martedì 13 maggio 2025

Sardegna - Sa Scaba ‘e Cresia

 
Nel suggestivo scenario ‘vulcanico’ del parco del Monte Arci, in prossimità del 'picco' basaltico di sa Punta e’ Santu Marcu, nel territorio di Morgongiori, si apre sa grutta ‘e is caombus (grotta dei colombi), una ‘frattura’ nella roccia - tecnicamente diaclasi - che si insinua nelle profondità della terra. La fenditura, lunga 150 metri e larga un metro e mezzo, è nota agli archeologi da metà XX secolo: i primi che ne varcarono l’ingresso e discesero il dirupo, arrivati al fondo della spaccatura, rimasero stupefatti: trovarono, perfettamente conservata, una scalinata in pietra basaltica, squadrata e larga un metro, composta da tre rampe, due visibili (di 24 e 22 gradini), la terza coperta da detriti, intervallate da due pianerottoli. La gradinata si insinua lungo la spaccatura, in “un sotterraneo ramificato in camminamenti stretti e tortuosi”, come lo definì il ‘padre’ dell’archeologia sarda Giovanni Lilliu.
Alla base delle rampe si raccoglie l’acqua piovana. Tutti gli scalini sono costituiti da due blocchi di basalto squadrati ‘a misura’ e messi in opera inserendo tra essi un blocco a cuneo. In alcuni sono stati ricavati incavi circolari, interpretabili come coppelle con funzione lustrale, su altri spiccano rilievi mammillari, riferibili alla dea Madre, simili a quelli dei templi nuragici, a pozzo e a mégaron, e delle tombe di Giganti. Atmosfera arcana, simbologia e struttura architettonica del tutto simili a quelle dei pozzi sacri, suggerirono senza esitazioni che si trattasse di un tempio ipogeico dedicato al culto delle acque, forse databile al Bronzo recente (XIV-XII a.C.). Fu denominato sa Scaba ‘e Cresia (la scala della chiesa). Di lì a breve subì saccheggi da parte dei tombaroli. Oggi è considerato uno dei più rilevanti monumenti nuragici dell’alta Marmilla, il più grande tempio a pozzo dell’Isola. Un sito misterioso e poco noto: attualmente l’ingresso è riservato a esperti speleologi attraverso passaggi naturali, perché il terreno accumulato in seguito a una frana occlude l’ingresso originario, dal quale si accedeva direttamente alla scala. A poche decine di metri dal varco, all’aperto, sorge una struttura circolare a tholos, oggi alta quasi tre metri (in origine coperta a falsa cupola), del diametro di oltre cinque metri, detta Funtana de su Prantu (fontana del pianto). Verosimilmente è parte del santuario, in stretta connessione con scala e pozzo, destinata ai sacerdoti addetti al culto, che vi celebravano riti sacri. Le pareti aggettanti del vano sono in grossi blocchi basaltici; lungo il perimetro corrono cinque nicchie, interpretabili quali stipetti, come nelle capanne assembleari di su Nuraxi a Barumini e del santuario di Santa Vittoria a Serri. Sa Scaba ‘e Cresia si distingue forse per un collegamento con le divinità degli Inferi. Reperti e tracce di sacrifici testimoniano che fu un grande centro di culto. L’affluenza di pellegrini durò per oltre un millennio: fu riusato in epoca punico-romana come santuario in onore di Demetra, come dimostra il ritrovamento di lucerne, ceramiche, monete e oggetti in oro e osso. Probabile che attorno sorgesse un complesso nuragico legato al tempio.
Poco distanti, a 800 metri d’altitudine, si trovano le Trebine Longa e Lada, due condotti fossili vulcanici, e la pineta di is Benas, oasi tra sorgenti, cascate, grotte e pareti verticali, popolata da cavallini selvatici, donnole, martore, poiane e falchi. Al verde si alternano i colori scuri di basalto e ossidiana, ‘oro nero’ nella preistoria dell’Isola.  Da non perdere è la bellissima scultura rocciosa detta ‘Testa del guerriero’, modellata da vento e acqua. Del resto, il nome stesso di Morgongiori significa ‘luogo delle pietre’: è un piccolo borgo di case in trachite e basalto, celebre per la sua specialità gastronomica, le lorighittas, e per l’artigianato tessile. Ed è contornato da grandi pietre lavorate nella preistoria: in località Prabanta il menhir su Furconi (nella foto) e le domus de Janas sa Sala e su Forru, monumenti neolitici legati a Luxia Arrabiosa, fata-strega dei racconti popolari. Tra i complessi nuraghi disseminati nel suo territorio, di notevole importanza è su Trunku de is pillonis.

(da sardegnaturismo.it)

Sardegna - Domus de Janas di Monte Arista, Cardedu

 

Le Domus de Janas di Monte Arista nel comune di Cardedu in provincia dell'Ogliastra in Sardegna sono dieci tombe rupestri prenuragiche . Situate sul versante settentrionale del Monte Arista , sono in ottimo stato di conservazione e risalgono alla fase tardo neolitica della cultura di Ozieri .
Le "case delle fate" scavate nella roccia si trovano ad ovest della spiaggia di Perde Pera , ai piedi settentrionali del Monte Arista e sono raggiungibili tramite un sentiero segnalato. Ciò include anche l'accesso ai pochi resti del Nuraghe Desfollas , a circa 300 metri a ovest delle Domus de Janas, su una collina ai piedi del Monte Arista.
Il complesso funerario è diviso in tre gruppi. Il gruppo A comprende tombe con una sola camera nel punto più basso del complesso, il gruppo B e il gruppo C sono complessi multicamera che di solito sono situati insieme in gruppi.
Le tombe da 5 a 8 della necropoli sono le più alte e hanno due o tre camere. Le tombe a una e due camere, orientate longitudinalmente, con dromoi corti e approssimativamente quadrati , sono scolpite in blocchi di granito separati .

Sardegna - Necropoli di Prunittu, Sorradile

 

La necropoli di Prunittu è un sito archeologico situato nel Barigadu, regione storica della Sardegna centrale, in località Sorrana. Fa parte amministrativamente del comune di Sorradile, provincia di Oristano, da cui dista circa un chilometro.
Il complesso è formato da due agglomerati, distanti un centinaio di metri l'uno dall'altro, e comprende complessivamente 27 domus de janas. La gran parte degli ipogei sono facilmente raggiungibili mentre alcuni, essendo ricavati nella parete verticale di un bancone di roccia trachitica e con l'ingresso posto ad una certa altezza (sino a quattro metri dal piano di campagna), sono accessibili soltanto calandosi dal pianoro sovrastante. La quasi totalità delle tombe risultano composte da diversi ambienti comunicanti e presentano uno sviluppo planimetrico prevalentemente longitudinale, saltuariamente interessato dalla presenza di vani laterali. Dal 1980 la necropoli è stata oggetto di indagine da parte della Soprintendenza archeologica di Cagliari e Oristano.
Cronologicamente il complesso si colloca nella Cultura di Ozieri del Neolitico finale - Eneolitico (3500-2900 a.C.) con probabile riutilizzo in epoca bizantina.

Sardegna - Grotte di San Michele, Ozieri

 


Le grotte di San Michele sono grotte di origine carsica che si trovano a sud dell'abitato di Ozieri, a pochi metri dall'ospedale civile.
Devono il loro nome all'antica presenza di un piccolo luogo di culto dedicato all'arcangelo Michele, presente fino al XVIII secolo.
L'importanza archeologica delle grotte fu evidenziata per la prima volta dall'archeologo Antonio Taramelli agli inizi del XX secolo, quando furono individuati molti manufatti di raffinata fattura, in particolare ceramiche, afferenti all'eneolitico (detto anche Neolitico recente sardo, 3.500-2.900 a.C.) e anche più antichi, appartenenti alla cultura di San Ciriaco. La civiltà autrice di questi manufatti fu definita dagli studiosi dell'ultimo dopoguerra "civiltà di San Michele" e, a partire dagli anni settanta, più comunemente cultura di Ozieri.
A pochi metri dalle grotte ve n'è un'altra, più piccola, detta "Grotta Mara", nella quale sono stati rinvenuti ulteriori manufatti neolitici (nella parte alta della città sono presenti altre grotte di interesse archeologico, come quelle del "Carmelo" e di "Calaresu").
Le grotte di San Michele fino alla fine degli anni cinquanta presentavano una grande sala che fu demolita per realizzare un campo di calcio (dove oggi si trova il parcheggio dell'ospedale).



Sardegna - Tomba dei giganti di Su Mont'e s'Abe, Olbia

 

La tomba dei giganti di Su Mont'e s'Abe è un sito archeologico situato nel territorio del comune di Olbia, in provincia di Sassari. 
Analogamente ad altre tombe dei giganti della Gallura, venne realizzata in due fasi costruttive principali. Nella prima fase, inquadrabile nel periodo della cultura di Bonnanaro, venne edificata una tomba ad allée couverte; successivamente, nella seconda fase, durante l'età nuragica (1600 a.C. circa), l'allée couverte venne trasformata in tomba dei giganti con la realizzazione dell'esedra e della stele di cui oggi rimangono poche tracce.
La tomba, che misura circa 28 metri in lunghezza e 6 in larghezza, venne scavata e restaurata negli anni sessanta.

 

Sardegna - Santuario nuragico di Santa Vittoria


La giara di Serri ha un'altitudine di oltre 600 m slm e costituisce un altopiano basaltico, poggiante sui calcari della pianura circostante, difeso naturalmente da dirupi profondi. Il santuario nuragico di Santa Vittoria è posto all'estremità sud ovest della giara stessa, quella più erta e meno accessibile, mentre l'estremità opposta ha un andamento meno ripido. Attorno al santuario fu costruito anche un muro megalitico di sostegno e difesa.
L'area scavata del sito si estende per circa tre ettari ma, nel suo complesso, si estendeva in origine per circa venti ettari.
Sono individuabili quattro gruppi di edifici costruiti in momenti diversi:

  • l’area sacra, nella quale si individuano:

    • il protonuraghe a corridoio risalente al Bronzo Medio (1600-1300 a.C.);

    • il nuraghe a tholos che ha inglobato il preesistente protonuraghe risalente al Bronzo Recente (1300-1100 a.C.);

    • il tempio a pozzo, il vicino tempio ipetrale, la via sacra; i due templi in antis, il primo detto capanna del sacerdote e l'altro, posto più a nord, noto come capanna del capo, tutti edificati nel periodo compreso tra il Bronzo finale e la prima età del Ferro (1100 - 900/800 a.C.);

    • la chiesetta di Santa Maria della Vittoria edificata in epoca bizantina;

  • il recinto delle feste (o delle riunioni) coevo del tempio a pozzo sul cui perimetro sono posti, rivolti verso l'ampia area interna, un lungo porticato, vani con banchi e sedili, la capanna dei fonditori, il mercato, le tre capanne tra cui quella dell'ascia bipenne, la cucina;[2]

  • un gruppo di edifici costituito da abitazioni, tra cui quella del doppio betilo – dal nome del manufatto sacro trovatovi – appartenenti al periodo compreso tra il Bronzo finale e la prima età del Ferro (1100 - 900/800 a.C.);

  • un quarto gruppo di edifici, spostato verso oriente, dove si trovano il recinto dei supplizi e la curia, edificati nel periodo compreso tra il Bronzo finale e la prima età del Ferro (1100 - 900/800 a.C.)

Gli edifici, a seconda della pubblicazione, possono assumere nomi diversi che possono trarre in inganno, per esempio il recinto delle feste è chiamato anche recinto delle riunioni e la curia capanna delle riunioni. Pertanto, per indicare in modo univoco gli edifici, si usa il numero che fu loro attribuito dal Taramelli nella sua rappresentazione generale del sito. Tuttavia quando tale pianta fu pubblicata nel 1931, per motivi di formato grafico del volume, venne eliminata un'ampia porzione vuota tra il recinto delle feste ed il gruppo delle abitazioni e la curia. Anche la pianta pubblicata successivamente e quella esposta ai visitatori nel sito archeologico mantengono lo stesso errore. Solo le foto aeree ne danno invece la reale dimensione.

Protonuraghe e nuraghe

In prossimità del margine occidentale del sito, vicino alla chiesetta di Santa Vittoria, si ergono i resti di una torre nuragica costruita con filari di blocchi in basalto, dal diametro esterno di circa 7,5 m e dalle feritoie strombate verso l'interno, databile al Bronzo recente (1300- 1220 a.C.) Da essa parte un corridoio lungo circa 18 m ed alto 1 sostenuto da due ali di blocchi di basalto aggettanti che in origine formavano una copertura. Il corridoio raggiunge il muraglione di margine della giara. Le strutture megalitiche tra corridoio e muraglione sono state attribuite ad un protonuraghe (o pseudo nuraghe) databile al Bronzo medio (1500 – 1330 a.C.). Sulle rovine di questo complesso venne eretta in epoca romana una scalinata di lastre di calcare bianco che conduceva ad un piccolo edificio di forma rettangolare all'esterno e quasi circolare all'interno, costruito in muratura, con pavimento in cocciopesto e copertura in tegole. Taramelli individuò in questo edificio la aedes victoriae o tempio della vittoria in ricordo della vittoria romana sui sardi e della distruzione del santuario nuragico. Sempre secondo Taramelli questa titolazione diede il nome alla chiesetta e poi all'intero sito.
Tempio a pozzo

Il tempio a pozzo è il luogo più importante di tutto il santuario, tale da essere riconosciuto per primo e subito oggetto di scavi. Datato al IX Sec. a.C. dall'archeologo Anati nel 1985, il tempio fu eretto con muratura isodoma, a filari regolari, di blocchi ben squadrati di basalto e calcare che danno un effetto bicolore che colpì anche Taramelli per la sua precisione costruttiva priva di malta. Ha un'altezza residua di circa 3 m sotto il piano di campagna e di circa 1,2 m al di sopra ed è costituito da un pozzo circolare di circa 2 m di diametro. L'acqua sacra si raccoglie in un bacino con fondo arrotondato alla base del pozzo stesso, attraverso appositi fori nel paramento murario che lasciano filtrare l'acqua piovana. Il muro è realizzato con grande regolarità ed è composto da venti filari di pietre di basalto nero molto ben lavorati nella parte a vista e sagomati a cuneo nella parte a contatto con il foro praticato nella roccia per ricavare il pozzo.
La scala che discende al bacino è composta da 13 scalini ed ha un passaggio leggermente trapezoidale che si stringe a 50 cm alla base. Il soffitto della scala è gradonato. La conformazione delle rovine fa presumere che il pozzo avesse, come altri pozzi sacri, una volta a tholos in elevazione e che le due ali dell'atrio di accesso dotate di sedili potessero essere coperte con un tetto in pietra a doppio spiovente ed un timpano triangolare, in maniera simile alla nota fonte sacra Su Tempiesu di Orune, della quale è rimasta la facciata addossata alla roccia. Il vestibolo del tempio è di forma pressoché quadrata e contenuto nelle due ali laterali del tempio. La pavimentazione è formata da lastre di calcare bianco proveniente da Isili perfettamente interconnesse senza l'uso di legante,
Vicino alla scala era posto un altare rettangolare con una concavità dotata di foro di scarico, che a sua volta dava su una canaletta trasversale che consentiva il deflusso dei liquidi prodotti dai sacrifici senza farli mescolare con le sacre acque del pozzo.
Il tempio è circondato da un temenos, recinto sacro, di forma ellittica, che aveva la funzione, come in altri templi, di separare il tempio dal resto del sito. Il recinto è realizzato in opera megalitica e cioè con pietre sbozzate, invece che perfettamente squadrate come sono quelle del pozzo.
La pratica dell'ordalia e della cura delle infermità (sanatio) nelle fonti d'acqua della Sardegna, confermata dalla presenza di molti ex voto, è menzionata da Gaio Giulio Solino il quale, nel III Sec. d.C., riferisce che «Sorgenti, calde e salubri e pozzi in molti luoghi offrono una cura per le ossa rotte e per dissipare il veleno iniettato dai solifugi e anche per curare le malattie degli occhi. Ma ciò che cura gli occhi è anche potente per scoprire i ladri. Perché chiunque nega un furto con un giuramento, e si lava gli occhi con queste acque, se non è spergiuro, vede più chiaramente, ma se nega falsamente la perfidia, il suo crimine viene rivelato dalla cecità e prigioniero dei suoi occhi, è spinto a confessare.»
Tempio ipetrale
È un edificio di forma rettangolare (5,80 m x 4,80 m) orientato N-S con struttura in blocchi di basalto appena squadrati in muratura isodoma e probabile accesso da sud. Lo spessore dei muri è compreso tra 1,60 e 2 m. Fu scavato nel 1919-20. Potrebbe essere stato un bacino per immersioni rituali nell'acqua che tracimava dal vicino tempio a pozzo e vi confluiva tramite ina canaletta erroneamente eliminata durante gli scavi. L'opera si presenta molto danneggiata perché le sue pietre furono in buona parte usate per l'edificazione ed il restauro della vicina chiesa di Santa Vittoria durante il medioevo e successivamente. Il fatto che questo edificio fosse un tempio troverebbe riscontro nella presenza di due altari, il primo più ampio (3,40 x 1,50 m) che poteva essere usato per sacrifici di animali di grossa taglia, mentre il secondo, più piccolo, sarebbe stato dedicato ai sacrifici di animali di taglia più modesta. Accanto all'altare più piccolo vi è un vano rettangolare forse usato per la conservazione degli ex voto. All'interno del tempio furono rinvenuti numerosi manufatti di bronzo e d'argento tra i quali bronzetti nuragici, figurine di animali e frammenti di un carro a due ruote del IX-VIII Sec. a.C.
Tra i bronzetti figurati merita attenzione il capo villaggio (oggi conservato al Museo archeologico nazionale di Cagliari) che rappresenta una figura maschile con la mano sinistra alzata in segno di saluto ed un lungo bastone con pomello nella destra. Il volto presenta un naso allungato e folte sopracciglia. Indossa un copricapo a calotta, un mantello che gli avvolge alle spalle e una tunica con scollo a V, davanti al quale pende un pugnale ad elsa gammata.
Qui vennero anche ritrovati i probabili resti di una collana etrusca costituita da elementi d’ambra a contorno rettangolare e sezione ovale, decorati da costolature trasversali ascrivibile al Bronzo Finale, attorno al principio del IX Sec. a.C. Etruschi erano anche il disco a doppia lamina d’argento ornata da borchie che fu un coperchio di pisside o una riproduzione di scudo in miniatura attribuito al periodo 700- 675 a.C. ed i vasi in lamina di bronzo ridotti a frammenti dall'incendio che devastò il sito in epoca romana.
Via sacra
Con una lunghezza di circa 50 m unisce il tempio a pozzo con il tempio ipetrale. Al fine di ottenere un percorso piano è realizzata in parte livellando il fondo basaltico dell'altopiano ed in parte lastricata con basoli posti su un terrapieno. Ha una larghezza compresa tra 3 e 4 m.
Tempio in antis detto capanna del sacerdote

Posta immediatamente a sud del tempio ipetrale, è una costruzione circolare con un diametro esterno di circa 8 m e muro in blocchi di basalto. In origine aveva un tetto di forma conica sorretto da travi in legno e coperto di paglia. La costruzione ha un accesso da sud preceduto da un atrio rettangolare (da cui la denominazione in antis) dotato di un sedile sulla sola ala ovest. Gli scavi hanno portato alla luce un particolare bronzetto che rappresenta un mutilato che offre la sua gruccia e che è stato interpretato come un ex voto.
Gruppo del tempio in antis detto capanna del capo
Rispetto al pozzo sacro questo gruppo si trova a nord ed in posizione un po' più elevata. È costituito da tre capanne e dal tempio vero e proprio. Le capanne sono tra loro interconnesse sono disposte a sud est del tempio. Due di esse sono di forma circolare mentre la terza, ricavata tra le due precedenti, ha una forma all'incirca quadrangolare.
Il tempio, come la precedente capanna del sacerdote, è costituito da una struttura circolare – con un diametro esterno di circa 8,5 m ed una altezza attuale di circa 3 m – preceduta, verso sud, da un atrio rettangolare, con un sedile su ogni ala, posto davanti all'ingresso strombato della camera circolare. Quest'ultima aveva pavimento in argilla battuta, una copertura a tholos e 5 nicchie nella muratura. L'atrio, con pavimento selciato, aveva probabilmente un tetto a due spioventi. Gli scavi hanno evidenziato una notevole presenza in epoca romana e precedenti ceramiche nuragiche, frammenti bronzei di spade, di anellini, di un braccialetto e di figurine.
Recinto delle feste

Il recinto delle feste, che Taramelli aveva denominato recinto delle riunioni, ha pianta ellittica ed è affacciato su un'ampia piazza di circa 40 x 50 m sulla quale si affacciano i vari ambienti: porticato, mercato capanne, cucina. Si suppone che questa struttura fosse il luogo dove i pellegrini festeggiavano la divinità locale, con festeggiamenti che richiamavano le genti vicine e avevano luogo per alcuni giorni. Si suppone inoltre che qui si riunissero in assemblee federali i clan più potenti delle popolazioni nuragiche abitanti la Sardegna centrale, per consacrare alleanze o per decidere guerre. Le strutture comuni erano organizzate in modo da far convivere la festa religiosa e quella civile, il mercato con l'assemblea politica.
Giovanni Lilliu ipotizzò che il recinto delle feste fosse il predecessore di uno di quei complessi chiamati in lingua sarda muristenes o cumbessias predisposto per ospitare i pellegrini ed i fedeli convenuti per le festività nel santuario nuragico. Tuttavia l'ipotesi di una continuità nell'uso dei muristenes dal periodo nuragico fino ai nostri giorni non ha ancora trovato sostegno: l'uso sardo di realizzare luoghi di accoglienza dei pellegrini attorno alle chiese campestri sarebbe infatti di origine bizantina o legata al monachesimo benedettino, anche se i muristenes sono documentati solo a partire dal XVII secolo. Potrebbe in alternativa essere un'usanza legata al periodo della Controriforma e simile alla romería spagnola, cioè quel pellegrinaggio nel corso del quale si svolgevano anche mercati e feste popolari.
Il recinto dispone di due accessi, il principale a sud-ovest ed il secondario a sud-est. Entrando dall'ingresso principale in senso orario si incontrano il porticato orientale, la fonderia, il mercato, le capanne, mentre oltre l'ingresso secondario a sud si trova la cucina, seguita dal porticato occidentale.
Porticato
È diviso in due parti, quella occidentale (numero 25, a destra dell'ingresso per chi entra) di circa 16 x 4 m e quella orientale (numeri 27 e 29) di lunghezza circa doppia. È formato dal muro perimetrale del recinto con nicchie a sedile e da pilastri, sul lato interno, che sostenevano un architrave in legno sopra il quale poggiava la copertura ad una falda in lastre di calcare a struttura lignea. La pavimentazione è di lastre calcaree laddove non è presente quella naturale della roccia sottostante. Durante gli scavi, sotto lo strato composto dai detriti della copertura vennero ritrovati i resti dei pasti consumati dai pellegrini che si riunivano nel recinto formati da «grande quantità di ossa di animali, per lo più di bove, di pecora e di porco», oltre a utensili di uso domestico.
Capanna dei fonditori
È un edificio monovano di circa 7 m di diametro interno a struttura isodoma di basalto. Lo scavo ha evidenziato la presenza di resti di lastre di pietra che presumibilmente costituivano la copertura del tetto con struttura a travi in legno. Un sedile o bancone corre tutto intorno al perimetro interno. Sono state rinvenute scorie di fusione di rame e piombo e strati di cenere che hanno fatto presumere a Taramelli si trattasse di una fonderia per la produzione di armi ed oggetti votivi. Lilliu ne dà una lettura diversa ipotizzando che potesse essere un ambiente destinato ad ospitare persone importanti dei clan locali.
All'esterno della capanna dei fonditori, fuori dal recinto delle feste, si trova una struttura di pietre di fabbrica meno curata che poteva essere un recinto per gli animali, come un ovile.
Mercato

È costituito da una serie nove celle a pianta rettangolare chiuse dal muro esterno del recinto e da muri trasversali. Ogni cella dispone sui tre lati di un sedile ed è aperta verso la piazza. L'insieme era dotato di copertura come il portico. Sono presenti in due celle lastre che costituivano il bancone per l'esposizione della merce.
Tre capanne
A sud-ovest del mercato si trovano tre capanne, due a pianta circolare e la terza a pianta rettangolare. Particolare attenzione merita quella più a nord che è detta capanna dell'ascia bipenne (Taramelli 19). Ha ingresso a sud, verso la piazza, un diametro di circa 6,5 m ed un muro perimetrale di basalto spesso circa 1,3 m. La copertura era in lastre di calcare sorrette da una struttura lignea radiale. Lungo tutto il perimetro interno si trova un gradino in pietra che funge da sedile. Il pavimento è lastricato con elementi di calcare e basalto. All'interno si trova un basamento di altare sopra il quale era posta una calotta semisferica in calcare ai cui piedi venne rinvenuta un'ascia bipenne in bronzo di 27 cm di lunghezza. Secondo Taramelli tale ascia poteva costituire un elemento sacro cui sacrificare animali, le cui ossa furono rinvenute in loco (bovini, suini, selvaggina e conchiglie di molluschi). Sempre nella capanna venne ritrovata una moneta punica della zecca di Sicilia che attesta la continuità d'uso della capanna almeno fino alla data del conio nel IV Sec. a. C.
Sotto la pavimentazione ne venne ritrovata un'altra, sempre in calcare, più antica. Nello strato tra le due pavimentazioni furono rinvenuti manufatti nuragici tra i quali un modellino di bipenne che attesterebbe l'origine del rito dell'ascia al periodo nuragico attorno al VII Sec. a.C.
Cucina
È costituita da un ampio ambiente quasi quadrato di circa 6,5 m di lato con grande ingresso posto verso nord ed accesso alla piazza centrale. Come altre capanne del recinto si suppone avesse una copertura di lastre in calcare sorretta da una struttura lignea. La parete opposta alla porta dispone di una grande nicchia preceduta da tre blocchi di basalto che avrebbero costituito gli alari della cucina. Gli scavi infatti hanno riscontrato grandi avanzi di ceneri e di ossa di animali domestici. Vicino alla porta si trovava un bancone costituito da due lastre in pietra che poteva essere servito per porzionare gli arrosti.
Recinto dei supplizi
È un insieme di edifici composto da un'ampia fabbrica quasi circolare suddivisa in tre vani di cui uno a sua volta circolare a cui si addossano altri due vani esterni. Aveva probabilmente una copertura in travi di legno e paglia. Il vano circolare più interno è il più curato e dispone di una muratura in blocchi di basalto ed un ingresso con due stipiti sempre in basalto.
Taramelli denominò questo complesso recinto dei supplizi, ipotizzando che qui venissero eseguite le condanne sancite dal tribunale riunito nella vicina curia. L'interpretazione contemporanea è quella di una importante abitazione che subì nel tempo uno sviluppo dall'interno verso l'esterno.
Gruppi di abitazioni
Sono situati ad est del recinto delle feste. Il primo gruppo, più a nord è costituito da un piazzale attorno al quale si sviluppano varie capanne. Tra esse la più significativa è quella detta recinto della stele o capanna del doppio betilo, composta da un vano quasi circolare di circa 6 m di diametro al cui ingresso sono poste due lastre di calcare. Il pavimento è in parte ricoperto in lastre di calcare dove il fondo basaltico naturale non affiora direttamente. Un basamento sul fondo della capanna sosteneva un doppio betilo (ora conservato al Museo archeologico nazionale di Cagliari) che dà il nome all'edificio. Consiste in un cippo di calcare, alto circa un metro, composto da due piccole colonne unite da una fascia a rilievo che rappresentava un modello di nuraghe usato come altare. Il secondo gruppo contiene due capanne circolari vicine e collegate da un muro di spina.
Curia

È l'edificio più lontano dall'area sacra e fu tra i primi ad essere rinvenuti dal Taramelli nella prima campagna di scavi (1909-1910). Ha pianta circolare con un diametro esterno di 14 m ed un diametro interno di circa 11 m. È costruito con filari di blocchi di basalto ed è dotato di un accesso rivolto a SE con soglia in pietra. La pavimentazione è un acciottolato che era originariamente ricoperto di uno strato di argilla nera battuta. Lungo tutto il perimetro interno corre un sedile realizzato in blocchi di calcare alto circa 35 cm che poteva contenere circa 50 persone. A circa 3 m d'altezza correva una mensola in lastre di calcare bianco di cui resta in sito solo un piccolo numero in quanto la maggior parte di esse fu utilizzata per la costruzione di tombe di epoca romana. La parete interna è dotata di cinque nicchie che avrebbero contenuto oggetti di uso rituale. In corrispondenza di una di esse il sedile è interrotto per ospitare una vaschetta litica, probabilmente usata per contenere le ceneri dei sacrifici, davanti alla quale si trovava un betilo di calcare alto circa mezzo metro e di forma troncoconica, poggiante su base rettangolare. A lato della porta fu inoltre rinvenuto un bacile di trachite.
Gli scavi hanno messo in luce figurine di animali in bronzo che avrebbero rappresentato gli animali realmente sacrificati e frammenti di modellini di navi con la prua a corna di toro. Vennero anche rinvenuti oggetti di uso comune: un pugnale, una lima, spilloni e soprattutto vasi in lamina di bronzo di origine etrusca ed il torciere cipriota cilindrico decorato con tre corolle di fiore (oggi conservato al Museo archeologico nazionale di Cagliari) risalente alla fine del Sec. VII – prima metà del Sec. VII a.C. Infine vennero rinvenute monete di zecca siciliana (IV Sec. a.C.) e sarda (circa 240 a.C.)
Chiesa di Santa Maria della Vittoria

Nel punto più occidentale del complesso nuragico sorge la chiesetta di Santa Maria della Vittoria che dà il nome all'intero sito. La chiesa primordiale venne eretta molto probabilmente in periodo bizantino durante l'occupazione militare della Sardegna. È probabile che tra l'VIII ed il IX Sec. d.C la chiesa venisse ricostruita, forse per mano dei monaci benedettini vittorini di San Vittore di Marsiglia. Si presenta in stile romanico con una pianta originariamente ad una navata, cui ne venne successivamente aggiunta un'altra, quasi completamente distrutta e ricostruita in anni recenti. È ancora oggi luogo di culto locale. A lato della chiesa sono i resti di un antico cimitero. La festa di Santa Vittoria ricorre l'11 settembre, giorno legato al rinnovo dei contratti agrari e pastorali nel quale si tiene una processione fino alla chiesetta.
Scavi
Il sito di Santa Vittoria fu sconosciuto fino all'inizio del ventesimo secolo quando il medico condotto di Gergei, il dott. Marogna, amico dell'archeologo Antonio Taramelli, direttore del museo di Cagliari e degli scavi di antichità della Sardegna, gli indicò il sito di Santa Vittoria come degno di interesse.[17]
La prima campagna di scavi fu condotta nel 1909-1910 dallo stesso Taramelli con la collaborazione dell'archeologo cagliaritano Filippo Nissardi e dell'ispettore del Museo preistorico ed etnografico di Roma Raffaele Pettazzoni. I primi edifici messi in luce furono la cinta muraria, il tempio a pozzo e la capanna delle riunioni (o curia). La campagna del 1919 – 1921 recuperò significativi bronzi votivi. Nelle campagne tra il 1922 ed il 1929 furono scoperti il tempio in antis detto capanna del capo ed il recinto delle feste, oltre ad altri edifici.
Taramelli iniziò le pubblicazioni di Santa Vittoria nel 1914 e le concluse con i due tomi del 1931 pubblicati dall’Accademia dei Lincei.
Fu durante la sua prima campagna di scavi che Taramelli individuò l'edificio romano che denominò aedes victoriae da cui prese il nome la chiesetta e da essa il sito. Tale cella fu tuttavia demolita dal Taramelli stesso come da questi documentato nel 1931 per completare l'esposizione del sottostante strato nuragico.
Nel 1963 Ercole Contu della Soprintendenza alle Antichità di Sassari e Nuoro restaurò il recinto delle feste ed il tempio ipetrale. In tale occasione vennero recuperati importanti reperti ceramici nuragici e di resti dei pasti consumati nel recinto stesso (cinghiale).
Scavi recenti sono stati condotti nel 1990, nel 2002 e 2006 a cura della Sovrintendenza, nel 2011 e nel 2015 da Maria Gabriella Puddu. Dal 1º ottobre 2019 la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio di Cagliari ha iniziato una nuova campagna di scavi con lavori di consolidamento e restauro.
Durante le varie campagne di scavi sono stati ritrovati importanti oggetti che hanno dato conferma dei rapporti che i nuragici avevano con etruschi, fenici e ciprioti. Vale la pena menzionare una fibula ad arco di violino in bronzo foliato, un disco a doppia lamina d’argento, collane composte da elementi d’ambra e di pasta vitrea, vasi in lamina di bronzo di origine etrusca ed in particolare il torciere cilindrico decorato da tre corolle floreali di origine fenicia proveniente da Cipro databile tra la fine dell’VIII - prima metà del VII sec. a.C. Torciere e vasi bronzei sono stati recuperati nella cosiddetta curia. Altri oggetti, come monete di varie zecche, hanno sostanziato la continuità d'uso del sito nei successivi periodi punico, romano, bizantino, medievale.











Sardegna - Sulky

 

Sulky
, Sulci, Solci (in greco antico Solkoi) o Sulcis fu un insediamento prenuragico e nuragico, una città fenicia e poi punica e romana della Sardegna, capitale dei Solcitani, ed oggi un sito archeologico nella provincia del Sud Sardegna. Sorgeva nel luogo dell'odierna Sant'Antioco, sul versante nord dell'omonima isola dell'arcipelago sulcitano. Il nome fenicio era composto da quattro consonanti: "Samek", "Lamed", "Kaf" e "Yod".
Periodo prenuragico e nuragico
Secondo quanto emerso dai ritrovamenti, gli insediamenti più antichi nell'area si riferiscono alla cultura Ozieri, (III millennio a.C.); ne sono testimonianza gli abitati (fondi di capanne in Sant'Antioco) e le Domus de janas di Is Pruinis. Seguirono poi le popolazioni nuragiche durante l'Età del bronzo. Quando giunsero i primi mercanti levantini, questi dovettero relazionarsi in maniera del tutto pacifica con la preesistente componente nuragica che occupava la sommità della collina dove oggi vediamo il Forte Sabaudo, e dove si possono vedere anche i resti di un grande complesso nuragico. I rapporti di pacifica convivenza si possono ipotizzare sulla base dei ritrovamenti fatti nella campagna di scavo che ha restituito nei suoi livelli più antichi tracce della compresenza di Fenici e Nuragici, che si aggiungono alle scoperte avvenute nell'area del tofet si dagli anni ottanta
Periodo fenicio-punico

Fin dalla sua fondazione come città, avvenuta attorno al 770 a.C., Sulky ebbe probabilmente un'estensione di circa dodici ettari. Tuttavia, recenti ritrovamenti di ceramiche "bichrome Ware" di produzione fenicia di Oriente, autorizzano ad alzare la datazione riguardante la fondazione della città attorno IX secolo a.C. L'abitato occupava il versante orientale della collina e digradava verso il mare con le strade ortogonali. Le prime notizie sull'antico abitato fenicio provengono da un'area denominata, non proprio felicemente, Cronicario, adiacente all'ospizio per gli anziani. Nel 1983 Paolo Bernardini e Carlo Tronchetti, dirigenti della Soprintendenza Archeologica per le province di Cagliari e Oristano, avviarono l'esplorazione di quest'area: in quell'occasione furono rinvenuti importanti resti dell'antica città, prima fenicia, poi punica e quindi romana. Oltre alle strutture murarie, in pietra e in mattoni di argilla cruda, sono stati rinvenuti numerosissimi oggetti, soprattutto in terracotta, che hanno permesso di conoscere meglio quale doveva essere l'ampiezza dei commerci dell'antica Sulcis.
I suoi traffici toccavano tutto il Mediterraneo, dal Libano alla Penisola Iberica, dall'Africa settentrionale all'Etruria. Attualmente l'area è oggetto di ricerche archeologiche sotto la direzione di Piero Bartoloni, professore ordinario di Archeologia fenicio-punica presso l'Università di Sassari, grazie all'acquisizione di una nuova area adiacente a quella indagata in precedenza. Secondo le evidenze archeologiche registrate dallo stesso professor Bartoloni, Sulky ci appare oggi come la più città antica della Sardegna, se non addirittura d'Italia. Per quanto riguarda le strutture abitative più antiche, queste sono emerse in alcuni settori all'interno dell'area archeologica in cui è stato possibile indagare in profondità, raggiungendo talvolta il livello della roccia vergine.
Si ricavano quindi i resti di un abitato sorto e consolidato entro la prima metà dell'VIII secolo a.C., in cui giunsero materiali e genti provenienti dalla madrepatria fenicia, dalla colonia nordafricana di Cartagine, insieme a suppellettili derivanti dai commerci intrapresi dalla colonia soprattutto con Greci ed Etruschi. L'area del Cronicario in epoca fenicia doveva essere parte di un quartiere abitativo e artigianale, dove trovarono posto impianti per la lavorazione del pescato e del metallo (in particolare ferro). Dopo l'avvento del dominio di Cartagine sulle colonie fenicie, consolidatosi durante gli ultimi decenni del VI secolo a.C. la città di Sulky subisce importanti modifiche culturali e anche urbanistiche.
Queste ultime sono state in buona parte cancellate dai successivi interventi romani, che hanno stravolto in maniera particolarmente invasiva le strutture preesistenti, salvaguardando in parte quelle più antiche, che si trovavano a quote inferiori e conservatesi grazie allo scioglimento dei mattoni crudi che le hanno sigillate. Dai resti della cultura materiale rinvenuti durante le indagini archeologiche si percepisce l'importanza che la città mantenne anche durante il dominio cartaginese, probabilmente favorita per la sua felice posizione portuale e come naturale sbocco delle risorse provenienti dal Sulcis-Iglesiente, tra le quali soprattutto l'argento.
Periodo romano

Già a partire dal III secolo a.C. (al 238/7 a.C. risale la prima occupazione romana della Sardegna). L'isola era oggetto di fenomeni di immigrazione da parte dei mercatores italici che sfruttavano le risorse sarde. Al contempo, aprivano le porte a fecondi processi di integrazione, romanizzazione e monumentalizzazione urbana, almeno per quanto riguarda le città della costa, sedi dei porti vitali per la commercializzazione di tali risorse. Un esempio della ricchezza legata al commercio dei minerali può essere visto proprio per la città punica di Sulcis, la Sulci romana, da sempre porto di smercio del piombo argentifero delle miniere dell'attuale regione del Sulcis-Iglesiente.
Sulki è ricordata dall'anonimo autore del Bellum Africanum (98, 1) per avere rifornito di uomini e vettovagliamenti i Pompeiani; per questo motivo, Cesare, dopo avere sconfitto i seguaci di Pompeo a Tapso, nel 46 sbarca a Carales (l'attuale Cagliari), impone ai Sulcitani una forte multa, il cui ammontare è dubbio, oltre ad elevare ad un ottavo la decima dei prodotti del suolo. Lo stato economico della città, per altro, non pare dovette soffrire a lungo per le restrizioni volute da Cesare, se Strabone (5, 2, 123), geografo di età augustea, dice che Cagliari e Sulci sono le due più importanti e fiorenti città dell'isola.
Per quanto riguarda Sulci, è stata avanzata l'ipotesi che abbia ottenuto lo statuto di Municipium civium Romanorum con l'imperatore Claudio, statuto attestato con sicurezza da alcune iscrizioni. Tuttavia, il commercio non era la sola anima economica dell'economia sulcitana. A partire dalla prima età imperiale esistono attestazioni archeologiche di insediamenti rurali nell'interno dell'isola, volti allo sfruttamento cerealicolo.
Periodo vandalo e bizantino
Nel corso del periodo vandalico, le comunità cristiane in Sardegna vissero una fase di intensa organizzazione. La città di Sulky era un'importante diocesi già dal 484 d.C., partecipando al concilio di Cartagine con il vescovo Vitale. Durante l'Alto Medioevo, un'area a sud di Sulky era dominata da un insieme di edifici significativi, noto come castrum sulcitanum, edificato dai Bizantini intorno al VI secolo d.C. e del quale non rimangono più vestigia, ma che è stato descritto dettagliatamente da Vittorio Angius, Alberto della Marmora, Giovanni Spano e, successivamente, Dionigi Scano. All'inizio dell'VIII secolo, la Sardegna iniziò a subire attacchi da parte degli Arabi, con l'isola di Sant'Antioco che divenne uno dei loro principali bersagli. Questi attacchi divennero poi frequenti, costringendo la popolazione a rifugiarsi nell'entroterra, lasciando l'isola quasi deserta.
Porto
Il porto era situato esattamente dove ancora oggi è il porticciolo peschereccio, tra le vie XXIV Maggio e Eleonora d'Arborea. Il porto, di antichissima origine, era frequentato fin dall'età nuragica. Era presente un secondo porto nella località oggi chiamata "sa Barra". La presenza dei due porti consentiva l'attracco delle navi a seconda del vento. Più a sud era ubicata la necropoli a incinerazione di età fenicia, che, assieme a quella di età romana, era ubicata attorno al piazzale della vecchia stazione.
Necropoli

Per quanto riguarda la necropoli fenicia, un’eccezione alla mancanza quasi assoluta di dati è rappresentata da una fossa contenente un’incinerazione, rinvenuta a seguito di lavori privati, all’interno della quale è stata ritrovata una brocca con orlo a fungo databile alla prima metà del VI secolo a.C. sicuramente riferibile ad una tomba ad incinerazione. Un’altra brocca biconica databile alla fine del VII- prima metà del VI secolo a.C. può essere riferibile a una tomba ad incinerazione, rinvenuta lungo la linea ferroviaria Sant’Antioco-Calasetta. Ulteriori dati ci vengono dalla Collezione privata della famiglia Biggio, che conserva una serie importante di manufatti di età acaica di provenienza funeraria, presumibilmente da riferirsi a quest’area.
Il tipo tombale documentato sembra esclusivamente la tomba a camera, che presenta diverse varianti. Barreca, che le aveva individuate, aveva ritenuto più antiche quelle a camera rettangolare con dromos monumentale e rettangolare collocate nel VI- prima metà del V secolo a.C., quando dovrebbe comparire la seconda tipologia, con un tramezzo che divide le due camere e il dromos diventa trapezoidale, con un progressivo allargamento verso la camera. La camera risulta suddivisa in due vani distinti. Non conosciamo la funzione del tramezzo, si ipotizza un espediente strutturale, per evitare il crollo del soffitto. Non abbiamo documentazione per il periodo tra il V e il IV secolo.


Tofet

Il tofet cittadino venne impiantato dai Fenici nella prima metà dell'VIII secolo a.C., come di consueto, in un'area ritenuta poco adatta all'urbanizzazione, chiamata Sa Guardia 'e Is Pingiadas, nella zona settentrionale del moderno centro abitato. Si tratta di un affioramento roccioso di ignimbrite vulcanica; le urne cinerarie con i betili e in seguito le stele che le accompagnavano venivano sistemate tra gli anfratti rocciosi, in seguito ai rituali che comportavano l'incinerazione dei bambini defunti, talvolta insieme a piccoli animali offerti in sacrificio alle divinità intestatarie di questo luogo, che erano Tanit e Baal Hammon.
Nel corso dei secoli tutto il rilievo venne progressivamente riempito di deposizioni, tanto che l'organizzazione degli spazi funerari venne pianificata attraverso la costruzione di piccoli recinti, che delimitavano i campi d'urne. L'area dopo le indagini archeologiche, in parte ancora in corso, ha subito un processo di musealizzazione, consistente nella fedele riproduzione delle urne cinerarie che contenevano le ceneri dei fanciulli, ricollocate talvolta insieme alle stele in posizione molto simile a quella originaria.
In questo modo il visitatore che volesse avere una percezione dell'assetto originario di questo spazio funerario a cielo aperto prova grande suggestione, grazie anche al magnifico panorama che si gode da questo rilievo roccioso. Per quanto riguarda la cultura materiale sono molto interessanti gli stessi recipienti utilizzati come contenitori cinerari, soprattutto nelle fasi più antiche: oltre ai vasi tipicamente fenici, come le cosiddette cooking-pots o le brocche con collo cordonato trovano spazio altri vasi frutto dell'incontro culturale tra differenti gruppi etnici.
Infatti nel tofet di Sulky sono stati rinvenuti vasi bollilatte tipici della cultura nuragica dell'età del Ferro, alcuni recipienti di provenienza greca euboica e alcuni altri recipienti ibridi, frutto della commistione di elementi derivanti da queste culture. Fra le stele del tofet di Sulky è ricorrente la forma umana, inserita in una struttura architettonica a tempio, su una piccola base, dunque probabilmente una statua di culto. Iconografiche sono state individuate diverse fasi cronologiche: tempio con carattere egittizzante (metà del V - metà del IV secolo a.C.) con architrave orizzontale, mentre successivamente assume un frontoncino triangolare di derivazione ellenica.




Sardegna - Bithia, Domus de Maria

 
Bithia
 era una città situata nell'estremo sud della Sardegna, ubicata nella località di Chia in territorio comunale di Domus de Maria (provincia del Sud Sardegna). La città, di fondazione fenicia, si sviluppa sul promontorio della torre di Chia e alle sue pendici. Probabile centro nuragico ed in seguito fenicio (a partire dall'VIII secolo a.C.), la città fu quindi punica e poi romana, e venne abbandonata agli inizi del VII secolo d.C., quando la popolazione si ritirò nei territori interni per sfuggire alle scorribande dei saraceni.
Nel 1926, in seguito a forti mareggiate, vennero alla luce numerose sepolture nell'area in corrispondenza dell'attuale spiaggia di Sa Colonia. Successivamente, a partire dagli anni '30, vennero predisposti dall'allora Soprintendente Antonio Taramelli, tre settori di scavo posti in corrispondenza della necropoli, del settore settentrionale del promontorio di Torre Chia e delle pendici nord-occidentali. In quest'ultimo settore fu individuata una struttura templare identificata come tempio di Bes, per via della grande statua in arenaria del dio, oggi conservata al Museo archeologico nazionale di Cagliari. Nei limitati sondaggi posti nel settore settentrionale della collina, fu invece individuata una porzione dell'abitato. Questo settore oggi è oggetto di indagini stratigrafiche, che hanno fornito nuovi e importanti dati sull'articolazione urbanistica della città antica.
Sull'isolotto di su Cardolinu, posto di fronte alla costa orientale del promontorio, sono invece visibili i resti di un sacello, di un altare e di un'edicola di tipo punico, individuati negli anni '60 durante una ricerca di superficie coordinata dal CNR col supporto della Soprintendenza. Sull'isolotto sono state trovate anche urne cinerarie entro cista litica che fanno ipotizzare la presenza di un tophet.


Sardegna - Tombe dei giganti di Sa Mandara

 Le tombe dei giganti di Sa Mandara a Guasila, nella provincia del Sud Sardegna, sono monumenti megalitici costituiti da sepolture collettive, a rituale inumatorio con deposizione primaria appartenenti alla civiltà nuragica (II millennio a.C.) e presenti in tutta la Sardegna.
Le tombe dei giganti A e B, scavate nel territorio di Guasila nel 1980 in località Sa Mandara, sono distanti dall'abitato a circa 4 km e sorgono su un piccolo rilievo marnoso ad una distanza l'una dall'altra di 27,50 m ed orientate entrambe lungo l'asse N-W/S-E e con ingresso ad Est. A circa 500 m in direzione Sud sorge il nuraghe denominato "Bruncu e Sa Mandara".
La tomba A ha restituito dopo lo scavo un corpo di una lunghezza totale di 10,65 m con un corridoio pressoché rettangolare con una larghezza oscillante tra 1,90 m sul lato corto N-W e 2,20 m a S-E.
La tomba B di dimensioni inferiori ha restituito un corridoio rettangolare lungo 4,45 m con una larghezza di 1,75 m all'ingresso e di 1,60 m nel suo fondo.
Le pareti di entrambe le sepolture sono costituite da grossi blocchi in arenaria, quadrangolari e trapezoidali isodomi, disposti su due filari residui e su cui si apprezza l'utilizzo della martelletta. Nessuna lastra del soffitto è stata trovata in sito come non si apprezzano gli elementi attribuibili alle esedre.
Le due tombe, pesantemente sconvolte e danneggiate da scavi clandestini, hanno restituito un notevole numero di reperti ossei in deposizioni senza nessuna attendibilità stratigrafica. Dall'esame visivo dei crani rinvenuti si evidenzia una diffusa dolicocefalia.
Per quanto riguarda invece il ritrovamento di reperti materiali dalla tomba A proviene solamente un vago di collana in pasta vitrea di colore blu a forma prismatica con scanalature elicoidali esterne e foro longitudinale.
Provengono invece dalla tomba B un pugnaletto in bronzo del tipo a losanga con una lunghezza di 7 cm, alcuni frammenti bronzei attribuibili forse ad una lama, un bottone bronzeo a doppia perforazione, un vago di collana in ambra di forma sub-cilindrica lungo 1,6 cm, due elementi di collana in pasta vitrea rispettivamente di colore grigio-marrone e verde, un elemento in osso frammentato che presenta riferimenti con un elemento osseo da Santa Vittoria di Serri interpretato come bottone e da scarsi elementi ceramici, tre dei quali relativi ad una piccola ciotola carenata.
Dato il contesto di materiali rinvenuti entrambe le tombe si possono collocare in un arco cronologico che va dal Bronzo recente al Bronzo finale con riferimenti per quanto riguarda il pugnaletto bronzeo ed i vaghi di collana ed ambra a diversi reperti provenienti da diversi siti isolani.
Per quanto riguarda riferimenti architettonici e strutturali le tombe A e B di Sa Mandara di Guasila sono molto vicino alla tomba di Motrox'e Bois in territorio di Usellus (OR) collocata nell'età del Bronzo finale e come queste ultime priva di esedra e stele.

Sardegna - Catacombe di Sant'Antioco


Le catacombe di Sant'Antioco sono un sito archeologico situato nel comune sardo di Sant'Antioco. La necropoli è una delle testimonianze più antiche del cristianesimo in Sardegna. Il sito fu ricavato mettendo in comunicazione camere funerarie puniche del V secolo a.C., affinché i primi membri della neo comunità cristiana potessero essere sepolti il più vicino possibile alla tomba di Sant'Antioco. 

Prima camera
Nella prima camera, quella a cui si accede dal lato destro del transetto della basilica si nota un grande sarcofago in pietra trasformato in altare, che risulterebbe essere la tomba di sant'Antioco, attualmente vuota poiché nel 1615 il corpo del martire fu rimosso su indicazione dell'arcivescovo di Cagliari Francisco de Esquivel. La tomba originale fu quindi distrutta in quell'occasione e fu poi ricostruita approssimativamente secondo le dimensioni della precedente.
Attorno alla tomba vi sono sei colonne di marmo (una delle quali incastonata in un muro, originariamente non esistente) collocate nell'XI secolo per mano dei monaci vittorini di Marsiglia che avevano in possesso la chiesa. Queste colonne servivano, forse, a creare un percorso processionale attorno alla tomba. Sul muro accanto a questa sono incementati dei marmi di spoglio.
Seconda camera
Consiste in una tomba ad arcosolio, in origine completamente affrescata e di cui ora si conservano soltanto delle macchie. Le macchie centrali di colore formavano la figura di un uomo (Buon Pastore?).
Terza camera
In questa camera si notano disposte delle ossa anonime per mostrare come i corpi, originariamente, fossero collocati all'interno delle tombe terragne; addossato alla parete si può notare un sarcofago che presenta ancora tracce di pittura. Si presume potesse essere una tomba a mensa.
Quarta camera
In questa stanza, forse, vi era la sepoltura di una famiglia abbiente: lo si può dedurre dalle tracce di affresco che coprivano completamente tutto l'ambiente. Al centro, in alto, sono visibili le lettere "E VIBA", la frase completa poteva essere: IN PACE VIBAS ("che tu viva in pace". La forma "Vibas" anziché "Vivas" è un caso comune di betacismo) oppure un nome maschile (seconda declinazione al caso vocativo - es: MARC"'E VIBAS IN PACE" ("che tu, Marco, possa vivere in pace"). In basso a destra si trova un'anfora che veniva presumibilmente utilizzata durante la sepoltura di bambini.
Quinta camera
Questa è la camera dove, secondo la leggenda, il 13 novembre del 127 morì sant'Antioco. Sulla parte sinistra sono visibili delle colonne che costituivano una rara tomba a baldacchino.
Parte pagana
Qui troviamo tombe non utilizzate dai cristiani e pertanto la loro forma è intatta. Le aperture d'ingresso sono state create dagli archeologi nel secolo scorso. L'unico ingresso originario è ancora occluso da una grossa pietra ed è davanti al tramezzo centrale. Ai lati notiamo delle nicchie in cui erano posti gli effetti personali del defunto. All'interno di questo genere di camere si seppellivano i cadaveri solitamente entro una cassa di legno avvolti da lenzuola di lino.



ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...