Bacco ed Ercole seduti.

Da Roma a ieri
. Questa sezione è suddivisa secondo le seguenti tematiche: il Foro, il Teatro, l'Anfiteatro, le Terme, e le Necropoli.
I materiali che documentano la città romana e il suo sviluppo illustrano il percorso, organizzato per aree monumentali,, il Foro, il Teatro, l'Anfiteatro, le Terme e la Necropoli di Teate. Molti manufatti ricevono nuova vita all'interno di ricostruzioni in scala 1:1, vivacizzate da filmati, suoni e luci a effetto; nello spazio dedicato alla vita pubblica sono presente due ritratti in marmo di Augusto e Tito. Dal Foro invece provengono il ritratto di un sacerdote (a sinistra), un monumento di Iside, parti del gruppo di statue di Serapide, e il cane Cerbero. Nelle dimore patrizie, notevoli sono gli arredi marmorei; nelle sale dedicate al teatro e all'anfiteatro si possono osservare i resti archeologici provenienti dagli scavi degli anni '20 e '30. L'edificio termale mostra marmi policromi che decoravano gli ambienti, ed è presente una testa, forse di una Musa. Nell'area dedicata ai culti funebri è sistemato un grande monumento, nel fregio è visibile il combattimento tra gladiatori e nel timpano un certo Lusius Storax, libero al quale era dedicato il monumento, che assiste allo spettacolo, circondato da magistrati teatini e dal popolo. Nel vano della porta è possibile osservare lo stesso ritratto del liberto.

Monumento funebre di Lucio Storace

Il monumento è un sepolcro a tempietto della prima età imperiale, è composto da due rilievi, fregio e frontone. Sul fregio è raffigurato con notevole vivezza un gladiatorio che il ricco Lucio doveva aver offerto in occasione della sua elezione, vi sono raffigurati gladiatori e incitatori in varie pose, dal saluto alla preparazione, alla lotta, alla vittoria o sconfitta, come se si trattasse di una scena unica, anche se in realtà varie operazioni seguivano una precisa sequenza. Il desiderio del committente doveva essere soprattutto quello di far documentare la sontuosità di questi combattimenti a Teate. Il fondo è neutro e i dettagli sono ben curati; ciò ha fatto pensare a un'ispirazione diretta da modelli di Roma. La scena del frontone, realizzata a bassorilievo, è più affollata e si propone di raffigurare il momento dell'investitura di Lusius Storax. ci sono due piani sovrapposti, in basso a sinistra in primo piano si trova il sedile con tre giovani, tre camilli, che simboleggiano l'avvenuto sacrificio connesso con l'investitura; il centro è occupato dal tribunale con al centro Storax e ai lati due bisellia, ossia sedili onorari romani, su cui siedono i quattuorviri. A destra simmetricamente ai tre camilli, si trova un uomo con bastone, un augure. Il secondo piano ha come sfondo un colonnato, molto probabilmente il foro di Teate, le figure in secondo piano sono 11 personaggi togati, all'estrema sinistra sempre in secondo piani, una scena di zuffa con quattro personaggi, forse una documentazione di un tumulto popolare avvenuto durante il combattimento.

La Terra dei Marrucini
. In questa sezione espone reperti provenienti dalla media e bassa vallata del Pescara. un grande arazzo illustra l'area attraversata a nord e sud dal fiume Aterno, da Popoli Terme (allora Pagus Fabianus) sino a Ostia Aterni (Pescara), si possono vedere nelle teche reperti in pietra scheggiata risalenti a 400.000 anni fa, manufatti in ceramica datati al Neolitico, oggetti votivi offerti agli Dei, e molto altro. Strumenti dell'età della Pietra e ceramiche del villaggio di Catignano (PE), trindoducono alla sezione dedicata alla Grotta di Bolognano (PE), una delle cave dove sono stati rinvenuti moltissimi reperti dell'età preistorica e neolitica d'Abruzzo. L'età del Ferro è documentata da bronzi e armi provenienti da Villamagna (CH), Guardiagrele e Pretoro (CH); le fasi precedenti alla fondazione della Teate Marrucinorum sono documentate da materiali esposti nel settore "Prima di Teate", tra i quali l'elmo gallico e balsamario a testa di donna.

Il primo museo archeologico
. Questa sezione mostra materiali che ripercorrono la storia di questo museo dalle collezioni di fine XIX secolo fino alla realizzazione di un Antiquarium Teatinum avvenuta nel 1938, ovverosia del nucleo originario di questo stesso museo. Le collezioni si compongono di lucerne, selci, statuette votive, accumulate nel tardo Ottocento e nei primi anni del Novecento, che provengono non solo da Chieti, ma anche dai centri della sua provincia.


Molise - Santuario italico di Pietrabbondante

 

Il santuario italico di Pietrabbondante è una vasta area archeologica del Molise, sita a 966 m s.l.m. di altitudine in un ripido declivio che si affaccia sulla valle del Trigno, a circa un chilometro di distanza in linea d'aria dalla vetta del monte Saraceno. La zona non è attraversata da alcun tracciato stradale di grande comunicazione; sono individuabili tracce di un antico sentiero esistente tra il moderno abitato di Pietrabbondante ed il vicino monte Saraceno, già praticato in antico, una direttrice stradale che ancora oggi segue l'andamento del ripido pendio e, costeggiando il lato orientale del monte, rappresenta l’unica via di accesso all'area fortificata posta in vetta.
L’area sacra rappresenta, per le sue caratteristiche architettoniche e per la sua monumentalità, la testimonianza archeologica di maggior rilievo della cultura della popolazione italica dei Samnites Pentri, e la sua esplorazione sistematica ha consentito di ricostruire le vicende storiche del territorio attraverso i secoli ed ha fornito una quantità rilevante di dati sul più importante luogo di culto dello stato sannitico.
Le informazioni storiche e le rilevanze archeologiche, soprattutto epigrafiche, dimostrano che il santuario di Pietrabbondante è totalmente diverso da ogni altro conosciuto nel territorio dei Sanniti (San Giovanni in Galdo, Vastogirardi, Campochiaro, Schiavi d’Abruzzo); infatti non veniva utilizzato esclusivamente per ludi scenici, come gli altri, ma era sede di concilia, cioè delle adunanze del senato indette in particolari occasioni. Questo suo carattere “nazionale” è documentato ampiamente dai numerosi riferimenti epigrafici (risalenti al II secolo a.C.) alle attività svolte dai magistrati supremi dello stato (iniziative edilizie, dediche di edifici o di oggetti votivi).
Nel 2016 il sito archeologico ha fatto registrare 14 774 visitatori.


Senza dubbio il complesso monumentale di Pietrabbondante è stato edificato per una funzione esclusivamente religiosa, e tale carattere dovette conservare preminentemente fino al suo definitivo abbandono. Tutti gli edifici mostrano con evidenza la loro destinazione cultuale, compreso il teatro, intimamente connesso con la zona templare retrostante. Purtroppo un solo documento, una lamina bronzea trovata nelle vicinanze del tempio maggiore, testimonia uno dei culti praticati: si tratta di una dedica votiva alla dea Vittoria. Si conosce la diffusione del suo culto in Campania e nel Lazio, e si ha un'ampia documentazione sia letteraria che archeologica già a partire dal IV – III secolo a.C. confermata anche da una ricca documentazione numismatica. Alquanto controversa è l’origine del culto secondo la tradizione letteraria latina. La divulgazione di questa forma religiosa nell'Italia centro-meridionale è da attribuirsi ad influsso greco: il culto per la dea Vittoria sarebbe quindi un'interpretazione ellenizzante di una divinità locale, già esistente in epoca più antica, come, ad esempio, la dea sabina Vacuna. Per il resto nulla sappiamo degli altri culti praticati nel santuario, neppure dalle numerose iscrizioni rinvenute nel sito.
Costruito per volontà politica del governo centrale, con l’appoggio ed il sostegno di eminenti famiglie, l’area sacra svolgeva inoltre anche un preciso ruolo in rapporto alle imprese belliche condotte dai Sanniti: la grande maggioranza di oggetti rinvenuti nei livelli più antichi esplorati è costituita da armi, certamente bottino predato ai nemici dopo una vittoria, che proprio qui venivano consacrate come trofeo alla dea Vittoria. Questo particolare giustifica così la mancanza quasi assoluta di ritrovamenti di armi in altri luoghi, anche dove potrebbe essere legittimo attenderseli.
Più di ogni altra località del Sannio, il territorio di Pietrabbondante rivela, attraverso la distribuzione delle strutture insediative, le caratteristiche tipiche di una comunità non urbanizzata. Il santuario però non rappresenta una presenza isolata nell'area, anzi rispecchia un'attività federale e non più soltanto municipale, il risultato di una grande azione collettiva che va oltre il tradizionale particolarismo delle singole realtà locali. Il complesso teatro-tempio, per il grande impegno economico richiesto, costituisce un episodio di massima rilevanza politica, che va al di là della modesta fortificazione presente sul monte Saraceno. Infatti i risultati delle ricognizioni territoriali, sebbene parziali, hanno offerto dati di grande interesse sulla frequentazione di questo territorio nell'antichità.
Il complesso monumentale è situato più in basso rispetto al moderno abitato di Pietrabbondante, che occupa uno sperone roccioso a nord-est del monte Saraceno, a circa m. 1025 s.l.m. ad un chilometro circa, in linea d’aria, dal sito archeologico, che ha un'estensione di circa m. 200 in direzione nord-sud e di circa m. 150 in direzione est-ovest. Sul declivio del colle, in posizione panoramica dominante la valle del Trigno alla sua confluenza col Verrino, è attualmente possibile ammirare il complesso del teatro e dei due edifici templari, quello minore (A), più antico, situato a nord-est del teatro, e ad esso collegato mediante un porticato con botteghe; quello maggiore (B), retrostante il teatro stesso ed appartenente alla medesima fase edilizia. Il dislivello del terreno fra l'estremità occidentale e quella orientale è di circa otto metri, passando da quota 966 a quota 958 s.l.m. L’allineamento degli edifici non è casuale, ma volutamente predisposto, con assi longitudinali paralleli e con orientamento est-sud-est. Il complesso monumentale, così come oggi ci appare, si è sviluppato in due distinte fasi edilizie, cronologicamente non molto lontane fra loro.
La costruzione del monumentale complesso teatro – tempio rappresentò certamente l’iniziativa di maggiore impegno, che occupò gli ultimi decenni del II secolo ed i primi del I secolo a.C. e fu il frutto di un'unica progettazione organica. Opera di un architetto rimasto anonimo, per la monumentalità degli edifici e per la qualità architettonica il complesso dovette richiedere un impegno eccezionale da parte dell’intera nazione dei Sanniti Pentri, che proseguì gradualmente tra gli anni 120 – 90 a.C. fino a quando la guerra sociale non interruppe qualsiasi forma di finanziamento pubblico o privato per l’arricchimento del santuario. Lo straordinario sviluppo di cui godette, benché tagliato fuori dalle grandi vie di comunicazione, è dimostrato dai frequenti riferimenti alle magistrature sannitiche menzionate nelle iscrizioni epigrafiche, quali il meddix tuticus, il censor, il quaestor. La presenza di questi importanti organismi amministrativi e di un'assemblea deliberante (concilium) sono la prova dell'esistenza di un'organizzazione statale, anche se è difficile definire il tipo di struttura organizzativa del centro e la sua condizione giuridica.
Il complesso teatro – tempio è un insieme di grande suggestione scenografica che si ispira ai modelli ellenistici diffusi in area campana, sia per lo schema del teatro, che ricorda quello di Sarno ed il teatro piccolo di Pompei, sia per la decorazione architettonica del tempio, il cui podio ricalca il modello del tempio di Capua. L’edificio ripropone le caratteristiche dell’architettura templare italica, infatti è posto su un podio, con gradinata centrale di accesso, ed è circondato su tre lati da un corridoio; differisce per un particolare elemento architettonico, anziché presentare un'unica cella sacra, ove di solito era collocata la statua della divinità oggetto di culto, ne ha tre, come nella tradizione degli Etruschi e dei Latini, e lascia quindi supporre che fosse dedicato a una triade, unico esempio della cultura italica di tempio dedicato a tre divinità.
La rocca fortificata sulla sommità del monte Saraceno, a circa m. 1212 di altitudine s.l.m. copre un’area pianeggiante ed estesa per circa m. 300 x 150 ed è da collegarsi all'intero sistema di strutture difensive costruite dai Sanniti nel corso del IV secolo a.C. nel Sannio interno. Le indagini archeologiche, infatti, hanno evidenziato la presenza di numerosi insediamenti fortificati nel Sannio pentro, edificati sul territorio dopo il primo conflitto con i Romani (343-341 a.C.) ed ubicati sui rilievi strategicamente più importanti, molti dei quali attendono ancora di essere precisamente identificati: sappiamo che erano perfettamente a vista l’uno dell’altro, in modo da creare un'efficace rete di controllo del territorio, e che in alcuni casi, come a Monte Vairano, la roccaforte non fu utilizzata esclusivamente a fini militari, ma anche come centro abitato, per giunta di dimensioni rilevanti. Anche la roccaforte di Pietrabbondante, difesa da massicce mura in opera poligonale, si collegava con analoghe opere difensive poste più a valle ed ancora oggi visibili, che avevano lo scopo di controllare il percorso che costeggia in quota il monte Saraceno, raggiungendo il santuario in località Calcatello. Oggi sono ben visibili solo tre brevi tratti della cinta muraria, in particolare quello sul lato sud-ovest, che appare il meglio conservato. La prima segnalazione dell’esistenza di queste mura sulla vetta del monte fu fatta dal Caraba.
La fortificazione è stata realizzata utilizzando una tecnica costruttiva piuttosto rozza, con grossi blocchi di pietra calcarea, di diverse dimensioni e solo parzialmente lavorati, sovrapposti a piombo l’uno sull'altro, e pietre dure inserite negli interstizi. Il materiale calcareo è stato probabilmente estratto dalla sommità dell’altura, in modo da spianare il più possibile la zona destinata all'abitato. Il tratto di mura meglio conservato è lungo circa m. 40 e presenta un’altezza media di m. 0,90. Sul percorso è presente una piccola postierla larga circa m. 0,90 che permette il passaggio di una sola persona per volta. Questo tratto si congiunge ad uno sperone roccioso sul lato sud-est che, per la sua asperità, rende naturalmente difficile l’ascesa alla sommità della rocca. Un secondo tratto di fortificazione, lungo circa m. 10,70 ed alto circa m. 1,50, prosegue lungo il pendio sul versante occidentale. L’ultimo tratto di mura visibile è anche il più piccolo, misura infatti solo m. 4,50 di lunghezza, con un’altezza massima di m. 1,65. La restante parte della muraglia è nascosta dalla vegetazione a macchia spontanea, anche se è possibile intuire il probabile andamento del muro. Su un picco roccioso alle spalle dell’abitato di Pietrabbondante, detto Morgia dei Corvi, è stato individuato un breve tratto di mura poligonali, analoghe a quelle presenti sul monte Saraceno, che dominano la vallata del Verrino, probabilmente facenti parte dello stesso sistema di fortificazione.
Allo stato attuale è difficile accertare se la cinta muraria fosse dotata di bastioni difensivi; nell'area interna non è visibile alcuna traccia di costruzioni, e del resto all'interno della fortificazione non è stato praticato alcun saggio di scavo, né vi sono stati rinvenimenti, neppure casuali. Difficile individuare con esattezza i punti di accesso all'interno della zona recintata, e formulare una qualche datazione. All'epoca della costruzione della rocca era certamente già frequentato il luogo di culto in località Calcatello, come dimostrano alcuni resti rinvenuti nell'area sacra, già adibita alle cerimonie legate all'attività dell’esercito sannitico.
In base alla tecnica costruttiva, secondo la classificazione di G. Lugli, è possibile avvicinare questa fortificazione agli altri complessi della Marsica e del Sannio risalenti al periodo tra il VI e la fine del IV secolo a.C. come a San Pietro Avellana (monte Miglio), Rionero Sannitico (bosco Pennataro), Carovilli (monte Ferrante), Agnone (località fonte del Romito), Chiauci (monte Lupone), Sepino (località Terravecchia), Baranello (monte Vairano), Longano (monte Lungo), Frosolone (località Civitelle), Trivento (località Sterpara), Montefalcone nel Sannio (monte Rocchetta), Campochiaro (contrada Civitella), Duronia (località Civitavecchia).
Una piccola necropoli, a circa un km a sud-ovest dell’area di Calcatello, è stata riportata alla luce nel 1973 e parzialmente esplorata: ubicata in località Troccola, a 1043 m. di altitudine s.l.m. tra il monte Saraceno a nord ed il monte Lamberti ad ovest, essa ha restituito tre sepolture appartenenti ad epoche diverse, comprese tra il V ed il III secolo a.C.
Le tre tombe, scavate nel misto di breccia calcarea e argilla rossiccia, sono del tipo a fossa e la loro copertura si trova a circa 40 cm. sotto il piano di campagna; le fosse presentano coperture di tegole e di lastre di calcare, e sono riempite con lo stesso misto del terreno circostante. Gli inumati giacciono supini, con braccia e gambe distese, in due casi, leggermente flesse nel terzo. I corpi appartengono a due maschi adulti e ad un bambino. I corredi funerari sono poveri di oggetti di ceramica (vasellame, coppette e brocche) ma ricchi di oggetti metallici (cinturoni, pettorali, cuspidi di lancia). Nella tomba del bambino sono presenti oggetti di bronzo.
Se ne ricava il quadro di una comunità abbastanza fiorente, in grado di sostenere l'importazione di oggetti metallici, e con un'organizzazione sociale articolata al proprio interno, in cui le classi sociali più elevate hanno buone disponibilità economiche. I dati archeologici consentono di ipotizzare che l’attività della necropoli si estese dal V al III secolo a.C. per tutto il periodo di vita del santuario; non esistono invece elementi per individuare l’ubicazione dell’abitato a servizio del quale funzionava la necropoli stessa.
A circa 400 m. dall'area del teatro, verso sud, è stato rinvenuto, in località Padolera, lungo un sentiero isolato che conduce a Santa Scolastica, il mausoleo sepolcrale della gens Socellia, risalente alla seconda metà del I secolo a.C. Posto in maniera ben visibile su un pendio leggermente elevato, richiamò l’attenzione degli archeologi fin dall'avvio dei primi scavi sistematici (1857), ed è infatti già citato nei giornali di scavo dell'epoca.
Dopo la guerra tra Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla, i Sanniti furono pesantemente puniti da Silla per avere sostenuto Mario ed il complesso tempio-teatro venne confiscato e assegnato alla famiglia dei Socellii. La presenza del monumento funerario doveva pertanto servire proprio a sottolineare l’avvenuto possesso delle terre. La vita del santuario decadde precocemente, anche a causa dell’isolamento della sua posizione, così lontana dalle grandi vie di comunicazione. Nella zona, pertanto, cominciò a svilupparsi un'economia di tipo agricolo - pastorale. Non è esclusa l’esistenza di ville rustiche nelle campagne adiacenti all’area monumentale, non ancora esplorate.
A giudicare dai 29 pezzi ritrovati, si trattava di un grande edificio, in pietra locale, costituito da un corpo inferiore a pianta quadrangolare che poggiava su un dado di base, quadrato, di m. 7 di lato x m. 4 di altezza, costituito da blocchi di calcare lavorato. Le pareti del piano inferiore erano decorate da lesene con capitelli corinzi, con le caratteristiche foglie di acanto, e coronato nella parte superiore da una cornice semplicemente modanata; tra una lesena e l’altra vi erano due iscrizioni che ricordavano il personaggio, un certo Caius Socellius, che prese l’iniziativa di costruire il monumento funerario per sé e per altri quattro membri defunti della propria famiglia. La parte superiore della costruzione consisteva in un corpo a tamburo cilindrico (m. 6 di diametro x m. 2 di altezza) che aveva sulla parete esterna una decorazione di piccole arcate in rilievo poggiate su esili lesene, al di sopra delle quali correva una fascia decorata con un fregio di grappoli d’uva e tralci ondulati. Difficile definire l’aspetto della copertura del monumento, così come non è chiaro dove trovassero posto le sepolture all'interno dell’edificio. Di recente è stata rinvenuta, non lontano dal santuario, una statua femminile, di stile funerario, con una colomba nella mano sinistra, che simboleggia l’anima libera in volo verso il cielo.
La famiglia dei Socellii è nota anche da altre fonti, infatti si ritrova in un'altra iscrizione sepolcrale rinvenuta nell'ambito del territorio del municipio romano di Terventum (Trivento), presso il santuario della Madonna di Canneto.
È stato necessario più di un secolo per riportare alla luce il santuario sannitico di Pietrabbondante, così come oggi lo possiamo ammirare. Le campagne di scavo effettuate in località Calcatello si possono considerare le prime avviate nel territorio del Molise: che in quell'area esistessero antichi ruderi si sapeva già al tempo dei Borbone. Il primo a darne notizia fu l’abate domenicano Raimondo Guarini (1765 – 1852) con una memoria letta nel 1840 all'accademia Ercolanese e pubblicata sei anni dopo. Risale al 1843 la prima menzione scritta dell'esistenza del sito archeologico ad opera dello storico Nicola Corcia (1802 – 1892). Gli studi si intensificarono in seguito alle diverse segnalazioni effettuate dal medico agnonese Francesco Saverio Cremonese (1827 - 1892), appassionato di archeologia. Uno dei primi a studiare personalmente quanto veniva segnalato nel territorio fu Ambrogio Caraba (1817 - 1875), ispettore onorario alle Antichità e Belle Arti per la Provincia di Campobasso. Nel 1845 pubblicò tali studi parlando dell’esistenza di una cinta muraria edificata con grossi blocchi poligonali e del rinvenimento nell'area di numerose iscrizioni in lingua osca, ed identificando Pietrabbondante con la città di Aquilonia. Tali notizie richiamarono l’attenzione di studiosi italiani e stranieri, quali Max Friedländer e Theodor Mommsen. Quest’ultimo, dopo aver visitato personalmente il sito nel maggio 1846, avanzò l’ipotesi che Pietrabbondante dovesse identificarsi con la Bovianum Vetus citata in un passo di Plinio il Vecchio. A suo giudizio sarebbero esistite nel Sannio due località omonime, ma ben distinte topograficamente e storicamente, una da identificare con l'odierna Bojano e l’altra con Pietrabbondante, entrambe sarebbero diventate colonie romane dopo la guerra sociale. Tale ricostruzione storica, formulata anche sulla base di alcune iscrizioni epigrafiche, è stata accettata per più di un secolo ed è sopravvissuta fino a tempi recenti. Quando, anche grazie all'evoluzione degli studi ed all'apporto di nuove discipline, il quadro storico dell’antico Sannio si è arricchito di più ampie conoscenze, è stata dimostrata l'infondatezza della tesi proposta, sulla base di precise argomentazioni epigrafiche, glottologiche, topografiche e storiche. Resta ancora oggi senza risposta l’attribuzione di un antico toponimo al sito di Pietrabbondante: Livio cita molti nomi di città sannitiche di cui non conosciamo la corrispettiva individuazione topografica (Murgantia, Romulea, Feritrum, Imbrinium, Cimetra, Duronia, Panna, Cominium, Aquilonia); al tempo stesso sono stati identificati numerosi centri sannitici, tuttora inesplorati ed anonimi.
Nell’estate del 1856, Francesco Sforza, personaggio influente presso la corte napoletana, invitato dalle autorità del luogo a visitare le rovine archeologiche, rimase molto colpito dalla rilevanza dei resti e promise di interessarne Sua Maestà Ferdinando II di Borbone. Contemporaneamente anche il duca della vicina Pescolanciano, Giovanni Maria d’Alessandro (1824 - 1910), veniva sollecitato in merito dai contadini che in località Calcatello, nel corso dei loro lavori agricoli, rinvenivano spesso resti archeologici di varia natura, che erano puntualmente sottoposti all'esame degli esperti del Museo Reale Borbonico di Napoli. Grazie al suo interessamento, al duca fu conferito nel 1857 l’incarico di soprintendente regio per l’area archeologica di Pietrabbondante. Fu così che finalmente l’area, ormai sottoposta a tutela governativa, diventò oggetto di scavi sistematici avviati nell'agosto 1857, sotto la direzione dell’architetto Gaetano Genovese, direttore degli scavi di Pompei. Gli scavi ripresero, dopo la pausa invernale, nel giugno 1858 sotto la direzione dell’architetto Ulisse Rizzi, direttore degli scavi di Paestum. Interrotti a causa delle vicende belliche relative all'unità d’Italia, gli interventi furono ripresi nel settembre 1870 sotto la direzione dell’archeologo Giulio De Petra, ma solo per breve tempo. Per un lungo periodo l’area fu quasi completamente abbandonata, tranne brevi lavori di manutenzione ordinaria.
Tali campagne di scavo permisero di portare alla luce interamente il teatro ed il tempio minore (A), posto all'estremità orientale dell'area monumentale. Di questi scavi possediamo la raccolta dei giornali di scavo e delle relazioni effettuate dall'archeologo Michele Ruggiero (1811 – 1900), molto particolareggiate per quanto riguarda la descrizione del materiale rinvenuto, ma piuttosto approssimative e confuse nelle indicazioni topografiche. In particolare, nella spianata "distante 150 palmi" dal tempio, fu rinvenuta una notevole quantità di armi, sia integre, sia in frammenti, che venne conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Elmi, schinieri, cinturoni, paragnatidi (paraguance), un accumulo di armi databili tra la fine del V secolo e la metà del IV secolo a.C. collocate lì come trofeo di guerra o come offerte votive. Armi simili sono state ritrovate anche in occasione di scavi più recenti. Se si escludono alcune indagini sporadiche effettuate da Amedeo Maiuri nell'ottobre 1913 nell'area del tempio minore, per lungo tempo il sito non fu oggetto di esplorazioni sistematiche.
Solo nel 1959 la Soprintendenza alle Antichità di Chieti avviò una serie di restauri dei due monumenti riportati alla luce circa un secolo prima, sotto la direzione dell'architetto Italo Gismondi, e una nuova campagna di scavi, la cui direzione venne affidata a Valerio Cianfarani (1912 – 1977), all'epoca soprintendente archeologo per l’Abruzzo ed il Molise. Nel corso delle attività, un saggio di scavo rivelò la presenza di un secondo tempio, molto più grande e posto alle spalle del teatro, la cui esistenza era rimasta ignorata fino ad allora.
In seguito a tale ritrovamento è radicalmente mutata la comprensione della natura dell’intero complesso cultuale e si è reso necessario ricostruire in maniera esauriente l’esatta fisionomia dei luoghi, per acquisire una completa conoscenza dell’intero arco di vita del santuario, sia dal punto di vista propriamente archeologico che da quello storico. Ancora oggi lo studio del complesso teatro - tempio non può considerarsi affatto concluso, e numerose problematiche restano tuttora aperte.
Dopo la conclusione delle ultime guerre contro Roma, combattute nel corso del III secolo a.C. i Sanniti Pentri, dichiarata la propria fedeltà a Roma, possono godere di un lungo periodo di pace, nel corso del quale riescono a potenziare le proprie attività economiche e commerciali, ed utilizzare parte dei guadagni per realizzare nuove iniziative edilizie ed occuparsi della sistemazione monumentale dell’area in località Calcatello. È la fase del cosiddetto tempio ionico, un edificio del quale non è sopravvissuto nulla, ma di cui restano numerosi elementi architettonici, riutilizzati come materiale di riempimento nelle successive fasi edilizie. Fu distrutto probabilmente dall'esercito di Annibale, che nell'inverno del 217 a.C. si era accampato in territorio sannitico, nei pressi dell’attuale Casacalenda e da qui si era mosso con le sue truppe per una serie di scorrerie per tutto il territorio, indirizzando le proprie incursioni soprattutto nei confronti dei santuari, che con la loro concentrazione di ricchezze gli consentivano un ottimo bottino.
Le costruzioni di età sannitica visibili nell'area appartengono a due distinte fasi edilizie, lontane fra loro non tanto cronologicamente quanto per concezione architettonica. Tuttavia chi progettò l’ampliamento del santuario, con il teatro ed il tempio maggiore (B), cercò di fondere il più possibile il nuovo complesso con la parte preesistente, per inserire il vecchio luogo di culto in una sistemazione organica.
All'inizio del II secolo a.C. alcuni magistrati appartenenti alla potente famiglia sannitica degli Staii decisero di finanziare la costruzione del tempio minore (A) su un pendio naturale del terreno. I terrazzamenti che si prolungano a nord e a sud servono a delimitare l’area ed a contenere il terreno, per prevenire eventuali frane. L’area su cui sorge l’edificio è incassata nel pendio del terreno: il complesso cultuale ha una forma stretta e allungata ed è completamente isolato, estraneo a qualsiasi forma urbanistica e lontano dal centro abitato del monte Saraceno. Tutto ciò non ha carattere di eccezionalità e rientra nella normale consuetudine italica.
Nello stesso tempo è documentata, anche in altre zone del territorio, una ripresa dell’attività edilizia: si tratta soprattutto di santuari, poiché i Sanniti non sono interessati all'edilizia civile, di carattere pubblico, ma solo ai luoghi di culto, aree sacre ancora oggi di suggestiva monumentalità. Tra la fine del III secolo e il II secolo a.C. sorgono infatti il santuario di Campochiaro e di Vastogirardi, dedicati ad Ercole, di San Pietro di Cantoni, dedicato alla dea Mefite, quello di Gildone, di San Giovanni in Galdo, di Schiavi d’Abruzzo.
A questo stesso periodo risale anche la costruzione di un secondo santuario dedicato ai Dioscuri, individuato nel territorio di Pietrabbondante, in località Colle Vernone, nella valle del Verrino. La localizzazione del complesso è stata possibile grazie al fortuito ritrovamento di alcuni elementi architettonici e soprattutto di una parte dell’altare, che reca incisa una dedica in lingua osca ad uno dei Dioscuri, divinità molto presente nella religiosità italica, in quanto legata all'ambito militare. Anche in questo caso la costruzione era stata intrapresa in adempimento di una delibera del senato e controllata da un magistrato, a dimostrazione dell’interesse dello Stato verso questi luoghi di culto.
Nello stesso tempo sono documentati altri insediamenti, a partire dall'area dell’abitato attuale di Pietrabbondante, la cui frequentazione in epoca ellenistica è confermata da diversi ritrovamenti di ceramica. Un altro insediamento abitativo di questo periodo è Arco, località posta a sud-est di Pietrabbondante, presso il colle di S. Scolastica, all'incrocio della strada che si congiunge a valle col tracciato del tratturo Celano - Foggia.
Pur essendo cronologicamente l’ultima realizzazione edilizia dell’area sacra, il complesso teatro – tempio si sovrappone esattamente alle strutture più antiche risalenti al IV secolo a.C. ricalcandone alcune misure originarie, evidentemente allo scopo di conservare inalterata nel tempo la sacralità di quel luogo. Infatti sia il tempio che il teatro dovevano svolgere un preciso ruolo pubblico ed essere legati da uno stretto rapporto, evidenziato anche dall'allineamento assiale dei due monumenti. Essi formano un nucleo omogeneo inserito in un’area sacra rettangolare (detta témenos), larga circa m. 60 e lunga m. 86, con un asse longitudinale perfettamente parallelo a quello del tempio minore (A) ed un orientamento est-sud-est. Sebbene strutturalmente distinti, il Tempio maggiore (B) ed il Teatro svolgono evidentemente un ruolo complementare, integrandosi reciprocamente nella loro funzione cultuale: ciascun edificio occupa esattamente m. 43 dell’intera area, ma poiché il podio del tempio è posto ad un livello più alto di nove metri rispetto al piano dell’orchestra del teatro, la facciata del tempio sovrasta la parte centrale del teatro. In base a tale disposizione prospettica, ben studiata, era possibile dall'alto del podio del tempio osservare la rappresentazione scenica, e, parimenti, dal piano dell’orchestra del teatro ammirare la facciata del tempio. Inoltre si veniva a creare un particolare effetto ottico per cui i due corpi edilizi, visti frontalmente dal basso, apparivano fusi l’uno con l’altro e la facciata del tempio sembrava sovrastare la cavea del teatro, annullando la distanza fra i due edifici. La presenza abbinata di un luogo sacro e di uno spazio destinato alle adunanze sembrerebbe riprodurre, ampliandolo, il modello del comitium, del luogo consacrato in cui si convocavano le assemblee per eleggere i magistrati dotati di imperium, cioè della facoltà di essere i supremi comandanti dell’esercito. Sulla base di tali considerazioni, qualche studioso ha ipotizzato che l’area sacra di Pietrabbondante potesse coincidere con l’antico toponimo di Cominium, che gli antichi autori citano come esistente non solo tra i Pentri, ma anche presso altri popoli italici (Marrucini, Equi, Volsci, Irpini), e che è stata identificata con la Cominium distrutta dai Romani nel 293 a.C. nel corso della terza guerra sannitica. Lo schema architettonico del santuario di Pietrabbondante si inserisce senza dubbio nel filone della tradizione sorta e sviluppatasi in ambiente italico e successivamente romano, non certamente in zone di cultura greca o ellenistica.
La costruzione del santuario fu certamente frutto di una volontà politica, piuttosto che di un'esigenza religiosa, come dimostrano le evidenti tracce di abbandono che testimoniano una precoce decadenza del luogo, scarsamente frequentato già in epoca imperiale. In epoca romana ormai non sussistevano più i motivi che avevano indotto le popolazioni sannitiche a costruirlo; lo dimostra la mancanza di qualsiasi restauro o rimaneggiamento del teatro e la conservazione della scena di tipo ellenistico. Anche il tempio maggiore (B) non è stato utilizzato a lungo e la tradizione del culto non si è neppure perpetuata in forma cristiana. Tutto ciò dimostra che il carattere sacro del centro era intimamente connesso alla volontà politica che ne aveva motivato la creazione, e che in epoca romana si era definitivamente esaurita. Non c’è dubbio che la concezione architettonica del complesso teatro-tempio è assolutamente italica, diretta espressione di quella vitalità economica e politica di cui godette l’intero mondo italico negli anni precedenti la guerra sociale; la concezione tradizionale fu solo in parte arricchita con elementi decorativi e scenografici mutuati da qualche città campana (Pompei). Il carattere sannitico del monumento è infine sufficientemente attestato dalla documentazione epigrafica, che esclude anche ogni ipotesi di una colonizzazione romana.
Attualmente sono ancora diverse le problematiche insolute rispetto al ruolo ed alla fisionomia dell’area sacra di Pietrabbondante. Se è chiara la caratteristica eminentemente religiosa e cultuale del sito, non possediamo testimonianze storiche circa uno sviluppo urbanistico né prima né dopo l’assimilazione romana del Sannio. Inoltre non siamo ancora in grado di sapere se il santuario sannitico fruisse di un'autonoma organizzazione amministrativa oppure dipendesse giurisdizionalmente da uno dei centri vicini.

Il teatro ed il santuario italico di Pietrabbondante sono andati in disuso già in epoca molto antica, pertanto non hanno subito nei secoli quei rimaneggiamenti di cui spesso sono stati oggetto i teatri greci riutilizzati in epoca imperiale romana. Ciò ha consentito agli archeologi, anche grazie al discreto stato di conservazione dei monumenti, di ricostruire senza incertezze gli aspetti strutturali e stilistici dell'intero complesso teatrale.
Esistono nel mondo italico dell'Italia centro-meridionale altri esempi di un’area teatrale e di un edificio di culto fra loro strettamente collegati, secondo uno schema che prevede rigorosi criteri di assialità e di visuale frontale. Qualcosa di simile esiste anche sull'altura di Castelsecco, nei pressi di Arezzo, a circa m. 424 s.l.m. dove, sul lato meridionale della collina, è stato rinvenuto un complesso templare di età tardo-etrusca (II secolo a.C.) abbinato ad un edificio teatrale coevo, posti su un terrazzamento naturale, molto suggestivo, che si affaccia sulla vallata aretina. Sappiamo che il teatro era un elemento tradizionale nei luoghi di culto dell’antica Grecia, espressione di un'esigenza religiosa, ma era estranea alla concezione greca la costruzione assiale e frontale dello schema teatro-tempio, consueta, invece, nella cultura italica, che la trasmetterà al mondo romano, che la diffonderà ampiamente in tutta l’area del Mediterraneo. Secondo uno schema analogo è impostato anche il complesso teatro-tempio di Gabii, lungo la via Prenestina, dedicato a Giunone, e realizzato intorno al 150 a. C.
Lo schema teatro-tempio subirà nel tempo diverse evoluzioni, secondo nuove concezioni strutturali e una diversa distribuzione planimetrica, introdotte successivamente dai Romani: a Tivoli, ad esempio, l’imponente complesso teatro-tempio dedicato ad Ercole, risalente al 70-60 a.C. risulta circondato da portici e colonnati, formando un corpo edilizio unico, anche se i due elementi principali si presentano ancora distinti; a Palestrina, invece, il complesso sacro dedicato alla dea Fortuna, risalente alla fine del II secolo a.C. rappresenta il primo esempio di completa fusione architettonica fra edificio templare e teatro, dove quest’ultimo è ancora subordinato al primo. Nel caso del Teatro di Pompeo, edificato a Roma tra il 61 ed il 55 a.C. compare invece per la prima volta una concezione architettonica del tutto nuova, con l'inversione dei ruoli nel rapporto teatro-tempio, dove l’elemento dominante diventa il teatro, inteso come espressione di attività civile (laica).
Tra gli edifici dell’area monumentale, il teatro (nella foto a sinistra) è quello meglio conservato. L’alzato della cavea è quasi intatto ed è perfettamente leggibile la planimetria della scena, della quale è andato perduto l’alzato. A differenza dei due templi, per i quali è stato utilizzato del calcare tenero di importazione, il teatro è stato edificato usando il calcare duro locale.
Si tratta di un edificio medio ellenistico, la sua costruzione infatti si colloca nella seconda metà del II secolo a.C. Pur essendo un teatro di tipo greco, non è stato edificato su un pendio naturale del terreno, come abitualmente avveniva, ma elevando artificialmente un terrapieno sulla spianata erbosa, adeguatamente sostenuto da una solida struttura di contenimento. Difatti il teatro è circoscritto esternamente da un poderoso muro in opera poligonale (alto m. 2,60 e spesso m. 1,70), che delimita tutto l’interro artificiale della cavea, con un paramento esterno interamente costruito a secco, con blocchetti di piccole dimensioni accuratamente lavorati, ed un riempimento di pietrame, anch'esso a secco. In questo muro, in corrispondenza dell’asse del teatro, c'è un'apertura, larga circa m. 1,30 che, attraverso una scaletta con cinque gradini, mette in comunicazione la parte superiore della cavea del teatro con il camminamento posteriore e con l’accesso al tempio maggiore (B). Originariamente la summa cavea non presentava la tradizionale gradinata in pietra (della quale, infatti, non è stato rinvenuto alcun resto), ma doveva essere attrezzata con strutture mobili in legno, montate, se necessarie, all'occasione. È probabile, infatti, che i posti disponibili nella parte inferiore della cavea, quella con i tre ordini di gradinate, fossero sufficienti ad accogliere il pubblico nella maggior parte delle manifestazioni.
La cavea ha un'estensione frontale di m. 54 e la classica forma geometrica ad emiciclo, con un raggio di m. 27. E proprio le tre gradinate situate nella parte bassa della cavea costituiscono la caratteristica architettonica di maggior pregio dell’intero monumento: i tre ordini di sedili, senza braccioli, presentano un piano ininterrotto, costituito di blocchi accuratamente connessi fra loro. Le spalliere curvilinee, lavorate in un solo blocco, presentano un'elegante sagomatura a gola rovesciata, cioè convessa in basso e concava in alto, che conferisce ai sedili una conformazione anatomica. La lunghezza dei singoli posti a sedere è varia, l’altezza media è di circa cm. 82. L'ima cavea è separata dalla summa cavea da un camminamento largo circa m. 1,10 pavimentato con larghi blocchi irregolari ma ben connessi. Lungo il camminamento (detto praecinctio) è presente una doppia fila di sedili semplici, privi di spalliera, interrotti, a distanza regolare, da cinque piccole gradinate larghe m. 1,10 che accedono alla zona superiore della cavea, larga m. 15,30 e suddivisa in sei settori, disposti simmetricamente, anche se di dimensioni diverse. Alle due estremità le tre gradinate dell'ima cavea sono chiuse da braccioli in pietra, scolpiti in forma di zampa di leone alato; il pubblico accedeva ai posti a sedere direttamente dall'orchestra, utilizzando, per le due gradinate superiori, quattro scalette semicircolari, due per ciascun'estremità della cavea.
Lateralmente la cavea è sorretta esternamente da due grossi muri di sostegno (detti analèmmata) di forma trapezoidale, paralleli al palcoscenico, costruiti in opera poligonale, che si uniscono al muro posteriore di contenimento del terrapieno della cavea. Essi sono costituiti da due filari di blocchi parallelepipedi, larghi circa cm. 80, che terminano con un elemento sagomato e sono coperti da una sorta di parapetto obliquo. Alle due estremità inferiori ciascun muro termina con due figure maschili scolpite, uguali e simmetriche, rivolte verso l'orchestra: si tratta di un Telamòne (o Atlante), alto circa un metro, che idealmente sorregge, con le braccia sollevate dietro il capo e le gambe leggermente piegate, il peso dell’intero teatro.
Addossati agli analèmmata due grandi archi, a blocchi sovrapposti e conci radiali, di circa m. 3,50 di larghezza, collegano il muro di sostenimento della cavea all'edificio scenico. Costituiscono le parodoi, cioè i corridoi di ingresso, scoperti, paralleli alla scena, che immettono il pubblico direttamente nell'emiciclo dell’orchestra. Quest'ultima presenta la tradizionale forma a ferro di cavallo, come era di solito nei teatri di tipo greco, con una raggio dell’emiciclo di circa m. 5,50 ed uno spazio rettangolare largo m. 2,70 e lungo circa m. 11. L’orchestra non è lastricata e non vi è traccia della presenza di altari.
Dell’edificio scenico (lungo m. 37,30 e largo m. 10,10) si conserva la struttura semplice della scena di tipo greco, non rimaneggiata in epoca romana: un edificio rettangolare con una facciata lineare, in cui si aprono tre porte, una centrale e due laterali, utilizzate dagli attori per entrare ed uscire dallo spazio scenico. Dell’alzato non è rimasto nulla, ma la planimetria è così chiara da renderlo comprensibile in tutti i suoi aspetti. Di esso rimangono alcuni elementi di pietra, appartenenti alla struttura frontale, costituita da blocchi rettangolari di diversa lunghezza disposti su tre file. Non è stato rinvenuto alcun elemento, neppure frammentario, della decorazione della fronte scenica: si trattava evidentemente di una parete semplice, liscia, priva di particolari ornamenti architettonici. Il palcoscenico doveva avere un'altezza di circa due metri o forse anche più, e una larghezza di m. 4,15 in base all'allineamento dei pilastri posti alle due estremità.
L’edificio scenico vero e proprio ospitava in realtà sei ambienti chiusi, lunghi m. 5 e nascosti alla vista degli spettatori, che avevano funzione di locali di servizio. La parete posteriore dell’edificio scenico segna il limite esterno dell’intero monumento. Al centro dei sei vani un corridoio (largo m. 1,20) consente l’uscita degli attori e del personale del teatro dalle due stanze centrali, leggermente più ampie delle altre. Analogamente altri due corridoi sono posti alle due estremità dell’edificio scenico, a servizio delle stanze più esterne.
Addossati alla base della parete della scena vi sono dieci elementi di pietra quadrangolari, al centro dei quali sono state ricavate delle cavità quadrate, gli alloggiamenti dove venivano inserite le aste di legno che reggevano i velari, cioè le scene mobili, dipinte su tela o su legno, che costituivano il fondale scenico durante le rappresentazioni. Ai lati esterni dell’edificio scenico due ampi corridoi (larghi m. 4,10), chiusi da due cancelli, di cui ancora restano le tracce delle soglie, consentivano l’accesso al pubblico direttamente sul fronte scena.
Riguardo alla tecnica edilizia, bisogna dire che mentre l’intera cavea è in grandi blocchi di pietra calcarea incastrati, senza uso di malta, ove predomina l’opera poligonale, con grossi conci accuratamente lavorati, strutturalmente diverso appare l’edificio scenico, dove i muri sono costruiti con pietre irregolari di piccolo formato, legate con malta, disposte su file orizzontali, ma senza andamento continuo. La differenza è spiegabile in base alle diverse condizioni naturali del terreno, laddove l’uso dell’opera poligonale era richiesto per creare una potente muratura di contenimento della spinta dell’interro retrostante.
Lungo l’asse mediano del teatro, nel corso degli scavi del 1959, è stata rinvenuta una fossa, costruita con muri a secco e coperta con lastroni irregolari, che provvede alla raccolta delle acque piovane: ha una profondità e una larghezza irregolari e scarica le acque probabilmente in aperta campagna.

Proseguendo alle spalle del teatro, a circa nove metri dal muro di contenimento della cavea, oltrepassato il breve declivio erboso, si raggiunge il tempio maggiore (B), l’edificio più grande che sia mai stato costruito dai Sanniti (nella foto a sinistra). Il monumento ha subito numerosi saccheggi nel corso dei secoli, probabilmente fin dall'epoca del suo abbandono, subendo cospicue asportazioni di materiale, reimpiegato per altre costruzioni: il podio risulta molto danneggiato sulla parte frontale ma è ben conservato sugli altri lati.
Il visitatore è ancora oggi colpito dalla massiccia volumetria del podio del tempio che gli si presenta davanti e che si conserva ancora oggi, sostanzialmente, nella sua interezza: lungo m. 35, largo m. 22, alto m. 3,55. L’edificio è circondato su tre lati da uno stretto corridoio, largo circa m. 2, in leggera pendenza e pavimentato di basoli. Dinanzi al podio, a circa m. 1,80 di distanza, su un piano pavimentato con sottili lastre di pietra grigia molto friabile, non rifinite, trovano posto due altari, riportati alla luce nel corso degli scavi, disposti parallelamente alla fronte dell’edificio. Essi presentano un'analoga struttura: il corpo di quello centrale è costituito da un parallelepipedo (m. 3,30 x m. 0,68) in blocchi di pietra, che poggia su una base provvista di cornici a fasce sovrapposte. Un secondo altare, identico per conformazione, ma di lunghezza inferiore (m. 1,70), è posto alla sua destra, a una distanza di circa m. 3,30. Poiché siamo in presenza di un tempio a tre celle, è presumibile che originariamente vi fosse un terzo altare, a sinistra, probabilmente demolito, per essere riutilizzato come materiale di costruzione. Della parte superiore degli altari non si è conservato nulla in situ, anche se sono stati recuperati nell'area elementi appartenenti alla cornice superiore, che poggiava direttamente sul parallelepipedo. In particolare sono state rinvenute le due terminazioni laterali degli altari, poste in corrispondenza dei lati corti, scolpite con elementi vegetali e teste di ariete.
Il podio si eleva al di sopra di un basamento liscio, costituito da blocchi squadrati di pietra calcarea, e riprende le caratteristiche dello schema usuale del tempio italico, con una parete verticale liscia, costituita da tre file di blocchi, compresa, in alto e in basso, da due cornici, che richiamano quelle del podio del tempio italico rinvenuto nel Fondo Patturelli di Curti, nei pressi di Capua, famoso per le numerose terrecotte architettoniche rappresentanti la Mater Matuta.
Gli interventi di restauro del podio hanno richiesto poche integrazioni, poiché le condizioni del monumento risultavano pressoché integre, ad esclusioni di alcune parti frontali. Allo scopo di evidenziare chiaramente gli elementi integrati attraverso il restauro, per le parti aggiunte è stato utilizzato del travertino di Tivoli, ben distinguibile dalla pietra calcarea originaria. Allo stesso scopo, anche per le parti mancanti della cornice sono stati utilizzati blocchi di pietra semplicemente martellata. Sulla parte anteriore del lato occidentale del podio è ben visibile una lunga iscrizione in lingua osca, che si sviluppa, con andamento sinistrorso, su un'unica linea. Ricorda il finanziatore della costruzione, L. Statiis Klar, probabilmente un magistrato sannita, di cui le fonti storiche antiche riportano numerose notizie. Sappiamo che dopo aver partecipato alla guerra sociale, passò dalla parte di Silla e riuscì ad entrare nel Senato romano, finché, ottantenne, non venne ucciso.
Al centro del lato frontale, incassata nel podio ed inserita nel perimetro della struttura, si apre una scalinata (larga m. 4,60) di accesso alla parte anteriore del tempio (pronao): dei tredici gradini solo i primi tre sono originali, gli altri sono di restauro, anche se misurati esattamente sulle impronte di quelli originali. Il piano di calpestio del pronao (m. 22,00 x m. 21,50) è stato quasi integralmente restaurato in lastre di travertino, tranne brevi frammenti in cui è stato possibile ricollocare le pochissime lastre di pietra calcarea del pavimento originale recuperate nel corso dello scavo. Anche la pavimentazione delle tre celle è andata quasi interamente distrutta, tranne alcune parti che presentano una semplice decorazione a piccole tessere bianche piuttosto regolari. Nulla ci rimane dell’elevato delle tre celle: quella centrale (m. 7,20 x m. 11,00) è la maggiore e si estende fino al muro di fondo del tempio. Quelle laterali (m. 4,80 x m. 7,50) si interrompono prima del muro di fondo (m. 3,60), creando due piccoli ambienti rettangolari di m. 4,50 x 3,00 probabilmente adibiti a deposito.
L’antico solaio, infatti, che costituiva il piano di calpestio originale, è stato sfondato già in epoca antica ed il materiale completamente saccheggiato. Pertanto ciò che è stato riportato alla luce, a seguito degli scavi archeologici, è solo la parte interna del podio, racchiusa tra le mura perimetrali.
È opportuno chiarire che, contrariamente a quanto comunemente si immagina, la parte interna del podio non è un semplice spazio vuoto riempito di detriti e di terreno, ma presenta una fitta e complessa rete di strutture murarie, che in parte fungevano da fondazione per le strutture soprastanti del tempio, in parte servivano a distribuire omogeneamente il materiale di riempimento del podio, ripartendone il peso all'interno. È facile riscontrare come in corrispondenza dei muri in opera quadrata che si trovano distribuiti all'interno del podio, si prolungano le diverse parti dell’elevato del tempio soprastante; allo stesso modo in corrispondenza delle colonne del tempio ritroviamo, nascosti dentro il podio, veri e propri pilastri di fondazione.
La presenza di tali strutture, quasi perfettamente conservate, ha consentito agli archeologi di ricostruire con assoluta certezza la planimetria del tempio: una struttura ben articolata, che si ispira nello stile della facciata al tempio prostilo di origine greca, poiché sul fronte anteriore presenta quattro colonne allineate, che formano un porticato, superato il quale si accede nel pronao, cioè la parte anteriore dell’edificio sacro, che presenta sul fondo la parete nella quale si aprono le porte di accesso alle tre celle (naos), ove erano custodite le immagini delle divinità alle quali era dedicato il santuario e che rappresentavano l’abitazione del dio ed il luogo destinato alle celebrazioni religiose. Nel caso di Pietrabbondante quella centrale è più ampia rispetto alle celle laterali, che si presentano più strette e più corte.
Per il riempimento dell’interno del podio del tempio venne utilizzato certamente il materiale di risulta delle operazioni di sbancamento del terreno che vennero preventivamente effettuate: in esso è stato rinvenuto nel corso degli scavi abbondante materiale archeologico di diversa provenienza; in particolare sono stati ritrovati numerosi elementi architettonici appartenenti al cosiddetto tempio ionico, l’edificio sacro costruito dopo la conclusione del conflitto con Roma e che probabilmente venne poi distrutto da Annibale l'anno precedente la battaglia di Canne.
Il colonnato del pronao, di tipo corinzio, è crollato insieme alle pareti dell’edificio, infatti rocchi di colonne sono stati rinvenuti sparsi sul terreno circostante. Il tempio presentava quattro colonne a filo della scalinata di accesso, altre due in seconda fila sui lati e due in terza fila, al centro, fra le ante.
Per la costruzione del tempio sono stati utilizzati due tipi diversi di materiale, il calcare duro locale, utilizzato per il podio e le parti lavorate, ed un calcare morbido non locale, per le colonne e l’alzato delle pareti. L’edificio differisce dal teatro per tecnica costruttiva: presenta dei blocchi estremamente regolari, levigatissimi e perfettamente aderenti.
Della copertura del tetto possediamo soltanto, allo stato frammentario, parti di tegole piatte e di coppi fittili di vario tipo e dimensioni.
A destra e a sinistra del tempio maggiore (B), a livello del filo del muro dei due corridoi laterali, sono stati rinvenuti due porticati, addossati direttamente al muro di recinzione dell’area sacra (tèmenos), costituiti da una serie di ambienti preceduti da un colonnato. Gli ambienti si presentano di diversa grandezza, in alcuni casi si sono conservate le soglie ed in minima parte l’alzato, costituito da pietre legate con malta. Scarsi sono i resti della pavimentazione, a grosse tessere fittili di forma abbastanza regolare. Davanti agli ambienti, a circa m. 3,50 di distanza, sono visibili i resti di piccole colonne di tipo tuscanico, che costituivano un breve porticato, delimitato all'esterno da un lastricato in calcare.
Nello spazio compreso tra la pavimentazione ed il colonnato sono state rinvenute, nei recenti scavi, alcune sepolture di tipo a fossa, altre con copertura a cappuccina, risalenti al III-IV secolo d.C. che utilizzano le tegole del tempio. In tutti i casi accanto al defunto è presente un corredo poverissimo, composto da materiale di modesta fattura; la datazione delle tombe è determinata di solito dalla presenza di monete di epoca romana, risalenti ad un periodo di poco posteriore all'abbandono dell’area.
Chi oggi volesse visitare l’area archeologica di Pietrabbondante seguendo un percorso ordinato e corretto dal punto di vista storico-cronologico, dovrebbe cominciare proprio da questo monumento, posto all'estremità orientale dell’area archeologica, che dovette costituire il nucleo originario del grande santuario, risalente alla prima fase edilizia di cui abbiamo testimonianza, databile alla metà del II secolo a.C. Purtroppo i dati di scavo, risalenti alla fine dell’Ottocento, sono molto approssimativi e lacunosi.
Si tratta dunque del più antico dei monumenti oggi visibili, fronteggiato da un sentiero già all’epoca esistente, che conduce al monte Saraceno, il cui tracciato probabilmente ne condizionò la posizione. Era una struttura di modesta concezione architettonica, completamente isolata e lontana da centri abitati, come rientrava nella consuetudine italica dell’epoca. Attualmente lo stato di conservazione è abbastanza precario, anche a causa del materiale prevalentemente utilizzato, un calcare tenero, friabile e particolarmente sensibile ai geli invernali, proveniente da una cava certamente ubicata nelle vicinanze, considerato il largo uso che di esso è stato fatto anche in seguito, nella costruzione del tempio maggiore (B). Gran parte del materiale del monumento deve essere stato saccheggiato anticamente, forse già a partire dal IV secolo, quando l’area fu definitivamente abbandonata: è sopravvissuto solo il podio, molto danneggiato sul lato anteriore, completamente asportato per tutta la lunghezza, per cui diventa quasi impossibile ricostruirne la planimetria. Manca del tutto l’alzato del tempio, i cui blocchi devono essere stati asportati per essere utilizzati come materiale da costruzione; restano poche lastre del fregio dorico frontale e vari frammenti del cornicione di coronamento.

Il piccolo tempio fu edificato per volontà di alcuni magistrati appartenenti alla potente famiglia degli Staii in una fase in cui in tutto il territorio si assiste a una ripresa dell’attività edilizia, soprattutto nei santuari. Il centro rappresenta quindi l’espressione di quella vitalità economico-politica di cui godette tutto il mondo italico negli anni precedenti la guerra sociale. Non poco dovette influire il periodo di pace che finalmente si stabilì nel Sannio nella seconda metà del II secolo a.C. grazie alla fine delle guerre, ed il conseguente risveglio economico e commerciale, che consentì alle famiglie più facoltose di finanziare nuove iniziative edilizie.
Lo spazio necessario per la costruzione del tempio è stato ricavato nel declivio del terreno, scavando un'ampia area quasi rettangolare (lunga m. 27,50 e larga m. 17,50), circoscritta su tre lati da muri di terrazzamento che delimitano l’area sacra, lasciando libero un passaggio di circa m. 10 solo sul lato sinistro (meridionale) dell’edificio, sia per consentire l’accesso al piano di calpestio del tempio, che quindi non doveva avvenire frontalmente ma lateralmente, sia per creare un collegamento tra il tempio ed il porticato posto a sinistra, che si prolunga per circa m. 17 fino al muro di cinta del teatro. Sia la parte posteriore dell’edificio, sia buona parte del lato settentrionale sono riparati dal terrapieno retrostante da due muri paralleli, distanti fra loro circa tre metri, che si sono quasi integralmente conservati; si tratta di due grossi muri in opera poligonale, costruiti con blocchi di calcare duro e compatto, alti fino ad un massimo di m. 4, in grado di resistere alla spinta del terrapieno retrostante.
Di fronte al tempio, è possibile individuare un’area di rispetto, ben definita ed un tempo completamente lastricata, un basamento lungo m. 16 circa ed alto m. 1,25 che abbellisce il prospetto dell’edificio, al centro del quale si conserva traccia di una piattaforma di modeste dimensioni (m. 3,30 x m. 3,00), sulla quale poggiava forse l’altare, oggi scomparso, presso il quale si svolgevano abitualmente le cerimonie di culto.
Il podio è di forma rettangolare (m. 17,70 x m. 12,20), con il lato anteriore orientato a est-sud-est, costituito da due filari di blocchi squadrati, in calcare tenero, con le pietre ben connesse, frutto di una lavorazione accurata; solo i blocchi d’angolo sono in calcare duro. I blocchi sono compresi tra una cornice di base e una di coronamento, per un’altezza complessiva di m. 1,65 dal piano di terra. Purtroppo solo il lato posteriore e quello settentrionale risultano conservati meglio.
Nonostante quasi nulla è sopravvissuto della parte alzata del monumento, è stato possibile accertare che si trattava di un tempio a cella unica, la cui superficie occupava la metà posteriore del podio. Dalle poche tracce della pavimentazione della cella, costituita da lastre di pietra calcarea, sappiamo che aveva una forma rettangolare di m. 11,50 x m. 9,00. Sono inoltre visibili le tracce della soglia, al centro della parete centrale, con un'apertura di circa due metri, ed i segni del fissaggio di un cancello metallico.
A causa dei gravi danneggiamenti subiti dall’edificio nella metà anteriore del podio, è destinata invece a rimanere ipotetica la sua ricostruzione planimetrica. Verosimilmente si può ipotizzare che, secondo uno schema ampiamente diffuso nell'architettura italica del periodo medio - ellenistico, l’accesso alla cella avvenisse attraverso una scalinata, ormai andata perduta, posta al centro dell'ingresso. Considerato lo spazio disponibile nella prima metà del pronao, è ipotizzabile inoltre l'esistenza di un numero massimo di otto colonne.
Nell’area rettangolare (lunga circa m. 48 e larga circa m. 33) compresa fra il tempio minore (A) ed il teatro, delimitata posteriormente da un grosso muro di terrazzamento in opera poligonale, è possibile riconoscere una serie di ambienti di diverse dimensioni, riportati alla luce già nel corso degli scavi ottocenteschi, genericamente indicati come “botteghe”, che si aprono su un porticato del quale restano soltanto le parti inferiori delle colonnine in mattoni. Vi si possono individuare strutture appartenenti a una prima fase edilizia più antica, coeva alla costruzione del tempio, le quali, in un secondo momento, forse in età imperiale, vennero ampliate in avanti: difficile definire a quale funzione fosse adibita questa area. Si tratta forse di strutture abitative, con caratteristiche diverse, che a volte presentano una complessa articolazione planimetrica, a volte lasciano presumere l'esistenza di corridoi ed ambienti che si inoltrano nell'area non ancora esplorata. Difficile stabilire, per i troppi rimaneggiamenti, se si tratti di botteghe artigiane o di locali a servizio del santuario, magari per accogliere i fedeli. Sotto le strutture crollate è stato rinvenuto un gran numero di monete risalenti alla fine del III secolo – inizio IV secolo d.C. che costituiscono l’ultima documentazione di vita antica esistente nell’area del santuario.
Nel corso degli scavi di epoca borbonica nell'area antistante il tempio minore, effettuati in epoca borbonica, vennero effettuati consistenti ritrovamenti di materiale archeologico. Si tratta di numerose iscrizioni in lingua osca, su pietra calcarea, attualmente conservate presso il Museo archeologico di Napoli, come buona parte del materiale relativo a questi scavi. Sono prevalentemente testi di carattere ufficiale, che riguardano gli aspetti burocratici degli interventi di costruzione e sistemazione del monumento, autorizzati dall'autorità centrale e collaudati dai magistrati del posto. Ben più famoso il nucleo di armi rinvenute in quella stessa circostanza, delle quali si è già detto.
In tutta l’area del santuario, del resto, sono stati rinvenuti, sparsi, frammenti di materiale, la cui ricostruzione non è molto sicura, probabilmente facenti parte della decorazione del frontone del tempio, ma anche terrecotte architettoniche, resti di tegole e coppi, lastre di rivestimento. Si tratta di pezzi sporadici che compaiono un po’ ovunque, intorno al teatro, nei porticati ed anche intorno al tempio minore.
Inoltre costituiscono un'importante documentazione relativa alla frequentazione del santuario durante le sue fasi di vita, le numerose monete, rinvenute in luoghi diversi, che coprono un arco cronologico di alcuni secoli. Tali testimonianze numismatiche si sono rivelate molto importanti ed essenziali ai fini della determinazione dei singoli momenti di vita dell’intero complesso monumentale, risultando quantitativamente rilevanti in considerazione della limitata estensione dell’area interessata. Particolarmente interessante si è rivelato il materiale numismatico proveniente da Pietrabbondante, costituito da 256 monete in bronzo, acquistato nel 1900 dal Museo Nazionale di Napoli e successivamente pubblicato da Ettore Gabrici (1868-1962), il quale lo dice proveniente genericamente da Bovianum Vetus, senza altra indicazione specifica. Altrettanto generiche, purtroppo, risultano le indicazioni fornite dai giornali di scavo del tempio minore e del teatro, risalenti alla fine dell’Ottocento, carenti di ogni dato stratigrafico preciso.

Molise - Larinum

 

In epoca romana Larinum (oggi Larino) era un fiorente insediamento abitativo, di ampie dimensioni e di antica origine, ubicato sulle colline dell'entroterra a circa 400 m di altitudine, non molto distante (circa 26 km) dalla costa del mare Adriatico, di notevole importanza proprio grazie alla nevralgica collocazione geografica: si estendeva infatti su un'ampia area, fertile e pianeggiante (l'attuale Piana San Leonardo), in posizione strategica, perché sovrastante il fondovalle ed il basso corso del fiume Biferno, ed era anche un importante nodo stradale, perché situato alla convergenza di importanti assi viarii, che gli consentivano proficui scambi commerciali.
Questa particolare fisionomia geografica, associata al clima favorevole e alla fertilità del terreno, di facile lavorazione, spiegano la prosperità e lo sviluppo economico di Larino, raggiunti già a partire dal III secolo a.C. che le consentirono di svolgere un importante ruolo commerciale, preminente rispetto agli altri centri della zona, facendosi terra di frontiera e crocevia di culture, tra la fascia costiera adriatica e l'area interna del Sannio, restando per questo sempre aperta agli influssi di svariati ambienti culturali, come conferma la documentazione archeologica, testimonianza dell'esistenza di una città ricca e popolosa già in epoca anteriore alle guerre annibaliche.
La città era ubicata lungo la cosiddetta via litoranea (citata anche da Tito Livio), un'antica strada che da nord scendeva costeggiando l'Adriatico fino a Histonium (Vasto) e poi, con un percorso interno, dopo aver toccato Larino, procedeva verso est fino a Sipontum (Manfredonia) e proseguiva, di nuovo lungo la costa, fino a Brindisi; questa grande arteria di comunicazione era denominata Traiana Frentana, appellativo che si ricava da un'iscrizione sepolcrale di un certo Marco Blavio, che fu uno dei curatores della strada che collegava Ancona a Brindisi. Inoltre Larinum, attraverso il fondovalle del Biferno, si collegava agevolmente con l'area interna del Sannio Pentro, in direzione di Bovianum (Bojano), ed innestandosi sul percorso del tratturo Celano-Foggia entrava facilmente in comunicazione con la Daunia settentrionale, in direzione di Luceria (Lucera). Questa fitta rete di percorsi definiva, pertanto, un esteso territorio, incrocio di culture di varia provenienza, una terra di passaggi e di insediamenti, ma sempre in rapporto con i popoli confinanti, in un reciproco rapporto di scambio culturale.
Le indagini geomorfologiche effettuate nel territorio di Larino hanno evidenziato come questo territorio si sia dimostrato, da sempre, propizio sia per la scelta di insediamenti abitativi sia per la costruzione di tracciati stradali. Infatti le riserve di argilla e, in misura minore, di calcare, presenti in loco, adatte a essere sfruttate nelle fornaci, hanno facilitato nell'antichità la costruzione di opere murarie, unitamente alla presenza di abbondante pietrame di fiume, facilmente reperibile per la vicinanza del Cigno e del Biferno.
Del resto il quadro territoriale dell’antica Frentania, cui Larino apparteneva, rappresentava l’area meno impervia dell’intero Sannio, poiché comprendeva quella fascia collinare (larga circa 30 km.), facilmente percorribile, digradante verso il mare Adriatico, costituita da terreni arenacei ed argillosi che si esaurivano sul litorale stretto e pianeggiante. Compresa fra il Sangro, a nord, ed il Fortore, a sud, la regione frentana si presentava ricca di fiumi provenienti dalle zone appenniniche interne (Sangro, Trigno, Biferno, Fortore) e di corsi d’acqua minori (Foro, Osento, Sinello, Cigno, Saccione, Tona), le cui vallate rappresentavano delle naturali e agevoli vie di comunicazione tra la costa e l’interno. Oltre alla viabilità principale, l’area era anche servita da una serie di percorsi secondari, che costituivano una fitta rete di comunicazioni, nella quale si inserivano insediamenti grandi e piccoli, in grado di collegarsi fra loro agevolmente. Si presume che gli stessi corsi dei fiumi fossero utilizzati come facili vie di collegamento tra la costa e le aree interne, visto che alcune fonti antiche (Livio, Plinio), nel definire portuosum flumen sia il Trigno che il Fortore, lasciano supporre l'esistenza di attività portuali in quel tratto di costa adriatica.
Senza dubbio, quindi, la configurazione morfologica, l’abbondanza di acqua, il clima decisamente mite, la presenza di un diffuso manto boschivo sulle colline, l’ampia rete tratturale, con andamento parallelo alla costa, favorirono la vita e l’economia delle popolazioni locali in epoca preromana, incentivando forme di insediamento e di organizzazione del territorio. Attualmente Larinum è un sito archeologico in provincia di Campobasso, nel Molise, in Italia.
Nel 2016 l'area archeologica ha fatto registrare 1 566 visitatori. L'ingresso è gratuito.
Una sistematica esplorazione archeologica del Sannio è iniziativa relativamente recente, in quanto avviata all'inizio degli anni Settanta del secolo scorso ed incrementata progressivamente nei decenni successivi. Si possiedono le prime notizie di raccolte di materiale preistorico di varia provenienza molisana, attraverso le indagini di superficie svolte a partire dal 1876 ad opera dell'antropologo Giustiniano Nicolucci e del paletnologo Luigi Pigorini. Quest'ultimo scriveva proprio in quell'anno lamentando una grande povertà di notizie sull'età della pietra nella provincia di Molise. Si tratta di otto coltelli provenienti da Larino, un raschiatoio e due coltelli da Casacalenda ed un coltello da Montorio nei Frentani. Attualmente il materiale rinvenuto è conservato in parte presso il Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini di Roma e in parte presso il Museo Antropologico dell'Università Federico II di Napoli.
Successivamente è stato merito della missione britannica dell'Università di Sheffield e dell'èquipe guidata dall'archeologo Graeme Barker, aver condotto una capillare ricognizione di superficie, avviata nel 1974, lungo l'ampia fascia di territorio (pentro e frentano) che costituisce la Valle del Biferno (The Biferno Valley Survey), che dal massiccio del Matese giunge fino al mare, seguendo il corso del Tifernus. Le sistematiche campionature di territorio hanno portato all'individuazione di circa centoventi insediamenti antichi, di varia grandezza, che coprono un periodo che va dal Neolitico al I secolo a.C. L'analisi dei risultati dell'indagine condotta da Barker offre un quadro di un intenso popolamento del territorio frentano gravitante sulla bassa valle del Biferno, ove risulta localizzato il 60% degli insediamenti abitativi individuati. Le scelte insediative sembrano dettate, oltre che dall'esigenza di sfruttamento dei siti più propizi alla coltivazione, anche dall'intenzione di mantenersi in prossimità delle vie naturali di comunicazione.
Grazie all'indagine condotta da Barker, si possiedono le principali informazioni sulla natura degli insediamenti risalenti al Neolitico antico, posizionati lungo la valle del Biferno, in particolare di quello più consistente individuato su Monte Maulo (circa 350 m s.l.m.), un vasto altopiano sotto Larino, che si affaccia sulla bassa valle del Biferno, al margine di un promontorio che dista circa 20 km. dal mare in linea d'aria. L'ispezione del sito, esplorato nel 1978, ha portato al ritrovamento di diverse specie di molluschi e lumache; sono stati recuperati 146 semi carbonizzati, prevalentemente cereali (orzo e grano) e legumi, e numerosi campioni di ossa di animali (bovini, ovini e suini), in gran parte macellati. Lo scavo condotto alla sommità del pendio, tra il terreno arato, ha consentito di recuperare circa 1500 frammenti di ceramica comune, in gran parte decorata, e circa 200 pezzi di selce scheggiata, quasi tutti di una pietra locale di scadente qualità. Le datazioni al radiocarbonio, ottenute in un laboratorio di Oxford, risalgono alla seconda metà del V millennio a.C. La documentazione botanica e faunistica che compare nell'area conferma, pertanto, che nella bassa valle del Biferno le prime comunità agricole erano presenti già nel tardo V millennio a.C. Il sito ha anche restituito tracce di frequentazione umana, costituite da una serie di buche circolari, probabilmente scavate per recuperare selce, riempite di frammenti ceramici, e resti strutturali di capanne neolitiche (argilla pressata con impronte di rami). I dati di Monte Maulo consentono di ricostruire il paleo ambiente di questa esigua parte del Molise; essi confermano che già nel Neolitico antico vigeva un'economia mista di raccolta ed allevamento, con prevalenza della seconda, considerata la varietà dei reperti botanici ritrovati, sia cereali (farro, orzo, avena comune, miglio, grano tenero), sia legumi (fave, piselli, lenticchie), nonché i numerosi resti faunistici, relativi ad animali allevati, macellati e consumati sul posto.
Tra il 1969 ed il 1989 un accurato studio condotto da Eugenio De Felice sull'abitato di Larinum e sul territorio circostante l’antico centro frentano, ha ulteriormente arricchito le nostre conoscenze sulle prime fasi di occupazione di questa area. È stato così possibile individuare alcuni villaggi agricoli di Età Neolitica distribuiti in tutto il territorio, grazie ai numerosi rinvenimenti di frammenti ceramici e resti di industria litica, insediamenti per lo più posizionati sulle alture collinari ed in prossimità di sorgenti di acqua. Materiale ceramico e bronzeo, riferibile alla fine dell'Età del Bronzo – inizio dell'Età del Ferro, è stato rinvenuto in vari punti in località Montarone e Guardiola, due alture che delimitano a sud e a nord l'antico insediamento abitativo di Larino, adatte allo stanziamento di uomini e animali, ben collegate sia al fondovalle del Biferno sia alla pianura del litorale.
Sebbene di antichissima origine, come testimoniano sporadici rinvenimenti risalenti all'età del Bronzo Finale ed alla prima Età del Ferro, della città di Larino le prime significative testimonianze di contesti abitativi partono dal V secolo a.C.; si tratta in prevalenza di nuclei sepolcrali, spesso neppure perfettamente integri, poiché, a causa dell'espansione edilizia e dei massicci sbancamenti effettuati per la costruzione della ferrovia, molto è andato distrutto e ben poco, purtroppo, resta da esplorare.
Anche le testimonianze della fase romana, quella meglio conosciuta, attualmente si presentano in uno stato di estrema frammentarietà. Rivestono anche particolare interesse per la ricostruzione della storia di Larinum le monete ed i testi epigrafici rinvenuti, riferimenti utili anche per una comprensione delle scarse evidenze archeologiche recuperate nelle diverse zone del suo tessuto urbanistico. Comunque questi dati rivelano in modo significativo continuità di vita nella zona già a partire dalle epoche protostoriche.
Fin dall'inizio, nel 1977, i primi saggi di esplorazione archeologica, inizialmente praticati dalla Soprintendenza Beni Archeologici del Molise lungo le pendici meridionali di Monte Arcano (a circa 2 km a nord-ovest rispetto alla Piana San Leonardo), sulle colline che affacciano a nord, hanno accertato la presenza di una necropoli arcaica, risalente al VI secolo a.C. con tombe rettangolari a inumazione, con coperture a tumulo di scheggioni di calcare; il corredo vascolare include quasi costantemente la grossa olla da derrata, vasi di bucchero, di impasto e di ceramica di argilla che imita grossolanamente forme daunie. Esplorazioni condotte anche in altre aree hanno evidenziato, sia pure frammentariamente, la presenza di una stratificazione insediativa di antica origine in tutto l'agro larinate, che copre un arco di tempo piuttosto ampio. Purtroppo nel corso degli anni è stato possibile eseguire le esplorazioni limitatamente alle aree rimaste libere da costruzioni, essendo stata ormai l'intera zona già dal dopoguerra abbondantemente urbanizzata.
Le successive indagini archeologiche, estese ad altri comuni vicini alla zona costiera molisana, hanno rilevato analoga presenza di nuclei sepolcrali, anche di notevoli dimensioni, risalenti alla fase storica preromana, nei centri di Termoli, Guglionesi, Montorio nei Frentani e Campomarino. In quest'ultimo centro, in località Arcora, scavi effettuati a partire dal 1983 hanno riportato alla luce tracce consistenti di un villaggio protostorico, risalente tra l'età del Bronzo Finale e la prima Età del Ferro (IX-VII secolo a.C.), che si estendeva, su un'area di circa quattro ettari, lungo il costone prospiciente il litorale adriatico, difeso naturalmente su due lati da ripide pareti; la zona pianeggiante verso l’entroterra presentava tracce evidenti di strutture di difesa e di recinzione (muro, palizzata e fossato). Le ricognizioni di superficie attestano una continuativa occupazione del sito fino a tutto il V secolo a.C.
Il sito, oltre ai resti parziali delle strutture abitative, ha restituito vistose tracce delle attività svolte dall'uomo: numerosi manufatti di materiale ceramico, vasi e contenitori per la cottura e la conservazione dei prodotti alimentari, utensili ed oggetti di uso domestico, focolari e fornelli. Numerosissimi i resti ossei di animali, sia domestici (bovini e suini) che selvatici (cervo e volpe), con evidenti tracce di macellazione. Notevole la quantità di semi recuperata nel corso dello scavo, sia di legumi, sia di cereali. Una comunità, dunque, con un'organizzazione sociale semplice, che viveva di agricoltura, allevamento, caccia e raccolta di frutti selvatici, nell'ambito di un'economia di sussistenza di tipo domestico.
Tracce di altri insediamenti sono state individuate a nord ed a sud dell’area di Arcora: sembra evidente, pertanto, che il litorale adriatico, dal Biferno al Fortore, sia stato occupato da nuclei abitativi che hanno sfruttato le piattaforme naturali separate dal litorale da costoni ripidi e scoscesi. Queste testimonianze del basso Molise documentano l'esistenza di numerosi agglomerati abitativi sparsi, non grandi, distribuiti su un'area piuttosto estesa e costituiti da comunità prevalentemente a vocazione agricola e pastorale. Tuttora in questa area i secoli tra il VI e il IV a.C. sono noti prevalentemente grazie alla cospicua documentazione archeologica proveniente dalle numerose necropoli, che evidenziano una densa occupazione del territorio. I corredi funerari e gli ornamenti personali dei defunti testimoniano differenziazioni culturali tra i diversi centri: ad esempio, gli insediamenti costieri mostrano aspetti prevalentemente affini alla cultura daunia, al contrario, Larino, paese di frontiera, partecipa anche della cultura occidentale, proveniente dall'area pentra e campana, come dimostra la presenza in alcune sepolture della ceramica di bucchero, del tutto assente nella coeva necropoli di Termoli.
Nel rituale funerario, invece, tutta l'area frentana presenta una sostanziale unità culturale, che la differenzia dalla Daunia, dove, ad esempio, il defunto è abitualmente deposto in posizione rannicchiata, su un fianco, e non supino. Ma al di là di quest'unica diversità, esiste indubbiamente fra le due aree un'uniformità culturale e una sostanziale continuità: tra Daunia e Frentania, pertanto, il promontorio garganico non costituisce un diaframma, tra Tavoliere e costa molisana esiste un'innegabile continuità.
Anche i ritrovamenti monetali, del resto, confermano il quadro di Larino città aperta alle influenze apule e al tempo stesso importante per i collegamenti con il Sannio interno: per questo già a partire dalle fonti antiche si avvertiva una certa difficoltà a inquadrare Larino in un preciso ambito culturale piuttosto che in un altro. Delle varie emissioni di bronzo, ad esempio, alcune seguono il sistema ponderale greco, in uso nelle zecche campane e sannitiche, altre, più recenti, seguono il sistema italico, con frazionamento decimale, tipico delle aree adriatiche.
Nelle necropoli del basso Molise, nel periodo arcaico, le sepolture prevedono abitualmente l'inumazione del defunto, in posizione distesa e supina, dentro fosse scavate nello strato argilloso e riempite di scheggioni di pietra calcarea. È probabile che questi tumuli di pietre affiorassero dall'antico piano di campagna, segnalando la posizione della tomba. Il corredo funerario, deposto ai piedi dell'inumato, in uno spazio appositamente ricavato, è di solito costituito da oggetti di ceramica di piccola forma (coppe, anforette, ciotole e boccali); rari i vasi metallici. Nelle sepolture femminili sono presenti oggetti di ornamento personale (fibule, collane, perle, pendagli, anelli), in quelle maschili armi ed utensili (coltelli di ferro, rasoi e cuspidi di lancia o giavellotto). Sporadicamente sono stati rinvenuti anche elmi di bronzo, alcuni di tipo piceno, altri di tipo appulo-corinzio, che evidentemente servivano a evidenziare il rango sociale dei defunti. I corredi delle sepolture frentane del VI-V secolo a.C. sono di solito più ricchi di materiali rispetto a quelli coevi delle aree interne del Sannio. Essi si rivelano per lo più uniformi per la tipologia dei materiali deposti.
Periodo Italico
Larinum urbs princeps Frentanorum recita un'antica lapide, a sottolineare l'importante ruolo avuto in passato da questa fiorente città del basso Molise, che è stata certamente uno dei centri principali del territorio dei Frentani. Secondo lo storico Giovanni Andrea Tria, con il passare dei secoli, il nome subì numerose modifiche e fu deformato in Alarino, Larina, Laurino, Arino, Lauriano, fino a raggiungere in epoca romana il definitivo toponimo di Larinum.
Secondo un'antica tradizione, ripresa dallo storico Alberto Magliano, la sua fondazione risalirebbe con molta probabilità intorno al XII secolo a.C. per mano degli Etruschi, nel corso delle loro immigrazioni verso le fertili pianure della Puglia; il primo nome della città sarebbe stato Frenter, come si desume da alcune monete ritrovate in agro larinese.
È stata perfino avanzata l’ipotesi che le popolazioni che abitavano l’antica Larinum fossero discendenti degli antichi Liburni, provenienti dalle coste dell'attuale Dalmazia, attraverso l’Adriatico oppure con migrazioni via terra, alla fine dell’età del bronzo.
Una delle tesi più attendibili è quella che i Sanniti discendessero dai Sabini, anche in considerazione del nesso etimologico fra Safinim, Sabinus, Sabellus, Samnis, Samnitis, riconducibili a una comune radice indoeuropea.
In realtà uno dei punti più discussi della storia del Sannio di questi ultimi anni è quello relativo all'etnogenesi dei Sanniti, già in passato oggetto di varie congetture da parte degli antichi.
Secondo le più recenti ricerche della linguistica storica, popolazioni osco-umbre, abbandonate le steppe dell'Europa centro-orientale e valicate le Alpi, penetrarono nella seconda metà del II millennio a.C. nella penisola italica, si attestarono lungo la dorsale appenninica centrale, spingendosi anche a sud, lungo le coste adriatiche e tirreniche e sovrapponendosi alle popolazioni indigene. In seguito, come narra Strabone (V, 4, 12), un’altra popolazione indoeuropea, quella dei Sanniti, affine per lingua e religione agli Osci, sarebbe immigrata nell'area centro meridionale della penisola, al punto che i due gruppi avrebbero finito per coincidere e sovrapporsi, anche se con una variegata differenziazione tribale. Sia le fonti greche che quelle romane individuano nel Sannio le tribù dei Carecini, Caudini, Irpini, Pentri e Frentani, sottolineano che tutte furono fiere avversarie di Roma, anche se forniscono scarse informazioni sulle differenze esistenti fra loro.
È impossibile sapere con certezza da dove provenivano queste popolazioni, quanto erano numerose e fra loro diverse, e in quante ondate giunsero. Si sa però con certezza, in base alle abbondanti evidenze archeologiche, che già nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. tali popolazioni erano stabilmente insediate in quello che sarà storicamente il territorio dei Sanniti. Iscrizioni e documentazioni epigrafiche testimoniano che già nel VI secolo a.C. abitavano nell'Italia centro-meridionale, a sud del Liri e del Sangro, popolazioni tradizionalmente definite di lingua italica, ad esclusione del Lazio, di lingua latina, e della Puglia, di lingua messapica. Si distinguevano popolazioni di lingua osca (Sannio, Campania, Lucania e Bruzio), umbra (nei territori di Gubbio, Assisi, Todi) e sabellica (comprendente Vestini, Marrucini, Peligni, Equi, Marsi, Volsci e Sabini), strettamente imparentate fra loro. Tale situazione rifletteva la progressiva stratificazione cronologica di entità culturali e linguistiche diverse, ma per molti aspetti anche affini.
Già nel IV secolo a.C. le variazioni dialettali, infatti, erano diventate del tutto trascurabili. Molto probabilmente il nome "osco" venne dato alla lingua dei Sanniti proprio perché la lingua degli invasori era molto simile a quella degli Osci le cui terre vennero invase. Nonostante fosse parlato in un’area tanto vasta, di esso non venne fatto uso scritto fino a un’epoca relativamente tarda, circa nel 350 a.C. quando i Sanniti entrarono in contatto con la più sviluppata cultura di Greci ed Etruschi, e cominciarono a regolare i loro scambi con i Romani per iscritto. Le fonti antiche (letterarie, epigrafiche e numismatiche) hanno tramandato tanto la forma osca del nome con il quale i Sanniti si autodefinivano, quanto la forma greca e latina del nome con il quale gli altri popoli li definivano. Sembra che i Sanniti chiamassero la propria regione Safinim e designassero se stessi col nome di Safineis. In latino la regione diventò Samnium e gli abitanti furono appellati Samnites. In lingua greca i Sanniti erano chiamati ∑αυνίται e la loro terra era ∑αυνίτις come attestano Polibio (III, 91, 9) e Strabone (V, 4, 3 e 13).
Discendenti probabilmente da uno stesso antico ceppo, essi presentano in ambito culturale molte analogie (lingua, religione, costumi), ma anche differenze conseguenti alla posizione geografica ed alla morfologia dei rispettivi territori. Mentre il Sannio frentano affaccia sulla costa adriatica, a contatto con popolazioni a vocazione marittima, quello pentro è orientato verso le Mainarde ed il Matese ed è collegato col versante campano. Il primo usufruisce di condizioni materiali che gli consentono un più elevato sviluppo economico e una rapida urbanizzazione, il secondo resta invece ancorato a forme più arcaiche di produzione e solo dopo la guerra sociale raggiunge un diffuso livello di urbanizzazione. Mentre i Pentri, disposti su territorio montuoso, restano legati a una forma di insediamento sparso, con una fitta rete di fortificazioni sulle alture, i Frentani, distribuiti su un territorio pianeggiante, già nel IV secolo a.C. si aggregano in centri urbani, per lo più ubicati sulle vie di antica percorrenza. Saranno tutti ugualmente sottomessi ed alla fine il loro territorio risulterà fortemente ridimensionato e circondato su tutti i lati da città e popoli alleati di Roma.
Si può dire che i Sanniti fanno il loro ingresso nella storia solo a partire dal 354 a.C. quando, venuti a contatto con i Romani per la prima volta, stipulano con loro un patto di non belligeranza (Livio, 7.19.4; Diodoro 16.45.8). Un accordo probabilmente motivato dalla necessità di definire i limiti delle rispettive zone di espansione. Di lì a poco sarebbe iniziato uno scontro feroce e lunghissimo, protratto, sia pure con interruzioni, per oltre cinquanta anni (dal 343 a.C. al 290 a.C.), che si sarebbe concluso con la definitiva sottomissione delle gentes fortissimae Italiae, come definì i Sanniti Plinio il Vecchio (Naturalis Historia III.11.106) e l'inizio di un processo di romanizzazione dell’Italia centro-meridionale. Un'espressione, quella di Plinio, che avvalorava l’immagine di un popolo fiero e bellicoso, il cui valore guerriero venne riconosciuto perfino dai Romani, loro acerrimi nemici, nella lotta per la supremazia sulla penisola italica. Questo carattere aggressivo e rude dei Sanniti, presente già nell'antica tradizione, il loro stile di vita primitivo e selvatico, secondo come li descrive Tito Livio (IX.13.7. montani atque agresti), il riconoscimento del valore guerriero e delle qualità militari, finiranno per influenzare anche la rappresentazione che dei Frentani tramanda l'antica tradizione storica. Infatti, sebbene sia l’unica insediata sulla costa adriatica, anche la tribù dei Frentani, nell'interpretazione erudita di Strabone (V, 4, 29), è collegata alle aree montuose interne, secondo una ricostruzione fatta a posteriori sulla base di esigui dati concreti.
Dopo l’umiliante sconfitta nella battaglia delle Forche Caudine subita nel 321 a.C. i Romani tentarono una serie di alleanze con diverse popolazioni sannite (Livio,X,3,1), seguendo una precisa strategia, quella di disarticolare la solida coscienza nazionale di quel popolo, garantendosi la fedeltà di alcune tribù.
Nel 304 a.C. i Frentani, già debellati nel 319 a.C. dai Romani, chiesero ed ottennero, insieme ad altre tribù, la pace con Roma, stringendo con essa un foedus, un patto di alleanza (Livio, IX, 45, 18) ed ottenendo in cambio maggiori spazi di autonomia. Divennero così, insieme a Marsi, Peligni e Marrucini, socii di Roma, a cui interessava particolarmente mantenere aperti i collegamenti commerciali con l'Apulia. Il trattato avvantaggiò notevolmente i Romani, infatti i Sanniti dovettero rassegnarsi alla perdita di Saticula, Luceria e Teanum Sidicinum, nonché dell'intera valle del Liri, dove già alla fine del IV secolo a.C. i Romani avevano fondato tre colonie latine (Sora, Fregellae e Interamnia), ritrovandosi circondati da civitates foederatae e da popoli alleati di Roma, che rendevano loro difficile poter seriamente minacciare il Lazio. E infatti dopo soli sei anni fu di nuovo guerra, questa volta con il coinvolgimento di Etruschi e Galli.
È probabile che proprio per effetto del trattato la comunità frentana di Larinum abbia ottenuto quello status di autonomia di civitas foederata. Secondo gli storici proprio il conseguimento di questa particolare condizione già all'inizio del III secolo a.C. avrebbe favorito lo sviluppo economico e la precoce urbanizzazione e latinizzazione di Larinum, con il definitivo passaggio dalla primitiva forma di insediamenti rurali sparsi a una forma propriamente urbana.
L’abbandono delle necropoli e dei siti abitativi sparsi coincide con un progressivo distacco dell'ager Larinas dal resto della Frentania, quella situata a ovest del Biferno, che invece conserva l’alfabeto osco e le istituzioni proprie dell’area pentra fino al I secolo a.C. come segno di tenace adesione al proprio carattere di ∑αυνιτικόν έθνος (Strabone, V,4,2), restando una delle zone italiche meno latinizzate.[35]
Proprio questa fase di cambiamento degli assetti territoriali e dell'organizzazione amministrativa avvia un processo di trasformazione dell'economia frentana in direzione di una maggiore dinamicità del sistema economico locale e quindi di un sempre crescente uso della moneta.
Sebbene con una certa approssimazione cronologica, si può ritenere che nel periodo 270-250 a.C. già erano circolanti emissioni monetali sia da parte della città di Larinum che da parte dei Frentani.[36] Per i decenni precedenti, pur essendo attestati numerosi rinvenimenti, non si può comunque ritenere che queste aree fossero a intensa circolazione monetaria. Sulla base dei dati di rinvenimento di scavo, sembra che vi sia stata una discreta penetrazione di moneta “estera” sia nella regione larinate sia nel Sannio interno, proveniente da ambiente campano ed apulo. In realtà solo a partire dagli anni della seconda guerra punica la zecca di Larino cominciò a produrre abbondanti ed articolate serie di monete, seguendo il sistema di frazionamento decimale dell’asse romano, tipico delle città situate sulla fascia adriatica.
Una rara emissione di oboli in argento del IV secolo a.C. con la legenda greca ΣΑΥΝΙΤΑΝ farebbe supporre una fase di unità politica delle genti del Sannio. Per la prima volta compare, al rovescio, la punta di giavellotto (il saunion), all'interno di una corona di alloro, e una testa femminile velata, al diritto. La presenza dell’etnico in caratteri greci, e non in alfabeto osco, ha fatto ipotizzare una provenienza dalla zecca di Taranto, frutto di una probabile alleanza. I dati archeologici in nostro possesso sembrano confermare che il territorio frentano sia stato piuttosto restio all'uso della moneta coniata, sia rispetto al Sannio interno, sia rispetto all'Adriatico settentrionale, iniziando a produrre monete solo dopo la metà del III secolo a.C.
I Frentani, per la propria moneta in bronzo scelgono, come legenda, l'etnico Frentrei in lingua e grafia osca, destrorsa, a sottolineare la propria sfera di autonomia, ed utilizzano tipi di ambiente greco, quali la testa del dio Mercurio, al diritto, ed un Pegaso alato, al rovescio. In base ai ritrovamenti si presume che la circolazione fosse limitata alla regione di provenienza e che tali monete venissero utilizzate come mezzo di scambio in ambiti commerciali assai ristretti.
Larinum invece, ormai già inserita in un circuito di contatti culturali e rapporti commerciali con il mondo campano ed apulo, utilizza una varietà di tipi e legende, iniziando con una serie in bronzo, a legenda greca e tipologia campana, ΛΑΡΙΝΩΝ, con testa di Apollo e Toro dal volto umano, risalente al 270-250 a.C. e passando poi a due tipi con motivi iconografici apuli e campani, con legenda osca ma grafia latina (sinistrorsa), Larinei (moneta emessa a Larino), con testa di Atena elmata e cavallo al galoppo e poi Larinod (moneta emessa da Larino), con testa di Atena elmata e fulmine.
I pochi esemplari noti, pertinenti a queste emissioni, e la mancanza di contesti precisi, non consentono di conoscere con certezza la datazione di questa emissione. Queste prime esperienze monetali di Larino sono considerate di non lunga durata, rimasero in uso per diversi decenni, affiancandosi alla moneta romana, che andava ormai diffondendosi nella regione; la sua area di circolazione restò comunque circoscritta al Sannio ed alla fascia costiera adriatica centro-meridionale, come mezzo di piccolo scambio.
Riguardo ai Frentani, è appena il caso di sottolineare che a lungo è stata considerata incerta la loro appartenenza al gruppo etnico dei Sanniti, messa in dubbio sulla base della documentazione archeologica relativa alla fase arcaica: quanto più emergevano, a seguito delle ricerche, caratteri culturali ed usi rituali che distinguevano questa popolazione dai Sanniti stanziati nelle aree appenniniche interne, tanto più si riproponeva la discussione sulle ampie questioni di etnostoria italica.
Non a caso le stesse fonti antiche (Strabone, Tolomeo, Mela, Plinio) per lo più non concordano sull'estensione territoriale della Frentania e sulla sua delimitazione geografica, ed approssimativa e imprecisa appare anche in esse l’ubicazione geografica dei diversi insediamenti abitativi: evidentemente anche agli occhi degli antichi autori la storia del Sannio appariva estremamente mobile, come un magma in continua modificazione, che in determinate zone si presentava con connotazioni e differenze a volte anche accentuate.
A metà del Settecento anche lo storico Giovanni Andrea Tria annotava “Quanto all'origine dei Frentani, nemmeno convengono gli storici: stimano alcuni che i Frentani provenissero dai Sanniti, altri che provengano dai Liburni, altri dai Sabini, ed altri ancora dagli Etrusci”.
Proprio in base a questa complessa prospettiva di affinità-diversità, il geografo Strabone (V,4,2) considera i Frentani una popolazione etnicamente sannita (∑αυνιτικόν έθνος), ma al tempo stesso la loro regione distinta dal Sannio sotto il profilo culturale. Del resto i Frentani in quasi tutte le fonti antiche sono descritti in una condizione di perifericità rispetto alla regione sannita, in una posizione marginale rispetto all'area centrale appenninica.
Non sono molti i riferimenti degli storici antichi alla vita dei Sanniti, ma gli scavi archeologici stanno restituendo una ricca documentazione sulle loro abitudini quotidiane e sulle loro attività, offrendoci uno spaccato efficace della loro vita quotidiana. Emerge così il ritratto di una popolazione notevolmente diversa da quella che hanno descritto gli storici antichi, preoccupati piuttosto di trasmettere ai posteri una narrazione secondo una versione decisamente favorevole a Roma, magnificando le imprese della loro nazione, rappresentate come una saga eroica.
Descritti dalle fonti antiche come popolazioni rozze e primitive, arroccate sulle montagne, le recenti ricerche hanno invece portato alla luce le testimonianze di un popolo estremamente mobile, capace di relazionarsi ed interagire con diverse popolazioni del Mediterraneo. I dati archeologici attestano l’esistenza di stabili insediamenti, con un'organizzazione socio-economica di tipo semplice, basata su una ridotta specializzazione del lavoro, in cui le attività produttive avevano prevalentemente carattere stagionale. Si tratta di un'organizzazione territoriale caratterizzata da un accentuato frazionamento, vicatim, come afferma Tito Livio (IX,13,7; X,17,2); infatti, nelle zone pianeggianti e collinari, di solito in prossimità dei corsi d’acqua e delle vie di comunicazione, sono presenti villaggi sparsi, di dimensioni ridotte, difesi da fossati o palizzate (il vicus, collegato a pascoli, boschi e terreni coltivati) oppure, nelle aree di montagna, cittadelle fortificate di dimensioni variabili (l'oppidum difeso da breve cinta muraria), posizionate in condizioni strategiche per il controllo del territorio.
In un territorio prevalentemente montuoso, la produzione agricola e l’allevamento di bestiame erano alla base dell'economia sannita, finalizzate a soddisfare i bisogni primari delle comunità; nel Sannio preromano l’allevamento avveniva sia in forma stanziale che transumante, sia pure in scala più ridotta di quanto non avvenne in seguito nel Sannio romanizzato. Tra le attività artigianali era certamente praticata la lavorazione della lana e delle pelli, nonché la produzione di ceramica e di laterizi. Bojano, ad esempio, rappresentava un importante distretto produttivo di tegole, con tanto di marchio di fabbrica.
Non poca importanza rivestiva l’attività guerriera, soprattutto per le popolazioni delle aree interne, che si realizzava in forme di rapina, prelievo forzoso, pedaggio derivante dal controllo militare delle vie di comunicazione, praticati attraverso imboscate, assalti improvvisi, incursioni ed agguati.
Numerose campagne di scavo effettuate in località Monte Vairano (in agro di Busso e Baranello, presso Campobasso, a 998 m s.l.m.) hanno riportato alla luce un abitato fortificato sannitico, risalente al IV secolo a.C. distribuito su un'area di circa 49 ettari, articolato in case, botteghe, luoghi di culto, laboratori di artigiani, ben distribuiti su un complesso tessuto viario, protetto da una lunga cinta muraria (di circa 3 km.), che in alcuni casi supera i due metri di altezza, con relative porte di accesso e torri di guardia. Si tratta di un insediamento di notevole consistenza, che presuppone la presenza di una comunità con una propria organizzazione sociale, che ha elaborato, secondo una logica costruttiva, un piano organico di sistemazione dell’area, delimitata dalle mura. Nei diversi edifici sono stati rinvenuti mortai, anfore, brocche, pesi da telaio, testimonianza efficace di uno spaccato della vita quotidiana di quella popolazione. L’area, abitata già prima delle guerre sannitiche, cessa di essere frequentata verso la metà del I secolo a.C. quando si verificano i crolli degli edifici.
Con il resto del mondo italico, ad esempio, i contatti si evincono dalla presenza di oggetti di bronzo etruschi, legati soprattutto a pratiche cultuali. Stretti erano i rapporti anche con la città di Taranto, ma anche dall'Apulia e dalla Campania giungevano nel Sannio ceramiche di pregio. Contatti economici e commerciali tra i Sanniti e gran parte dell’Italia centro meridionale sono confermati dalle monete provenienti da zecche apule, campane e del Bruzio rinvenute in territorio molisano. Abili esportatori di legname e dei prodotti di allevamento, i Sanniti giungono a occidente fino a Marsiglia e alle isole Baleari, a oriente fino al Bosforo e alle isole Egee, dalle quali importano vino pregiato, come testimoniano le anfore vinarie col marchio di Rodi, Chio e Cnido, ritrovate nelle diverse necropoli molisane. Inoltre armi e cinturoni sannitici, testimonianze della loro attività di mercenarismo, sono stati rinvenuti non solo in Magna Grecia, ma anche in alcune città greche.
A diretto contatto con gli agglomerati abitativi, seppero creare aree sacre di particolare monumentalità, ubicate in luoghi suggestivi e nelle ampie valli, edificate con grande perizia tecnica e ricche di apparati decorativi. Luoghi di culto che testimoniano quanto nel Sannio antico la vita, nella sua quotidiana ordinarietà, fosse costantemente intrisa del sacro, nella vita coniugale, nel lavoro dei campi, nelle ricorrenze religiose, negli eventi luttuosi.
In fondo la storia del Sannio, vista in un lungo periodo, tra l’Età del Ferro e la fine dell’era antica, è la storia di una progressiva evoluzione, con situazioni fortemente diversificate a seconda delle aree geografiche: infatti mentre il centro dell’area sannitica resta più a lungo legato a forme arcaiche (in cui i gruppi dominanti tentano di conservare la struttura di classe, risalente al VII secolo), ai suoi margini la periferia meridionale si accinge al salto di qualità, avviandosi rapidamente verso l'urbanizzazione. Mentre nelle zone sannitiche centro-italiche l’urbanizzazione penetra solo nel I secolo a.C., nella periferia meridionale tra Frentania e Daunia, lo sviluppo economico già nel III secolo a.C. marcia decisamente verso una civiltà urbana. Del resto, anche sul versante tirrenico dell'Italia centro-meridionale il processo di urbanizzazione si attua precocemente, rispetto alle aree interne, ed è strettamente correlato a un avanzato sviluppo economico e sociale, determinato dal contatto con le tendenze innovatrici del mondo greco. Nelle realtà che non ancora conoscono l'urbanizzazione, invece, restano bassi i livelli di produzione e scarso lo sviluppo delle specializzazioni.
Periodo Romano
Già all'inizio del periodo ellenistico, dunque, Larinum sembra aver ormai raggiunta una fisionomia definitiva ed aver acquistato un ruolo preminente rispetto agli altri centri della zona. Alla fertilità del terreno, alla strategica posizione geografica, alla florida attività commerciale ed ai numerosi contatti già avviati con svariati ambienti culturali, Larinum aggiunge adesso, alla pari di altre entità statali, il riconoscimento da parte di Roma della condizione di res publica Larinatium (Livio XXVII,43,10), concessa, naturalmente, in base ai criteri di opportunità geografica e “politica” abitualmente utilizzati dai Romani nella loro attività di urbanizzazione e di controllo amministrativo del territorio.
Ciò favorisce lo svolgimento di un autonomo ruolo amministrativo e l’avvio di un'autonoma monetazione locale in bronzo, nonché la presenza di accentuati caratteri di cultura mista osco-latina, non documentata nella regione a nord del Biferno. Grazie all'ordinamento romano, la città, ormai ricca e popolosa e dotata di leggi e magistrati propri, riesce a produrre anche una rapida trasformazione dell’organizzazione del suo centro urbano ed avviare una concentrazione delle iniziative di investimento di carattere edilizio ed infrastrutturale, nello sforzo di potenziare l’entità urbana. Investimenti che non riguardano solo la spesa pubblica, ma anche quella di origine privata.
Le indagini di scavo condotte negli anni nell'abitato di Piana San Leonardo, sebbene limitate ad aree non molto estese, hanno fatto emergere una realtà insediativa alquanto complessa e cronologicamente articolata, che parte dal periodo arcaico e giunge fino a quello tardo ellenistico, con tracce di acciottolato, di strade lastricate, di pavimentazioni pubbliche, di quartieri artigianali e di abitazione, di un’area sacra (Via Jovine), che evidenziano tecniche edilizie sempre più evolute.
È noto che, con il definitivo ordinamento augusteo, il fiume Biferno divenne il naturale confine tra la Regio IV e la Regio II, tra cui furono divisi i Frentani. Il territorio a ovest del fiume, assegnato alla Regio IV, manteneva la denominazione di Regio Frentana e comprendeva le città di Anxanum (Lanciano), Histonium (Vasto), Hortona (Ortona), Buca (forse Termoli) (Plinio, Naturalis Historia, III, 106). Il territorio a est del Biferno, assegnato alla Regio II, venne di fatto assimilato alla Daunia: comprendeva Cliternia, Teanum Apulum e Larinum, spingendosi fino al Fortore, il flumen portuosum Fertor citato da Plinio (N. Hist. III, 103). Questa fisionomia particolare di Larino le consentì comunque di conservare, nella denominazione ufficiale, memoria della sua pertinenza etnica all’area Frentana: Larinates cognomine Frentani, scrive infatti Plinio (N. Hist. III, 105). Non devono quindi meravigliare le divergenze esistenti fra i testi antichi, in merito all'esatta attribuzione di Larinum a un preciso ambito territoriale. La città, infatti, è citata dal geografo Stefano Bizantino come πόλις Δαυνίων, in Pomponio Mela è soltanto un oppidum della Daunia, per Tolomeo è uno dei principali centri dei Frentani, secondo Plinio il Vecchio è città frentana, ma risulta inserita nella Regio II, che comprende l’Apulia.
Gli scavi sistematici, effettuati a partire dal 1977 a Piana San Leonardo, hanno restituito una sequenza stratigrafica, sia pure solo in aree limitate, molto interessante, ed hanno consentito di individuare, sia pure in maniera discontinua, l’area di estensione della città romana, anche se allo stato attuale non è possibile precisarne con esattezza il perimetro delle mura. Infatti l'espansione edilizia di Larino, verificatasi nel dopoguerra proprio nell'area di Piana San Leonardo per soddisfare le esigenze abitative della comunità, si sovrappone quasi fedelmente all'antico sito, realizzando una rapida e quasi completa urbanizzazione dell’intera area. Tale condizione ha determinato, negli anni successivi, una situazione estremamente problematica sotto il profilo della ricerca archeologica, per cui è stato possibile esplorare esclusivamente quelle poche aree rimaste libere, ubicate tra gli agglomerati edilizi moderni, le sole suscettibili di iniziative di conservazione e valorizzazione di quelle evidenze archeologiche non ancora compromesse dallo sviluppo edilizio.
Le esplorazioni archeologiche a Piana San Leonardo hanno accertato la presenza di insediamenti risalenti alla fine del V secolo a.C. - prima metà del IV secolo a.C. costituiti da acciottolato e resti di muri perimetrali di edifici. Successivamente, su quelli più antichi, furono impostati altri edifici, risalenti alla fine del IV secolo – inizi del III secolo a.C. che adottarono tecniche edilizie più evolute, con muretti a secco, con pietre irregolari e con filari di tegole, oppure legati con malta cementizia. In seguito la zona corrispondente all'attuale Via Jovine venne ad assumere una destinazione sacra: infatti la fase ellenistica (fine III secolo a.C. – inizio II secolo a.C.) è caratterizzata dalla presenza di una grande quantità di materiale votivo, da riferire all'attività di un santuario, da identificare molto probabilmente con un edificio di notevoli dimensioni di cui restano alcuni grossi blocchi di pietra tufacea, ben squadrati. A giudicare dal materiale votivo, l’area era dedicata a una divinità femminile, molto probabilmente Afrodite: infatti numerose sono le statuette di terracotta che raffigurano la dea. Il tempio della dea è stato parzialmente riconosciuto in una struttura di blocchi calcarei, cui viene affiancata, intorno al II secolo a.C. un'aula rettangolare pavimentata a mosaico, che forma un motivo a reticolo. In questa fase, sia pure limitatamente ad alcuni settori della città, si adottano, solo per edifici di maggiore consistenza, blocchi tufacei ben squadrati, che saranno impiegati per lungo tempo. La zona adiacente al tempio fu adibita, per tutto il periodo di funzionamento del santuario, ad area di scarico del materiale votivo, che si presenta sparso in tutta la zona. Inoltre, limitatamente ad alcune zone, l’area fu adibita anche a sacrifici particolari, come dimostra la presenza di mucchi di ciottoli disposti a piramide, frammisti a carboni, statuette fittili e statuette votive.
Gli oggetti votivi comprendono materiale ceramico, statuette fittili e di bronzo, e molte monete, tra cui un gruzzolo di ventidue, nascosto in un vasetto di terracotta, che forma un vero e proprio tesoretto, risalente alla metà del II secolo a.C. Ma l’elemento più caratterizzante del deposito votivo può essere considerato senz'altro la coroplastica di piccole dimensioni: si tratta di statuette eseguite a stampo, che quindi si presentano cave internamente e per lo più di argilla omogenea. La parte anteriore è più accurata nei particolari, quella posteriore è solo appena abbozzata e di fattura grossolana; le teste, eseguite a tutto tondo, servendosi di due matrici, sono state di solito create a parte e poi applicate alla base del collo. Tra i diversi tipi attestati a Larino, prevalgono le figure femminili panneggiate, secondo lo stile attico che si diffuse rapidamente in tutto i mondo ellenistico fino al I secolo a.C.
La presenza di queste statuette costituisce un interessante documento per comprendere le diverse direttrici di diffusione di motivi culturali iconografici ellenistici provenienti da Taranto e dall'area magno greca in genere e diretti non solo verso la Campania e il Lazio, ma anche verso le regioni medio - adriatiche. Si conferma così il ruolo rilevante svolto dalla città per la diffusione di questi e di altri prodotti in vaste aree del centro Italia.
Un'altra delle aree più ampiamente esplorate è quella in località Torre Sant'Anna, che conobbe lunga vita, attraversando varie fasi. Inizialmente vi si trovava una raffinata domus, realizzata intorno al III-II secolo a.C. di cui sopravvivono l’atrio, pavimentato in ciottoli policromi, ed alcuni ambienti circostanti. La ricchezza dell’edificio è testimoniata dalla presenza di un ampio impluvium con una pavimentazione in mosaico policromo, raffigurante al centro un polpo ed agli angoli quattro cernie.
Ma la vita della domus venne bruscamente interrotta per sopravvenute esigenze pubbliche. La zona, infatti, fu destinata a ospitare un’area pubblica, con edifici monumentali, tra cui il foro, una grande struttura, a pianta quadrangolare, realizzata in opus mixtum di reticolato e laterizi. L’edificio si articolava in una serie di esedre, con abside centrale, che si aprivano su un ambiente interno porticato. Alle spalle, con accesso a est, si conservano i tratti murari in laterizio di un altro edificio con pronao, forse originariamente rivestito all'interno con marmi e pavimentazione in mosaico, del quale si ipotizza una destinazione sacra, forse il tempio di Marte al quale allude Cicerone, quando riferisce della presenza a Larino dei Martiales, schiavi pubblici, consacrati al culto del dio secondo antiche tradizioni religiose.
Una terza area di Piana San Leonardo sottratta alla proliferazione edilizia è quella compresa tra l’asilo nido ed il Tribunale Civile, dove è venuto alla luce, inspiegabilmente, un settore urbano con strada lastricata e marciapiedi, lungo la quale si evidenziano da un lato edifici abitativi e dall'altro edifici artigianali. Inspiegabilmente, perché si tratta di un’area piuttosto decentrata rispetto a quello che si credeva il limite dell’antica città. Alcuni ambienti destinati ad abitazioni conservano ancora pavimentazioni in mosaico e in cocciopisto; la parte artigianale, sebbene in condizioni peggiori, conserva vasche, pavimenti in cocciopisto e canalette di deflusso.[56]
Nel 91 a.C. scoppia la guerra sociale: è l’ultima sfida contro Roma da parte dei popoli italici. Anche i Sanniti insorgono per ottenere a pieno diritto la cittadinanza romana, e costituiscono, insieme alle altre popolazioni, la Lega Italica; rappresentano, nello schieramento degli insorti, l’elemento più forte e determinato. Di fronte agli iniziali successi dei ribelli, Roma reagisce promulgando alcune leggi (la lex Julia e la lex Plautia Papiria) che concedono la cittadinanza romana a tutte le popolazioni italiche che in quel momento non sono in armi o che sono disposte a deporle. L’iniziativa ribalta la situazione a favore di Roma dal momento che buona parte dei ribelli accoglie la proposta. Le lunghe guerre avevano ormai fiaccato le resistenze italiche ed il sopravvento di Roma era diventato inevitabile. La concessione della cittadinanza consente ai Romani di organizzare l’assetto territoriale mediante la fondazione di municipia, non solo sedi del potere amministrativo ma anche centri organizzativi delle attività produttive, artigianali, agricole, edilizie e commerciali. La municipalizzazione non ebbe subito vita facile, perché venne a scontrarsi con il sistema italico, tradizionalmente legato a un'economia agricolo-pastorale che si esprimeva in una forma di insediamento sparso. Col tempo anche il Sannio si adeguò al sistema municipale romano, preludio a una completa romanizzazione del territorio: nell'area molisana sorsero municipi a Isernia, Venafro, Trivento, Bojano, Sepino e Larino, secondo le necessità organizzative del potere centrale. Nello stesso periodo scompaiono le testimonianze di vita in quasi tutti i santuari sannitici.
I Sanniti, ribelli nella guerra sociale, non avevano comunque dimenticato l’opposizione dimostrata da Lucio Cornelio Silla alla loro ammissione alla cittadinanza romana: allo scoppio della guerra civile, quindi, non esitarono a schierarsi con Gaio Mario. Quando Silla rientrò dall'Oriente nell'anno 83 a.C. decise che avrebbe combattuto l’ultima delle guerre sannitiche. La sanguinosa battaglia di Porta Collina (82 a.C.) fu per i Sanniti la loro ultima grande battaglia: colpevoli di aver appoggiato i populares di Mario, dovettero fare i conti con la spietata vendetta del vincitore, che si accanì in modo particolare contro di loro, convinto, come narra Strabone (V ,4, 11), che nessun romano sarebbe stato al sicuro finché fosse esistita una comunità sannita organizzata.
La sconfitta segna la fine dei Sanniti come entità statale, dotata di una propria identità, di istituzioni, lingua e religione proprie. Mai più avrebbero svolto un ruolo nello stato romano, confinati nell'oscurità ed ampiamente ignorati. Da quel momento i Romani non sentirono in alcun modo la necessità di riconciliarsi con loro ed avviarono un lento processo di denazionalizzazione del Sannio. Larghi tratti di territorio vennero confiscati e distribuiti ai veterani; quelli non assegnati divennero ager publicus a disposizione degli allevatori. Perfino la lingua osca fu declassata a dialetto contadino, lasciando completamente il posto al latino. Già alla fine del I secolo d.C. una larga percentuale della popolazione del Sannio non doveva più essere sannita.
Non è certo un caso se, anche a distanza di tempo, ben pochi furono i Sanniti che occuparono gli alti comandi dell’esercito, ed anche in campo politico pochissimi rivestirono cariche ufficiali di alto rango o riuscirono a sedere nel Senato romano.
Anche se le più antiche fasi della storia di Larino sono affidate ai risultati della ricerca archeologica, si dispone oggi di una sola, ma autorevolissima fonte antica, Cicerone, per avere una testimonianza di quella che poteva essere, nel I secolo a.C. la vita di una città di provincia come Larino, negli anni immediatamente successivi al bellum sociale, un affresco, certamente lacunoso, della società locale proiettata nell'ambito dei ben più ampi avvenimenti dell'Italia del tempo.
Nel 66 a.C. Cicerone, quarantenne, pronunciò a Roma, davanti al tribunale penale un'orazione in difesa del larinate Aulo Cluenzio Avito (la celebre Pro Cluentio), un aristocratico di rango equestre, uomo di "antica nobiltà", accusato dalla madre Sassia di tentato omicidio del patrigno Stazio Oppianico e del tentativo di corruzione dei giudici del processo.
Per attestare la loro stima all'amico e testimoniare a suo favore, giunsero a Roma non solo i più nobili cittadini dei Frentani, dei Marrucini e dei Sanniti dell’interno, ma anche equites romani provenienti da Lucera e da Teano Apulo. Si trattò senza dubbio di un processo molto “chiacchierato”, poiché i Cluentii appartenevano al rango equestre ed erano una delle famiglie più facoltose ed in vista della città. Nel tempo in cui si svolgono i fatti descritti da Cicerone, Larino è ormai diventata una città operosa, ricca e vivace: ha attraversato diversi assetti urbanistici, vi si organizzano feste e giochi pubblici, si tengono mercati, si intrecciano intensi traffici commerciali, grazie ai rapidi ed agevoli collegamenti viari. Nel corso della recente guerra sociale il partito popolare ha combattuto al fianco degli italici, quello conservatore, di antica nobiltà, si è schierato a favore di Silla. La città è stata dilaniata da lotte interne e violenti disordini, scontri tra le due avverse fazioni, che hanno fatto ricorso con spregiudicatezza a ogni mezzo pur di contendere il potere politico all'avversario. È il clima che ormai caratterizza la crisi del regime repubblicano dell'ultimo secolo a.C.
L’orazione offre a Cicerone spunti per descrivere, anche solo incidentalmente, i costumi e il tenore di vita delle famiglie aristocratiche di Larino, molte delle quali in stretto rapporto di amicizia e di affari con senatori e personaggi di rilievo della capitale, dove sicuramente si recavano con notevole frequenza. Famiglie abituate a vivere nel lusso e negli agi, che ricavavano i propri profitti dagli affari, dalla pastorizia e dalle attività agricole (negotia, res pecuariae, praedia).[59]
Si sa pochissimo delle vicende di Larino in età tardo imperiale: sicuramente l’area era ancora abitata nel IV secolo d.C. epoca a cui si datano le circa seimila monete di bronzo rinvenute casualmente in località Lagoluppoli, forse nei pressi di un’antica strada, ormai scomparsa, che da Larino proseguiva verso Rotello ed i mosaici rinvenuti nei vecchi scavi, che attestano la vitalità del centro abitato. Certamente anche Larino fu colpita dal terribile terremoto del 346 d.C. che devastò l’intero Sannio, come dimostrano le iscrizioni relative agli interventi su edifici pubblici restaurati a cura dello Stato. Proprio da Larino proviene un'iscrizione relativa ad Autonius Iustinianus, primo governatore della Provincia Samnii, da poco istituita, che si occupò in particolare della disastrosa situazione di Isernia. Il Sannio, infatti, dopo essere stato accorpato alla Campania, verso la fine del III secolo d.C., con il profondo riordinamento amministrativo dell’Impero promosso da Diocleziano, diventa nuovamente provincia autonoma verso la metà del IV secolo d.C. conservando inalterata la sua unità territoriale fino alla fine del VI secolo d.C. quando, con l’avvento dei Longobardi, perderà definitivamente la propria autonomia amministrativa.
In età alto medievale tutto il sito di Piana San Leonardo era già probabilmente in stato di abbandono, oggetto di sistematiche spoliazioni di materiali lapidei, utilizzati per la costruzione delle abitazioni del centro medievale, più a valle; in particolare furono asportate le parti in laterizio dell'anfiteatro che, ormai non più in uso, venne adibito occasionalmente per sepolture e fu anche utilizzato per ricoveri di fortuna in alcuni spazi dell'anello superiore della cavea; nella rampa della porta est funzionò fino all'inizio dell'VIII secolo d.C. una fornace per calce.
Urbanistica
Nonostante gli innumerevoli scavi e saggi archeologici eseguiti in questi ultimi decenni in zone diverse del suo tessuto urbano, è ancora oggi difficile dire con precisione dove e quanto si estendesse la città: è presumibile, soprattutto in base alle evidenze archeologiche, che occupasse un’area, per così dire, a forma di ala di uccello, con al vertice l’anfiteatro (ubicato, quindi, un poco ai margini del paese) ed i due bracci disposti l’uno verso la collina del Montarone (la zona attualmente più invasa dall'edilizia moderna) e l’altro verso Torre Sant'Anna (presumibilmente l'area della città romana più ricca di edifici pubblici e privati).
Tale conformazione urbanistica fu certamente condizionata dal particolare andamento declinante del terreno e dalla preesistenza di percorsi viari di collegamento, che determinarono la scelta dei siti abitativi. Certamente un'antica strada collegava Torre Sant'Anna con il fondovalle del Biferno, così come la strada attuale verso il Montarone svolge, come allora, funzione di collegamento con la Piana di Larino e la costa adriatica. Un terzo braccio stradale, sopravvissuto fino ad oggi, è quello che dall'anfiteatro si dirige verso l’interno, in direzione di Casacalenda, dove sorgeva la necropoli romana, come è testimoniato dalle numerose epigrafi e lapidi funerarie rinvenute alla fine dell’Ottocento, quando fu costruita l'attuale stazione ferroviaria.
Anche se nell'ambito dell’area frentana Larino è la città meglio nota, grazie ai ruderi rimasti parzialmente sempre fuori terra e grazie ai risultati delle recenti ricerche archeologiche, gradualmente sempre più estese, bisogna dire che solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento fu esteso un primo vincolo archeologico alle aree immediatamente adiacenti all'anfiteatro, già abbondantemente urbanizzate. Dagli anni Settanta l’Amministrazione comunale, in concomitanza con l’istituzione della Soprintendenza archeologica del Molise, ha affrontato in modo costruttivo il problema relativo alla tutela di quelle aree ancora libere da costruzioni, condizionando la destinazione delle particelle, che sono state in tal modo risparmiate dallo sviluppo edilizio. Non essendo ormai più praticabile l'attuazione di interventi di esproprio, è stato possibile procedere all'esplorazione archeologica soltanto in quelle zone rimaste libere, realizzando, dove necessario, interventi di restauro e di conservazione nelle aree dove sono state rinvenute evidenze archeologiche (mosaici, lastricati, manufatti).
Tutte le strutture rinvenute negli ultimi trenta anni, sebbene immerse tra gli agglomerati edilizi moderni, sono state sottoposte a consolidamento e restauro: i mosaici, in particolare, sono stati collocati su specifici supporti, posizionati in situ in modo da poter essere asportati, se necessario, in qualsiasi momento. È stata comunque assicurata a ogni manufatto la dovuta protezione, per rallentarne il processo di disgregazione, lasciandolo comunque pienamente fruibile. Infatti tra la possibilità di asportare un mosaico per esporlo nella sala di un museo e quella di lasciarlo nel sito originario, dopo accurata operazione di restauro, si è prevalentemente preferita questa seconda soluzione, per l’esigenza di restituire al manufatto la sua più completa leggibilità, conservandolo nell'ambiente originario.
L'anfiteatro romano

Con i suoi ruderi, rimasti sempre parzialmente affioranti, l’anfiteatro è certamente il monumento antico più celebre di Larino, anzi, senza dubbio, rappresenta da sempre il simbolo della città. Negli ultimi decenni, purtroppo, l’area è stata interessata da un'intensiva urbanizzazione, in quanto adiacente alla ferrovia ed alla strada statale.
Cicerone riferisce (Pro Cluentio, IX, 27) che a Larino, già molto prima di disporre di un anfiteatro stabile, erano abitualmente praticati in città giochi pubblici e spettacoli (ludi). È probabile che, come avveniva anche a Roma, si utilizzassero strutture lignee mobili oppure ci si servisse, come avveniva a Sepino, degli spazi del Foro. Progettato per essere inserito nel contesto urbano, all'epoca già ben definito, venne edificato in un’area marginale, già da tempo occupata, sul margine occidentale della Piana San Leonardo, su una scarpata che degrada verso ovest, alla periferia della città ellenistica e romana. Per edificarlo fu necessario dare corso a uno sbancamento nella parte meridionale dell’abitato, sacrificando gli edifici e le strade che già occupavano l’area. Diverse testimonianze archeologiche (tre brevi tratti di muratura a secco, due residui di acciottolato stradale a spina di pesce), ben anteriori alla sua costruzione, perché risalenti al periodo VI – III secolo a.C., hanno confermato l’utilizzazione dell’area in un’epoca precedente alla costruzione dell’anfiteatro. Unici resti del precedente abitato, raso al suolo in occasione della realizzazione della cavea.
Purtroppo nessun cenno del monumento si trova nelle fonti antiche, né è pervenuto alcun elemento relativo agli spettacoli organizzati, come è invece documentato per l’anfiteatro di Venafro.[64] Risulta invece variamente citato dagli storici locali (Tria, Caraba e Magliano): si tratta per lo più di riferimenti sommari, a volte anche scarsamente attendibili, che di solito evidenziano, già agli inizi del secolo XVIII, lo stato di abbandono del monumento, sottoposto a continue spoliazioni. Fra tutti è il Tria che si dilunga a descrivere l’anfiteatro con molti dettagli, dedicandogli numerose pagine: si sofferma in confronti con altri celebri anfiteatri romani, sostiene che l’arena avesse forma circolare ed affronta anche il problema della sua datazione. Allegati al testo, i disegni di Pietro Torelli (pianta e veduta prospettica) illustrano il monumento, anche se offrono una ricostruzione poco attendibile dell’intero edificio. L’opera del Tria è stata assunta come indiscussa fonte di riferimento dalla maggior parte degli scrittori successivi, fino a tempi piuttosto recenti. Scientificamente più interessanti e corrette risultano invece le indicazioni e le descrizioni fornite nel 1851 da Ambrogio Caraba ed i disegni, da lui stesso delineati, contenenti la pianta e la veduta prospettica dell’edificio, questa volta in forma ellittica. I dati di scavo successivi hanno confermato la bontà delle sue misurazioni e ricostruzioni, basate su riscontri diretti, come afferma lo stesso Caraba.
Magliano nella descrizione del monumento segue le indicazioni del Tria e avvalora l’ipotesi che l’anfiteatro fosse di forma circolare (la forma apparentemente ellittica era dovuta, a suo giudizio, a un effetto ottico).
Edificato nell'ultimo ventennio del I secolo d.C. per volontà testamentaria di L. Capitone, personaggio appartenente al rango senatorio, come è attestato da un'iscrizione, sia pure frammentaria, originariamente posta a coronamento della porta occidentale dello stesso anfiteatro, l’edificio era destinato ai combattimenti gladiatori, e rappresentò uno degli esempi di rinnovamento edilizio che interessò tutto l’impero romano, subito dopo la fastosa inaugurazione a Roma dell’anfiteatro Flavio: all'epoca furono molti i personaggi di alto rango che decisero di finanziare la costruzione di simili edifici.
Tra quelli noti del mondo antico, quello di Larino è un anfiteatro a pianta ellittica di medie dimensioni, simile per dimensioni a quelli di Luceria oppure di Alba Fucens, ma molto più modesto di quello di Capua. Pur non grandissimo, presenta all'esterno un asse maggiore di m. 97,80 (con orientamento nord-sud) ed uno minore di m. 80 (con orientamento est-ovest) ed un’arena di m. 59,40 x m. 41,60. Con una superficie complessiva di oltre seimila metri quadrati, poteva agevolmente ospitare quasi undicimila spettatori. Nulla si sa delle manifestazioni allestite in occasione dell'inaugurazione, avvenuta sotto l’imperatore Tito. Dalla presenza di alcuni elementi tecnici, si ipotizza che la struttura dell’edificio potesse essere adattata all'occorrenza anche per spettacoli teatrali (a quanto è dato sapere, un teatro mancava a Larino) oppure per spettacoli circensi.
A differenza di altri edifici del genere interamente costruiti in elevato, l’anfiteatro di Larino si presenta con una struttura mista: l’arena e l’ima cavea risultano scavate direttamente nello strato di arenaria, piuttosto friabile, invece gli ordini superiori sono stati costruiti in elevato, utilizzando strutture murarie che, sebbene di dimensioni diverse, presentano condizioni strutturali simili. Il procedimento utilizzato per la costruzione è quello tipico romano, con murature a sacco, riempite con opus caementicium, un composto cementizio fatto di malta e pietrame grezzo misto a ghiaia, che garantisce compattezza e solidità. Il paramento murario esterno è in opus reticulatum, con blocchetti in pietra a base quadrata, di forma piramidale, di fattura irregolare, con la punta inserita nel cementizio e disposti in diagonale a formare un reticolo. Le indagini eseguite sui materiali hanno evidenziato che sono stati utilizzati ciottoli calcarei e pietrame tufaceo di provenienza locale, non della migliore qualità; anche le malte risultano di mediocre fattura, ma nel complesso il manufatto evidenzia buona capacità costruttiva e buona conoscenza delle tecniche edilizie.
Il piano dell’arena risulta convesso al centro, in modo da consentire lo scolo delle acque nell’euripo, un apposito canale che circonda l’arena, profondo circa cm. 40 e largo cm. 32, realizzato con conci di pietra calcarea ben lavorati. Nell’arena si accede attraverso quattro porte d’ingresso, le due che si aprono in corrispondenza dell’asse maggiore sono molto ampie, per consentire l’ingresso “trionfale” di personaggi importanti o gladiatori vittoriosi, ricoperte da volte a botte, quelle costruite sull'asse minore sono più strette e sono provviste di gradini. Quasi al centro dell’arena, spostata verso il settore est, è scavata nel tufo una fossa rettangolare, profonda quasi cinque metri, di circa m. 7,50 x m. 5,50, che presenta sul lato minore una rampa di accesso all’arena larga circa m. 1,50. Sul fondo della fossa sono stati ritrovati dei massi di pietra, provvisti di un gancio centrale: si tratta quasi certamente di contrappesi utilizzati per il funzionamento di un montacarichi, per sollevare sul piano dell’arena le gabbie degli animali feroci durante gli spettacoli gladiatori. L’arena è delimitata, lungo tutto il perimetro, dal muro di sostegno del podio, alto due metri e rivestito con pesanti lastre di calcare, che presentano il bordo superiore arrotondato, che fungeva da parapetto del podio, e provvisto di fori per il sostegno della rete di protezione per gli spettatori. In corrispondenza delle due porte principali, nel muro del podio si aprono quattro porte di accesso a quattro piccoli ambienti, gli spoliaria, dove venivano prestate le prime cure ai gladiatori feriti o venivano deposti momentaneamente i corpi di quelli uccisi in combattimento. A questi ambienti si accedeva, oltre che dall'arena, anche dalle porte principali.
«(Larino) Su le rovine dell'anfiteatro. Questo rudere insigne ammonisce che un popolo decaduto non è indegno dell'antica grandezza finché serbi fede alle virtù che resero grandi i suoi padri.»
(Epigrafe di Mario Rapisardi)
Gli scavi non hanno restituito resti delle gradinate dei diversi settori. Si ipotizza che i gradini del podio fossero tre, oltre i quali iniziava il livello superiore, quello della ima cavea, che, secondo le regole descritte da Vitruvio, doveva avere un numero di gradini doppio di quelli del podio. Il settore superiore, la media cavea, era ancora più ampio, forse di dieci gradini.
L’ultimo settore, quella della summa cavea, corrispondeva probabilmente all'attico sovrastante l’ambulacro, al quale si accedeva attraverso delle rampe esterne, addossate al muro perimetrale dell’anfiteatro. È probabile che per alleggerire la struttura dell’edificio le ultime gradinate destinate al pubblico fossero realizzate in legno. La buona visibilità era assicurata a tutti gli spettatori non solo dalla forma ellittica della struttura, ma anche dalla pendenza delle gradinate che aumentava di settore in settore, a mano a mano che ci si allontanava dall'arena, secondo precise regole costruttive.
L’accesso ai settori era rigidamente disciplinato, per questo ciascun settore aveva ingressi indipendenti. I nobili accedevano al podio direttamente dalle quattro porte di accesso all’arena. Ai due settori superiori si accedeva dall'ambulacro, una galleria coperta da una volta a botte, che correva lungo tutto il perimetro dell’anfiteatro e che presentava sulla parete esterna una serie di arcate a tutto sesto e sulla parete interna dei corridoi di accesso alle gradinate della cavea, i vomitoria, forse in numero di dodici. L’accesso al livello dell’attico era assicurato da rampe esterne, addossate all'edificio, probabilmente una per ciascun settore dell'anfiteatro.
Il pubblico che assisteva ai giochi apparteneva a tutte le classi sociali, ma ciascuno accedeva al settore riservato al suo specifico rango sociale. Al podio potevano accedere solo le autorità civili e militari, gli ospiti d’onore, le personalità di rilievo con le loro famiglie. Le successive sei gradinate erano riservate ai cavalieri, mentre gli spettatori di rango sociale non elevato accedevano al settore superiore, composto da dieci gradinate. Il popolo di condizione modesta e gli schiavi occupavano le gradinate più in alto, nella summa cavea. Attualmente i resti della parte in elevato sono limitati ai ruderi dell’ambulacro e del muro esterno in corrispondenza della porta nord e ad alcuni brevi tratti di muratura negli altri settori, mentre quelli del settore sud-ovest sono stati inglobati nella costruzione del villino Calvitti.
Già nel 1962 i ruderi subirono un primo intervento di parziale consolidamento. Solo nel 1978 fu avviato un primo intervento di scavo, in attuazione di un programma straordinario predisposto dalla Soprintendenza Archeologica del Molise e dal Comune di Larino. Le indagini di scavo vennero condotte dalla dott.ssa Anna Rastrelli e si concentrarono sulla parte orientale dell’arena. Negli anni 1981-1982 l’anfiteatro è stato di nuovo parzialmente esplorato, grazie a un progetto finanziato dalla Regione Molise, sia pure limitatamente alla metà orientale del monumento. Già i primi interventi evidenziarono la sistematica spoliazione dei materiali lapidei e dello stesso tufo effettuata nel corso dei secoli ai danni dell’anfiteatro, cosa che rendeva impossibile effettuare scavi stratigrafici nell'area interna, che risultava irrimediabilmente manomessa. Ma anche l’area esterna, ugualmente non ancora esplorata, appariva praticamente irrecuperabile, a seguito di una serie di interventi che avevano “inquinato” l’intera zona: la costruzione della strada statale n. 87, a nord-ovest, l’edificio dell’Enel a nord, una serie di case private lungo il perimetro nord-est, la presenza del villino Calvitti a sud-ovest, lungo il percorso dell’ambulacro.
Fin dall'epoca del suo definitivo disuso, nel corso dei secoli l’edificio è stato sottoposto a continue spoliazioni; inoltre già dalla tarda antichità alcune parti della struttura, specialmente nel settore nord-est, furono riutilizzate: qui l’ambulacro risulta chiuso trasversalmente da muretti che delimitano degli ambienti; in questo settore venne poi realizzata una fornace per laterizi, mentre nella rampa della porta est funzionò una fornace per calce già anteriormente all’VIII secolo d.C. Inoltre nel settore nord-est, in corrispondenza di alcuni pilastri, in epoca alto medioevale furono messe in opera alcune sepolture. In realtà, già a partire dalla campagna di scavo condotta nel sito nel 1987-1988 è emersa la presenza di numerose sepolture, dislocate in vari settori dell’anfiteatro, appartenenti ad ambiti cronologici sia anteriori che posteriori alla sua costruzione.
Durante un saggio di scavo effettuato nel settore nord-ovest della cavea, a ridosso della massicciata di tufo presente su tutta la metà occidentale, sono state rinvenute due sepolture risalenti al periodo arcaico (VI secolo a.C.), che hanno confermato l’uso, già documentato altrove, di seppellire nel centro abitato. Si tratta di due fosse rettangolari, ricavate nel tufo, sfruttando la naturale pendenza del terreno e ricoperte con una copertura piana di blocchetti tufacei. In entrambe gli inumati (uno è una bambina) sono disposti supini, a diretto contatto col terreno, gli scheletri risultano gravemente danneggiati. Molto poveri i corredi funerari.
Più interessanti le sepolture di epoca alto medievale, rinvenute nel settore di nord-ovest, nei pressi del primo vomitorio. Sebbene abbastanza danneggiate, le sepolture hanno restituito, in alcuni casi, corredi funebri interessanti, costituiti prevalentemente da oggetti personali, orecchini e spilloni di bronzo, fibule e armille in ferro, rasoi, coltelli e pettini. Si tratta di fosse di forma irregolare, ricavate nel tufo, prive di riempimento, ricoperte con tegoloni e coppi oppure con lastre di calcare, contenenti scheletri disposti in posizione supina, spesso danneggiati ed in cattivo stato di conservazione. La prassi del riutilizzo in epoca alto medievale dei siti romani ormai in disuso doveva essere abbastanza frequente, come è già testimoniato nel teatro di Saepinum.
Le terme

Nelle immediate vicinanze dell’anfiteatro, ma sempre all'interno dell’attuale parco archeologico, è possibile ammirare i resti delle sontuose terme, ricche di mosaici policromi, con rappresentazioni di animali fantastici e marini, e di figure geometriche; attualmente è possibile visitare due vasche destinate ai bagni in acqua calda, tiepida e fredda (calidarium, tepidarium, frigidarium), il vano in cui si produceva con il fuoco il riscaldamento dell’acqua (praefurnium), un vano con le suspensurae (cioè con le colonnine che reggevano il pavimento rialzato in cui passava l’aria calda), un grande pilastro pertinente ai portici, un accurato sistema di scarico delle acque, costituito da una poderosa fognatura, coperta da tegole disposte a cappuccina. La particolarità di questo ritrovamento archeologico è che esso conserva ancora l’impianto dell’ipocausto, cioè degli ambienti sotterranei in cui erano ubicati i forni ed altri locali di servizio. Si è provveduto ad assicurare una dovuta protezione a quanto è stato portato alla luce, mediante l'installazione di un'opportuna struttura di copertura; inoltre una passerella metallica consente di visionare il mosaico dall'alto senza calpestarlo.
Il foro

Nell'area di scavo di Torre Sant'Anna è stato identificato il lato orientale del Foro, con i suoi edifici monumentali: in questo settore urbano si concentrano, ben visibili, varie fasi. La prima, risalente al III – II secolo a.C., non prevede ancora la destinazione pubblica; vi si trova ubicata, infatti, una grande e raffinata domus, della quale sopravvivono l’atrio pavimentato in ciottoli policromi dimezzati ed alcuni degli ambienti che si distribuivano intorno all'atrio ed ai lati dell'ampio corridoio di accesso. Oltre alla pavimentazione dell'atrio, la particolarità è data anche dalla presenza di un ampio impluvium il cui pavimento in mosaico policromo raffigura al centro un polpo ed agli angoli quattro cernie, con un’ampia fascia marginale con tralci e grappoli d’uva.
Questa parte della città antica conobbe due successive fasi edilizie: dopo la sua costruzione, avvenuta tra la seconda metà del II secolo a.C. e la prima metà del I secolo a.C., fu pesantemente ristrutturata nel IV secolo d.C., quando il governatore della Provincia Samnii, appena istituita, dovette avviare i restauri, dopo il disastroso terremoto che colpì la zona nell'anno 346 d.C.. La vita della città continuò anche successivamente, ma in modo stentato: lentamente gli edifici, ormai abbandonati, cominciarono a essere oggetto di sistematiche spoliazioni, per un riuso dei materiali. Qua e là, probabilmente, spuntarono modeste casupole, costruite con materiali di spoglio.
Le domus
La domus ubicata vicino al Foro, per dimensioni, ricchezza decorativa, impegno economico profuso nella sua realizzazione, certamente apparteneva a una delle famiglie dell'aristocrazia agraria larinese, la cui ascesa, iniziata nel III secolo a.C. proseguirà senza interruzione. Difatti, agli inizi del I secolo a.C. la domus subì dei rifacimenti nell'area dell’impluvio e modificazioni dello stato precedente. Poi, dopo circa un secolo, la sua vita fu interrotta bruscamente per sopravvenute esigenze pubbliche: infatti, la zona fu destinata a ospitare edifici monumentali, che delimitavano il lato orientale del Foro, posizionati su una grande struttura a pianta quadrangolare, realizzata in opera reticolata e laterizi. Il lato che dava sul Foro si apriva sui portici mediante tre vani, quello opposto si articolava in una serie di esedre con abside centrale, che a loro volta si aprivano su uno spazio interno porticato.
Alle spalle, con accesso a est, si trova un altro edificio con pronao, originariamente rivestito all'interno con marmi pregiati e con pavimento in mosaico; di esso si conservano oggi, fino a notevole altezza, i tratti murari in laterizio. Si ipotizza che questo edificio, situato in posizione preminente su un lato del Foro, avesse una destinazione sacra, fosse il probabile tempio di Marte, cui allude Cicerone, quando parla della presenza a Larino dei Martiales addetti al culto del dio.
I tre mosaici policromi, oggi conservati nel Palazzo Ducale, testimoniano la ricchezza delle decorazioni che abbellivano le domus dei notabili locali; quello più appariscente è senza dubbio il mosaico che raffigura la scena centrale del Lupercale (con la posa classica della lupa che allatta i due gemelli), circondata da una complessa cornice con cespi di acanto agli angoli e spirali con cacciatori ed animali. Gli altri due mosaici, quello del Leone e quello degli Uccelli, anche essi ispirati a modelli classici, appartenevano a una domus dell’inizio del III secolo d.C. non lontana dall'anfiteatro.
I mosaici

I numerosi mosaici, rinvenuti casualmente nell'abitato di Larino, coprono un arco di tempo di almeno cinque secoli, dal II secolo a.C. al III secolo d.C. e testimoniano la ricchezza delle decorazioni che abbellivano le domus dei notabili locali; degli otto mosaici tessellati tuttora esistenti, la metà sono policromi. Tra questi ultimi, i tre più vistosi e noti da tempo sono attualmente conservati nel locale Museo Civico, presso il Palazzo Ducale di Larino. Essi testimoniano anche che nella Larino di età imperiale operavano maestranze dotate di ottime qualità tecniche, non solo organizzate in botteghe, ma probabilmente anche itineranti.
I primi due mosaici, noti col nome del Leone e degli Uccelli, vennero alla luce nel 1937 in una domus del III secolo d.C. in Viale Giulio Cesare (nei pressi dell'attuale Consorzio di Bonifica), ubicata non lontano dall'anfiteatro, della quale resta una parte delle mura con paramento di reticolato a blocchi di calcare. Sono entrambi di notevoli dimensioni e si ispirano a dei modelli classici. Dagli atti di scavo del 1941 si evince che erano adiacenti, separati solo da un muro. Nell'estate del 1949 vennero distaccati, restaurati e musealizzati nell'attuale collocazione.
Il primo (m. 6,02 x m. 5,30), complessivamente in buono stato di conservazione, raffigura nell'emblema centrale un leone ruggente che avanza da sinistra, lo sguardo rivolto all'indietro, inserito in un tappeto a fondo bianco in cui sono riconoscibili alcune palme; la cornice esterna presenta motivi vegetali (con tralci di edera stilizzati), mentre la fascia marginale presenta il motivo della treccia a quattro capi su fondo nero ed ai margini è disegnata un’ampia fascia su fondo bianco con racemi di edera.
Il secondo (m. 5,07 x m. 5,30), più lacunoso, raffigura nel campo centrale numerosi tralci con foglie di vite, sui quali si posano uccelli di vario genere, rivolti verso il centro; presenta un'ampia fascia marginale con racemi di edera e una serie di cornici concentriche con motivo a ogive e con motivo a treccia policroma su fondo nero.
Un terzo mosaico (m. 6,08 x m. 7,17), detto del Lupercale, fu rinvenuto nel 1941 presso l’attuale Istituto Tecnico Agrario, nei pressi di Piazza della Stazione Ferroviaria, e nel 1973, dopo una lunga serie di burrascose vicende, venne sottoposto a restauro e collocato insieme agli altri due. È senza dubbio quello più appariscente e noto, risale al III secolo d.C. ed è in ottimo stato di conservazione. Raffigura nella parte bassa del campo centrale la scena del Lupercale, con la posa classica della lupa nell'atto di allattare i due gemelli nella grotta, e nella parte alta due pastori, di profilo, che osservano la scena stupiti, dall'alto di una collina. Insolita la raffigurazione della lupa, che con il suo mantello a strisce somiglia piuttosto a una tigre. Il campo centrale è circondato da una complessa cornice ornata, con grandi cespi di acanto ai quattro angoli e spirali con sei cacciatori, armati di frecce e giavellotti, e animali selvaggi di profilo (felini, antilopi, cervi). La scena del mosaico si trova riprodotta su altari, tombe, vasi, pitture, monete e monumenti di vario genere, trattandosi di un'iconografia molto diffusa nel mondo antico.
È invece tuttora posizionato in situ il quarto mosaico policromo (m. 2,72 x m. 4,60), detto del Polpo, rinvenuto fra i resti di una domus di epoca ellenistica presso Torre Sant'Anna. Costituisce il pavimento di un impluvium per la raccolta dell’acqua piovana e rappresenta un grosso polpo al centro, con otto tentacoli, e quattro cernie agli angoli, rese con grande naturalismo, in una cornice di tralci di vite con grappoli d’uva, rappresentati in maniera schematica. Riportato alla luce prima nel 1912 e poi nel 1949, venne distaccato nel 1981, opportunamente restaurato e trattato, ed infine ricollocato nel 1985 nel luogo del ritrovamento. Attualmente è esposto ai visitatori sotto una struttura metallica di protezione. Si tratta di un soggetto comunemente utilizzato per la decorazione di particolari ambienti, quali terme, fontane e bagni pubblici.
I mosaici bicromi, in bianco e nero, sono stati ritrovati tutti successivamente a quelli policromi.
Nel 1971, nel corso di uno sbancamento, è stato rinvenuto in Via Tito Livio, nei pressi dello stadio comunale, il mosaico detto dei Delfini (m. 6,70 x m. 4,90). Rinterrato, fu riportato alla luce nell'estate del 1985, venne distaccato, restaurato e saldato su pannelli mobili in vetroresina. Considerate le dimensioni, il mosaico presumibilmente impreziosiva un ambiente di prestigio di notevole ampiezza. Presenta una fascia decorativa esterna di onde correnti verso sinistra e una fascia centrale con meandri di svastiche alternati a riquadri con soggetti figurati e decorativi; in due di essi compaiono uno skyphos e un aryballos e in altri due dei delfini. Le figure, nonostante le ridotte dimensioni, sono ben definite nei dettagli. Il mosaico presenta una vistosa lacuna su tutta la metà destra, ma tra quelli bicromi è decisamente il più elegante e di pregevole esecuzione.
Nel 1973, nei pressi di quello del polpo, in località Torre Sant'Anna, in occasione di saggi di scavo, venne scoperto un mosaico absidato (m. 5,10 x m. 7,00), che venne provvisoriamente lasciato in situ, coperto da uno spesso strato di sabbia di fiume. Fu riportato alla luce nel 1981, distaccato e restaurato. Sistemato su pannelli di vetroresina, è stato ricollocato in situ su una base in calcestruzzo. Presenta un campo centrale quadrato, decorato con motivi geometrici, quadrifogli e fiori di loto, chiusi in tre cornici concentriche e una lunetta absidale. Nel 1984, in Via Morrone, nel corso dei lavori di costruzione dell’asilo nido comunale, nell'area adiacente al Palazzo di Giustizia, è stato rinvenuto il mosaico cosiddetto del Kantharos (m. 1,45 x m. 2,25), vistosamente danneggiato nel corso dei lavori di sbancamento dell’area. La Soprintendenza verificò, attraverso la sequenza stratigrafica, la presenza di tombe a fossa scavate nello strato tufaceo, risalenti al periodo arcaico, e la presenza di strutture insediative risalenti al successivo periodo ellenistico - romano. Il mosaico, in cattivo stato di conservazione, presenta motivi geometrici con ottagoni e losanghe.
Un altro mosaico è quello cosiddetto in signino, rinvenuto nel corso degli scavi effettuati dalla Soprintendenza negli anni 1977-1978 nell'area di Piana San Leonardo, in Via F. Jovine. Risale al II secolo a.C. e costituisce la pavimentazione di un grosso edificio di epoca ellenistica, di cui restano solo dei blocchi squadrati di pietra arenaria, in un’area a destinazione sacra. È composto da un impasto rosso in cocciopisto, con un reticolo di losanghe nella parte centrale e una fascia esterna con motivi geometrici di quadrati alternati a svastiche. Nel 1983 è stato distaccato e restaurato, montato su pannelli in vetroresina e conservato nei depositi della Soprintendenza.

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...