mercoledì 23 luglio 2025

Sicilia - Tempio di Segesta

 


«La posizione del tempio è sorprendente: al sommo d'una vallata larga e lunga, in vetta a un colle isolato e tuttavia circondato da dirupi, esso domina una vasta prospettiva di terre
(Johann Wolfgang von Goethe, Viaggio in Italia)

Il tempio di Segesta è un tempio elimico dell'antica città di Segesta sito nell'area archeologica di Calatafimi Segesta, comune italiano della provincia di Trapani in Sicilia.
Il tempio, a volte denominato "Tempio Grande", è stato costruito durante l'ultimo trentennio del V secolo a.C., sulla cima di una collina a ovest della città, fuori dalle sue mura. Si tratta di un grande tempio periptero esastilo (ossia con sei colonne sul lato più corto, non scanalate). Sul lato lungo presenta invece quattordici colonne (in totale 36 quindi, alte 10 metri). L'attuale stato di conservazione presenta l'intero colonnato della peristasi completo di tutta la trabeazione. Nonostante gli elementi costruttivi e le proporzioni della costruzione si riferiscano con chiarezza al periodo classico dell'architettura greca, il tempio presenta aspetti peculiari sui quali la storiografia non esprime pareri unanimi.
Il primo elemento di dibattito è costituito proprio dalla sua natura di espressione artistica pienamente ellenica, aggiornata alle maggiori espressioni dell'arte della madrepatria ed in particolare dell'Attica, ma realizzata in una città degli Elimi, una popolazione di origine italica o anatolica, ma stanziata in Sicilia molto prima dell'arrivo dei coloni greci nella vicina Selinunte, con la quale Segesta fu perennemente in conflitto. Gli storici ipotizzano che, grazie agli scambi commerciali, la città elima abbia raggiunto nel corso del V secolo a.C. un alto grado di ellenizzazione, tale da poter consapevolmente importare un sofisticato modello artistico come il tempio dorico periptero che grazie alla canonizzazione di dimensioni e proporzioni si prestava ad una larga diffusione. Inoltre è probabile che il progettista e le maestranze impiegate fossero greche, provenienti da una delle vicine città.


Il secondo aspetto che ha sempre colpito molto gli storici è l'assenza di vestigia della cella all'interno del colonnato, che invece è uno dei meglio conservati del mondo greco. Questo ha fatto pensare ad un tempio ipetro cioè ad un luogo sacro privo di copertura e di cella e legato a riti indigeni. In alternativa si è pensato ad una cella interamente a struttura lignea, come tutta la copertura, e quindi andata persa. Negli anni '80 sono state trovate tracce della fondazione della cella, interrate all'interno del tempio, insieme a tracce di costruzioni precedenti (il che farebbe pensare che il tempio fosse stato costruito su un luogo sacro ancora più antico). Queste caratteristiche hanno fatto nascere l'ipotesi, tra le altre, che il tempio non sia mai stato terminato, a causa probabilmente di avvenimenti bellici che coinvolsero a lungo la città e che la cella e la copertura non siano mai state realizzate. Tale ipotesi è avvalorata secondo alcuni anche dalla mancanza di scanalature delle colonne e dalla presenza, soprattutto sui blocchi del crepidoma, di "bugne" cioè di protuberanze destinate a proteggere il blocco durante la messa in opera che sarebbero state scalpellate via in fase di rifinitura. Altri le interpretano come caratteristiche connesse alla matrice culturale indigena elima e quindi non greca.
Secondo l’ipotesi del tempio incompleto, questo avrebbe quindi dovuto avere un'ampia cella preceduta da un pronao distilo in antis ed un simmetrico opistodomo sul retro. Il colonnato, con interassi uguali su tutti i lati, presenta la canonica doppia contrazione degli intercolumni terminali per risolvere il conflitto angolare oltre ad altri tipici accorgimenti ottici come la curvatura delle linee orizzontali e alla concezione decorativa del fregio che perde, almeno in parte la sua dipendenza dal colonnato. Tali caratteristiche mostrano una derivazione dai modelli evolutivi attici della fine del V secolo a.C. ed in particolare dal tempio degli Ateniesi a Delo, ai quali rimandano anche gli elementi decorativi. Gli unici aspetti riferibili ancora allo stile severo sono le proporzioni allungate con 6x14 colonne in luogo delle canoniche 6x13 (doppio quadrato), e le grandi dimensioni in un'epoca in cui i templi divenivano più piccoli.
Nel XVIII secolo il tempio fu oggetto di un primo restauro da parte del regio architetto Carlo Chenchi. Fu visitato da Goethe e divenne una delle mete del Grand Tour e una della cause della riscoperta dell'architettura greca e del dorico che fu alle radici del neoclassicismo. Nell'aprile del 2020 è stata annunciata dalla direttrice del Parco Archeologico di Segesta l'esistenza presso la Biblioteca comunale di Calatafimi di un'epigrafe dedicatoria ritrovata nei pressi del tempio che fa propendere per la dedica del tempio ad Afrodite Urania.
Presso la Biblioteca Comunale di Calatafimi è oggi conservata una base rettangolare in calcarenite, lunga 75 centimetri e alta 21, che reca incisa una iscrizione in greco, conservatasi per intero, databile al II secolo a.C.: “Diodoro, figlio di Tittelo, Appeiraios (ha dedicato la statua di) sua sorella Minyra, (moglie) di Artemon, che è stata sacerdotessa, ad Afrodite Urania”. L’epigrafe proviene dalle vicinanze del tempio di Segesta e ne indica la divinità venerata. Già conosciuta nel Seicento l’epigrafe subì vari spostamenti, fino a essere murata nella casa del canonico Francesco Avila, come già noto (da Marrone) nel 1827. Si tratta di una epigrafe, perfettamente “compatibile” con un contesto di un santuario, di carattere onorario in forma di dedica alla divinità, utilizzata come base di statua di sacerdotessa eretta da parenti o amici: d'altronde i nomi di Diodoro e Tittelo sono attestati comunemente a Segesta. Minura era quindi sacerdotessa di Afrodite Urania a Segesta.


Sicilia - Castiglione di Ragusa

 

Castiglione di Ragusa
 è un insediamento greco-siculo con resti di due ampi quartieri del VII secolo a.C., fortificazioni, strada urbana, un'area sacra ed una necropoli greca.
Il sito si trova a 3 km da Ragusa su di un'altura, lunga e stretta, che sovrasta la piana di Vittoria.
Il sito fu fondato a partire dal VII secolo a.c. da insediamenti siculi. Probabilmente a partire dal V sec. passò sotto l'influenza greca. Dal IV se. a.c. fu poi abbandonato.
Gli archeologi hanno individuato due aree principali risalenti all'epoca sicula VI sec. a.c. e dei resti di fortificazioni murarie, le fondamenta di un santuario e una necropoli.
Tra i ritrovamenti più importanti dell'area vi è il cosiddetto "guerriero di Castiglione", un bassorilievo in un'unica lastra di calcare locale, raffigurante un guerriero armato a cavallo con la testa del destriero incedente verso sinistra, mentre alle estremità del blocco sono decorate le protomi di un toro e di una sfinge. L'importanza del documento sta nella incisione in caratteri greci e in dialetto dorico, relativo ad una personalità probabilmente indigena.
Il "guerriero" è custodito presso il Museo archeologico ibleo di Ragusa.

Sicilia - Palermo, complesso delle case romane a Villa Bonanno

 

Il complesso delle case romane che occupano una porzione della Villa Bonanno all’interno di Piazza della Vittoria fu casualmente scoperto nel dicembre del 1868 dal Direttore delle Antichità di Sicilia Francesco Saverio Cavallari e comprendono i resti di due sontuose dimore, ovvero, “un palagio contenente una sala basilicale” ascrivibili alla metà del IV secolo a.C.
Il primo edificio, posto all’ingresso, era formato da due peristili (ampi cortili a colonne), uno di questi, oggi sotterrato. Il peristilio visibile si articola su una superficie di quasi 180 mq ed ha una forma trapezoidale: nove supporti verticali sui lati lunghi e sei sui lati brevi costituivano il porticato; un doppio ordine di colonne doriche delimitava i lati est, ovest e sud, mentre il lato nord era caratterizzato da quattro colonne di ordine “gigante” e due pilastri angolari.
Sul lato settentrionale si apriva una esedra, sala di rappresentanza decorata da un ricco pavimento a mosaico raffigurante la “caccia di Alessandro”. Sul lato meridionale del portico, addossata ad una colonna, venne realizzata una scenografica fontana con vasca rivestita all’interno di un intenso colore azzurro e decorata, all’esterno, da intonaci a motivi vegetali e da una nicchia rivestita di lastre marmoree. Nella parte centrale del peristilio sono visibili sei plinti in arenaria, dei quali oggi uno mancante, che reggevano i supporti verticali a sostegno, probabilmente, di un pergolato. Al centro di questa struttura è una fontana di forma pressoché circolare, orientata verso la fontana maggiore.
Al centro della vasca, un tempo rivestita da lastre di marmo, zampillava l’acqua. Sull’asse tra le due fontane sono i resti di una terza, di minori dimensioni e di forma ottagonale. I due edifici sono divisi da una strada larga 4 metri.
I resti del secondo edificio riguardano parte delle strutture e degli apparati decorativi. Esso si articola in due distinte strutture: un nucleo “abitativo” con peristilio e un insieme di ambienti, probabilmente a carattere termale. Dall’atrio, attraverso una sorta di vestibolo, decorato al centro con un mosaico raffigurante Nettuno su quadriga, si giungeva ad una sequenza di tre ambienti disposti lungo l’asse longitudinale dell’edificio caratterizzati da una ricchissima pavimentazione musiva. I mosaici, strappati nel corso delle prime indagini di inizio secolo, sono oggi esposti al Museo Archeologico Regionale “A. Salinas”.

testo tratto da https://turismo.comune.palermo.it/palermo-welcome-luoghi.php?tp=68&det=25

Sicilia - Palermo, Catacombe di Porta d'Ossuna

 

Le catacombe di Porta d'Ossuna sono un cimitero ipogeo paleocristiano di Palermo.
Il sito è posto nella depressione naturale del Papireto a nord-ovest della città, e fu tagliato lungo corso Alberto Amedeo per l'edificazione dei bastioni cinquecenteschi. Il complesso fu scoperto nel 1739 durante i lavori per la costruzione del convento delle Cappuccinelle ed esplorato dal principe di Torremuzza, mentre nel 1907 fu studiato per la prima volta da Joseph Führer e Victor Schultze. Durante la seconda guerra mondiale le catacombe vennero utilizzate come ricovero dalla popolazione per rifugiarsi dai bombardamenti.
L'ingresso è oggi su corso Alberto Amedeo, preceduto da un vestibolo costruito per volere di Ferdinando I di Borbone nel 1785, di cui resta un'iscrizione celebrativa all'entrata; in passato questo era posto a sud-ovest, dove si trova una rampa d'accesso con sette gradini ed un basamento trapezoidale probabilmente impiegato come mensa per i refrigeria (banchetti funebri). La catacomba è articolata su un asse est-ovest e diversi corridoi perpendicolari, dove si parano arcosoli polisomi, loculi e cubicoli. Le pareti erano dipinte, ma oggi restano solamente alcune tracce di intonaco. Alla scoperta nel XVIII secolo fu rinvenuta un'iscrizione funeraria per una bambina (CIL X, 7333), oggi conservata al Museo archeologico regionale Antonio Salinas. La struttura, nonostante le dimensioni più modeste, è simile alle catacombe di Siracusa e risale al IV-V secolo.
Databili tra il IV ed V secolo d.C., del primo emporio punico, fondato probabilmente nel corso del VII secolo a.C., sono testimonianza concreta e significativa le numerose tombe comprese nella vasta necropoli che occupava l'area immediatamente ad ovest della città, compresa tra Piazza Indipendenza, Corso Calatafimi, Corso Pisani, Via Cuba, Via Cappuccini e Via Pindemonte. 
Dal 1746 - anno delle prime scoperte avvenute in occasione della costruzione del Reale Albergo dei Poveri, ad oggi, sono state rinvenute oltre settecento tombe, alcune delle quali, adeguatamente rappresentative dei vari rituali funerari e delle diverse tipologie tombali, sono oggi visibili nell'area della Caserma Tuköry di Corso Calatafimi.
La necropoli copre un arco cronologico compreso tra la fine del VII e gli inizi del III secolo a.C. e comprende, sotto il profilo tipologico, sia tombe a camera ipogeica che inumazioni in sarcofago litico e deposizioni in fossa terragna o in cinerario; ugualmente attestati sono i riti dell'inumazione e dell'incinerazione.
Tra febbraio e giugno del 2004 si è completato lo scavo di questa porzione di necropoli punica: sono state scavate in tutto circa 150 sepolture che si distribuiscono in maniera intensiva all'interno dello spazio indagato.
A questa indagine sistematica si sono affiancate alcune scoperte casuali che hanno determinato la necessità di attivare scavi d'emergenza: in particolare si ricordi la tomba a camera ipogeica scoperta, in occasione della messa in opera della nuova rete idrica, all'angolo tra la Via Maggiore Amari ed il Corso Calatafimi, al cui interno si è recuperato uno dei corredi più antichi dell'intera necropoli, caratterizzato dalla presenza di forme tipiche del repertorio fenicio, e le due tombe a camera ipogeica rinvenute nel corso dei lavori di restauro del complesso monumento dell'Albergo dei Poveri di Corso Calatafimi.

Sicilia - Palermo, Pietra di Palermo

 
La Pietra di Palermo è un frammento di una stele di diorite anfibolica nera. È il più antico annale regale conosciuto dell’Egitto faraonico, e costituisce una fonte fondamentale per la ricostruzione della fase dell'Antico Regno della civiltà egizia.
È ospitata dal Museo archeologico Salinas a Palermo (città da cui la pietra prende tradizionalmente il nome). Il frammento della stele è il più grande fra i sette finora rinvenuti: misura 43 cm di altezza per 30,5 di larghezza; reca inciso su entrambi i lati l'elenco dei faraoni d'Egitto dalla prima alla quinta dinastia, i nomi delle loro madri ed il livello raggiunto anno per anno dalle piene del Nilo: nomi non riportati da altre fonti a noi pervenute. Reca incise anche le congrue donazioni di terre e beni effettuate dai sovrani al dio Ra, ad Hathor e alle misteriose Anime di Eliopoli.
Altri pezzi più piccoli si trovano al Museo Egizio del Cairo e al Petrie Museum of Egyptian Archaeology di Londra.
La maggior parte delle informazioni sulla prima e la seconda dinastia sono andate perse.
Ci sono incertezze riguardo alla data della Pietra di Palermo. Non è noto se l'iscrizione sia stata fatta in una volta sola o se parte delle iscrizioni siano state aggiunte in un periodo successivo. Non è inoltre noto se risale al periodo che viene descritto nell’iscrizione (ovvero la Quinta dinastia). La datazione più probabile della realizzazione della stele è la metà della V dinastia che regnò tra il 2500 a.C. e il 2350 a.C. circa, durante il periodo della storia egiziana chiamato Antico Regno. La collocazione originale della stele è sconosciuta, ma si ipotizza che sia stata ritrovata ad Eliopoli o nelle rovine del tempio di Ptah a Menfi. Si ritiene che in origine avesse una lunghezza di circa 2 metri ed una altezza di 60 centimetri. I faraoni menzionati decifrabili del Periodo predinastico del Basso Egitto sono: Seka, Tau (o Tiu), Thesh, Neheb, Uatchnar e Mekha.
Faceva parte di una grande lastra di diorite anfibolica nera, sulle cui facce, fu incisa la cronaca di circa 700 anni di vita egiziana. La stele fu frammentata in diversi pezzi, molti dei quali andarono perduti.
La pietra si trova dal 1877 nella collezione del Museo archeologico Salinas, proveniente da donatore privato, Ferdinando Gaudiano, e l'origine del reperto fu identificata dall'egittologo Johan Heinrich Schäfer.
Nel 1903 furono scoperti tre frammenti più piccoli: uno era stato usato come fermaporta e gran parte del suo testo fu così cancellato; il terzo fu rinvenuto in un sito archeologico a Menfi.
Nel 1914 Flinders Petrie ne acquistò un quarto frammento sul mercato antiquario; il pezzo è esposto al Petrie Museum of Egyptian Archaeology di Londra, e contiene informazioni sui sovrani Khasekhemui (II dinastia) e Nebmaat (IV dinastia) (foto a sinistra).
Nel 1963 un quinto frammento fu acquistato sul mercato antiquario, e si trova ora al Museo Egizio del Cairo.
Nel 1999, Toby Wilkinson divenne il primo studioso a indagare su tutti e sette i frammenti esistenti, pubblicando le sue conclusioni sugli antichi annali l'anno seguente.

Sicilia - Palermo, Grotte dell'Addaura

 
Le grotte dell'Addaura sono un rilevante sito archeologico sito in un complesso di quattro grotte naturali sul fianco nord-orientale del monte Pellegrino, nei pressi di Addaura, frazione di Palermo, in Sicilia.
L'importanza del complesso è determinata dalla presenza di incisioni rupestri databili fra l'Epigravettiano finale e il Mesolitico.
Sul fianco del monte Pellegrino, che domina Palermo, a sud-est della spiaggia di Mondello e a circa 70 metri sul livello del mare, si aprono alcune grotte e cavità nelle quali sono state ritrovate ossa e strumenti utilizzati per la caccia che attestano la presenza dell'uomo a partire dal Paleolitico e nel Mesolitico. I reperti sono conservati nel Museo archeologico di Palermo. La loro importanza tuttavia è dovuta soprattutto alla presenza di uno straordinario complesso di incisioni rupestri che ornano le pareti e che costituiscono un caso unico nel panorama dell'arte rupestre preistorica. Il nome Addaura (o Daura, nome del "tenimento") deriverebbe da una corruzione del termine greco laura che indica una particolare tipologia di comunità di anacoreti.
Il ritrovamento dei graffiti dell'Addaura è recente ed è stato del tutto casuale. Le tre grotte che costituiscono il complesso dell'Addaura nel massiccio del monte Pellegrino erano già state studiate dai paletnologi dato che in esse era stato ritrovato lo scheletro di un elefante nano.
Dopo lo sbarco in Sicilia e l'arrivo a Palermo nel 1943 gli Alleati, in cerca di un sito idoneo, destinarono le grotte a deposito di munizioni ed esplosivi. Lo scoppio accidentale dell'arsenale provocò nella grotta principale lo sgretolamento e il crollo di un diaframma di incrostazione portando alla luce i graffiti fino ad allora coperti dalla "patina del tempo". I graffiti vennero scoperti successivamente nel 1952, e studiati dalla professoressa Jole Bovio Marconi i cui studi furono pubblicati nel 1953.
Dal 1997 le grotte dell'Addaura non sono più visitabili; sono state chiuse per il pericolo di caduta massi data l'instabilità del ciglione roccioso. Ad oggi non sono state ancora messe in opera le opportune misure di consolidamento e il sito stato oggetto di vandalismo (2008 e 2011).
In una delle grotte si trova un vasto e ricco complesso d'incisioni, databili fra l'Epigravettiano finale e il Mesolitico, raffiguranti uomini ed animali. In mezzo ad una moltitudine di bovidi, cavalli selvatici e cervi, viene rappresentata una scena dominata dalla presenza di figure umane poste in circolo, come se danzassero (circle dance in inglese). Il gruppo di personaggi, disposti in circolo, circonda due figure centrali con il capo coperto ed il corpo fortemente inarcato all'indietro. È sull'identità di questi due personaggi, e sul significato della loro posizione all'interno del gruppo, che sono state avanzate ipotesi contrastanti. Secondo alcuni studiosi si potrebbe trattare di acrobati colti nell'atto d'effettuare giochi che richiedono una particolare abilità. Secondo altri è stata descritta la scena di un rito, che prevedeva il sacrificio di due persone guidato da uno sciamano. Per suffragare quest'interpretazione è stata messa in evidenza la presenza, intorno al collo e ai fianchi dei due personaggi centrali, di corde che costringono il corpo ad un innaturale e doloroso inarcamento. Si tratta forse di un rito che prevede l'incaprettamento e l'autostrangolamento, attestati in altre culture. Se si volesse seguire questa spiegazione, si dovranno leggere le due figure mascherate, che circondano i due personaggi sacrificati, come sciamani che assistono alla cerimonia. Altri riterrebbero il contesto delle due figure maschili come immagine omoerotica.
Le incisioni dell'Addaura rappresentano un ciclo figurativo del massimo interesse per l'inconsueta attenzione dedicata alla rappresentazione scenografica dell'ambiente, un caso limite in tutta l'arte paleolitica, per il realismo e dinamismo della scena. Il trattamento della figura umana, pur nell'ambito di una corrente stilistica presente nel bacino del Mediterraneo, in particolare a Levanzo (Grotta del Genovese), e nella provincia franco-cantabrica e pur impiegando le stesse tecniche, nella grotta dell'Addaura si esprime in forma assolutamente nuova per moduli stilistici e per spirito rispetto agli altri ritrovamenti.

Sicilia - Pizzo Cannita

 

Pizzo Cannita è un'altura di 208 m nel territorio comunale di Misilmeri in Sicilia, sede di un sito archeologico datato tra il VI e il IV secolo a.C..
Il toponimo Cannita trae origine o dalla forma allungata della vetta calcarea (simile ad una canna) se vista da nord o dalla presenza, lungo il corso del vicino fiume Eleuterio, di numerosi canneti; un'altra ipotesi etimologica farebbe derivare il toponimo da Matteo La Cannita, un possidente locale.
Le prime notizie sulla presenza di fossili in una grotta di Pizzo Cannita si devono a scavi effettuati nel 1928 (Ursus, Cervus, Lupus, Elephas, Sus).


Nel 1695 e nel 1727 in località Portella di Mare furono rinvenuti due sarcofagi antropoidi di matrice punica del VI-V secolo a.C., oggi conservati presso il Museo archeologico regionale di Palermo ed esempi unici di questa categoria scultorea rinvenuti fino ad oggi in Sicilia. Tale necropoli, secondo la testimonianza dell'abate Michele Del Giudice, rientrava nella tipologia della camera ipogeica scavata nel banco roccioso, a pianta quadrangolare con tetto piano, cui si accedeva tramite un dromos a gradini chiuso da un lastrone litico. Sul lato orientale del pianoro della Cannita affiorano ruderi murari riferibili alla cinta muraria, mentre su quello sud-occidentale emergono i filari di fondazione di due strutture murarie angolari, costituite da filari di blocchi isodomi di calcarenite, la cui accurata tecnica indica una datazione al V secolo a.C. Nel sito, a seguito di rinvenimenti avvenuti nel secondo dopoguerra, è stata riscontrata l'esistenza di un'area sacra dedicata ad Atena; di tale destinazione cultuale sono testimonianza una statuetta fittile di Atena guaritrice ed una testina della stessa dea, oltre ad un'iscrizione greca in dialetto dorico incisa su una coppa ad alto piede («εκθυε επε μοι ται Αθαναια ι τυχαγαθαι», «Sacrifica su di me ad Atena per un buon auspicio») insieme ad un'arula fittile con grifoni in lotta con un equide, anse antropomorfe di braciere sacrificale, un gallo fittile originariamente policromo ed un oscillum con Menadi danzanti. L'assenza di frammenti ceramici posteriori al III secolo a.C. induce a supporre che la distruzione dell'abitato sia avvenuta nel corso della prima Guerra Punica, intorno al 261 a.C. Secondo un'ipotesi del 1953, basata sul ritrovamento di una moneta greca con la dicitura Kronia, l'insediamento di Pizzo Cannita sarebbe corrisposto alla città di Cronia, attestata da Polieno. I materiali rinvenuti nell'insediamento di Pizzo Cannita sono conservati al Museo archeologico regionale di Palermo.


Sicilia - Iaitas

 

Il sito archeologico della città di Iaitas (o Iaitai, o Iaeta, o Ietae, Ἰέται in greco antico) si trova nel territorio del comune di San Cipirello, sul Monte Iato che domina la vallata del fiume omonimo, nell'entroterra della città metropolitana di Palermo, in Sicilia.
La presenza umana nella zona circostante è attestata, sin dal Neolitico, dalle figurine femminili e di animali delle pareti della grotta del Mirabello.
Il primo villaggio testimoniato da reperti archeologici è stato datato da alcuni all'VIII secolo a.C. ma probabilmente è molto più antico; dei suoi abitanti non si sa molto ma sembra che fossero Elimi. L'area urbana, circa 40 ettari, risulta naturalmente difesa dalle ripide pareti rocciose a Nord e a Nord-Ovest, e da mura sui versanti orientale e meridionale. Fu insediata nel posto perché dalla sua posizione poteva controllare la via per Panormos, e la vallata del Belice, che rappresentava la via più agevole per la costa meridionale e Selinunte.
A partire dal VI secolo a.C. si nota l'influsso della cultura greca sia nelle ceramiche che nella religione con l'introduzione del culto di Afrodite.
È di tale periodo la fondazione della Iaitas vera e propria, munita delle classiche caratteristiche delle poleis; un teatro, il tempio, l'agorà, belle case e botteghe artigianali.
Nel IV secolo a.C. Iaitas e la Sicilia occidentale, furono sotto il dominio di Cartagine. Diodoro Siculo riferisce che verso il 275 a.C. la città venne attaccata da Pirro. Durante la prima guerra punica (264-241 a.C.) si consegnò ai Romani e da allora, secondo Plutarco, ne fu tributaria. Non ci sono notizie del periodo bizantino. Si sa che venne occupata dagli arabi e che sotto la dominazione sveva questi si ribellarono. Federico II nel 1246 la distrusse e ne deportò la popolazione a Lucera di Puglia; da allora il sito rimase abbandonato.
La campagna di scavi a partire dal 1971 eseguita dall'Istituto di Archeologia dell'Università di Zurigo, effettuando regolari campagne di scavo ha permesso di riportare alla luce il teatro della capienza di circa 4500 persone, che è costruito a ridosso della montagna. La zona scenica era adornata da quattro statue. Nella zona sud della città antica sorgeva l'agorà circondata da portici con la sala del Consiglio a ovest. Nella parte residenziale, oltre al tempio di Afrodite (distrutto nel I secolo d.C.), è emersa una dimora signorile del periodo greco con cortile a peristilio.

Sicilia - Villa romana di Santa Marina

 

La villa di Santa Marina è una villa romana di età imperiale, i cui resti sono situati nell'omonima tenuta, a Pellizzara, frazione di Petralia Soprana, nelle Madonie, in Sicilia, in provincia di Palermo.
La scoperta della villa si deve all'archeologo di Petralia Soprana Gaetano Messineo (1943-2010), la cui famiglia aveva una residenza di campagna nel sito. I primi resti vennero alla luce negli anni 1950 davanti ai suoi occhi di bambino, durante i lavori di impianto di una vigna. A quell'epoca i ruderi vennero ricoperti.
Questa prima impressione fu probabilmente di ispirazione per la sua brillante carriera di archeologo: diresse con successo scavi in numerosi siti del territorio abruzzese e del suburbio romano, in Turchia e in Grecia, nell’isola di Lemno, e operò presso la Soprintendenza Archeologica di Roma nel settore nord-occidentale e presso il Museo Nazionale d’Arte Orientale. Fu anche docente di archeologia classica presso l'Università degli Studi dell'Aquila. 
Solo dopo tanti anni nel 2008, riuscì ad intraprendere a S. Marina i primi scavi mirati che fecero riemergere la villa.
Dopo la sua morte, le esplorazioni sono proseguite nel corso degli anni, promosse dalla Soprintendenza BB.CC.AA. di Palermo in convenzione con l’Associazione Culturale “Gaetano Messineo”, nata per proseguire l'opera del professore.
Nel 2013 e 2014 gli scavi sono stati diretti a mettere in luce l'insieme degli edifici, e nel 2019 si sono concentrati sul portico, evidenziando la probabilità di un doppio colonnato. Nello stesso anno sono state effettuate analisi archeo-zoologiche sui vari resti ossei di animali ritrovati durante gli scavi. Infine nel 2021 sono state ritrovate tracce di attività di lavorazione dell'osso animale.
Come emerge dagli studi archeologici, nel sito occupato da un precedente modesto insediamento ellenistico, l'edificio principale venne impiantato in età augustea, tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., come si deduce dalla scoperta di ceramica sigillata italica nello strato di fondazione. Da allora fu utilizzato fino alla fine dell’età imperiale, epoca in cui, tra il V e il VI sec., avendo subito un incendio e dei crolli (di cui è stata trovata traccia evidente), venne abbandonato e parzialmente distrutto.
Dalle varie tracce di riuso di parti originarie, risulta che il complesso sia stato poi ulteriormente frequentato in età medievale, tra il X e l'XI sec. d.C., e che i suoi ambienti abbiano ospitato alcune sepolture.
L'insediamento è stato pertanto utilizzato nell'arco di 1300 anni, dall'inizio dell'impero romano sino all'epoca della dominazione araba della Sicilia e della successiva conquista normanna.
Il sito è molto più ampio di quanto ora emerge, per soli 450 mq. circa. Infatti le strutture continuano oltre il limite attuale dello scavo. Si tratta di un complesso di edifici che si sviluppa su terrazze, su due livelli, seguendo l’inclinazione del pendio su cui sorge, come era tipico delle ville romane sin dalla loro origine.
Gli svariati vani si dispongono intorno a quello che potrebbe essere stato un peristilio, un ampio spazio delimitato da un portico aperto a sud-ovest, con colonnato in pietra calcarea, probabilmente doppio e battuto sabbioso. Sul fronte del portico, esposto al sole, è emersa la passata presenza di una scalinata. 
Ma sono emerse anche delle precise tracce di attività artigianali in loco: delle macine, dei resti animali ossei della fauna boschiva locale (parte di un palco di cervo) oggetto di lavorazione.
Sono state ritrovate anche due tombe ad inumazione in fossa terragna prive di oggetti di corredo.
L'area (700-900 m s.l.m.) si trova al centro di un'ampia zona fertile e riparata dai venti, a poca distanza da una sorgente e dal fiume Alto Salso o Pellizzara, ramo sorgentizio dell'Imera Meridionale. Questo fiume in antichità era navigabile: le chiatte trasportavano a valle granaglie e altri prodotti agricoli, il legname e il salgemma della vicina miniera di Petralia Soprana, uno dei giacimenti più grandi d'Europa, sfruttato già ai tempi dei romani e citato da Vitruvio. In epoca romana il sale valeva quanto l'oro, come merce di scambio, tanto da dare origine alla parola salario.
Il sito non dista molto da vari insediamenti romani: quello tardo antico di Contrada Muratore (Castellana Sicula), quello di Monte Alburchia (Gangi) e infine quello di Balza Areddula (Alimena).
Quanto alla viabilità, a poca distanza passava l'antica via del sale, importante tracciato connesso al trasporto di questo minerale,  e inoltre nei pressi di Raffo, l'Alto Salso era attraversato da una antica pista di traffici commerciali divenuta poi la regia trazzera della zingara o dei forestieri, con un antico fondaco (da dove il toponimo Cozzo del Fondaco), ove sono stati ritrovati materiali antico-romani. In breve, una zona naturalmente vocata all'attività agro-pastorale e ad attività connesse allo sfruttamento del sale, ed inoltre ben collegata con il resto della Sicilia.
Negli oltre 600 anni di dominazione romana (241 a.C.- 400 d.C.) la Sicilia, che Cicerone definì come la prima provincia di Roma, divenne anche una di quelle più prospere e tranquille, rendendo l’acquisto di terreni appetibile per i ricchi proprietari della Penisola, diventati sempre più numerosi dalla seconda metà del II secolo a.C. in poi.
Si diffusero in Sicilia le residenze extraurbane, o ville, tra cui le più importanti e sontuose sono la villa del Casale e la villa del Tellaro.  le quali si inserivano solitamente nel sistema di produzione del latifundium, basato sul lavoro degli schiavi.
Tipica delle grandi proprietà terriere, la villa rustica era il centro direzionale di un’azienda agraria e al contempo la residenza del proprietario fondiario. Questo complesso produttivo in latino era chiamato fundus, o praedium.
Le villae vendevano i prodotti in esubero agli abitanti dei villaggi e delle città, e ai militari. Per garantire la loro autonomia, fabbricavano inoltre in proprio gli utensili artigianali di base. Già in parte nel 2° sec., ma poi soprattutto a cominciare dal 1° sec. a.C., compare anche il tipo della villa rustica destinata esclusivamente al soggiorno di evasione, sita in luoghi paesisticamente piacevoli. Anche nel tipo dedito allo sfruttamento agricolo però, si constata sempre un certo lusso nella residenza del proprietario, la pars dominica.
L'ipotesi attualmente più accreditata per Santa Marina corrisponde a quest'ultimo tipo. Si tratterebbe di un insediamento connesso alla vita del latifondo in quest’area delle Madonie, importante zona di produzione cerealicola dall’età romana fino al secolo scorso.
Infatti la presenza di macine e di reperti che attestano la lavorazione dell'osso, evoca il praedium e il complesso delle attività lavorative agricole ed artigianali connesse, mentre dall'altra, un certo lusso denotato dalla placchetta del sileno e dall'uso del vetro, depongono per la ricchezza della residenza di soggiorno del proprietario.
Restano ancora da compiere le indagini sull'ampiezza del praedium, che era spesso molto esteso e che potrebbe quindi aver ricompreso anche il sito della cava di salgemma. In questo caso la villa potrebbe aver avuto un ruolo fondamentale nel circuito commerciale della zona. 
Sono state ritrovate due tombe ad inumazione in fossa terragna, prive di oggetti di corredo, pertinenti ad una fase posteriore e ad una mutata destinazione d’uso della residenza di età imperiale. L’esame dei due scheletri (due individui di sesso maschile) con il metodo del radiocarbonio, effettuato dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) di Firenze, ha consentito una loro datazione ad età medievale tra la fine del IX e la metà circa del XII secolo d.C. Si tratta di sepolture cristiane.
Oggi custoditi presso la Sezione Archeologica del Museo Civico di Petralia Soprana, consistono in materiale ceramico a vernice nera di età ellenistica, ceramica sigillata africana e di età imperiale, tegole, anfore e vasi. Fra i primi oggetti ritrovati, spicca una placchetta di osso raffigurante una testa di Sileno, che ha permesso di fornire una prima datazione all'età imperiale o forse già all'età ellenistica. La placchetta, appartiene ad un triclinio da banchetto e quindi ad un oggetto di lusso. Così come lo è il bicchiere in vetro, di cui è stata trovata parte, oggetto quasi certamente importato, reperibile in quell'epoca solo in una ricca residenza.
Ma sono emerse anche delle precise tracce di attività artigianali in loco: delle macine per la lavorazione dei cereali e dei resti animali ossei locali oggetto di lavorazione (parte di un palco di cervo, animale che in passato faceva parte della fauna boschiva locale, un ago e una spatolina). Proprio il ritrovamento congiunto di queste varie tipologie di oggetti, che indica la coesistenza nel sito di una residenza lussuosa e di attività agricole e artigianali, depone per la destinazione del complesso a villa rustica.


Sicilia - Museo archeologico regionale di Enna

 


Il Museo archeologico regionale di Enna è stato istituito nell'ultimo ventennio ad Enna dalla Regione Siciliana per esporre i reperti portati alla luce negli scavi che la Sovrintendenza ai beni culturali e ambientali di Enna ha condotto principalmente nel 1979 in numerosi siti archeologici della provincia di Enna. Il Museo ha sede nell'antico e pregevole palazzo Varisano (per cui è anche detto "Museo Varisano") che prospetta, con la sua facciata barocca, dinanzi al duomo di Enna, in pieno centro storico.
Il percorso si sviluppa nella presentazione di diversi insediamenti umani sulle colline dell’ennese. La sala dedicata a Calascibetta presenta insediamenti dell’Età del Bronzo e dell’Età del Ferro; dei centri urbani, situati in posizioni elevate e naturalmente fortificati, conosciamo solo le necropoli: i dati relativi all’ ultima dimora permettono di ricostruire la storia dei vivi. Da Enna, un’iscrizione funeraria di una sacerdotessa di Cerere fa vedere l’importanza del culto nella città di età imperiale. Una serie di terrecotte di Demetra e Kore da collezioni private certificano il ruolo di questo culto in età classica e durante l’ellenismo. Materiali di epoca medievale dall’area del castello e da altri siti descrivono la storia della città in questo periodo.
L’allestimento relativo a diversi siti del territorio presenta l’archeologia dell’Ennese riferendo particolarmente all’età greca, quando diversi insediamenti umani si vanno trasformando dal punto di vista sociale, culturale, economico, sotto l’influsso esercitato dalle città greche dell’area costiera. Nella zona del lago di Pergusa l’insediamento siculo ellenizzato di Cozzo Matrice, con aree sacre di VI-V secolo a.C., permette di vedere aspetti culturali dell’epoca. I corredi funerari di Rossomanno, dal VII secolo a.C. in poi, mostrano una serie di oggetti di rilievo, come i monili metallici di tradizione locale, ma anche oggetti pregevoli come ceramiche greche e scarabei di fattura orientale, provvedendo un quadro della cultura materiale, ma anche dei riti, delle credenze, delle aristocrazie di questa società che si va trasformando a contatto con apporti di stirpe ed etnie diverse. Corredi funerari da Agira, Assoro, Cerami, Pietraperzia permettono di capire la cultura materiale di questi insediamenti in età greca.

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...