lunedì 14 aprile 2025

Lazio - Roma, Tempio di Adriano

 

Il tempio di Adriano (Hadrianeum in latino, Adrianeo in italiano) era un antico tempio romano sito nel Campo Marzio a Roma. Il tempio venne eretto in onore dell'imperatore Adriano, divinizzato dopo la sua morte. È probabile che il cantiere dell'edificio fosse stato già avviato sotto Adriano stesso per dedicarlo alla moglie Vibia Sabina, morta e divinizzata nel 136. A lavori forse appena iniziati, Adriano morì (138) e la vera e propria costruzione del tempio si deve al suo successore, Antonino Pio: l'edificio fu terminato intorno al 145.
In età post-classica, il tempio andò distrutto, ma sopravvissero undici delle tredici colonne originarie del lato nord in piazza di Pietra, toponimo che deve il suo nome proprio alla persistenza secolare dei resti dell'edificio. Prima della sua corretta identificazione, era conosciuto erroneamente con il nome di tempio di Nettuno.
Nel 1695, sotto papa Innocenzo XII, i resti del tempio furono inglobati da Carlo Fontana nel palazzo della Dogana di Terra. Nel 1831 l'edificio fu adibito a sede della Borsa Valori di Roma, per poi passare nel 1874 alla Camera di commercio di Roma, di cui oggi costituisce la sede di rappresentanza. Questo ambiente è concesso come sala conferenze.
Nell'aprile 2022 vi viene esposta la statua di Vibia Sabina. Poco dopo, nel giugno 2022, la Camera di commercio ha lanciato Hadrianeum, un'installazione video immersiva che propone una ricostruzione del tempio.
Secondo i Cataloghi regionari il tempio si trovava nella Regio IX Circus Flaminius, ed era posto in relazione con il vicino Tempio di Matidia, dedicato dallo stesso Adriano alla suocera, Salonina Matidia. Quest'area iniziò ad essere fortemente monumentalizzata proprio da questo imperatore (vedi Pantheon) ed in seguito adibita ai funerali imperiali. Qui, infatti, furono innalzate due ustrini e due colonne onorarie, dedicate rispettivamente ad Antonino Pio e a Marco Aurelio, la seconda delle quali traeva ispirazione dalla Colonna Traiana. A questi monumenti fu aggiunta anche la costruzione di un nuovo tempio, dedicato a Marco Aurelio, collocato nei pressi della colonna a lui intitolata.
Il tempio presentava un accesso ad arco, dal quale potrebbero essere stati prelevati alcuni pannelli, più tardi inseriti nell'arco di Portogallo e oggi conservati ai Musei Capitolini.

Lazio - Roma, Case romane del Celio

 

Con la definizione Case romane del Celio si intendono i resti di un complesso residenziale romano sottostante la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo, a Roma, nel rione Celio.
Gli ambienti romani furono riportati alla luce alla fine dell'Ottocento dall'allora rettore della basilica, Padre Germano di S. Stanislao, scavando oltre la piccola cella che costituiva il martyrium (il luogo della deposizione e delle reliquie) dei martiri titolari della basilica.
Vennero così riscoperti e lentamente scavati oltre 20 ambienti, dei quali 13 affrescati. Si riconosce ora, nel costruito, la stratificazione di diverse epoche ed usi. Originariamente l'immobile era costituito da due insulae popolari, la prima databile al 111, con un balneum al pianterreno e abitazioni al piano superiore, l'altra del secolo successivo con botteghe al piano terreno, le cui tracce restano negli archi oggi tamponati che segnano il fianco della basilica lungo il Clivo di Scauro, e abitazioni ai piani superiori, di cui restano tracce di due piani di finestre.
I due edifici e le loro pertinenze (in particolare il cortile trasformato in ninfeo) furono riuniti nel III secolo in un'unica proprietà e trasformati in una vera e propria domus, con ambienti lussuosamente affrescati.
Successivamente, nel IV secolo, il complesso divenne proprietà della famiglia del senatore Byzas che vi istituì un titulus cristiano (Titulus Byzanti), poi attribuito al figlio Pammachio (Titulus Pammachii).
Nei secoli successivi, con la fondazione nel V secolo della basilica superiore, gli ambienti romani vennero in gran parte obliterati, in parte interrati e in parte utilizzati per le strutture di fondazione degli ambienti basilicali, fino al recupero novecentesco.
Gli affreschi denotano tempi diversi di realizzazione e intenzioni iconografiche diverse. I più noti sono la grande scena con divinità marine del ninfeo, la cosiddetta Aula dell'orante (che si presume pertinente all'uso cristiano della casa), e quelli della Confessio (l'ambiente che custodiva le tombe o le reliquie dei martiri titolari).
Il lungo restauro si è concluso con un interessante allestimento museale, che espone e descrive appropriatamente, oltre agli ambienti ripristinati, materiali ritrovati in loco.

Lazio - Roma, Sepolcro di Eurisace

 

Il sepolcro di Eurisace, o panarium, è una tomba monumentale di un fornaio romano, Marco Virgilio Eurisace, e di sua moglie, Atistia, risalente al I secolo a.C. e collocata esternamente alla Porta Maggiore a Roma, nel quartiere Q. VII Prenestino-Labicano. Databile intorno al 30 a.C., fu rinvenuta nel corso della demolizione, disposta nel 1838 da papa Gregorio XVI, delle torri difensive costruite da Onorio su Porta Maggiore a Roma, al fine di ripristinare l'antico assetto risalente all'epoca aureliana.
Nel corso dell'intervento venne in luce, rimasto inglobato nella torre cilindrica tra i due archi della porta ed ora visibile subito fuori della stessa, il sepolcro appartenente a Marco Virgilio Eurisace, fornaio (probabilmente un liberto arricchito), ed a sua moglie.
Il monumento funebre, realizzato in travertino e decorato con elementi caratteristici di un forno, come sacchi e bocche di doli, consiste di un piccolo edificio a pianta trapezoidale, ha l'aspetto dei recipienti in cui veniva impastata la farina e reca, ripetuta quasi uguale sui tre lati ancora esistenti, l'epigrafe «Est hoc monimentum Marcei Vergilei Eurysacis pistoris, redemptoris, apparet[oris]» ("Questo sepolcro appartiene a Marco Virgilio Eurisace, fornaio, appaltatore, apparitore"), dalla quale si scopre che il fornaio lavorava per lo Stato, al quale forniva i suoi prodotti, e che era anche ufficiale subalterno (apparitore) di qualche personaggio di alto rango (un magistrato o forse un sacerdote).
Ad ulteriori conferme della professione di Eurisace, l'urna che conteneva le ceneri della moglie (ora conservata al Museo delle Terme) ha la forma di una madia da pane e inoltre nel fregio intorno al monumento sono rappresentate tutte le fasi del procedimento di panificazione: pesatura e molitura del grano, setacciatura della farina, preparazione dell'impasto, pezzatura e infornata del pane.
Sul lato orientale del complesso edificio funebre, trovava posto il rilievo rappresentante i due coniugi, attualmente esposto nel complesso museale della Centrale Montemartini. La testa della donna fu rubata nel 1934, quando il rilievo era esposto nella piazza di Porta Maggiore ed è stata ricostruita in gesso sulla base delle foto dell'epoca. I due personaggi vestono delle tuniche ed hanno il capo rivolto l'uno verso l'altra, come a voler sottolineare il loro legame.
In ordine all'anomala collocazione, lungo la via Praenestina, la spiegazione offerta dagli storici è nella concezione romana della commemorazione dei defunti, cui si garantiva un prolungamento della vita attraverso la memoria di coloro che, passando, leggevano ad alta voce le iscrizioni sui monumenti funebri. Viene peraltro correttamente notato che, al momento della costruzione, il manufatto non si trovava ancora a ridosso di un punto di passaggio obbligato, quale uno dei due fornici della Porta Maggiore, per il semplice motivo che l'attraversamento dell'acquedotto claudio è posteriore di ottanta anni e la cinta delle Mura aureliane rimonta a più di tre secoli dopo.
Sul basamento si trova l'iscrizione commemorativa dei lavori di restauro.

Lazio - Roma, Casa della Farnesina, Roma

 


La Casa della Farnesina è una costruzione signorile antica di Roma, collocata in Trastevere, in parte sotto i giardini di villa Farnesina (dalla quale prende il nome). La casa ha una complessa planimetria e straordinarie pitture parietali.
La Casa fu rinvenuta casualmente durante gli scavi per la costruzione degli argini del Tevere, nel 1880. Finora è stato possibile scavare solo una metà posta sotto i giardini, mentre è sconosciuta la parte sotto le costruzioni di via della Lungara.
Tra le ipotesi sui proprietari di questa "villa" urbana c'è quella che fosse stata costruita per le nozze tra Giulia maggiore e Marco Vipsanio Agrippa.
L'edificio è orientato sull'asse nordest-sudovest lungo il fiume ed aveva il suo asse centrato su una grandiosa esedra, rivolta al fiume in un'interessante combinazione prospettica. Questa struttura era sorretta da tre muri concentrici, con un prospetto esterno a speroni che proseguiva anche oltre un porticato rivolto al fiume sugli avancorpi laterali (o almeno su quello destro, quello scavato). Il lato verso Trastevere era invece percorso da un lungo criptoportico con volte su pilastri. Oltre esso, sulla strada, si trovava una lunga fila di ambienti con cellette per botteghe e magazzini.
La parte centrale della casa presentava una piccola corte, dove si aprivano due cubicoli e un oecus. Sull'esedra si apriva un altro cubicolo estivo. Il resto dell'avancorpo sinistro era occupato da sale di minor pregio e da alcune corti scoperte.
La villa può essere confrontata con la villa dei Misteri di Pompei o con gli Horti Luculliani a Roma, dove si ritrova il gusto scenografico di matrice ellenistica, specialmente nei prospetti rivolti verso il mare o una valle (in questo caso un fiume): anche in questi casi il centro è occupato da esedre bordate da loggiati. Tali strutture si trovano infine anche in numerosissime rappresentazioni dipinte nei "quadretti di paesaggio" di Pompei.
Le pitture e gli stucchi della casa sono state staccate nel corso degli scavi e si trovano oggi nel Museo Nazionale Romano, sezione di Palazzo Massimo. Rappresentano uno dei principali esempi di decorazione degli ambienti nel cosiddetto "terzo stile pompeiano".

Tra le stanze della casa c'è una grande sala decorata con pitture a sfondo nero, in campi divisi da esili colonnine dipinte. In basso uno zoccolo è ornato con motivi a meandro. Particolarmente interessante è il fregio con scene egiziane, incentrate probabilmente sul tema del saggio giudice, che sembrano illustrare un testo letterario che non ci è noto, forse un popolare romanzo alessandrino. In generale le scene sono composte da una prima parte, dove si vede l'insorgere della controversia, e una seconda dove si vede il giudizio vero e proprio.
Il fondo monocromatico e la funzione puramente decorativa dell'esile intelaiatura architettonica colloca queste pitture nel cosiddetto "terzo stile pompeiano", anti-barocco, con le pareti concepite unitariamente invece che come pretesto per i giochi prospettici. La stesura poi "a macchie", molto ricercata, ha i suoi modelli nell'ambiente egiziano del I secolo a.C.
Il cosiddetto cubicolo "B" ha una parete di fondo con pitture ben conservate. Una firma sulla parete reca il nome di uno dei pittori dell'atelier che realizzarono la decorazione, Seleukos, nome di origine siriaca. La parete è tripartita verticalmente, secondo uno schema consueto, ma non ha alcune prospettiva illusionistica tipica del secondo stile. La parte centrale presenta infatti un'edicola dipinta con un quadro, che non allude a un paesaggio retrostante. In basso è dipinto uno zoccolo e i pannelli sono a sfondo rosso; in lato la parte centrale è decorata da timpano, mentre quelle laterali sporgono con due corpi dove si aprono nicchie e edicolette. In lato al centro presenta uno sfondo scuro sul quale si stagliano esili vittorie alate e un colonnato prospettico appena accennato.
La scena nel quadro centrale è un episodio dell'infanzia di Dioniso, tratto da un originale greco del IV secolo a.C., mentre due quadretti laterali, sorretto da genietti femminili alati, hanno sfondo bianco e scene di gineceo disegnate in uno stile arcaizzante, ripreso da originali del V secolo a.C. Colpisce l'elemento eclettico della decorazioni: grandi superfici di colore e intelaiatura architettonica esile tipica del terzo stile, decorazioni accessorie neoattiche (genietti, vittorie, acroterii, racemi...) e quadri classici riprodotti in grande dimensione. L'aura classicista delle pitture ha fatto datare le pitture al 30-20 a.C.
Dalla casa della Farnesina provengono anche due frammenti di pitture di giardino, di poco posteriori all'esempio più antico noto a Roma di questo genere, gli affreschi del ninfeo sotterraneo della villa di Livia (40-20 a.C.). Si tratta di due fontane marmoree a forma di vaso, poste su un letto verde e circondate da rientranze di una staccionata di canne.
I cubicoli "B", "D" ed "E" erano coperti da volte a botte coperte da stucchi, oggi pure staccati e conservati al Museo delle Terme. 
La decorazione è organizzata in zone piccole e grandi di forma quadrata, rettangolare e a meandri, coi bordi composti da leggeri kymatia. I riquadri minori presentano motivi di carattere arcaicista o grottesco (Vittorie, amorini, grifi, Arimaspi, candelabri, girali). I riquadri maggiori sono invece decorati da paesaggi idilliaci (cubicoli "B", "D" e angoli dell'"E"), cicli di scene dionisiache (angoli dei cubicoli "B" e "D") e scene del mito di Fetonte (centro del cubicolo "E").
Nel "D" è particolarmente rappresentativo il pannello centrale con la scena di iniziazione dionisica, con un sileno nell'atto di compiere la mystica vannus alla presenza di un fanciullo col capo coperto, l'iniziato, di una donna patrocinante e di un inserviente. Lo sfondo è essenziale, con un platano (albero dionisiaco), un pilastro (a sinistra) e una quinta con tendaggi (a destra). Si assiste in queste scene a tendenze in atto anche in pittura quali l'assottigliamento degli elementi e la rarefazione della composizione. Particolarmente curata è la disposizione simmetrica e la resa dei dettagli nonostante il bassissimo rilievo, che testimonia il livello raggiunto nell'età augustea in questo tipo di decorazione.


Lazio - Roma, Arco di Settimio Severo

 

L'arco di Settimio Severo è un arco trionfale a tre fornici (con un passaggio centrale affiancato da due passaggi laterali più piccoli), situato a Roma, all'angolo nord-ovest del Foro Romano e sorge su uno zoccolo in travertino, in origine accessibile solo per mezzo di scale.
Eretto tra il 202 e il 203, fu dedicato dal senato all'imperatore Settimio Severo e ai suoi due figli, Caracalla e Geta per celebrare la vittoria sui Parti, ottenuta con due campagne militari concluse rispettivamente nel 195 e nel 197-198.
L'arco era posto nel Foro a fare da pendant ideale all'arco di Augusto, anch'esso dedicato a una vittoria partica, e con l'arco di Tiberio e il portico di Gaio e Lucio Cesare costituiva uno dei quattro accessi monumentali alla piazza forense storica non percorribile da carri: alcuni gradini sotto i fornici impedivano infatti il passaggio delle ruote.
La sua conservazione si deve al fatto che in epoca medievale vi fosse stata addossata la Chiesa dei Santi Sergio e Bacco al Foro Romano (addirittura il campanile era edificato sull'arco stesso), cui l'arco apparteneva, ed altri edifici sempre collegati alla chiesa, demolita all'inizio del XVI secolo.
L'arco, che era fino al 1700 parzialmente interrato per un terzo, come testimonia una stampa del Piranesi, è stato completamente dissotterrato nel 1804 per iniziativa di Pio VII, e tra gli anni ottanta e novanta del '900 è stato sottoposto ad importanti interventi di restauro.
L'arco, alto 26,42 metri, largo 23,27 e profondo 11,2,  è costruito in opera quadrata di marmo, con i tre fornici inquadrati sul lato frontale da colonne sporgenti di ordine composito, su alti plinti, scolpiti con Vittorie e figure di barbari. Si tratta del più antico arco a Roma, conservato, con colonne libere anziché addossate ai piloni.
I fornici laterali sono messi in comunicazione con quello centrale per mezzo di due piccoli passaggi arcuati.
Sui due lati dell'alto attico è presente la seguente iscrizione:
«All’Imperatore Cesare Lucio Settimio Severo, figlio di Marco, Pio, Pertinace, Augusto, padre della patria, Partico, Arabico e Partico Adiabenico, Pontefice Massimo, rivestito della potestà tribunizia per l’undicesima volta, acclamato imperatore per l’XI volta, console per la III volta, proconsole; e all’Imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino, figlio di Lucio, Augusto, Pio, Felice, rivestito della potestà tribunizia per la VI volta, console, proconsole, padre della patria, ottimi e fortissimi principi, per aver salvato lo stato e ampliato il dominio del popolo romano e per le loro insigni virtù, in patria e all’estero, il Senato e il Popolo Romano
(CIL 06 1033)
La quarta riga dell'iscrizione, dove compare patri patriae optimis fortissimisque principibus, sostituisce il testo originario (cui si è potuto risalire tramite gli incavi ricavati per bloccare le lettere metalliche e che era: ET P(ublio) SEPTIMIO L(uci) FIL(io) GETAE NOBILISS(imo) CAESARI) riportante la dedica a Geta e che venne cancellato e sostituito dopo il suo assassinio e la seguente damnatio memoriae,
Sopra l'attico, come raffigurato in alcune monete romane, si trovava la quadriga imperiale in bronzo e gruppi statuari raffiguranti Severo e i suoi figli.


I due lati principali dell'arco erano decorati da rilievi. Ai lati del fornice centrale si trovano le consuete Vittorie con trofei, che volano sopra genietti che simboleggiano le quattro stagioni (due per faccia). La cupola del fornice è decorata da rose inserite in un soffitto a cassettoni marmoreo. Sui fornici minori si trovano motivi analoghi a quello contrale, ma le personificazioni rappresentano dei fiumi. Nelle chiavi d'arco sono scolpite varie divinità: Marte, Ercole, Libero, Virtus (forse) e Fortuna. Sui fornici minori corre un piccolo fregio con la processione trionfale scolpita da altissimo rilievo. Sui plinti delle colonne rappresentazioni di soldati romani con prigionieri parti (quattro sulla fronte e due sui lati minori).
Rilevanti, anche dal punto di vista storico, sono i quattro grandi pannelli, in origine probabilmente dipinti, che occupano lo spazio sui fornici minori, dove è scolpita la narrazione delle campagne di Settimio Severo in Mesopotamia, organizzate in fasce orizzontali da leggere dal basso verso l'alto, come consueto nella pittura trionfale e nelle narrazioni da essa derivate (colonna Traiana, colonna di Marco Aurelio, ecc.).


Le scene sono:
- Primo pannello (Sud-Est), Avvenimenti della prima guerra del 195:
Partenza delle truppe romane dall'accampamento (registro inferiore)
Scontro tra Romani e Parti (registro centrale)
Liberazione di Nisibis e fuga del re dei Parti Vologase V (registro superiore a destra)
Adlocutio all'esercito di Severo sul suggesto, coi figli e gli alti ufficiali (registro superiore a sinistra)
- Secondo pannello (Nord-Est), Avvenimenti della seconda guerra del 197-198:
Partenza delle truppe con le macchine da assedio (grande ariete testudinato) alla volta di Edessa, che spalanca le porte in segno di accoglienza e invia dignitari e vessilli per sottomettersi (registro inferiore)
Sottomissione del re di Osroene Abgar VIII, il cui esercito si mescola a quello romano e viene poi arringato dall'imperatore (registro centrale)
Concilium imperiale in un castrum presso un ariete (registro superiore a destra)
Profectio per la penetrazione in suolo nemico (registro superiore a sinistra)
- Terzo pannello (Nord-Ovest):
Avvicinamento dei Romani a Seleucia, da dove i Parti fuggono a cavallo (registro inferiore)
I Parti si arrendono supplichevoli a Severo (registro centrale)
Severo fa l'ingresso nella città conquistata (registro superiore)
- Quarto pannello (Sud-Ovest):
Assedio con le macchine da guerra alla capitale dei Parti, Ctesifonte (registro centrale), dalla quale fugge a piedi il re Vologases (estrema destra in basso)
Scena non identificata, con cavalieri a piedi nella rappresentazione di Ctesifonte (forse l'elevazione di Caracalla al titolo di Augusto, che avvenne in quell'occasione, registro superiore a destra)
Adlocutio di Severo (registro superiore al centro)
Un cavaliere in piedi che allude al ritorno dalla spedizione (angolo in alto a sinistra)


La decorazione accessoria segue lo stile classico dell'arte ufficiale ed è tesa a esaltare con simboli e allegorie l'eternità e l'universalità dell'Impero (le stagioni, i fiumi della Terra), oltre alla gloria degli imperatori (Vittorie, prigionieri). Forte è la connotazione chiaroscurale.
Le scene scolpite vennero probabilmente create usando come modello le pitture che narravano i fatti della guerra inviate dalla Mesopotamia al Senato in preparazione del trionfo[5], che poi venne rimandato dall'imperatore e mai celebrato. I modelli più diretti per i rilievi furono sicuramente le due colonne coclidi, cioè quella Traiana e quella Aureliana, in particolare la seconda per la tecnica narrativa molto essenziale, qui ancora più riassuntiva e schematica.
L'ambientazione delle scene è unica, con un generico paesaggio roccioso (ottenuto bucherellando la superficie del marmo), con accenni di fiumi (come il Tigri nel pannello di Nord-Ovest) e le schematiche raffigurazioni di città. La narrazione in alcuni punti è continua, in altri mostra scene isolate, istantanee. La comprensione dei fatti è spesso affidata a gesti eloquenti e situazioni facilmente intelligibili.
Da un punto di vista stilistico alcuni storici hanno individuato due maestri, anche se almeno tutti i pannelli e il fregio sopra i fornici laterali sono opera unitaria, con stringenti affinità con la colonna di Marco Aurelio, di pochi anni anteriore. Qui però si registra la tendenza ad isolare maggiormente le figure dallo sfondo tramite netti sottosquadri a quella di preferire una rappresentazione piatta, pittorica.
Uno dei pannelli più significativi è quello dell'Assedio e presa di Ctesifonte, dove è particolarmente evidente l'uso del trapano, che crea zone profonde con forti ombreggiature alternate a quelle in luce sulla superficie, dando un effetto coloristico già visibile in alcune opere sin dall'età di Antonino Pio.
Ma una novità ancora più eclatante è la rappresentazione della figura umana, ormai appiattita in scene di massa ben lontane dalla visione "greca" della rappresentazione dell'individuo isolato e plastico. Si tratta di una testimonianza evidente della nascita di nuovi stilemi legati al filone dell'arte "provinciale e plebea" che dominarono l'arte tardoantica sfociando poi nell'arte medievale. Funzionari, artisti e imperatori stessi infatti provenendo dalle province portarono a Roma, con un'influenza sempre crescente, i caratteri dell'arte tipici proprio dei loro territori d'origine (non è corretto quindi parlare di una "decadenza" dell'arte).
Un altro segno evidente di queste nuove tendenze è la figura dell'imperatore che, circondato dai suoi generali, arringa la folla durante l'adlocutio: non siamo ancora agli ingigantimenti gerarchici tipici delle raffigurazioni imperiali del IV secolo, ma già l'imperatore si trova su un piano rialzato, emergendo sulla massa dei soldati come un'apparizione divina.
Queste tendenze furono ancora più evidenti nell'Arco di Costantino, del secolo successivo.


Lazio - Roma, Miliario aureo


Il Miliario aureo (Miliarium aureum o "pietra miliare aurea") era una colonna marmorea rivestita di bronzo dorato innalzato presso il tempio di Saturno, all'estremità del Foro Romano. Venne eretta da Augusto nel 20 a.C., quando divenne curator viarum. Era collocato simmetricamente all'Umbilicus urbis rispetto all'arco dei Rostra] Al monumento sono stati attribuiti un rocchio di fusto di colonna in marmo del diametro di 1,15 m che recava incassi interpretati come le tracce dell'apposizione di un rivestimento metallico e un basamento in muratura, situato all'estremità dei Rostra verso il tempio di Saturno, identificato all'inizio dell'Ottocento.
Al rivestimento di questo basamento, sopra il quale sarebbe sorta la colonna, furono attribuiti alcuni frammenti marmorei (un fregio con anthemion e uno zoccolo), visibili nella fotografia a fianco.
Vi erano incisi i nomi e le distanze delle più importanti città dell'impero, anche se la sua funzione era prettamente celebrativa della carica di curator viarum da parte di Augusto; si trattava però di una convergenza ideale delle strade consolari, la cui misura era calcolata a partire dalle porte delle mura serviane. 

Lazio - Roma, colonna di Foca

 
La colonna di Foca, è una colonna monumentale eretta davanti ai rostra nel Foro Romano e dedicata o ridedicata in onore dell'imperatore romano Foca il 1º agosto 608. Fu l'ultimo monumento onorario nel Foro.
Il motivo preciso per cui questa colonna fu eretta non è chiaro, nonostante Foca avesse donato formalmente il Pantheon al papa Bonifacio IV.
Nell'ottobre 610, Foca, sovrano di umili origini ed usurpatore, fu catturato, torturato, assassinato e grottescamente smembrato; a ciò si aggiunse la damnatio memoriae.
Più che una dimostrazione della gratitudine verso il Papa, la statua dorata era un simbolo della supremazia su Roma, che stava cadendo sotto le pressioni dei Longobardi, e un segno di gratitudine di Smaragdo, che era indebitato con l'imperatore poiché questi gli aveva permesso il ritorno da un lungo esilio e la carica a Ravenna.
Durante gli scavi del 1813 venne alla luce un'iscrizione latina sulla base della colonna:
«All'ottimo principe signore nostro,
Foca imperatore,
di somma clemenza e somma pietà,
per l'eternità incoronato da Dio,
trionfatore sempre augusto,
Smaragdo, patrizio e esarca d'Italia,
per decisione del sacro palazzo,
devoto alla sua clemenza,
per gli innumerevoli benefici ottenuti dalla sua pietà, e per la pace
procurata all'Italia, e per la libertà mantenuta,
questa statua di sua maestà,
splendente di aureo fulgore,
pose su questa sublime colonna a perenne sua gloria,
e la dedicò il primo giorno di agosto,
nell'undicesima indizione,
nell'anno quinto dopo il consolato di sua pietà
»
La colonna rimane in situ, in una posizione isolata tra le rovine, diventando un punto di riferimento nel Foro, come dimostra le diverse vedute ed incisioni in cui è raffigurata. La base non era visibile quando Giuseppe Vasi e Giovanni Battista Piranesi fecero schizzi ed incisioni della colonna a metà del XVIII secolo.
La colonna corinzia, scanalata, si erge, alta 13,6 metri, sul suo basamento cubico di marmo bianco e sembra che sia stata originariamente costruita intorno al II secolo. Sulla sommità della colonna fu fatta erigere da Smaragdo, l'esarca di Ravenna, una statua dorata raffigurante Foca, ma questa fu probabilmente tolta poco dopo.
La colonna fu riciclata e sosteneva originariamente una statua dedicata a Diocleziano: l'iscrizione precedente fu cancellata per dar spazio a quella presente. La colonna è realizzata in marmo bianco, precisamente in marmo proconnesio, assai diffuso a partire dalla fine del I secolo d.C. e soprattutto dal II d.C., sormontata da un capitello corinzio databile ad epoca traianea.
Il fondamento quadrato di mattoni non era originariamente visibile, non essendo stato il livello attuale del Foro scavato fino alla pavimentazione augustea fino al XIX secolo.
Esisteva una scalinata che venne rimossa per permettere di leggere l'iscrizione di L. Surdunus sulle lastre pavimentali, che ha permesso di datare l'ultima lastricazione al 12 a.C. circa.

Lazio - Roma, umbilicus urbis Romae


L'umbilicus urbis Romae ("ombelico della città di Roma") o umbilicus Urbis, era il centro ideale della città di Roma, posto nel Foro Romano, nei pressi dell'arco di Settimio Severo e del Tempio della Concordia. Si trattava dell'equivalente romano degli omphalos greci. Era costituito da un cono di mattoni, parzialmente conservatosi, ricoperto di marmi bianchi e colorati. Sulla cima doveva ergersi una colonna o una statua.
Quanto rimane del monumento è una costruzione conica del diametro di 4,45 metri alta 2 metri, alla base della quale è presente una piccola apertura da cui si accede ad una cavità posta sotto il monumento.
L'Umbilicus Urbis non va confuso con il Miliarium Aureum, costruito da Augusto poco distante e utilizzato come "punto zero" per la misura delle distanze in tutto l'Impero.
Secondo la leggenda della nascita di Roma, Romolo, quando fondò la città, fece scavare una fossa circolare nell'area che sarebbe poi diventata il Foro. Tale fossa era considerata sacra: al suo interno i Romani gettavano i primi frutti dell'anno come dono sacrificale agli dèi. Inoltre, tutti i nuovi cittadini romani avrebbero dovuto gettare simbolicamente nel pozzo una manciata di terra del loro luogo di provenienza. Questa fossa viene ritenuta essere il Mundus Cereris, un pozzo sacro che si credeva celasse un accesso diretto al mondo dell'Oltretomba.
Si ritiene che l'Umbilicus Urbis fosse strettamente legato al Mundus Cereris, o che addirittura esso fosse la copertura esterna monumentalizzata dello stesso pozzo sacro. Non a caso, l'Umbilicus si trova vicino ad altre strutture considerate sacre e risalenti alla Roma arcaica, come il Volcanale e il Lapis Niger. Il Mundus Cereris veniva normalmente mantenuto chiuso da una pietra denominata Lapis Manalis, al fine di impedire ogni tipo di comunicazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti. La fossa veniva aperta solo tre giorni all'anno: il 25 agosto, il 5 ottobre e l'8 novembre, giorni durante i quali si credeva che le anime dei defunti potessero uscire dall'Oltretomba proprio attraverso il Mundus e vagare nel mondo dei vivi. Durante questi giorni sia gli affari civili che quelli militari venivano sospesi in quanto considerati dies nefasti.
Una prima costruzione monumentale dell'Umbilicus Urbis venne realizzata intorno al II secolo a.C.; tuttavia le rovine attualmente visibili si riferiscono ad una ricostruzione dell'epoca di Settimio Severo: la costruzione del vicino arco di trionfo intitolato all'imperatore, infatti, invase parzialmente l'area su cui si trovava l'Umbilicus, motivo per cui esso venne ricostruito per fare spazio al nuovo monumento. Nella ricostruzione furono reimpiegati materiali provenienti dall'Umbilicus Urbis precedente.

Lazio - Roma, tempio di Antonino e Faustina

 


Il tempio di Antonino e Faustina è un tempio del Foro Romano di Roma dedicato all'imperatore Antonino Pio e alla moglie Faustina. Si trova a nord della Regia, tra la basilica Emilia e il tempio del Divo Romolo. Il tempio fu eretto dopo la morte dell'imperatrice nel 141 e le fu dedicato dal Senato, come ricorda l'iscrizione sull'architrave della facciata (DIVAE FAVSTINAE EX S C). Alla morte dell'imperatore nel 161 il tempio venne dedicato anche al nuovo divus e fu aggiunta una riga soprastante all'iscrizione esistente (DIVO ANTONINO ET).
All'interno del tempio si insediò nel VII o VIII secolo la chiesa di San Lorenzo in Miranda. L'edificio era collegato in quest'epoca ad un arco in blocchi, demolito nel 1546. Nel 1536, in occasione della visita di Carlo V, erano già state demolite tre delle cappelle della chiesa che occupavano il pronao. A causa dell'interramento la chiesa venne ricostruita in forme barocche nel 1602 ad opera di Orazio Torriani, innalzandola di sei metri e occupando la cella e le prime colonne del pronao.
Il tempio sorge su un alto podio in blocchi di tufo, in origine rivestito esternamente in marmo, accessibile per mezzo di un'alta scalinata sulla fronte (frutto di una ricostruzione in mattoni recente), con al centro l'altare, del quale restano alcuni resti in laterizio. L'edificio è costituito da una cella, con pareti ancora in opera quadrata di blocchi di peperino (originariamente presentava anche un rivestimento marmoreo), preceduta da un pronao esastilo, a sei colonne lisce sulla fronte e due sui lati, in marmo cipollino, proveniente dall'Eubea. Sono alte 17 metri e presentano capitelli corinzi. In lato hanno scanalature oblique che la vulgata considera originariamente destinate a tenere le corde con le quali si tentò di far crollare l'edificio per recuperarne i materiali; in realtà si tratta delle tracce di superfetazioni, verosimilmente lignee, che dovettero occupare questa parte del tempio dopo il suo abbandono. Su una colonna (la centrale di sinistra) sono presenti graffiti di statue forse un tempo qui presenti, tra i quali quello di Ercole col leone Nemeo.
La trabeazione è decorata da un fregio continuo con ghirlande, grifoni e strumenti sacrificali. La parte superiore del tempio è perduta, ma dalle monete del periodo sappiamo che sull'apice del tempio vi era una quadriga e ai lati due Vittorie alate, mentre altre due statue erano poste sulle basi ai lati della scalinata che portava all'edificio. La statua di Faustina, seduta in trono, era al centro della cella.
Per l'epoca romana sono ricordate dalle fonti erezioni di statue nel pronao del tempio (a Tito Pomponio Proculo Vitrasio Pollione nel 176, a Marco Basseo Rufo poco dopo, a Gallieno Salonino poco dopo la metà del III secolo). Oggi alcune di esse sono disposte sul podio.
Nei pressi dell'ex-tempio è stato scavato un sepolcreto arcaico risalente al X secolo a.C.

Lazio - Roma, Piramide Cestia

 


La Piramide Cestia (o Piramide di Caio Cestio, Sepulcrum Cestii in latino) è una tomba romana a forma di piramide di stile egizio costruita a Roma tra il 18 e il 12 a.C. Si trova nelle immediate adiacenze di porta San Paolo ed è inglobata nel perimetro del posteriore cimitero acattolico, costruito tra il XVIII e il XIX secolo. Fu costruita tra il 18 e il 12 a.C. come tomba per Gaio Cestio Epulone, un membro dei septemviri epulones; è in calcestruzzo, con cortina di mattoni e copertura di lastre di marmo di Carrara; è alta 36,40 metri con una base quadrata di circa 30 metri di lato e si leva su una piattaforma di cementizio.
La piramide fu costruita in soli 330 giorni, forse anche meno. Infatti Gaio Cestio dispose espressamente nel suo testamento che gli eredi gli innalzassero il sepolcro piramidale entro tale termine, pena la perdita della ricca eredità, come ricorda l'iscrizione scolpita sul fianco orientale del monumento: opus absolutum ex testamento diebus CCCXXX, arbitratu (L.) Ponti P. f. Cla (udia tribu), Melae heredis et Pothi l(iberti). Gli eredi si affrettarono ad eseguire la disposizione testamentaria, tanto che, sembra, avessero completato la costruzione della piramide con qualche giorno di anticipo.
All'interno vi è un'unica camera sepolcrale, di 5,95 × 4,10 ed alta 4,80 metri, la cui cubatura costituisce poco più dell'1% del volume complessivo del monumento. Su entrambi i lati verso oriente e verso occidente, a due terzi dell'altezza, è incisa nel rivestimento l'iscrizione che registra il nome e titoli di Cestio; sul solo lato orientale, a circa un terzo dell'altezza, sono descritte le circostanze della costruzione del monumento.
Una comparazione della forma con le Piramidi di Giza rivela che la resistenza strutturale del calcestruzzo ha permesso di costruire la piramide romana ad un angolo molto più acuto di quelle dell'Egitto. La forma più slanciata ha permesso che la Piramide Cestia raggiungesse un'altezza maggiore con la stessa quantità di materiale.
Il monumento era posto lungo la Via Ostiense, era circondato da una recinzione in blocchi di tufo, oggi parzialmente in vista, aveva 4 colonne agli angoli (di cui sono state rialzate quelle dal lato opposto dell'Ostiense) e due statue del defunto ai lati della porta.
La camera sepolcrale con volta a botte – originariamente murata al momento della sepoltura, come nelle piramidi egizie – è dipinta in bianco, con sottili cornici e figure decorative (sacerdotesse ed anfore alle pareti, 4 figure di Nike sulla volta) di stile pompeiano. È relativamente ben conservata, ma completamente nuda, e sulla parete di fondo, dove doveva esserci il ritratto del defunto, ora c'è un buco, praticato da scavatori alla ricerca di tesori.
La presenza di un monumento funebre in forma di piramide a Roma si deve probabilmente al fatto che l'Egitto era divenuto provincia romana alcuni anni prima, nel 30 a.C., e la cultura sontuosa di questa nuova provincia stava venendo di moda anche a Roma.
Nel III secolo la piramide di Cestio fu incorporata nelle Mura Aureliane, delle quali venne a costituire un bastione, e l'attuale accesso corrisponde ad una posterula che immetteva su una strada secondaria – il cui basolato è in vista – in direzione dell'emporio sul Tevere. Questa circostanza costituisce, presumibilmente, la ragione per cui il monumento si salvò dalle spoliazioni, che afflissero nei secoli tutti i marmi di rivestimento dei monumenti antichi.
Nel Medioevo, la credenza popolare identificava la Piramide come meta Remi, collegandola con un'altra piramide indicata come meta Romuli, molto simile e coeva, esistente sino al 1499 nel rione di Borgo, riportata nella Pianta della città di Roma di Alessandro Strozzi del 1474, e demolita nel XVI secolo da papa Alessandro VI per l'apertura della nuova strada di Borgo Nuovo.  Lo stesso Francesco Petrarca, umanista ed esperto latinista, in un'epistola indica la Piramide Cestia come "sepolcro di Remo". Poggio Bracciolini per spiegare l'errore del grande scrittore afferma che esso fu causato dal «non avere il grande uomo voluto scoprire l'iscrizione coperta dagli arbusti».
Per il riferimento fantasioso alle origini della fondazione di Roma - oltre che per la sua forma - la Piramide Cestia fu molto ammirata dai viaggiatori, in particolare nel Seicento, e godette comunque di costante attenzione da parte dell'amministrazione pontificia: nel 1663 furono intrapresi degli scavi per ordine di papa Alessandro VII, che ne fece incidere la memoria sulla facciata; all'esterno furono trovate le basi di due statue dedicate a Cestio e fu scavata un'apertura nella piramide stessa, scoprendo la camera sepolcrale - che, come detto sopra, fu trovata vuota e già visitata da tombaroli. Esiste anche un progetto del Borromini per trasformare la cella funeraria in chiesa, che non ebbe seguito. Ancora alla fine del potere temporale, comunque, la Piramide era oggetto di manutenzione conservativa: vi fu installato il primo parafulmine, che c'è ancora.
Ai piedi della piramide, ancora dentro la cinta urbana ma immediatamente a ridosso delle mura, dal XVIII secolo si cominciò a seppellire gli stranieri non cattolici morti in Roma. Il sito fu ufficializzato nel 1821 come Cimitero degli inglesi.
Nel 2015 l'imprenditore e mecenate giapponese Yuzo Yagi, titolare della Yagi Tsusho Ltd (che distribuisce in Giappone prodotti della moda italiana) e insignito dell’onorificenza di Grande Ufficiale dal Presidente della Repubblica Italiana per il suo contribuito allo sviluppo dell’industria della moda italiana, ha finanziato il restauro della piramide costato 2 milioni di euro.

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...