In epoca
romana
Larinum (oggi Larino) era un fiorente
insediamento abitativo, di ampie dimensioni e di antica origine,
ubicato sulle colline dell'entroterra a circa 400 m di
altitudine, non molto distante (circa 26 km) dalla costa
del mare Adriatico, di notevole importanza proprio grazie alla
nevralgica collocazione geografica: si estendeva infatti su un'ampia
area, fertile e pianeggiante (l'attuale Piana San Leonardo), in
posizione strategica, perché sovrastante il fondovalle ed il basso
corso del fiume Biferno, ed era anche un importante nodo
stradale, perché situato alla convergenza di importanti assi viarii,
che gli consentivano proficui scambi commerciali.
Questa
particolare fisionomia geografica, associata al clima favorevole e
alla fertilità del terreno, di facile lavorazione, spiegano la
prosperità e lo sviluppo economico di Larino, raggiunti già a
partire dal III secolo a.C. che le consentirono di svolgere un
importante ruolo commerciale, preminente rispetto agli altri centri
della zona, facendosi terra di frontiera e crocevia di culture, tra
la fascia costiera adriatica e l'area interna del Sannio,
restando per questo sempre aperta agli influssi di svariati ambienti
culturali, come conferma la documentazione archeologica,
testimonianza dell'esistenza di una città ricca e popolosa già in
epoca anteriore alle guerre annibaliche.
La città era ubicata lungo la cosiddetta via litoranea (citata
anche da Tito Livio), un'antica strada che da nord scendeva
costeggiando l'Adriatico fino a Histonium (Vasto) e poi,
con un percorso interno, dopo aver toccato Larino, procedeva verso
est fino a Sipontum (Manfredonia) e proseguiva, di nuovo
lungo la costa, fino a Brindisi; questa grande arteria di
comunicazione era denominata Traiana Frentana, appellativo che
si ricava da un'iscrizione sepolcrale di un certo Marco Blavio, che
fu uno dei curatores della strada che collegava Ancona a
Brindisi. Inoltre Larinum, attraverso il fondovalle del
Biferno, si collegava agevolmente con l'area interna
del Sannio Pentro, in direzione di Bovianum (Bojano),
ed innestandosi sul percorso del tratturo Celano-Foggia entrava
facilmente in comunicazione con la Daunia settentrionale, in
direzione di Luceria (Lucera). Questa fitta rete di
percorsi definiva, pertanto, un esteso territorio, incrocio di
culture di varia provenienza, una terra di passaggi e di
insediamenti, ma sempre in rapporto con i popoli confinanti, in un
reciproco rapporto di scambio culturale.
Le indagini
geomorfologiche effettuate nel territorio di Larino hanno evidenziato
come questo territorio si sia dimostrato, da sempre, propizio sia per
la scelta di insediamenti abitativi sia per la costruzione di
tracciati stradali. Infatti le riserve di argilla e, in misura
minore, di calcare, presenti in loco, adatte a essere sfruttate nelle
fornaci, hanno facilitato nell'antichità la costruzione di opere
murarie, unitamente alla presenza di abbondante pietrame di fiume,
facilmente reperibile per la vicinanza del Cigno e del Biferno.
Del resto il
quadro territoriale dell’antica Frentania, cui Larino apparteneva,
rappresentava l’area meno impervia dell’intero Sannio, poiché
comprendeva quella fascia collinare (larga circa 30 km.),
facilmente percorribile, digradante verso il mare Adriatico,
costituita da terreni arenacei ed argillosi che si esaurivano sul
litorale stretto e pianeggiante. Compresa fra il Sangro, a nord,
ed il Fortore, a sud, la regione frentana si presentava
ricca di fiumi provenienti dalle zone appenniniche interne (Sangro,
Trigno, Biferno, Fortore) e di corsi d’acqua minori (Foro, Osento,
Sinello, Cigno, Saccione, Tona), le cui vallate rappresentavano delle
naturali e agevoli vie di comunicazione tra la costa e l’interno.
Oltre alla viabilità principale, l’area era anche servita da una
serie di percorsi secondari, che costituivano una fitta rete di
comunicazioni, nella quale si inserivano insediamenti grandi e
piccoli, in grado di collegarsi fra loro agevolmente. Si presume che
gli stessi corsi dei fiumi fossero utilizzati come facili vie di
collegamento tra la costa e le aree interne, visto che alcune fonti
antiche (Livio, Plinio), nel definire portuosum flumen sia
il Trigno che il Fortore, lasciano supporre l'esistenza di attività
portuali in quel tratto di costa adriatica.
Senza dubbio,
quindi, la configurazione morfologica, l’abbondanza di acqua, il
clima decisamente mite, la presenza di un diffuso manto boschivo
sulle colline, l’ampia rete tratturale, con andamento parallelo
alla costa, favorirono la vita e l’economia delle popolazioni
locali in epoca preromana, incentivando forme di insediamento e di
organizzazione del territorio. Attualmente Larinum è
un sito archeologico in provincia di Campobasso, nel
Molise, in Italia.
Nel 2016
l'area archeologica ha fatto registrare 1 566
visitatori. L'ingresso è gratuito.
Una sistematica esplorazione archeologica del Sannio è iniziativa
relativamente recente, in quanto avviata all'inizio degli anni
Settanta del secolo scorso ed incrementata progressivamente nei
decenni successivi. Si possiedono le prime notizie di raccolte di
materiale preistorico di varia provenienza molisana, attraverso le
indagini di superficie svolte a partire dal 1876 ad opera
dell'antropologo Giustiniano Nicolucci e
del paletnologo Luigi Pigorini. Quest'ultimo scriveva
proprio in quell'anno lamentando una grande povertà di notizie
sull'età della pietra nella provincia di Molise. Si tratta di otto
coltelli provenienti da Larino, un raschiatoio e due coltelli
da Casacalenda ed un coltello da Montorio nei
Frentani. Attualmente il materiale rinvenuto è conservato in parte
presso il Museo nazionale preistorico etnografico Luigi
Pigorini di Roma e in parte presso il Museo Antropologico
dell'Università Federico II di Napoli.
Successivamente
è stato merito della missione britannica dell'Università di
Sheffield e dell'èquipe guidata dall'archeologo Graeme Barker,
aver condotto una capillare ricognizione di superficie, avviata nel
1974, lungo l'ampia fascia di territorio (pentro e frentano)
che costituisce la Valle del Biferno (The Biferno Valley Survey), che
dal massiccio del Matese giunge fino al mare, seguendo il corso
del Tifernus. Le sistematiche campionature di territorio hanno
portato all'individuazione di circa centoventi insediamenti antichi,
di varia grandezza, che coprono un periodo che va dal Neolitico al
I secolo a.C. L'analisi dei risultati dell'indagine condotta da
Barker offre un quadro di un intenso popolamento del territorio
frentano gravitante sulla bassa valle del Biferno, ove risulta
localizzato il 60% degli insediamenti abitativi individuati. Le
scelte insediative sembrano dettate, oltre che dall'esigenza di
sfruttamento dei siti più propizi alla coltivazione, anche
dall'intenzione di mantenersi in prossimità delle vie naturali di
comunicazione.
Grazie
all'indagine condotta da Barker, si possiedono le principali
informazioni sulla natura degli insediamenti risalenti al Neolitico
antico, posizionati lungo la valle del Biferno, in particolare di
quello più consistente individuato su Monte Maulo (circa 350 m
s.l.m.), un vasto altopiano sotto Larino, che si affaccia sulla bassa
valle del Biferno, al margine di un promontorio che dista circa
20 km. dal mare in linea d'aria. L'ispezione del sito, esplorato
nel 1978, ha portato al ritrovamento di diverse specie di molluschi e
lumache; sono stati recuperati 146 semi carbonizzati, prevalentemente
cereali (orzo e grano) e legumi, e numerosi campioni di ossa di
animali (bovini, ovini e suini), in gran parte macellati. Lo scavo
condotto alla sommità del pendio, tra il terreno arato, ha
consentito di recuperare circa 1500 frammenti di ceramica comune, in
gran parte decorata, e circa 200 pezzi di selce scheggiata, quasi
tutti di una pietra locale di scadente qualità. Le datazioni al
radiocarbonio, ottenute in un laboratorio di Oxford, risalgono alla
seconda metà del V millennio a.C. La documentazione botanica e
faunistica che compare nell'area conferma, pertanto, che nella bassa
valle del Biferno le prime comunità agricole erano presenti già nel
tardo V millennio a.C. Il sito ha anche restituito tracce di
frequentazione umana, costituite da una serie di buche circolari,
probabilmente scavate per recuperare selce, riempite di frammenti
ceramici, e resti strutturali di capanne neolitiche (argilla pressata
con impronte di rami). I dati di Monte Maulo consentono di
ricostruire il paleo ambiente di questa esigua parte del Molise; essi
confermano che già nel Neolitico antico vigeva un'economia mista di
raccolta ed allevamento, con prevalenza della seconda, considerata la
varietà dei reperti botanici ritrovati, sia cereali (farro, orzo,
avena comune, miglio, grano tenero), sia legumi (fave, piselli,
lenticchie), nonché i numerosi resti faunistici, relativi ad animali
allevati, macellati e consumati sul posto.
Tra il 1969
ed il 1989 un accurato studio condotto da Eugenio De Felice
sull'abitato di Larinum e sul territorio circostante
l’antico centro frentano, ha ulteriormente arricchito le nostre
conoscenze sulle prime fasi di occupazione di questa area. È stato
così possibile individuare alcuni villaggi agricoli di Età
Neolitica distribuiti in tutto il territorio, grazie ai numerosi
rinvenimenti di frammenti ceramici e resti di industria litica,
insediamenti per lo più posizionati sulle alture collinari ed in
prossimità di sorgenti di acqua. Materiale ceramico e bronzeo,
riferibile alla fine dell'Età del Bronzo – inizio dell'Età
del Ferro, è stato rinvenuto in vari punti in località Montarone e
Guardiola, due alture che delimitano a sud e a nord l'antico
insediamento abitativo di Larino, adatte allo stanziamento di uomini
e animali, ben collegate sia al fondovalle del Biferno sia alla
pianura del litorale.
Sebbene di antichissima origine, come
testimoniano sporadici rinvenimenti risalenti all'età del Bronzo
Finale ed alla prima Età del Ferro, della città di Larino le prime
significative testimonianze di contesti abitativi partono dal V
secolo a.C.; si tratta in prevalenza di nuclei sepolcrali, spesso
neppure perfettamente integri, poiché, a causa dell'espansione
edilizia e dei massicci sbancamenti effettuati per la costruzione
della ferrovia, molto è andato distrutto e ben poco, purtroppo,
resta da esplorare.
Anche le
testimonianze della fase romana, quella meglio conosciuta,
attualmente si presentano in uno stato di estrema frammentarietà.
Rivestono anche particolare interesse per la ricostruzione della
storia di Larinum le monete ed i testi epigrafici
rinvenuti, riferimenti utili anche per una comprensione delle scarse
evidenze archeologiche recuperate nelle diverse zone del suo tessuto
urbanistico. Comunque questi dati rivelano in modo significativo
continuità di vita nella zona già a partire dalle epoche
protostoriche.
Fin
dall'inizio, nel 1977, i primi saggi di esplorazione archeologica,
inizialmente praticati dalla Soprintendenza Beni Archeologici del
Molise lungo le pendici meridionali di Monte Arcano (a circa 2 km a
nord-ovest rispetto alla Piana San Leonardo), sulle colline che
affacciano a nord, hanno accertato la presenza di una necropoli
arcaica, risalente al VI secolo a.C. con tombe rettangolari a
inumazione, con coperture a tumulo di scheggioni di calcare; il
corredo vascolare include quasi costantemente la grossa olla da
derrata, vasi di bucchero, di impasto e di ceramica di argilla che
imita grossolanamente forme daunie. Esplorazioni condotte anche in
altre aree hanno evidenziato, sia pure frammentariamente, la presenza
di una stratificazione insediativa di antica origine in tutto l'agro
larinate, che copre un arco di tempo piuttosto ampio. Purtroppo nel
corso degli anni è stato possibile eseguire le esplorazioni
limitatamente alle aree rimaste libere da costruzioni, essendo stata
ormai l'intera zona già dal dopoguerra abbondantemente
urbanizzata.
Le successive
indagini archeologiche, estese ad altri comuni vicini alla zona
costiera molisana, hanno rilevato analoga presenza di nuclei
sepolcrali, anche di notevoli dimensioni, risalenti alla fase storica
preromana, nei centri di Termoli, Guglionesi, Montorio
nei Frentani e Campomarino. In quest'ultimo centro, in
località Arcora, scavi effettuati a partire dal 1983 hanno riportato
alla luce tracce consistenti di un villaggio protostorico, risalente
tra l'età del Bronzo Finale e la prima Età del Ferro (IX-VII secolo
a.C.), che si estendeva, su un'area di circa quattro ettari, lungo il
costone prospiciente il litorale adriatico, difeso naturalmente su
due lati da ripide pareti; la zona pianeggiante verso l’entroterra
presentava tracce evidenti di strutture di difesa e di recinzione
(muro, palizzata e fossato). Le ricognizioni di superficie attestano
una continuativa occupazione del sito fino a tutto il V secolo
a.C.
Il sito,
oltre ai resti parziali delle strutture abitative, ha restituito
vistose tracce delle attività svolte dall'uomo: numerosi manufatti
di materiale ceramico, vasi e contenitori per la cottura e la
conservazione dei prodotti alimentari, utensili ed oggetti di uso
domestico, focolari e fornelli. Numerosissimi i resti ossei di
animali, sia domestici (bovini e suini) che selvatici (cervo e
volpe), con evidenti tracce di macellazione. Notevole la quantità di
semi recuperata nel corso dello scavo, sia di legumi, sia di cereali.
Una comunità, dunque, con un'organizzazione sociale semplice, che
viveva di agricoltura, allevamento, caccia e raccolta di frutti
selvatici, nell'ambito di un'economia di sussistenza di tipo
domestico.
Tracce di
altri insediamenti sono state individuate a nord ed a sud dell’area
di Arcora: sembra evidente, pertanto, che il litorale adriatico, dal
Biferno al Fortore, sia stato occupato da nuclei abitativi che hanno
sfruttato le piattaforme naturali separate dal litorale da costoni
ripidi e scoscesi. Queste testimonianze del basso Molise documentano
l'esistenza di numerosi agglomerati abitativi sparsi, non grandi,
distribuiti su un'area piuttosto estesa e costituiti da comunità
prevalentemente a vocazione agricola e pastorale. Tuttora in questa
area i secoli tra il VI e il IV a.C. sono noti prevalentemente grazie
alla cospicua documentazione archeologica proveniente dalle numerose
necropoli, che evidenziano una densa occupazione del territorio. I
corredi funerari e gli ornamenti personali dei defunti testimoniano
differenziazioni culturali tra i diversi centri: ad esempio, gli
insediamenti costieri mostrano aspetti prevalentemente affini alla
cultura daunia, al contrario, Larino, paese di frontiera, partecipa
anche della cultura occidentale, proveniente dall'area pentra e
campana, come dimostra la presenza in alcune sepolture della ceramica
di bucchero, del tutto assente nella coeva necropoli di
Termoli.
Nel rituale
funerario, invece, tutta l'area frentana presenta una sostanziale
unità culturale, che la differenzia dalla Daunia, dove, ad
esempio, il defunto è abitualmente deposto in posizione
rannicchiata, su un fianco, e non supino. Ma al di là di quest'unica
diversità, esiste indubbiamente fra le due aree un'uniformità
culturale e una sostanziale continuità: tra Daunia e Frentania,
pertanto, il promontorio garganico non costituisce un diaframma, tra
Tavoliere e costa molisana esiste un'innegabile continuità.
Anche i
ritrovamenti monetali, del resto, confermano il quadro di Larino
città aperta alle influenze apule e al tempo stesso importante per i
collegamenti con il Sannio interno: per questo già a partire dalle
fonti antiche si avvertiva una certa difficoltà a inquadrare Larino
in un preciso ambito culturale piuttosto che in un altro. Delle varie
emissioni di bronzo, ad esempio, alcune seguono il sistema ponderale
greco, in uso nelle zecche campane e sannitiche, altre, più recenti,
seguono il sistema italico, con frazionamento decimale, tipico delle
aree adriatiche.
Nelle
necropoli del basso Molise, nel periodo arcaico, le sepolture
prevedono abitualmente l'inumazione del defunto, in posizione
distesa e supina, dentro fosse scavate nello strato argilloso e
riempite di scheggioni di pietra calcarea. È probabile che questi
tumuli di pietre affiorassero dall'antico piano di campagna,
segnalando la posizione della tomba. Il corredo funerario, deposto ai
piedi dell'inumato, in uno spazio appositamente ricavato, è di
solito costituito da oggetti di ceramica di piccola forma (coppe,
anforette, ciotole e boccali); rari i vasi metallici. Nelle sepolture
femminili sono presenti oggetti di ornamento personale (fibule,
collane, perle, pendagli, anelli), in quelle maschili armi ed
utensili (coltelli di ferro, rasoi e cuspidi di lancia o
giavellotto). Sporadicamente sono stati rinvenuti anche elmi
di bronzo, alcuni di tipo piceno, altri di tipo appulo-corinzio, che
evidentemente servivano a evidenziare il rango sociale dei defunti. I
corredi delle sepolture frentane del VI-V secolo a.C. sono di solito
più ricchi di materiali rispetto a quelli coevi delle aree interne
del Sannio. Essi si rivelano per lo più uniformi per la tipologia
dei materiali deposti.
Periodo
ItalicoLarinum urbs
princeps Frentanorum recita un'antica lapide, a sottolineare
l'importante ruolo avuto in passato da questa fiorente città del
basso Molise, che è stata certamente uno dei centri principali del
territorio dei Frentani. Secondo lo storico Giovanni Andrea
Tria, con il passare dei secoli, il nome subì numerose modifiche e
fu deformato in Alarino, Larina, Laurino, Arino, Lauriano, fino a
raggiungere in epoca romana il definitivo toponimo di Larinum.
Secondo
un'antica tradizione, ripresa dallo storico Alberto Magliano, la sua
fondazione risalirebbe con molta probabilità intorno al XII secolo
a.C. per mano degli Etruschi, nel corso delle loro immigrazioni verso
le fertili pianure della Puglia; il primo nome della città sarebbe
stato Frenter, come si desume da alcune monete ritrovate in agro
larinese.
È stata
perfino avanzata l’ipotesi che le popolazioni che abitavano
l’antica Larinum fossero discendenti degli antichi Liburni,
provenienti dalle coste dell'attuale Dalmazia, attraverso
l’Adriatico oppure con migrazioni via terra, alla fine dell’età
del bronzo.
Una delle
tesi più attendibili è quella che i Sanniti discendessero
dai Sabini, anche in considerazione del nesso etimologico
fra Safinim, Sabinus, Sabellus, Samnis, Samnitis,
riconducibili a una comune radice indoeuropea.
In realtà uno dei punti più discussi
della storia del Sannio di questi ultimi anni è quello relativo
all'etnogenesi dei Sanniti, già in passato oggetto di varie
congetture da parte degli antichi.
Secondo le
più recenti ricerche della linguistica storica, popolazioni
osco-umbre, abbandonate le steppe dell'Europa centro-orientale e
valicate le Alpi, penetrarono nella seconda metà del II millennio
a.C. nella penisola italica, si attestarono lungo la dorsale
appenninica centrale, spingendosi anche a sud, lungo le coste
adriatiche e tirreniche e sovrapponendosi alle popolazioni indigene.
In seguito, come narra Strabone (V, 4, 12), un’altra
popolazione indoeuropea, quella dei Sanniti, affine per lingua e
religione agli Osci, sarebbe immigrata nell'area centro
meridionale della penisola, al punto che i due gruppi avrebbero
finito per coincidere e sovrapporsi, anche se con una variegata
differenziazione tribale. Sia le fonti greche che quelle romane
individuano nel Sannio le tribù dei Carecini, Caudini, Irpini,
Pentri e Frentani, sottolineano che tutte furono fiere avversarie di
Roma, anche se forniscono scarse informazioni sulle differenze
esistenti fra loro.
È
impossibile sapere con certezza da dove provenivano queste
popolazioni, quanto erano numerose e fra loro diverse, e in quante
ondate giunsero. Si sa però con certezza, in base alle abbondanti
evidenze archeologiche, che già nella seconda metà dell’VIII
secolo a.C. tali popolazioni erano stabilmente insediate in quello
che sarà storicamente il territorio dei Sanniti. Iscrizioni e
documentazioni epigrafiche testimoniano che già nel VI secolo a.C.
abitavano nell'Italia centro-meridionale, a sud del Liri e del
Sangro, popolazioni tradizionalmente definite di lingua italica, ad
esclusione del Lazio, di lingua latina, e della Puglia, di lingua
messapica. Si distinguevano popolazioni di lingua osca (Sannio,
Campania, Lucania e Bruzio), umbra (nei territori di Gubbio, Assisi,
Todi) e sabellica (comprendente Vestini, Marrucini, Peligni, Equi,
Marsi, Volsci e Sabini), strettamente imparentate fra loro. Tale
situazione rifletteva la progressiva stratificazione cronologica di
entità culturali e linguistiche diverse, ma per molti aspetti anche
affini.
Già nel IV secolo a.C. le variazioni dialettali, infatti, erano
diventate del tutto trascurabili. Molto probabilmente il nome "osco"
venne dato alla lingua dei Sanniti proprio perché la lingua degli
invasori era molto simile a quella degli Osci le cui terre
vennero invase. Nonostante fosse parlato in un’area tanto vasta, di
esso non venne fatto uso scritto fino a un’epoca relativamente
tarda, circa nel 350 a.C. quando i Sanniti entrarono in contatto con
la più sviluppata cultura di Greci ed Etruschi, e cominciarono
a regolare i loro scambi con i Romani per iscritto. Le fonti antiche
(letterarie, epigrafiche e numismatiche) hanno tramandato tanto la
forma osca del nome con il quale i Sanniti si autodefinivano, quanto
la forma greca e latina del nome con il quale gli altri popoli li
definivano. Sembra che i Sanniti chiamassero la propria
regione Safinim e designassero se stessi col nome
di Safineis. In latino la regione diventò Samnium e
gli abitanti furono appellati Samnites. In lingua greca i
Sanniti erano chiamati ∑αυνίται e la loro terra era ∑αυνίτις
come attestano Polibio (III, 91, 9) e Strabone (V,
4, 3 e 13).
Discendenti
probabilmente da uno stesso antico ceppo, essi presentano in ambito
culturale molte analogie (lingua, religione, costumi), ma anche
differenze conseguenti alla posizione geografica ed alla morfologia
dei rispettivi territori. Mentre il Sannio frentano affaccia sulla
costa adriatica, a contatto con popolazioni a vocazione marittima,
quello pentro è orientato verso le Mainarde ed
il Matese ed è collegato col versante campano. Il primo
usufruisce di condizioni materiali che gli consentono un più elevato
sviluppo economico e una rapida urbanizzazione, il secondo resta
invece ancorato a forme più arcaiche di produzione e solo dopo la
guerra sociale raggiunge un diffuso livello di urbanizzazione. Mentre
i Pentri, disposti su territorio montuoso, restano legati a una forma
di insediamento sparso, con una fitta rete di fortificazioni sulle
alture, i Frentani, distribuiti su un territorio pianeggiante, già
nel IV secolo a.C. si aggregano in centri urbani, per lo più ubicati
sulle vie di antica percorrenza. Saranno tutti ugualmente sottomessi
ed alla fine il loro territorio risulterà fortemente ridimensionato
e circondato su tutti i lati da città e popoli alleati di Roma.
Si può dire che i Sanniti fanno il loro ingresso nella storia solo a
partire dal 354 a.C. quando, venuti a contatto con i Romani per la
prima volta, stipulano con loro un patto di non belligeranza (Livio,
7.19.4; Diodoro 16.45.8). Un accordo probabilmente motivato dalla
necessità di definire i limiti delle rispettive zone di espansione.
Di lì a poco sarebbe iniziato uno scontro feroce e lunghissimo,
protratto, sia pure con interruzioni, per oltre cinquanta anni (dal
343 a.C. al 290 a.C.), che si sarebbe concluso con la definitiva
sottomissione delle gentes fortissimae Italiae, come definì i
Sanniti Plinio il Vecchio (Naturalis
Historia III.11.106) e l'inizio di un processo di
romanizzazione dell’Italia centro-meridionale. Un'espressione,
quella di Plinio, che avvalorava l’immagine di un popolo fiero e
bellicoso, il cui valore guerriero venne riconosciuto perfino dai
Romani, loro acerrimi nemici, nella lotta per la supremazia sulla
penisola italica. Questo carattere aggressivo e rude dei Sanniti,
presente già nell'antica tradizione, il loro stile di vita
primitivo e selvatico, secondo come li descrive Tito
Livio (IX.13.7. montani atque agresti), il riconoscimento
del valore guerriero e delle qualità militari, finiranno per
influenzare anche la rappresentazione che dei Frentani tramanda
l'antica tradizione storica. Infatti, sebbene sia l’unica
insediata sulla costa adriatica, anche la tribù dei Frentani,
nell'interpretazione erudita di Strabone (V, 4, 29), è collegata
alle aree montuose interne, secondo una ricostruzione fatta a
posteriori sulla base di esigui dati concreti.
Dopo l’umiliante sconfitta
nella battaglia delle Forche Caudine subita nel 321 a.C. i
Romani tentarono una serie di alleanze con diverse popolazioni
sannite (Livio,X,3,1), seguendo una precisa strategia, quella di
disarticolare la solida coscienza nazionale di quel popolo,
garantendosi la fedeltà di alcune tribù.
Nel 304 a.C. i Frentani, già debellati
nel 319 a.C. dai Romani, chiesero ed ottennero, insieme ad altre
tribù, la pace con Roma, stringendo con essa un foedus, un
patto di alleanza (Livio, IX, 45, 18) ed ottenendo in cambio maggiori
spazi di autonomia. Divennero così, insieme a Marsi, Peligni e
Marrucini, socii di Roma, a cui interessava particolarmente
mantenere aperti i collegamenti commerciali con l'Apulia. Il trattato
avvantaggiò notevolmente i Romani, infatti i Sanniti dovettero
rassegnarsi alla perdita di Saticula, Luceria e Teanum
Sidicinum, nonché dell'intera valle del Liri, dove già alla fine
del IV secolo a.C. i Romani avevano fondato tre colonie latine
(Sora, Fregellae e Interamnia), ritrovandosi
circondati da civitates foederatae e da popoli alleati di
Roma, che rendevano loro difficile poter seriamente minacciare il
Lazio. E infatti dopo soli sei anni fu di nuovo guerra, questa volta
con il coinvolgimento di Etruschi e Galli.
È probabile che proprio per effetto
del trattato la comunità frentana di Larinum abbia
ottenuto quello status di autonomia di civitas
foederata. Secondo gli storici proprio il conseguimento di questa
particolare condizione già all'inizio del III secolo a.C. avrebbe
favorito lo sviluppo economico e la precoce urbanizzazione e
latinizzazione di Larinum, con il definitivo passaggio dalla
primitiva forma di insediamenti rurali sparsi a una forma
propriamente urbana.
L’abbandono
delle necropoli e dei siti abitativi sparsi coincide con un
progressivo distacco dell'ager Larinas dal resto della
Frentania, quella situata a ovest del Biferno, che invece conserva
l’alfabeto osco e le istituzioni proprie dell’area pentra fino al
I secolo a.C. come segno di tenace adesione al proprio carattere di
∑αυνιτικόν έθνος (Strabone, V,4,2), restando una
delle zone italiche meno latinizzate.[35]
Proprio questa fase di cambiamento
degli assetti territoriali e dell'organizzazione amministrativa avvia
un processo di trasformazione dell'economia frentana in direzione di
una maggiore dinamicità del sistema economico locale e quindi di un
sempre crescente uso della moneta.
Sebbene con una certa approssimazione cronologica, si può ritenere
che nel periodo 270-250 a.C. già erano circolanti emissioni monetali
sia da parte della città di Larinum che da parte dei
Frentani.[36] Per i decenni precedenti, pur essendo attestati
numerosi rinvenimenti, non si può comunque ritenere che queste aree
fossero a intensa circolazione monetaria. Sulla base dei dati di
rinvenimento di scavo, sembra che vi sia stata una discreta
penetrazione di moneta “estera” sia nella regione larinate sia
nel Sannio interno, proveniente da ambiente campano ed apulo. In
realtà solo a partire dagli anni della seconda guerra punica la
zecca di Larino cominciò a produrre abbondanti ed articolate serie
di monete, seguendo il sistema di frazionamento decimale dell’asse
romano, tipico delle città situate sulla fascia adriatica.
Una rara emissione di oboli in argento
del IV secolo a.C. con la legenda greca ΣΑΥΝΙΤΑΝ farebbe
supporre una fase di unità politica delle genti del Sannio. Per la
prima volta compare, al rovescio, la punta di giavellotto
(il saunion), all'interno di una corona di alloro, e una testa
femminile velata, al diritto. La presenza dell’etnico in caratteri
greci, e non in alfabeto osco, ha fatto ipotizzare una provenienza
dalla zecca di Taranto, frutto di una probabile alleanza. I dati
archeologici in nostro possesso sembrano confermare che il territorio
frentano sia stato piuttosto restio all'uso della moneta coniata, sia
rispetto al Sannio interno, sia rispetto all'Adriatico
settentrionale, iniziando a produrre monete solo dopo la metà del
III secolo a.C.
I Frentani,
per la propria moneta in bronzo scelgono, come legenda,
l'etnico Frentrei in lingua e grafia osca, destrorsa, a
sottolineare la propria sfera di autonomia, ed utilizzano tipi di
ambiente greco, quali la testa del dio Mercurio, al diritto, ed un
Pegaso alato, al rovescio. In base ai ritrovamenti si presume che la
circolazione fosse limitata alla regione di provenienza e che tali
monete venissero utilizzate come mezzo di scambio in ambiti
commerciali assai ristretti.
Larinum invece,
ormai già inserita in un circuito di contatti culturali e rapporti
commerciali con il mondo campano ed apulo, utilizza una varietà di
tipi e legende, iniziando con una serie in bronzo, a legenda greca e
tipologia campana, ΛΑΡΙΝΩΝ, con testa di Apollo e
Toro dal volto umano, risalente al 270-250 a.C. e passando poi a due
tipi con motivi iconografici apuli e campani, con legenda osca ma
grafia latina (sinistrorsa), Larinei (moneta
emessa a Larino), con testa di Atena elmata e
cavallo al galoppo e poi Larinod (moneta emessa da Larino),
con testa di Atena elmata e fulmine.
I pochi esemplari noti, pertinenti a
queste emissioni, e la mancanza di contesti precisi, non consentono
di conoscere con certezza la datazione di questa emissione. Queste
prime esperienze monetali di Larino sono considerate di non lunga
durata, rimasero in uso per diversi decenni, affiancandosi alla
moneta romana, che andava ormai diffondendosi nella regione; la sua
area di circolazione restò comunque circoscritta al Sannio ed alla
fascia costiera adriatica centro-meridionale, come mezzo di piccolo
scambio.
Riguardo ai
Frentani, è appena il caso di sottolineare che a lungo è stata
considerata incerta la loro appartenenza al gruppo etnico dei
Sanniti, messa in dubbio sulla base della documentazione archeologica
relativa alla fase arcaica: quanto più emergevano, a seguito delle
ricerche, caratteri culturali ed usi rituali che distinguevano questa
popolazione dai Sanniti stanziati nelle aree appenniniche interne,
tanto più si riproponeva la discussione sulle ampie questioni di
etnostoria italica.
Non a caso
le stesse fonti antiche (Strabone, Tolomeo, Mela, Plinio) per lo più
non concordano sull'estensione territoriale della Frentania e
sulla sua delimitazione geografica, ed approssimativa e imprecisa
appare anche in esse l’ubicazione geografica dei diversi
insediamenti abitativi: evidentemente anche agli occhi degli antichi
autori la storia del Sannio appariva estremamente mobile, come un
magma in continua modificazione, che in determinate zone si
presentava con connotazioni e differenze a volte anche
accentuate.
A metà del
Settecento anche lo storico Giovanni Andrea Tria annotava “Quanto
all'origine dei Frentani, nemmeno convengono gli storici: stimano
alcuni che i Frentani provenissero dai Sanniti, altri che provengano
dai Liburni, altri dai Sabini, ed altri ancora dagli Etrusci”.
Proprio in base a questa complessa
prospettiva di affinità-diversità, il geografo Strabone (V,4,2)
considera i Frentani una popolazione etnicamente sannita (∑αυνιτικόν
έθνος), ma al tempo stesso la loro regione distinta dal Sannio
sotto il profilo culturale. Del resto i Frentani in quasi tutte le
fonti antiche sono descritti in una condizione di perifericità
rispetto alla regione sannita, in una posizione marginale rispetto
all'area centrale appenninica.
Non sono
molti i riferimenti degli storici antichi alla vita dei Sanniti, ma
gli scavi archeologici stanno restituendo una ricca documentazione
sulle loro abitudini quotidiane e sulle loro attività, offrendoci
uno spaccato efficace della loro vita quotidiana. Emerge così il
ritratto di una popolazione notevolmente diversa da quella che hanno
descritto gli storici antichi, preoccupati piuttosto di trasmettere
ai posteri una narrazione secondo una versione decisamente favorevole
a Roma, magnificando le imprese della loro nazione, rappresentate
come una saga eroica.
Descritti
dalle fonti antiche come popolazioni rozze e primitive, arroccate
sulle montagne, le recenti ricerche hanno invece portato alla luce le
testimonianze di un popolo estremamente mobile, capace di
relazionarsi ed interagire con diverse popolazioni del Mediterraneo.
I dati archeologici attestano l’esistenza di stabili insediamenti,
con un'organizzazione socio-economica di tipo semplice, basata su una
ridotta specializzazione del lavoro, in cui le attività produttive
avevano prevalentemente carattere stagionale. Si tratta di
un'organizzazione territoriale caratterizzata da un accentuato
frazionamento, vicatim, come afferma Tito
Livio (IX,13,7; X,17,2); infatti, nelle zone pianeggianti e
collinari, di solito in prossimità dei corsi d’acqua e delle vie
di comunicazione, sono presenti villaggi sparsi, di dimensioni
ridotte, difesi da fossati o palizzate (il vicus, collegato a
pascoli, boschi e terreni coltivati) oppure, nelle aree di montagna,
cittadelle fortificate di dimensioni variabili (l'oppidum difeso
da breve cinta muraria), posizionate in condizioni strategiche per il
controllo del territorio.
In un territorio prevalentemente
montuoso, la produzione agricola e l’allevamento di bestiame erano
alla base dell'economia sannita, finalizzate a soddisfare i bisogni
primari delle comunità; nel Sannio preromano l’allevamento
avveniva sia in forma stanziale che transumante, sia pure in scala
più ridotta di quanto non avvenne in seguito nel Sannio romanizzato.
Tra le attività artigianali era certamente praticata la lavorazione
della lana e delle pelli, nonché la produzione di ceramica e di
laterizi. Bojano, ad esempio, rappresentava un importante distretto
produttivo di tegole, con tanto di marchio di fabbrica.
Non poca
importanza rivestiva l’attività guerriera, soprattutto
per le popolazioni delle aree interne, che si realizzava in forme di
rapina, prelievo forzoso, pedaggio derivante dal controllo militare
delle vie di comunicazione, praticati attraverso imboscate, assalti
improvvisi, incursioni ed agguati.
Numerose
campagne di scavo effettuate in località Monte Vairano (in agro
di Busso e Baranello, presso Campobasso, a 998 m
s.l.m.) hanno riportato alla luce un abitato fortificato sannitico,
risalente al IV secolo a.C. distribuito su un'area di circa 49
ettari, articolato in case, botteghe, luoghi di culto, laboratori di
artigiani, ben distribuiti su un complesso tessuto viario, protetto
da una lunga cinta muraria (di circa 3 km.), che in alcuni casi
supera i due metri di altezza, con relative porte di accesso e torri
di guardia. Si tratta di un insediamento di notevole consistenza, che
presuppone la presenza di una comunità con una propria
organizzazione sociale, che ha elaborato, secondo una logica
costruttiva, un piano organico di sistemazione dell’area,
delimitata dalle mura. Nei diversi edifici sono stati rinvenuti
mortai, anfore, brocche, pesi da telaio, testimonianza efficace di
uno spaccato della vita quotidiana di quella popolazione. L’area,
abitata già prima delle guerre sannitiche, cessa di essere
frequentata verso la metà del I secolo a.C. quando si verificano i
crolli degli edifici.
Con il resto del mondo italico, ad
esempio, i contatti si evincono dalla presenza di oggetti di bronzo
etruschi, legati soprattutto a pratiche cultuali. Stretti erano i
rapporti anche con la città di Taranto, ma anche dall'Apulia e dalla
Campania giungevano nel Sannio ceramiche di pregio. Contatti
economici e commerciali tra i Sanniti e gran parte dell’Italia
centro meridionale sono confermati dalle monete provenienti da zecche
apule, campane e del Bruzio rinvenute in territorio
molisano. Abili esportatori di legname e dei prodotti di allevamento,
i Sanniti giungono a occidente fino a Marsiglia e alle
isole Baleari, a oriente fino al Bosforo e alle isole
Egee, dalle quali importano vino pregiato, come testimoniano le
anfore vinarie col marchio di Rodi, Chio e Cnido, ritrovate nelle
diverse necropoli molisane. Inoltre armi e cinturoni sannitici,
testimonianze della loro attività di mercenarismo, sono stati
rinvenuti non solo in Magna Grecia, ma anche in alcune città greche.
A diretto contatto con gli agglomerati abitativi, seppero creare aree
sacre di particolare monumentalità, ubicate in luoghi suggestivi e
nelle ampie valli, edificate con grande perizia tecnica e ricche di
apparati decorativi. Luoghi di culto che testimoniano quanto
nel Sannio antico la vita, nella sua quotidiana ordinarietà, fosse
costantemente intrisa del sacro, nella vita coniugale, nel lavoro dei
campi, nelle ricorrenze religiose, negli eventi luttuosi.
In fondo la storia del Sannio, vista in un lungo periodo, tra l’Età
del Ferro e la fine dell’era antica, è la storia di una
progressiva evoluzione, con situazioni fortemente diversificate a
seconda delle aree geografiche: infatti mentre il centro dell’area
sannitica resta più a lungo legato a forme arcaiche (in cui i gruppi
dominanti tentano di conservare la struttura di classe, risalente al
VII secolo), ai suoi margini la periferia meridionale si accinge al
salto di qualità, avviandosi rapidamente verso l'urbanizzazione.
Mentre nelle zone sannitiche centro-italiche l’urbanizzazione
penetra solo nel I secolo a.C., nella periferia meridionale tra
Frentania e Daunia, lo sviluppo economico già nel III secolo a.C.
marcia decisamente verso una civiltà urbana. Del resto,
anche sul versante tirrenico dell'Italia centro-meridionale il
processo di urbanizzazione si attua precocemente, rispetto alle aree
interne, ed è strettamente correlato a un avanzato sviluppo
economico e sociale, determinato dal contatto con le tendenze
innovatrici del mondo greco. Nelle realtà che non ancora conoscono
l'urbanizzazione, invece, restano bassi i livelli di produzione e
scarso lo sviluppo delle specializzazioni.
Periodo
RomanoGià all'inizio del periodo
ellenistico, dunque, Larinum sembra aver ormai raggiunta
una fisionomia definitiva ed aver acquistato un ruolo preminente
rispetto agli altri centri della zona. Alla fertilità del terreno,
alla strategica posizione geografica, alla florida attività
commerciale ed ai numerosi contatti già avviati con svariati
ambienti culturali, Larinum aggiunge adesso, alla pari di
altre entità statali, il riconoscimento da parte di Roma della
condizione di res publica Larinatium (Livio XXVII,43,10),
concessa, naturalmente, in base ai criteri di opportunità geografica
e “politica” abitualmente utilizzati dai Romani nella loro
attività di urbanizzazione e di controllo amministrativo del
territorio.
Ciò
favorisce lo svolgimento di un autonomo ruolo amministrativo e
l’avvio di un'autonoma monetazione locale in bronzo, nonché la
presenza di accentuati caratteri di cultura mista osco-latina, non
documentata nella regione a nord del Biferno. Grazie all'ordinamento
romano, la città, ormai ricca e popolosa e dotata di leggi e
magistrati propri, riesce a produrre anche una rapida trasformazione
dell’organizzazione del suo centro urbano ed avviare una
concentrazione delle iniziative di investimento di carattere edilizio
ed infrastrutturale, nello sforzo di potenziare l’entità urbana.
Investimenti che non riguardano solo la spesa pubblica, ma anche
quella di origine privata.
Le indagini
di scavo condotte negli anni nell'abitato di Piana San Leonardo,
sebbene limitate ad aree non molto estese, hanno fatto emergere una
realtà insediativa alquanto complessa e cronologicamente articolata,
che parte dal periodo arcaico e giunge fino a quello tardo
ellenistico, con tracce di acciottolato, di strade lastricate, di
pavimentazioni pubbliche, di quartieri artigianali e di abitazione,
di un’area sacra (Via Jovine), che evidenziano tecniche edilizie
sempre più evolute.
È noto che,
con il definitivo ordinamento augusteo, il fiume Biferno divenne il
naturale confine tra la Regio IV e la Regio II, tra
cui furono divisi i Frentani. Il territorio a ovest del fiume,
assegnato alla Regio IV, manteneva la denominazione
di Regio Frentana e comprendeva le città
di Anxanum (Lanciano), Histonium (Vasto), Hortona (Ortona), Buca (forse
Termoli) (Plinio, Naturalis Historia, III, 106). Il territorio a
est del Biferno, assegnato alla Regio II, venne di
fatto assimilato alla Daunia: comprendeva Cliternia, Teanum
Apulum e Larinum, spingendosi fino al Fortore, il flumen
portuosum Fertor citato da Plinio (N. Hist. III, 103). Questa
fisionomia particolare di Larino le consentì comunque di conservare,
nella denominazione ufficiale, memoria della sua pertinenza etnica
all’area Frentana: Larinates cognomine Frentani, scrive
infatti Plinio (N. Hist. III, 105). Non devono quindi meravigliare le
divergenze esistenti fra i testi antichi, in merito all'esatta
attribuzione di Larinum a un preciso ambito territoriale.
La città, infatti, è citata dal geografo Stefano
Bizantino come πόλις Δαυνίων, in Pomponio
Mela è soltanto un oppidum della Daunia,
per Tolomeo è uno dei principali centri dei Frentani,
secondo Plinio il Vecchio è città frentana, ma risulta
inserita nella Regio II, che comprende l’Apulia.
Gli scavi
sistematici, effettuati a partire dal 1977 a Piana San Leonardo,
hanno restituito una sequenza stratigrafica, sia pure solo in aree
limitate, molto interessante, ed hanno consentito di individuare, sia
pure in maniera discontinua, l’area di estensione della città
romana, anche se allo stato attuale non è possibile precisarne con
esattezza il perimetro delle mura. Infatti l'espansione edilizia di
Larino, verificatasi nel dopoguerra proprio nell'area di Piana San
Leonardo per soddisfare le esigenze abitative della comunità, si
sovrappone quasi fedelmente all'antico sito, realizzando una rapida e
quasi completa urbanizzazione dell’intera area. Tale condizione ha
determinato, negli anni successivi, una situazione estremamente
problematica sotto il profilo della ricerca archeologica, per cui è
stato possibile esplorare esclusivamente quelle poche aree rimaste
libere, ubicate tra gli agglomerati edilizi moderni, le sole
suscettibili di iniziative di conservazione e valorizzazione di
quelle evidenze archeologiche non ancora compromesse dallo sviluppo
edilizio.
Le
esplorazioni archeologiche a Piana San Leonardo hanno accertato la
presenza di insediamenti risalenti alla fine del V secolo a.C. -
prima metà del IV secolo a.C. costituiti da acciottolato e resti di
muri perimetrali di edifici. Successivamente, su quelli più antichi,
furono impostati altri edifici, risalenti alla fine del IV secolo –
inizi del III secolo a.C. che adottarono tecniche edilizie più
evolute, con muretti a secco, con pietre irregolari e con filari di
tegole, oppure legati con malta cementizia. In seguito la zona
corrispondente all'attuale Via Jovine venne ad assumere una
destinazione sacra: infatti la fase ellenistica (fine III secolo a.C.
– inizio II secolo a.C.) è caratterizzata dalla presenza di una
grande quantità di materiale votivo, da riferire all'attività di un
santuario, da identificare molto probabilmente con un edificio di
notevoli dimensioni di cui restano alcuni grossi blocchi di pietra
tufacea, ben squadrati. A giudicare dal materiale votivo, l’area
era dedicata a una divinità femminile, molto probabilmente Afrodite:
infatti numerose sono le statuette di terracotta che raffigurano la
dea. Il tempio della dea è stato parzialmente riconosciuto in una
struttura di blocchi calcarei, cui viene affiancata, intorno al II
secolo a.C. un'aula rettangolare pavimentata a mosaico, che forma un
motivo a reticolo. In questa fase, sia pure limitatamente ad alcuni
settori della città, si adottano, solo per edifici di maggiore
consistenza, blocchi tufacei ben squadrati, che saranno impiegati per
lungo tempo. La zona adiacente al tempio fu adibita, per tutto il
periodo di funzionamento del santuario, ad area di scarico del
materiale votivo, che si presenta sparso in tutta la zona. Inoltre,
limitatamente ad alcune zone, l’area fu adibita anche a sacrifici
particolari, come dimostra la presenza di mucchi di ciottoli disposti
a piramide, frammisti a carboni, statuette fittili e statuette
votive.
Gli oggetti votivi comprendono
materiale ceramico, statuette fittili e di bronzo, e molte monete,
tra cui un gruzzolo di ventidue, nascosto in un vasetto di
terracotta, che forma un vero e proprio tesoretto, risalente alla
metà del II secolo a.C. Ma l’elemento più caratterizzante del
deposito votivo può essere considerato senz'altro la coroplastica di
piccole dimensioni: si tratta di statuette eseguite a stampo, che
quindi si presentano cave internamente e per lo più di argilla
omogenea. La parte anteriore è più accurata nei particolari, quella
posteriore è solo appena abbozzata e di fattura grossolana; le
teste, eseguite a tutto tondo, servendosi di due matrici, sono state
di solito create a parte e poi applicate alla base del collo. Tra i
diversi tipi attestati a Larino, prevalgono le figure femminili
panneggiate, secondo lo stile attico che si diffuse rapidamente in
tutto i mondo ellenistico fino al I secolo a.C.
La presenza di queste statuette
costituisce un interessante documento per comprendere le diverse
direttrici di diffusione di motivi culturali iconografici ellenistici
provenienti da Taranto e dall'area magno greca in genere e diretti
non solo verso la Campania e il Lazio, ma anche verso le regioni
medio - adriatiche. Si conferma così il ruolo rilevante svolto dalla
città per la diffusione di questi e di altri prodotti in vaste aree
del centro Italia.
Un'altra delle aree più ampiamente
esplorate è quella in località Torre Sant'Anna, che conobbe lunga
vita, attraversando varie fasi. Inizialmente vi si trovava una
raffinata domus, realizzata intorno al III-II secolo a.C. di cui
sopravvivono l’atrio, pavimentato in ciottoli policromi, ed alcuni
ambienti circostanti. La ricchezza dell’edificio è testimoniata
dalla presenza di un ampio impluvium con una pavimentazione
in mosaico policromo, raffigurante al centro un polpo ed agli angoli
quattro cernie.
Ma la vita della domus venne
bruscamente interrotta per sopravvenute esigenze pubbliche. La zona,
infatti, fu destinata a ospitare un’area pubblica, con edifici
monumentali, tra cui il foro, una grande struttura, a pianta
quadrangolare, realizzata in opus mixtum di reticolato e
laterizi. L’edificio si articolava in una serie di esedre, con
abside centrale, che si aprivano su un ambiente interno porticato.
Alle spalle, con accesso a est, si conservano i tratti murari in
laterizio di un altro edificio con pronao, forse originariamente
rivestito all'interno con marmi e pavimentazione in mosaico, del
quale si ipotizza una destinazione sacra, forse il tempio di Marte al
quale allude Cicerone, quando riferisce della presenza a Larino
dei Martiales, schiavi pubblici, consacrati al culto del dio
secondo antiche tradizioni religiose.
Una terza
area di Piana San Leonardo sottratta alla proliferazione edilizia è
quella compresa tra l’asilo nido ed il Tribunale Civile, dove è
venuto alla luce, inspiegabilmente, un settore urbano con strada
lastricata e marciapiedi, lungo la quale si evidenziano da un lato
edifici abitativi e dall'altro edifici artigianali. Inspiegabilmente,
perché si tratta di un’area piuttosto decentrata rispetto a quello
che si credeva il limite dell’antica città. Alcuni ambienti
destinati ad abitazioni conservano ancora pavimentazioni in mosaico e
in cocciopisto; la parte artigianale, sebbene in condizioni peggiori,
conserva vasche, pavimenti in cocciopisto e canalette di
deflusso.[56]
Nel 91 a.C.
scoppia la guerra sociale: è l’ultima sfida contro Roma da parte
dei popoli italici. Anche i Sanniti insorgono per ottenere a pieno
diritto la cittadinanza romana, e costituiscono, insieme alle altre
popolazioni, la Lega Italica; rappresentano, nello schieramento degli
insorti, l’elemento più forte e determinato. Di fronte agli
iniziali successi dei ribelli, Roma reagisce promulgando alcune leggi
(la lex Julia e la lex Plautia Papiria) che concedono
la cittadinanza romana a tutte le popolazioni italiche che in quel
momento non sono in armi o che sono disposte a deporle. L’iniziativa
ribalta la situazione a favore di Roma dal momento che buona parte
dei ribelli accoglie la proposta. Le lunghe guerre avevano ormai
fiaccato le resistenze italiche ed il sopravvento di Roma era
diventato inevitabile. La concessione della cittadinanza consente ai
Romani di organizzare l’assetto territoriale mediante la fondazione
di municipia, non solo sedi del potere amministrativo ma anche
centri organizzativi delle attività produttive, artigianali,
agricole, edilizie e commerciali. La municipalizzazione non ebbe
subito vita facile, perché venne a scontrarsi con il sistema
italico, tradizionalmente legato a un'economia agricolo-pastorale che
si esprimeva in una forma di insediamento sparso. Col tempo anche il
Sannio si adeguò al sistema municipale romano, preludio a una
completa romanizzazione del territorio: nell'area molisana sorsero
municipi a Isernia, Venafro, Trivento, Bojano, Sepino e Larino,
secondo le necessità organizzative del potere centrale. Nello stesso
periodo scompaiono le testimonianze di vita in quasi tutti i santuari
sannitici.
I Sanniti, ribelli nella guerra
sociale, non avevano comunque dimenticato l’opposizione dimostrata
da Lucio Cornelio Silla alla loro ammissione alla
cittadinanza romana: allo scoppio della guerra civile, quindi, non
esitarono a schierarsi con Gaio Mario. Quando Silla rientrò
dall'Oriente nell'anno 83 a.C. decise che avrebbe combattuto l’ultima
delle guerre sannitiche. La sanguinosa battaglia di Porta
Collina (82 a.C.) fu per i Sanniti la loro ultima grande
battaglia: colpevoli di aver appoggiato i populares di
Mario, dovettero fare i conti con la spietata vendetta del vincitore,
che si accanì in modo particolare contro di loro, convinto, come
narra Strabone (V ,4, 11), che nessun romano sarebbe stato al
sicuro finché fosse esistita una comunità sannita organizzata.
La sconfitta segna la fine dei Sanniti
come entità statale, dotata di una propria identità, di
istituzioni, lingua e religione proprie. Mai più avrebbero svolto un
ruolo nello stato romano, confinati nell'oscurità ed ampiamente
ignorati. Da quel momento i Romani non sentirono in alcun modo la
necessità di riconciliarsi con loro ed avviarono un lento processo
di denazionalizzazione del Sannio. Larghi tratti di territorio
vennero confiscati e distribuiti ai veterani; quelli non assegnati
divennero ager publicus a disposizione degli allevatori.
Perfino la lingua osca fu declassata a dialetto contadino, lasciando
completamente il posto al latino. Già alla fine del I secolo d.C.
una larga percentuale della popolazione del Sannio non doveva più
essere sannita.
Non è certo
un caso se, anche a distanza di tempo, ben pochi furono i Sanniti che
occuparono gli alti comandi dell’esercito, ed anche in campo
politico pochissimi rivestirono cariche ufficiali di alto rango o
riuscirono a sedere nel Senato romano.
Anche se le più antiche fasi della
storia di Larino sono affidate ai risultati della ricerca
archeologica, si dispone oggi di una sola, ma autorevolissima fonte
antica, Cicerone, per avere una testimonianza di quella che poteva
essere, nel I secolo a.C. la vita di una città di provincia come
Larino, negli anni immediatamente successivi al bellum sociale,
un affresco, certamente lacunoso, della società locale proiettata
nell'ambito dei ben più ampi avvenimenti dell'Italia del tempo.
Nel 66 a.C. Cicerone, quarantenne,
pronunciò a Roma, davanti al tribunale penale un'orazione in difesa
del larinate Aulo Cluenzio Avito (la celebre Pro Cluentio), un
aristocratico di rango equestre, uomo di "antica nobiltà",
accusato dalla madre Sassia di tentato omicidio del patrigno Stazio
Oppianico e del tentativo di corruzione dei giudici del processo.
Per attestare la loro stima all'amico e
testimoniare a suo favore, giunsero a Roma non solo i più nobili
cittadini dei Frentani, dei Marrucini e dei Sanniti dell’interno,
ma anche equites romani provenienti da Lucera e da Teano
Apulo. Si trattò senza dubbio di un processo molto “chiacchierato”,
poiché i Cluentii appartenevano al rango equestre ed erano
una delle famiglie più facoltose ed in vista della città. Nel tempo
in cui si svolgono i fatti descritti da Cicerone, Larino è ormai
diventata una città operosa, ricca e vivace: ha attraversato diversi
assetti urbanistici, vi si organizzano feste e giochi pubblici, si
tengono mercati, si intrecciano intensi traffici commerciali, grazie
ai rapidi ed agevoli collegamenti viari. Nel corso della recente
guerra sociale il partito popolare ha combattuto al fianco degli
italici, quello conservatore, di antica nobiltà, si è schierato a
favore di Silla. La città è stata dilaniata da lotte interne e
violenti disordini, scontri tra le due avverse fazioni, che hanno
fatto ricorso con spregiudicatezza a ogni mezzo pur di contendere il
potere politico all'avversario. È il clima che ormai caratterizza la
crisi del regime repubblicano dell'ultimo secolo a.C.
L’orazione
offre a Cicerone spunti per descrivere, anche solo incidentalmente, i
costumi e il tenore di vita delle famiglie aristocratiche di Larino,
molte delle quali in stretto rapporto di amicizia e di affari con
senatori e personaggi di rilievo della capitale, dove sicuramente si
recavano con notevole frequenza. Famiglie abituate a vivere nel lusso
e negli agi, che ricavavano i propri profitti dagli affari, dalla
pastorizia e dalle attività agricole (negotia, res
pecuariae, praedia).[59]
Si sa pochissimo delle vicende di
Larino in età tardo imperiale: sicuramente l’area era ancora
abitata nel IV secolo d.C. epoca a cui si datano le circa seimila
monete di bronzo rinvenute casualmente in località Lagoluppoli,
forse nei pressi di un’antica strada, ormai scomparsa, che da
Larino proseguiva verso Rotello ed i mosaici rinvenuti nei vecchi
scavi, che attestano la vitalità del centro abitato. Certamente
anche Larino fu colpita dal terribile terremoto del 346 d.C. che
devastò l’intero Sannio, come dimostrano le iscrizioni relative
agli interventi su edifici pubblici restaurati a cura dello Stato.
Proprio da Larino proviene un'iscrizione relativa ad Autonius
Iustinianus, primo governatore della Provincia Samnii, da poco
istituita, che si occupò in particolare della disastrosa situazione
di Isernia. Il Sannio, infatti, dopo essere stato accorpato alla
Campania, verso la fine del III secolo d.C., con il profondo
riordinamento amministrativo dell’Impero promosso da Diocleziano,
diventa nuovamente provincia autonoma verso la metà del IV secolo
d.C. conservando inalterata la sua unità territoriale fino alla fine
del VI secolo d.C. quando, con l’avvento dei Longobardi, perderà
definitivamente la propria autonomia amministrativa.
In età alto
medievale tutto il sito di Piana San Leonardo era già probabilmente
in stato di abbandono, oggetto di sistematiche spoliazioni di
materiali lapidei, utilizzati per la costruzione delle abitazioni del
centro medievale, più a valle; in particolare furono asportate le
parti in laterizio dell'anfiteatro che, ormai non più in uso, venne
adibito occasionalmente per sepolture e fu anche utilizzato per
ricoveri di fortuna in alcuni spazi dell'anello superiore della
cavea; nella rampa della porta est funzionò fino all'inizio
dell'VIII secolo d.C. una fornace per calce.
UrbanisticaNonostante gli innumerevoli scavi e
saggi archeologici eseguiti in questi ultimi decenni in zone diverse
del suo tessuto urbano, è ancora oggi difficile dire con precisione
dove e quanto si estendesse la città: è presumibile, soprattutto in
base alle evidenze archeologiche, che occupasse un’area, per così
dire, a forma di ala di uccello, con al vertice l’anfiteatro
(ubicato, quindi, un poco ai margini del paese) ed i due bracci
disposti l’uno verso la collina del Montarone (la zona attualmente
più invasa dall'edilizia moderna) e l’altro verso Torre Sant'Anna
(presumibilmente l'area della città romana più ricca di edifici
pubblici e privati).
Tale
conformazione urbanistica fu certamente condizionata dal particolare
andamento declinante del terreno e dalla preesistenza di percorsi
viari di collegamento, che determinarono la scelta dei siti
abitativi. Certamente un'antica strada collegava Torre Sant'Anna con
il fondovalle del Biferno, così come la strada attuale verso il
Montarone svolge, come allora, funzione di collegamento con la Piana
di Larino e la costa adriatica. Un terzo braccio stradale,
sopravvissuto fino ad oggi, è quello che dall'anfiteatro si dirige
verso l’interno, in direzione di Casacalenda, dove sorgeva la
necropoli romana, come è testimoniato dalle numerose epigrafi e
lapidi funerarie rinvenute alla fine dell’Ottocento, quando fu
costruita l'attuale stazione ferroviaria.
Anche se nell'ambito dell’area
frentana Larino è la città meglio nota, grazie ai ruderi rimasti
parzialmente sempre fuori terra e grazie ai risultati delle recenti
ricerche archeologiche, gradualmente sempre più estese, bisogna dire
che solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento fu esteso un
primo vincolo archeologico alle aree immediatamente adiacenti
all'anfiteatro, già abbondantemente urbanizzate. Dagli anni Settanta
l’Amministrazione comunale, in concomitanza con l’istituzione
della Soprintendenza archeologica del Molise, ha affrontato in modo
costruttivo il problema relativo alla tutela di quelle aree ancora
libere da costruzioni, condizionando la destinazione delle
particelle, che sono state in tal modo risparmiate dallo sviluppo
edilizio. Non essendo ormai più praticabile l'attuazione di
interventi di esproprio, è stato possibile procedere
all'esplorazione archeologica soltanto in quelle zone rimaste libere,
realizzando, dove necessario, interventi di restauro e di
conservazione nelle aree dove sono state rinvenute evidenze
archeologiche (mosaici, lastricati, manufatti).
Tutte le
strutture rinvenute negli ultimi trenta anni, sebbene immerse tra gli
agglomerati edilizi moderni, sono state sottoposte a consolidamento e
restauro: i mosaici, in particolare, sono stati collocati su
specifici supporti, posizionati in situ in modo da poter
essere asportati, se necessario, in qualsiasi momento. È
stata comunque assicurata a ogni manufatto la dovuta protezione, per
rallentarne il processo di disgregazione, lasciandolo comunque
pienamente fruibile. Infatti tra la possibilità di asportare un
mosaico per esporlo nella sala di un museo e quella di lasciarlo nel
sito originario, dopo accurata operazione di restauro, si è
prevalentemente preferita questa seconda soluzione, per l’esigenza
di restituire al manufatto la sua più completa leggibilità,
conservandolo nell'ambiente originario.
L'anfiteatro romanoCon i suoi ruderi, rimasti sempre
parzialmente affioranti, l’anfiteatro è certamente il monumento
antico più celebre di Larino, anzi, senza dubbio, rappresenta da
sempre il simbolo della città. Negli ultimi decenni, purtroppo,
l’area è stata interessata da un'intensiva urbanizzazione, in
quanto adiacente alla ferrovia ed alla strada statale.
Cicerone riferisce
(Pro Cluentio, IX, 27) che a Larino, già molto prima di disporre di
un anfiteatro stabile, erano abitualmente praticati in città giochi
pubblici e spettacoli (ludi). È probabile che, come avveniva anche a
Roma, si utilizzassero strutture lignee mobili oppure ci si servisse,
come avveniva a Sepino, degli spazi del Foro. Progettato per
essere inserito nel contesto urbano, all'epoca già ben definito,
venne edificato in un’area marginale, già da tempo occupata, sul
margine occidentale della Piana San Leonardo, su una scarpata che
degrada verso ovest, alla periferia della città ellenistica e
romana. Per edificarlo fu necessario dare corso a uno sbancamento
nella parte meridionale dell’abitato, sacrificando gli edifici e le
strade che già occupavano l’area. Diverse testimonianze
archeologiche (tre brevi tratti di muratura a secco, due residui di
acciottolato stradale a spina di pesce), ben anteriori alla sua
costruzione, perché risalenti al periodo VI – III secolo a.C.,
hanno confermato l’utilizzazione dell’area in un’epoca
precedente alla costruzione dell’anfiteatro. Unici resti
del precedente abitato, raso al suolo in occasione della
realizzazione della cavea.
Purtroppo nessun cenno del monumento si trova nelle fonti antiche, né
è pervenuto alcun elemento relativo agli spettacoli organizzati,
come è invece documentato per l’anfiteatro di Venafro.[64] Risulta
invece variamente citato dagli storici locali (Tria, Caraba e
Magliano): si tratta per lo più di riferimenti sommari, a volte
anche scarsamente attendibili, che di solito evidenziano, già agli
inizi del secolo XVIII, lo stato di abbandono del monumento,
sottoposto a continue spoliazioni. Fra tutti è il Tria che
si dilunga a descrivere l’anfiteatro con molti dettagli,
dedicandogli numerose pagine: si sofferma in confronti con altri
celebri anfiteatri romani, sostiene che l’arena avesse forma
circolare ed affronta anche il problema della sua datazione. Allegati
al testo, i disegni di Pietro Torelli (pianta e veduta prospettica)
illustrano il monumento, anche se offrono una ricostruzione poco
attendibile dell’intero edificio. L’opera del Tria è stata
assunta come indiscussa fonte di riferimento dalla maggior parte
degli scrittori successivi, fino a tempi piuttosto recenti.
Scientificamente più interessanti e corrette risultano invece le
indicazioni e le descrizioni fornite nel 1851 da Ambrogio
Caraba ed i disegni, da lui stesso delineati, contenenti la
pianta e la veduta prospettica dell’edificio, questa volta in forma
ellittica. I dati di scavo successivi hanno confermato la bontà
delle sue misurazioni e ricostruzioni, basate su riscontri diretti,
come afferma lo stesso Caraba.
Magliano nella
descrizione del monumento segue le indicazioni del Tria e avvalora
l’ipotesi che l’anfiteatro fosse di forma circolare (la forma
apparentemente ellittica era dovuta, a suo giudizio, a un effetto
ottico).
Edificato
nell'ultimo ventennio del I secolo d.C. per volontà testamentaria di
L. Capitone, personaggio appartenente al rango senatorio, come è
attestato da un'iscrizione, sia pure frammentaria, originariamente
posta a coronamento della porta occidentale dello stesso anfiteatro,
l’edificio era destinato ai combattimenti gladiatori, e rappresentò
uno degli esempi di rinnovamento edilizio che interessò tutto
l’impero romano, subito dopo la fastosa inaugurazione a Roma
dell’anfiteatro Flavio: all'epoca furono molti i personaggi di alto
rango che decisero di finanziare la costruzione di simili
edifici.
Tra quelli
noti del mondo antico, quello di Larino è un anfiteatro a pianta
ellittica di medie dimensioni, simile per dimensioni a quelli
di Luceria oppure di Alba Fucens, ma molto più
modesto di quello di Capua. Pur non grandissimo, presenta
all'esterno un asse maggiore di m. 97,80 (con orientamento nord-sud)
ed uno minore di m. 80 (con orientamento est-ovest) ed un’arena di
m. 59,40 x m. 41,60. Con una superficie complessiva di oltre seimila
metri quadrati, poteva agevolmente ospitare quasi undicimila
spettatori. Nulla si sa delle manifestazioni allestite in occasione
dell'inaugurazione, avvenuta sotto l’imperatore Tito. Dalla
presenza di alcuni elementi tecnici, si ipotizza che la struttura
dell’edificio potesse essere adattata all'occorrenza anche per
spettacoli teatrali (a quanto è dato sapere, un teatro mancava a
Larino) oppure per spettacoli circensi.
A differenza
di altri edifici del genere interamente costruiti in elevato,
l’anfiteatro di Larino si presenta con una struttura mista: l’arena
e l’ima cavea risultano scavate direttamente nello strato di
arenaria, piuttosto friabile, invece gli ordini superiori sono stati
costruiti in elevato, utilizzando strutture murarie che, sebbene di
dimensioni diverse, presentano condizioni strutturali simili. Il
procedimento utilizzato per la costruzione è quello tipico romano,
con murature a sacco, riempite con opus caementicium, un
composto cementizio fatto di malta e pietrame grezzo misto a ghiaia,
che garantisce compattezza e solidità. Il paramento murario esterno
è in opus reticulatum, con blocchetti in pietra a base
quadrata, di forma piramidale, di fattura irregolare, con la punta
inserita nel cementizio e disposti in diagonale a formare un
reticolo. Le indagini eseguite sui materiali hanno evidenziato che
sono stati utilizzati ciottoli calcarei e pietrame tufaceo di
provenienza locale, non della migliore qualità; anche le malte
risultano di mediocre fattura, ma nel complesso il manufatto
evidenzia buona capacità costruttiva e buona conoscenza delle
tecniche edilizie.
Il piano dell’arena risulta convesso
al centro, in modo da consentire lo scolo delle acque nell’euripo,
un apposito canale che circonda l’arena, profondo circa cm. 40 e
largo cm. 32, realizzato con conci di pietra calcarea ben lavorati.
Nell’arena si accede attraverso quattro porte d’ingresso, le due
che si aprono in corrispondenza dell’asse maggiore sono molto
ampie, per consentire l’ingresso “trionfale” di personaggi
importanti o gladiatori vittoriosi, ricoperte da volte a botte,
quelle costruite sull'asse minore sono più strette e sono provviste
di gradini. Quasi al centro dell’arena, spostata verso il settore
est, è scavata nel tufo una fossa rettangolare, profonda quasi
cinque metri, di circa m. 7,50 x m. 5,50, che presenta sul lato
minore una rampa di accesso all’arena larga circa m. 1,50. Sul
fondo della fossa sono stati ritrovati dei massi di pietra, provvisti
di un gancio centrale: si tratta quasi certamente di contrappesi
utilizzati per il funzionamento di un montacarichi, per sollevare sul
piano dell’arena le gabbie degli animali feroci durante gli
spettacoli gladiatori. L’arena è delimitata, lungo tutto il
perimetro, dal muro di sostegno del podio, alto due metri e rivestito
con pesanti lastre di calcare, che presentano il bordo superiore
arrotondato, che fungeva da parapetto del podio, e provvisto di fori
per il sostegno della rete di protezione per gli spettatori. In
corrispondenza delle due porte principali, nel muro del podio si
aprono quattro porte di accesso a quattro piccoli ambienti,
gli spoliaria, dove venivano prestate le prime cure ai
gladiatori feriti o venivano deposti momentaneamente i corpi di
quelli uccisi in combattimento. A questi ambienti si accedeva, oltre
che dall'arena, anche dalle porte principali.
«
(Larino) Su le rovine
dell'anfiteatro. Questo rudere insigne ammonisce che un popolo
decaduto non è indegno dell'antica grandezza finché serbi fede alle
virtù che resero grandi i suoi padri.»
(Epigrafe di Mario Rapisardi)
Gli scavi non hanno restituito resti
delle gradinate dei diversi settori. Si ipotizza che i gradini del
podio fossero tre, oltre i quali iniziava il livello superiore,
quello della ima cavea, che, secondo le regole descritte da
Vitruvio, doveva avere un numero di gradini doppio di quelli del
podio. Il settore superiore, la media cavea, era ancora più
ampio, forse di dieci gradini.
L’ultimo settore, quella della summa
cavea, corrispondeva probabilmente all'attico sovrastante
l’ambulacro, al quale si accedeva attraverso delle rampe esterne,
addossate al muro perimetrale dell’anfiteatro. È probabile che per
alleggerire la struttura dell’edificio le ultime gradinate
destinate al pubblico fossero realizzate in legno. La buona
visibilità era assicurata a tutti gli spettatori non solo dalla
forma ellittica della struttura, ma anche dalla pendenza delle
gradinate che aumentava di settore in settore, a mano a mano che ci
si allontanava dall'arena, secondo precise regole costruttive.
L’accesso ai settori era rigidamente
disciplinato, per questo ciascun settore aveva ingressi indipendenti.
I nobili accedevano al podio direttamente dalle quattro porte di
accesso all’arena. Ai due settori superiori si accedeva
dall'ambulacro, una galleria coperta da una volta a botte, che
correva lungo tutto il perimetro dell’anfiteatro e che presentava
sulla parete esterna una serie di arcate a tutto sesto e sulla parete
interna dei corridoi di accesso alle gradinate della cavea,
i vomitoria, forse in numero di dodici. L’accesso al livello
dell’attico era assicurato da rampe esterne, addossate
all'edificio, probabilmente una per ciascun settore dell'anfiteatro.
Il pubblico
che assisteva ai giochi apparteneva a tutte le classi sociali, ma
ciascuno accedeva al settore riservato al suo specifico rango
sociale. Al podio potevano accedere solo le autorità civili e
militari, gli ospiti d’onore, le personalità di rilievo con le
loro famiglie. Le successive sei gradinate erano riservate ai
cavalieri, mentre gli spettatori di rango sociale non elevato
accedevano al settore superiore, composto da dieci gradinate. Il
popolo di condizione modesta e gli schiavi occupavano le gradinate
più in alto, nella summa cavea. Attualmente i resti della parte
in elevato sono limitati ai ruderi dell’ambulacro e del muro
esterno in corrispondenza della porta nord e ad alcuni brevi tratti
di muratura negli altri settori, mentre quelli del settore sud-ovest
sono stati inglobati nella costruzione del villino Calvitti.
Già nel 1962
i ruderi subirono un primo intervento di parziale consolidamento.
Solo nel 1978 fu avviato un primo intervento di scavo, in attuazione
di un programma straordinario predisposto dalla Soprintendenza
Archeologica del Molise e dal Comune di Larino. Le indagini di scavo
vennero condotte dalla dott.ssa Anna Rastrelli e si
concentrarono sulla parte orientale dell’arena. Negli anni
1981-1982 l’anfiteatro è stato di nuovo parzialmente esplorato,
grazie a un progetto finanziato dalla Regione Molise, sia pure
limitatamente alla metà orientale del monumento. Già i primi
interventi evidenziarono la sistematica spoliazione dei materiali
lapidei e dello stesso tufo effettuata nel corso dei secoli ai danni
dell’anfiteatro, cosa che rendeva impossibile effettuare scavi
stratigrafici nell'area interna, che risultava irrimediabilmente
manomessa. Ma anche l’area esterna, ugualmente non ancora
esplorata, appariva praticamente irrecuperabile, a seguito di una
serie di interventi che avevano “inquinato” l’intera zona: la
costruzione della strada statale n. 87, a nord-ovest, l’edificio
dell’Enel a nord, una serie di case private lungo il perimetro
nord-est, la presenza del villino Calvitti a sud-ovest, lungo il
percorso dell’ambulacro.
Fin dall'epoca del suo definitivo
disuso, nel corso dei secoli l’edificio è stato sottoposto a
continue spoliazioni; inoltre già dalla tarda antichità alcune
parti della struttura, specialmente nel settore nord-est, furono
riutilizzate: qui l’ambulacro risulta chiuso trasversalmente da
muretti che delimitano degli ambienti; in questo settore venne poi
realizzata una fornace per laterizi, mentre nella rampa della porta
est funzionò una fornace per calce già anteriormente all’VIII
secolo d.C. Inoltre nel settore nord-est, in corrispondenza di alcuni
pilastri, in epoca alto medioevale furono messe in opera alcune
sepolture. In realtà, già a partire dalla campagna di scavo
condotta nel sito nel 1987-1988 è emersa la presenza di numerose
sepolture, dislocate in vari settori dell’anfiteatro, appartenenti
ad ambiti cronologici sia anteriori che posteriori alla sua
costruzione.
Durante un
saggio di scavo effettuato nel settore nord-ovest della cavea, a
ridosso della massicciata di tufo presente su tutta la metà
occidentale, sono state rinvenute due sepolture risalenti al periodo
arcaico (VI secolo a.C.), che hanno confermato l’uso, già
documentato altrove, di seppellire nel centro abitato. Si tratta di
due fosse rettangolari, ricavate nel tufo, sfruttando la naturale
pendenza del terreno e ricoperte con una copertura piana di
blocchetti tufacei. In entrambe gli inumati (uno è una bambina) sono
disposti supini, a diretto contatto col terreno, gli scheletri
risultano gravemente danneggiati. Molto poveri i corredi
funerari.
Più
interessanti le sepolture di epoca alto medievale, rinvenute nel
settore di nord-ovest, nei pressi del primo vomitorio. Sebbene
abbastanza danneggiate, le sepolture hanno restituito, in alcuni
casi, corredi funebri interessanti, costituiti prevalentemente da
oggetti personali, orecchini e spilloni di bronzo, fibule e armille
in ferro, rasoi, coltelli e pettini. Si tratta di fosse di forma
irregolare, ricavate nel tufo, prive di riempimento, ricoperte con
tegoloni e coppi oppure con lastre di calcare, contenenti scheletri
disposti in posizione supina, spesso danneggiati ed in cattivo stato
di conservazione. La prassi del riutilizzo in epoca alto medievale
dei siti romani ormai in disuso doveva essere abbastanza frequente,
come è già testimoniato nel teatro di Saepinum.
Le
termeNelle immediate vicinanze
dell’anfiteatro, ma sempre all'interno dell’attuale parco
archeologico, è possibile ammirare i resti delle sontuose terme,
ricche di mosaici policromi, con rappresentazioni di animali
fantastici e marini, e di figure geometriche; attualmente è
possibile visitare due vasche destinate ai bagni in acqua calda,
tiepida e fredda (calidarium, tepidarium, frigidarium), il
vano in cui si produceva con il fuoco il riscaldamento dell’acqua
(praefurnium), un vano con le suspensurae (cioè con le
colonnine che reggevano il pavimento rialzato in cui passava l’aria
calda), un grande pilastro pertinente ai portici, un accurato sistema
di scarico delle acque, costituito da una poderosa fognatura, coperta
da tegole disposte a cappuccina. La particolarità di questo
ritrovamento archeologico è che esso conserva ancora l’impianto
dell’ipocausto, cioè degli ambienti sotterranei in cui erano
ubicati i forni ed altri locali di servizio. Si è provveduto ad
assicurare una dovuta protezione a quanto è stato portato alla luce,
mediante l'installazione di un'opportuna struttura di copertura;
inoltre una passerella metallica consente di visionare il mosaico
dall'alto senza calpestarlo.
Il
foroNell'area di scavo di Torre Sant'Anna è
stato identificato il lato orientale del Foro, con i suoi
edifici monumentali: in questo settore urbano si concentrano, ben
visibili, varie fasi. La prima, risalente al III – II secolo a.C.,
non prevede ancora la destinazione pubblica; vi si trova ubicata,
infatti, una grande e raffinata domus, della quale sopravvivono
l’atrio pavimentato in ciottoli policromi dimezzati ed alcuni degli
ambienti che si distribuivano intorno all'atrio ed ai lati dell'ampio
corridoio di accesso. Oltre alla pavimentazione dell'atrio, la
particolarità è data anche dalla presenza di un ampio impluvium il
cui pavimento in mosaico policromo raffigura al centro un polpo ed
agli angoli quattro cernie, con un’ampia fascia marginale con
tralci e grappoli d’uva.
Questa parte della città antica
conobbe due successive fasi edilizie: dopo la sua costruzione,
avvenuta tra la seconda metà del II secolo a.C. e la prima metà del
I secolo a.C., fu pesantemente ristrutturata nel IV secolo d.C.,
quando il governatore della Provincia Samnii, appena istituita,
dovette avviare i restauri, dopo il disastroso terremoto che colpì
la zona nell'anno 346 d.C.. La vita della città continuò anche
successivamente, ma in modo stentato: lentamente gli edifici, ormai
abbandonati, cominciarono a essere oggetto di sistematiche
spoliazioni, per un riuso dei materiali. Qua e là, probabilmente,
spuntarono modeste casupole, costruite con materiali di spoglio.
Le
domusLa domus ubicata vicino al
Foro, per dimensioni, ricchezza decorativa, impegno economico profuso
nella sua realizzazione, certamente apparteneva a una delle famiglie
dell'aristocrazia agraria larinese, la cui ascesa, iniziata nel III
secolo a.C. proseguirà senza interruzione. Difatti, agli inizi del I
secolo a.C. la domus subì dei rifacimenti nell'area
dell’impluvio e modificazioni dello stato precedente. Poi, dopo
circa un secolo, la sua vita fu interrotta bruscamente per
sopravvenute esigenze pubbliche: infatti, la zona fu destinata a
ospitare edifici monumentali, che delimitavano il lato orientale del
Foro, posizionati su una grande struttura a pianta quadrangolare,
realizzata in opera reticolata e laterizi. Il lato che dava sul Foro
si apriva sui portici mediante tre vani, quello opposto si articolava
in una serie di esedre con abside centrale, che a loro volta si
aprivano su uno spazio interno porticato.
Alle spalle, con accesso a est, si
trova un altro edificio con pronao, originariamente rivestito
all'interno con marmi pregiati e con pavimento in mosaico; di esso si
conservano oggi, fino a notevole altezza, i tratti murari in
laterizio. Si ipotizza che questo edificio, situato in posizione
preminente su un lato del Foro, avesse una destinazione sacra, fosse
il probabile tempio di Marte, cui allude Cicerone, quando parla della
presenza a Larino dei Martiales addetti al culto del dio.
I tre mosaici policromi, oggi
conservati nel Palazzo Ducale, testimoniano la ricchezza delle
decorazioni che abbellivano le domus dei notabili locali;
quello più appariscente è senza dubbio il mosaico che raffigura la
scena centrale del Lupercale (con la posa classica della lupa che
allatta i due gemelli), circondata da una complessa cornice con cespi
di acanto agli angoli e spirali con cacciatori ed animali. Gli altri
due mosaici, quello del Leone e quello degli Uccelli, anche essi
ispirati a modelli classici, appartenevano a una domus dell’inizio
del III secolo d.C. non lontana dall'anfiteatro.
I
mosaiciI numerosi
mosaici, rinvenuti casualmente nell'abitato di Larino, coprono un
arco di tempo di almeno cinque secoli, dal II secolo a.C. al III
secolo d.C. e testimoniano la ricchezza delle decorazioni che
abbellivano le domus dei notabili locali; degli otto
mosaici tessellati tuttora esistenti, la metà sono policromi. Tra
questi ultimi, i tre più vistosi e noti da tempo sono attualmente
conservati nel locale Museo Civico, presso il Palazzo Ducale di
Larino. Essi testimoniano anche che nella Larino di età imperiale
operavano maestranze dotate di ottime qualità tecniche, non solo
organizzate in botteghe, ma probabilmente anche itineranti.
I primi due mosaici, noti col nome del
Leone e degli Uccelli, vennero alla luce nel 1937 in
una domus del III secolo d.C. in Viale Giulio Cesare (nei
pressi dell'attuale Consorzio di Bonifica), ubicata non lontano
dall'anfiteatro, della quale resta una parte delle mura con paramento
di reticolato a blocchi di calcare. Sono entrambi di notevoli
dimensioni e si ispirano a dei modelli classici. Dagli atti di scavo
del 1941 si evince che erano adiacenti, separati solo da un muro.
Nell'estate del 1949 vennero distaccati, restaurati e musealizzati
nell'attuale collocazione.
Il primo (m. 6,02 x m. 5,30),
complessivamente in buono stato di conservazione, raffigura
nell'emblema centrale un leone ruggente che avanza da sinistra, lo
sguardo rivolto all'indietro, inserito in un tappeto a fondo bianco
in cui sono riconoscibili alcune palme; la cornice esterna presenta
motivi vegetali (con tralci di edera stilizzati), mentre la fascia
marginale presenta il motivo della treccia a quattro capi su fondo
nero ed ai margini è disegnata un’ampia fascia su fondo bianco con
racemi di edera.
Il secondo
(m. 5,07 x m. 5,30), più lacunoso, raffigura nel campo centrale
numerosi tralci con foglie di vite, sui quali si posano uccelli di
vario genere, rivolti verso il centro; presenta un'ampia fascia
marginale con racemi di edera e una serie di cornici concentriche con
motivo a ogive e con motivo a treccia policroma su fondo nero.
Un terzo
mosaico (m. 6,08 x m. 7,17), detto del Lupercale, fu rinvenuto
nel 1941 presso l’attuale Istituto Tecnico Agrario, nei pressi di
Piazza della Stazione Ferroviaria, e nel 1973, dopo una lunga serie
di burrascose vicende, venne sottoposto a restauro e collocato
insieme agli altri due. È senza dubbio quello più appariscente e
noto, risale al III secolo d.C. ed è in ottimo stato di
conservazione. Raffigura nella parte bassa del campo centrale la
scena del Lupercale, con la posa classica della lupa nell'atto di
allattare i due gemelli nella grotta, e nella parte alta due pastori,
di profilo, che osservano la scena stupiti, dall'alto di una collina.
Insolita la raffigurazione della lupa, che con il suo mantello a
strisce somiglia piuttosto a una tigre. Il campo centrale è
circondato da una complessa cornice ornata, con grandi cespi di
acanto ai quattro angoli e spirali con sei cacciatori, armati di
frecce e giavellotti, e animali selvaggi di profilo (felini,
antilopi, cervi). La scena del mosaico si trova riprodotta su altari,
tombe, vasi, pitture, monete e monumenti di vario genere, trattandosi
di un'iconografia molto diffusa nel mondo antico.
È invece
tuttora posizionato in situ il quarto mosaico policromo (m.
2,72 x m. 4,60), detto del Polpo, rinvenuto fra i resti di
una domus di epoca ellenistica presso Torre Sant'Anna.
Costituisce il pavimento di un impluvium per la raccolta
dell’acqua piovana e rappresenta un grosso polpo al centro, con
otto tentacoli, e quattro cernie agli angoli, rese con grande
naturalismo, in una cornice di tralci di vite con grappoli d’uva,
rappresentati in maniera schematica. Riportato alla luce prima nel
1912 e poi nel 1949, venne distaccato nel 1981, opportunamente
restaurato e trattato, ed infine ricollocato nel 1985 nel luogo del
ritrovamento. Attualmente è esposto ai visitatori sotto una
struttura metallica di protezione. Si tratta di un soggetto
comunemente utilizzato per la decorazione di particolari ambienti,
quali terme, fontane e bagni pubblici.
I mosaici bicromi, in bianco e nero,
sono stati ritrovati tutti successivamente a quelli policromi.
Nel 1971, nel
corso di uno sbancamento, è stato rinvenuto in Via Tito Livio, nei
pressi dello stadio comunale, il mosaico detto dei Delfini (m.
6,70 x m. 4,90). Rinterrato, fu riportato alla luce nell'estate del
1985, venne distaccato, restaurato e saldato su pannelli mobili in
vetroresina. Considerate le dimensioni, il mosaico presumibilmente
impreziosiva un ambiente di prestigio di notevole ampiezza. Presenta
una fascia decorativa esterna di onde correnti verso sinistra e una
fascia centrale con meandri di svastiche alternati a riquadri con
soggetti figurati e decorativi; in due di essi compaiono
uno skyphos e un aryballos e in altri due dei
delfini. Le figure, nonostante le ridotte dimensioni, sono ben
definite nei dettagli. Il mosaico presenta una vistosa lacuna su
tutta la metà destra, ma tra quelli bicromi è decisamente il più
elegante e di pregevole esecuzione.
Nel 1973, nei pressi di quello del
polpo, in località Torre Sant'Anna, in occasione di saggi di scavo,
venne scoperto un mosaico absidato (m. 5,10 x m. 7,00), che venne
provvisoriamente lasciato in situ, coperto da uno spesso strato
di sabbia di fiume. Fu riportato alla luce nel 1981, distaccato e
restaurato. Sistemato su pannelli di vetroresina, è stato
ricollocato in situ su una base in calcestruzzo. Presenta
un campo centrale quadrato, decorato con motivi geometrici,
quadrifogli e fiori di loto, chiusi in tre cornici concentriche e una
lunetta absidale. Nel 1984, in Via Morrone, nel corso dei lavori di
costruzione dell’asilo nido comunale, nell'area adiacente al
Palazzo di Giustizia, è stato rinvenuto il mosaico cosiddetto
del Kantharos (m. 1,45 x m. 2,25), vistosamente danneggiato
nel corso dei lavori di sbancamento dell’area. La Soprintendenza
verificò, attraverso la sequenza stratigrafica, la presenza di tombe
a fossa scavate nello strato tufaceo, risalenti al periodo arcaico, e
la presenza di strutture insediative risalenti al successivo periodo
ellenistico - romano. Il mosaico, in cattivo stato di conservazione,
presenta motivi geometrici con ottagoni e losanghe.
Un altro
mosaico è quello cosiddetto in signino, rinvenuto nel corso
degli scavi effettuati dalla Soprintendenza negli anni 1977-1978
nell'area di Piana San Leonardo, in Via F. Jovine. Risale al II
secolo a.C. e costituisce la pavimentazione di un grosso edificio di
epoca ellenistica, di cui restano solo dei blocchi squadrati di
pietra arenaria, in un’area a destinazione sacra. È composto da un
impasto rosso in cocciopisto, con un reticolo di losanghe nella parte
centrale e una fascia esterna con motivi geometrici di quadrati
alternati a svastiche. Nel 1983 è stato distaccato e restaurato,
montato su pannelli in vetroresina e conservato nei depositi della
Soprintendenza.