giovedì 10 aprile 2025

UMBRIA - Spoleto, Teatro romano


Il Teatro romano è un edificio teatrale di Spoleto (Spoletium), risalente al I secolo a.C. Ha un diametro di 114,40 metri, mentre la cavea ne misura circa 70. Si trova all'interno del Complesso monumentale di Sant'Agata.
Già in antico l'edificio riportò danni per una frana, forse a seguito di un terremoto, e fu restaurato.
In epoca post-classica fu riutilizzato come cava di pietra e nel XII secolo venne costruita su parte della scena la chiesa di Sant'Agata, affiancata nel XIII e XIV secolo dalle case della famiglia Corvi.
Alla fine del XIV secolo, nel complesso si insediarono le suore benedettine provenienti dall'Abbazia di San Paolo "inter vineas"; ricevuto in eredità il palazzo Corvi, vi fondarono il loro monastero, ampliato nel XVI secolo realizzando un chiostro su pilastri ottagonali. Nel 1870 il monastero venne adibito a carcere femminile.
Le rovine del teatro, ancora visibili nel Cinquecento, erano state disegnate da Baldassarre Peruzzi, ma il sito venne identificato solo nel 1891 da Giuseppe Sordini; gli scavi sistematici furono condotti a partire dal 1933, e ancora nel 1938, ma i più significativi si svolsero tra il 1954 e il 1960.
Il monastero di Sant'Agata ospita oggi il Museo archeologico nazionale di Spoleto e il teatro viene utilizzato per concerti e spettacoli, in particolare nell'ambito del Festival dei Due Mondi.
Il teatro romano si trova all'interno delle mura cittadine e conserva una cavea di 70 m di diametro, in parte poggiata su un ambulacro a pianta semicircolare, coperto da volta a botte, dal quale si poteva accedere tramite tre accessi (vomitoria) ai posti a sedere. Dalle estremità della cavea si accedeva invece ai posti riservati ai magistrati e ai cittadini eminenti. L'orchestra conserva la pavimentazione in lastre di marmo colorato e sul proscenio sono visibili i fori per i pali del sipario. La facciata esterna era costituita da arcate inquadrate da semicolonne di ordine tuscanico.


Umbria - Necropoli dei bambini di Lugnano



La necropoli dei bambini di Lugnano, sulla sinistra idrografica della valle del Tevere, è un eccezionale ritrovamento archeologico di epoca tardo romana, consistente in una numerosa serie di sepolture che, sulla base delle ceramiche ritrovate, sono state datate intorno alla metà del V secolo. Una delle tante particolarità, da cui deriva il nome attribuito, dipende dal fatto che le sepolture riguardano esclusivamente corpi di bambini (in maggioranza neonati) e feti abortivi, in numero, rispettivamente, di 25 e 22.
Una numerosa serie di indizi suggerisce che le morti si consumarono tutte in un arco di tempo brevissimo; una circostanza questa che ha indirizzato gli studiosi verso l'ipotesi di una pestilenza. La ricerca delle esatte cause della moria ha dato origine ad un fruttuoso filone di ricerca interdisciplinare che, con una serie di argomentazioni, è giunto alla conclusione di trovarsi di fronte alla prima evidenza archeologica della malaria.
Sono stati inoltre riconosciuti i segni della persistenza, all'interno di un'area ormai da tempo cristianizzata, di antichi riti di stregoneria e di sacrifici pagani. Di converso, la mancanza di alcun segno di cristianità nelle sepolture, può addirittura lasciare prefigurare la sopravvivenza, nella tarda antichità, di una comunità ancora profondamente permeata da una religiosità pagana. L'unico segno riferibile ad un possibile influsso della spiritualità cristiana, può essere la stessa circostanza della sepoltura di bambini di così breve esistenza: si tratta infatti di un'usanza sconosciuta al mondo romano precristiano.
La scoperta fornisce lo spunto per importanti implicazioni sulla cronologia e sulla storia epidemiologica della penetrazione della malaria in occidente. Essa ha permesso inoltre di avanzare affascinanti ipotesi sul ruolo attivo che la malaria potrebbe aver giocato quale cofattore del declino del mondo antico. Ma paradossalmente, quella stessa epidemia che falcidiò i bambini di Lugnano potrebbe aver avuto un ruolo importante nel proteggere le antichità romane dalla distruzione, condizionando le scelte di Attila che, nel 452, rinunciò repentinamente al suo proposito di calare su Roma: una decisione di grande portata storica, ma la cui genesi non trova altrove una convincente spiegazione.


Gli scavi, compiuti negli anni 1988-1992 dall'équipe del prof. David Soren dell'Università dell'Arizona a Tucson, hanno riportato alla luce la necropoli in una località collinare detta Poggio Gramignano, ubicata nella media valle del Tevere, sulla sinistra idrografica del fiume, nel comune di Lugnano in Teverina, ad un'altezza di 185 m slm. Le sepolture sono state rinvenute all'interno di una villa romana di età augustea, costruita intorno al 15 d.C., ma già in rovina dal III secolo. La costruzione si adagiava su ondulazioni collinari affacciate sul Tevere, il cui corso si snoda circa 3,5 km più a sud. La villa era già in piccola parte conosciuta grazie alle sessioni di scavo condotte da Daniela Monacchi nel 1982 e 1984. Gli scavi di Soren e collaboratori, hanno incidentalmente rivelato che i pochi resti della villa fino ad allora conosciuti facevano parte di un ben più esteso complesso, articolato su oltre 1800 m2. L'area interessata dalla necropoli è costituita da cinque stanze facenti parte degli ambienti residenziali riservati alla servitù. Questi ambienti, addossati a un'ondulazione della collina a nordovest della villa, si trovavano collocati in posizione dominante rispetto alla dimora gentilizia.
Tra i sistemi di inumazione utilizzati vi è quello che vien detto a cista o a enchytrismos: i corpi, in posizione raccolta, furono inseriti (incistati) all'interno di contenitori, in questo caso anfore riadattate allo scopo. Non si tratta comunque dell'unico sistema adoperato: altri corpi furono semplicemente inumati oppure collocati sotto frammenti di anfora o, in altri casi, protetti da rudimentali alloggiamenti, rettangolari o spioventi, realizzarti con tegole e frammenti ceramici provenienti dalla villa in rovina. Le sepolture di feti e neonati furono confinate in due delle cinque stanze; a questi corpi sono dedicate le sepolture meno elaborate.
Molto peculiare è la varietà dei reperti che hanno accompagnato le inumazioni: una bambola d'osso intagliato, privata degli arti; un braccialetto infantile; una coppia di calderoni di bronzo impilati; una pentola in posizione rovesciata, al di sotto della quale si celava un recipiente in vetro per il versamento di liquidi e un osso di mammifero.


Gli strati portati alla luce hanno rivelato la contemporanea deposizione di interessanti resti animali e vegetali, come: un artiglio dal tallone di un corvo, parte dello scheletro di un rospo, resti carbonizzati di caprifoglio, resti scheletrici di una dozzina di cagnolini di 5-6 mesi d'età, di un esemplare di circa un anno e l'incisivo di un cane adulto. Gli scheletri dei cani mostrano segni di smembramento: i pezzi sono poi distribuiti su più livelli di terreno. I resti dei cani dilaniati ricorrevano esclusivamente nei pressi delle inumazioni di feti e neonati che, come detto, occupavano due delle cinque stanze.
Sia gli oggetti che gli animali, di certo non direttamente collegabili ai defunti, sono stati interpretati come evidenti indizi di sacrifici e rituali magici e apotropaici, eseguiti in occasione delle sepolture ed in assenza di alcuna simbologia cristiana; si tratta, per gli autori della ricerca, di un'importante testimonianza della sopravvivenza di rituali pagani in un'area che secondo la propaganda ufficiale doveva dirsi cristianizzata. In particolare, agli occhi degli scopritori, i resti dei cani, dilaniati prima della loro deposizione, appaiono come elementi di un rituale sacrificale di purificazione delle donne abortenti. In effetti gli autori forniscono un completo resoconto dei riscontri sull'utilizzo di simili oggetti ed animali in connessione a riti di stregoneria. È attestato ad esempio l'utilizzo di sacrifici di cani sia in funzione apotropaica sia in riti di purificazione, essendo nota peraltro le superstizioni sull'impurità delle madri abortenti.
Per quanto riguarda i destinatari dei sacrifici e delle offerte rituali, deve trattarsi sicuramente divinità infere e non celesti. Soren ritiene plausibile che la destinataria dei rituali sia Ecate, deità ctonia e psicopompa, collegata al culto dei morti e, specificamente, all'accompagnamento dei morti prematuri; è significativa l'associazione del suo culto ai cani e, in particolare, ai cuccioli.
Lo scavo, così, darebbe conferma archeologica al modello esplicativo del fenomeno "cristianizzazione" illustrato da Cinzio Violante, secondo cui nell'età tardoantica, e fino agli inizi dell'alto medioevo, vi sarebbe stata una scarsa diffusione del processo di cristianizzazione, basato su una rete disarticolata e composta di insediamenti religiosi di basso profilo, nella quale trovavano posto anche alcune fondazioni private di cui non si conosce l'entità, ma che non sembrano in numero rilevante.
La deposizione dei cadaveri nelle cinque stanze si sviluppa secondo uno schema che gli scopritori non esitano a definire inusuale per una necropoli di epoca romana:
- il lavoro di inumazione ha dato luogo ad una successione di sottili accumuli di terra, gli ultimi dei quali sono costituiti in prevalenza da ceneri. Gli accumuli si sono stratificati fino a raggiungere un notevole spessore, causando l'elevazione per circa tre metri del livello del suolo nelle stanze
- all'interno di questa successione stratigrafica i resti umani sono distribuiti su vari livelli di profondità, con una intensificazione degli eventi al livello superiore
- nonostante la fitta stratificazione, l'uniformità dei resti ceramici e la corrispondenza tra giunzioni di frammenti fittili appartenenti a diversi livelli, hanno permesso di concludere che tutte le deposizioni appartengono ad un unico strato archeologico
- l'analisi dei campioni dei suoli interessati ha confermato l'uniformità dei vari strati
- sui resti dei cani dilaniati, di cui si è già detto, non vi è nessuno dei tipici segni rilevatori di un'esposizione agli agenti atmosferici: la loro dispersione su più strati non può essere attribuita a casuali interramenti successivi ma deve essere avvenuta in un breve arco di tempo
Questi elementi permettono di affermare, come già anticipato, che le sepolture si susseguirono in uno strettissimo lasso di tempo, valutabile nell'ordine di poche settimane, se non addirittura di pochi giorni, con un ritmo di inumazione che si andò intensificando dalla prima e singola deposizione, attraverso sepolture multiple che si sono via via sovrapposte.
È stato anche possibile individuare la stagione dell'anno a cui risalgono le morti: la presenza di resti carbonizzati di caprifoglio, un arbusto di macchia mediterranea che fiorisce e va a seme in piena estate, ha permesso di collocare gli eventi nella stagione più calda.
Questo collima con i sacrifici animali. È nota da Plinio l'usanza dei sacrifici di cani contro le febbri estive; il cane era infatti collegato a Sirio, stella della costellazione del Cane, un astro associato fin dall'antichità al pieno della stagione estiva, quando avveniva la sua sorgenza eliaca.
Gli elementi esposti nelle sezioni precedenti hanno portato gli studiosi a credere che l'accumularsi di tante morti infantili in un breve lasso di tempo sia stato dovuto ad una forma di epidemia. Le ossa dei bambini, peraltro, con la loro struttura a nido d'ape, mostravano chiari segni di anemia; una circostanza questa che ha fatto emergere un'affascinante ipotesi sulla possibile causa dei decessi: essi, secondo Mario Coluzzi, parassitologo dell'Università La Sapienza, sono da imputarsi alla malaria, la cui recrudescenza, sul territorio italiano, è tradizionalmente associata al periodo estivo.
Esiste un preciso riscontro letterario alla conclamata insalubrità dei luoghi: nell'estate del 467 - siamo a pochi anni dal dramma consumatosi tra i neonati di Lugnano - Sidonio Apollinare, nobile di origini galliche, poeta, vescovo di Clermont-Ferrand, funzionario imperiale e infine santo, percorse l'Italia da Ravenna a Roma per incontrarvi l'imperatore Antemio. Nel suo viaggio attraversò proprio i luoghi insalubri dell'Umbria e dell'Etruria lasciandoci una vivida testimonianza degli effetti dei miasmi venefici: febbri e accessi di sete insaziabile, evidenti sintomi malarici.
«Poi attraversai le altre città della via Flaminia - una dopo l'altra - lasciando i Piceni sulla sinistra e gli Umbri alla destra; e qui il mio corpo esausto soccombé allo scirocco calabro o all'aria insalubre delle terre toscane dense di miasmi venefici, con accessi ora di sudore ora di freddo. Sete e febbre devastarono il mio animo fino al midollo; invano assicurai alla loro avidità sorsi da piacevoli fontane, da nascoste sorgenti e da ogni corso d'acqua che incontravo, fossero le trasparenze vitree del Velino, le acque gelide del Clitumno, quelle cerulee dell'Aniene, le sulfuree del Nera, le limpide acque del Farfa o quelle flave del Tevere...» (Sidonio Apollinare, Epistulae, I.5, 8-9)
Gli anni della morìa infantile e prenatale di Lugnano sono gli stessi in cui Attila e i suoi Unni sembravano sul punto di calare su Roma. Nel 452, inspiegabilmente, Attila desisterà dai suoi propositi facendo marcia indietro con il suo esercito: le Leges novellae divi Valentiniani (V secolo) registrano come, tra i motivi che determinarono la rinuncia, vi fosse l'imperversare di una non meglio precisata pestilenza, più a sud, sulla strada che conduceva a Roma. Non è azzardato, secondo gli autori degli scavi, collegare questa notizia alla cronaca epistolare di Sidonio, solo di pochi anni successiva, e concludere così che dietro quella pestilenza non si nascondesse altro che la malaria.
Le ossa, sottoposte ad analisi presso l'Institute of Science and Technology dell'Università di Manchester e il di Dept. of Evolution, Genomics and Systematics dell'Università di Uppsala, hanno rivelato la presenza inequivocabile di resti di DNA appartenenti al parassita Plasmodium falciparum.
Si tratterebbe in questo caso di una scoperta archeologica di straordinaria importanza per la ricerca medica: la necropoli di Poggio Gramignano è la più antica testimonianza della penetrazione, in Europa e nel mondo mediterraneo, del falciparum, la specie di plasmodium responsabile della forma fatale di malaria, un evento epidemiologico che avrà notevoli ripercussioni sulla storia europea dei secoli a venire.
Gli scavi hanno visto il sorgere di una fruttuosa collaborazione tra la Soprintendenza per l'Umbria, gli archeologi e i loro studenti, il comune di Lugnano in Teverina, l'associazione Pro loco e la gente del luogo che ha preso materialmente parte agli scavi. Un risultato collaterale è stato l'affascinante allestimento di un'esposizione di reperti all'interno di un antiquarium realizzato nel palazzo comunale di Lugnano, in via Umberto I.


Umbria - Statua bronzea con ritratto di Germanico


Nell'agosto del 1963, ad Amelia, a seguito della demolizione di un mulino, vennero alla luce, fuori dalla cinta muraria antica, non lontano da Porta Romana numerosissimi frammenti di una statua bronzea, raffigurante un personaggio stante identificato in seguito come Nerone Claudio Druso Germanico, membro della dinastia Giulio-Claudia, valente generale e sensibile uomo di cultura, destinato, per volontà dello stesso Augusto, a salire sul trono imperiale.
Nerone Claudio Druso nacque a Roma il 24 maggio del 15 a.C.; rimase orfano nel 9 a.C. ereditando il titolo onorifico di Germanicus che il senato aveva conferito al padre Druso maggiore, fratello di Tiberio, e ai suoi successori, in seguito alla campagna contro i Germani tra il 13 e 19 a.C. Nel 4 d.C viene adottato da Tiberio, per volontà di Augusto che voleva assicurarsi la successione dopo la morte dei figli adottivi.
Germanico inizia la carriera militare sedando, tra il 7 e l'8 d.C., le rivolte in Dalmazia e in Pannonia. Nell'autunno del 14 d.C. Inizia le campagne contro i Germani che si concluderanno con successo. Viene quindi inviato in Oriente per sedare la sommossa guidata dal re Artabano II: al ritorno, in Siria, contrae una malattia sconosciuta. Muore ad Epidaphne vicino Antiochia nel 19 d.C.
La figura poggia il peso del corpo sulla gamba destra, mentre la sinistra è leggermente piegata al ginocchio. Ai piedi porta calzari di pelle mentre dalle spalle scende una leggera tunica di lino manicata. La figura indossa una lorica di tipo anatomico con spallacci, decorata da rilievi sia sul petto che sul dorso, mentre nella parte inferiore sono visibili una doppia serie di pteryges. La testa del personaggio è girata leggermente verso destra nella direzione del braccio destro sollevato nel gesto della adlocutio. Il braccio sinistro è piegato al gomito e tiene con la mano sinistra una lancia e le pieghe del mantello.
Di particolare interesse ed anche bellezza è la ricca decorazione della corazza. La parte posteriore, molto rovinata, è decorata da due figure femminili con corta veste che sono intorno ad un candelabro.
Di grande qualità è la decorazione della fronte della corazza. Appena sotto lo scollo è rappresentata a rilievo Scilla, che solleva il braccio destro nell'atto di gettare una grossa pietra. Al centro c'è la scena dell'agguato di Achille a Troilo. L'eroe greco, nudo, è raffigurato frontalmente, con la testa, coperta da un elmo attico. Con la sinistra sorregge uno scudo circolare, mentre il mantello scende dalla spalla, ed è visibile in parte davanti allo scudo e in parte sullo sfondo. Con la destra afferra per i capelli, nell'intento di disarcionarlo, il giovane Troilo che, nudo, coperto solo da alti calzari e da una clamide fermata al collo, cavalca un destriero che si solleva sulle zampe posteriori. Invano Troilo, alzando le braccia, tenta di difendersi. La scena è fiancheggiata da due vittorie alate entrambi in volo verso il centro ed è decorata in basso da motivi vegetali.
Dobbiamo ricordare che Germanico, per il suo valore militare e per la sua morte in Oriente, venne in seguito associato alla figura di Alessandro Magno e che Achille era l'eroe prediletto di Alessandro. La figura di Troilo, invece può farci pensare al destino di una morte prematura, tra l'altro di un personaggio troiano, da cui secondo il mito celebrato da Virgilio nell'Eneide trae origine la stirpe romana.
La statua si trova presso il  Museo civico archeologico e pinacoteca "Edilberto Rosa" di Amelia


Umbria - Cippo di Perugia

 
Il Cippo di Perugia è una stele in pietra che presenta su due facciate un'iscrizione in lingua etrusca datata al III/II secolo a.C.
La tavola riporta 46 righe scritte in etrusco, e l'epigrafe è rimasta intatta in entrambi i lati. La parte inferiore, più rozzamente scolpita, indica una probabile collocazione della base incastonata nel terreno. Secondo gli archeologi si tratta di un cippo confinario fra le proprietà di due famiglie etrusche. Il testo riporta di un accordo tra le famiglie dei Velthina e degli Afuna, relativo alle modalità d'uso comune di una proprietà contenente una tomba dei Velthina. Rinvenuto sulla collina di San Marco a Perugia nel 1822, è oggi conservato nel Museo archeologico nazionale dell'Umbria.

UMBRIA - Area archeologica Santa Maria in Campis, Foligno

 

L'Area archeologica Santa Maria in Campis, detta anche Parco Archeologico Quartiere INA casa, è una area di circa 66000 m² situata nella zona est della città di Foligno, nelle immediate adiacenze del Cimitero Centrale della Città, in posizione pre-collinare a ridosso della via Flaminia che da Narni, passando per Spoleto, raggiungeva Forum Flaminii.
Nel 1862 un contadino, nell'arare il suo campo portò casualmente alla luce una piccola statua di bronzo; una versione ridotta della celebre scultura Ercole Farnese denominata successivamente "L'Ercole di Foligno", attualmente conservata nel museo del Louvre di Parigi.
Da ricerche effettuate si ipotizza che possa essere l'antico centro della vecchia Fulginea. Studi preliminari hanno riferito alla più antica urbanizzazione dell'area finora documentata, la prima età imperiale, per il quale è stata messa in evidenza una fase di riuso a scopi funerari in epoca altomedievale.
Numerosi sono i ritrovamenti sparsi per l'intera area tra i quali alcune domus di epoca romana, magazzini con il pavimento in cocciopesto per l'accumulo di cereali e un complesso sistema di canalizzazione delle acque piovane. Nel sito è presente anche una complessa rete fognaria realizzata con vario materiale di recupero e per un breve tratto con laterizi disposti a spina di pesce, che consentiva il deflusso delle acque a valle.
Da alcune rilevazioni effettuate nel sottosuolo dalla Soprintendenza Archeologia dell'Umbria è stata individuata la presenza di un anfiteatro non ancora venuto alla luce, tra l'incrocio con Via Po e Via Rubicone (antica diramazione della via Flaminia).
Da ulteriori ricerche storiche effettuate, si ipotizza inoltre che la Chiesa di Santa Maria in Campis, edificata nel V secolo D.C. e ubicata proprio tra il Cimitero cittadino e l'area archeologica sia stata costruita su delle fondamenta di una vecchia Domus Romana.
Ad ottobre 2022 l'area è in fase di completamento scavi con annessa realizzazione di un parco urbano realizzato mediante il Programma di Sviluppo Rurale per l'Umbria 2014-2020. ll progetto elaborato in conformità alle previsioni del piano attuativo di iniziativa pubblica in variante al PRG '97 relativo al parco archeologico, renderà finalmente fruibile il parco con la realizzazione di percorsi e di un padiglione che, oltre ad individuare e proteggere le aree di scavo, funzionerà come punto informativo e divulgativo per i visitatori.
Entro la primavera del 2023 un'apposita commissione composta da l'Archeology Philologie D'orient Et D'occident di Parigi, l'American Institute For Roman Culture e l'Università La Sapienza di Roma riporteranno alla luce l'Anfiteatro Romano attualmente interrato e non visibile.
Nel novembre del 2023 durante alcuni scavi, nell'area posta all'intersezione con Via Po e Via Rubicone (quest'ultima vecchio tracciato della via Flaminia) riviene parzialmente alla luce una muratura circolare che lascia presagire l'esatta ubicazione dell'anfiteatro. Gli scavi sono attualmente in corso.
Il 10 gennaio 2024 le varie associazioni e università dedite agli scavi nell'area, fanno sapere che da studi preliminari e rilievi effettuati hanno accertato la presenza dei resti di un edificio da spettacolo con una larghezza dell'asse maggiore di 90-100 metri e una larghezza dell'asse minore di 58-65 metri, capace di contenere fino a diecimila spettatori.

UMBRIA - Perugia, Museo archeologico nazionale dell'Umbria

 

Il Museo archeologico nazionale dell'Umbria - MANU è un museo archeologico con sede a Perugia in piazza Giordano Bruno.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale dell'Umbria, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei Umbria.
Il primo nucleo della raccolta museale risale alla collezione del nobile perugino Francesco Filippo Friggeri, donata alla città nel 1790 ed esposta nel Palazzo dei Priori; nel secolo successivo, grazie all'attività dell'archeologo Giovan Battista Vermiglioli (1769-1848), le collezioni furono ulteriormente incrementate e si arricchirono di importanti materiali etruschi provenienti dalle necropoli perugine e dal territorio circostante. La raccolta museale iniziò a costituirsi in questo periodo a cura del Comune e dell'Università: i materiali dei Musei Civici furono esposti nel Convento di Montemorcino, allora sede dello Studium cittadino. I successori di Vermiglioli sulla cattedra di Archeologia e alla guida dei Musei Civici, Ariodante Fabretti (1846-1849), Giancarlo Conestabile (1850-1877), Giovan Battista Rossi Scotti (1877-1885), Luigi Carattoli (1885-1894), contribuirono alla crescita del museo con materiali degli scavi e con l'acquisizione di alcune collezioni private, tra cui quella di Mariano Guardabassi.
Dopo un periodo di attività di una commissione istituita per l'ordinamento del Museo, la direzione fu affidata a Giuseppe Bellucci. Alla sua morte, nel 1921, la sua ricchissima collezione privata, costituita da materiale preistorico e protostorico proveniente da varie località dell'Italia centrale, fu acquistata col concorso dello Stato, della Provincia e del Comune di Perugia. Nel 1948 tutta la raccolta archeologica dei Musei Civici, conservata in varie sedi, fu trasferita e ordinata nel convento di San Domenico. Dal 1925 al 1958 la direzione del museo fu tenuta da Umberto Calzoni, che arricchì le collezioni del materiale preistorico e protostorico proveniente dalle sue ricerche in Umbria e soprattutto sulla montagna di Cetona, in Toscana.
Nel 1957 le collezioni archeologiche dei Musei Civici furono donate dal Comune allo Stato, che subentrò nella direzione del Museo dal 1960. A seguito delle ricerche e degli scavi compiuti negli anni recenti, soprattutto dopo l'istituzione, nel 1964, della Soprintendenza alle Antichità dell'Umbria (poi Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Umbria), sono entrati nel Museo molti reperti provenienti sia da ritrovamenti fortuiti sia, soprattutto, da scavi scientifici. Attualmente, il patrimonio del Museo Archeologico Nazionale dell'Umbria si compone di una serie di nuclei collezionistici storici e dei reperti rinvenuti nel territorio regionale nel corso dell'attività di ricerca e tutela svolta dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Umbria.
Il Museo Archeologico Nazionale dell'Umbria ha sede nei locali dell'antico convento di San Domenico. Il nucleo più antico del complesso è la chiesa di San Domenico vecchio, edificata nella seconda metà del XIII secolo al di fuori delle mura urbane, lungo la viabilità che usciva dalla città in direzione sud. Fin dal XIII secolo alla chiesa si affiancarono strutture conventuali, articolate intorno ad un piccolo chiostro. Il convento fu ampliato tra XV e XVI secolo con l'aggiunta di nuovi corpi di fabbrica, unificati intorno al chiostro maggiore. La chiesa duecentesca fu rimpiazzata nel corso del XV secolo dalla grande basilica di San Domenico, tuttora esistente a fianco del complesso conventuale; la struttura di San Domenico Vecchio fu allora integrata nelle strutture del convento ed è tuttora parte del percorso museale (la facciata è visibile nell'angolo orientale del chiostro maggiore).

L'allestimento è stato completamente ripensato nel 2009, con un'impostazione cronologica (dalla preistoria all'età romana) affiancata da sale che ospitano nuclei di materiali esposti con criteri tematici (il lapidario, la sala del monetiere, la sala delle oreficerie, gli amuleti) o con l'obiettivo di ricostruire un contesto (la tomba Cutu, la tomba dei Cacni, i bronzi di Castel San Mariano). L'esposizione dei materiali è provvista di un ampio corredo informativo, con testi, immagini e disegni ricostruttivi che aiutano il visitatore a collocare gli oggetti nel loro contesto storico. Tutte le informazioni sul museo sono anche in formato digitale sul sito Archeotouch Archiviato il 23 gennaio 2019 in Internet Archive., disponibile in italiano, inglese, francese e tedesco e facilmente accessibile da dispositivi mobili (smartphones e tablets) anche tramite codici QR posti sulle vetrine.

Nel chiostro maggiore, in cui sono esposti materiali lapidei (urne cinerarie etrusche ed iscrizioni romane), si aprono cinque sezioni tematiche:
- la sala con la collezione di amuleti di Giuseppe Bellucci (portafortuna e oggetti con valore magico-religioso raccolti prevalentemente nelle campagne italiane alla fine del XIX secolo; è una collezione di interesse etnoantropologico, nel suo genere una delle maggiori in Europa)
- la sala con la collezione numismatica (monete dal III sec. a.C. al XIX secolo);
la sala dedicata alle oreficerie e ai tesoretti monetali;
- la sala con i materiali bronzei etruschi provenienti da Castel San Mariano (si tratta di materiali etruschi di VI secolo a.C., tra cui i resti di tre carri);
- la sala con i reperti della tomba dei Cacni, recuperati in seguito ad un sequestro nel 2013.
La sezione pre-protostorica
La sezione pre-protostorica è suddivisa in
- Paleolitico (materiali litici e un dente riconducibili all'uomo di Neanderthal; manufatti litici più tardi, riconducibili all'homo Sapiens);
- Neolitico (materiali litici e ceramici da abitati e da grotte del territorio umbro,come le Tane del Diavolo nel comune di Parrano);
- Età del Bronzo (materiali ceramici, litici metallici da abitati, necropoli e grotte, tra cui i reperti degli scavi condotti negli anni Trenta nelle grotte di Cetona, che sono in parte esposti anche nella sezione relativa alle Collezioni storiche).
Umbri ed Etruschi

La sezione è dedicata ai due popoli che abitarono il territorio della Valle del Tevere oggi Regione Umbria, nei primi secoli dell'età storica, gli Umbri alla sinistra del Tevere, gli Etruschi a destra. L'allestimento della sala vuole richiamare l'assetto territoriale antico: i materiali etruschi sono esposti a destra del corridoio centrale, quelli umbri a sinistra; si può seguire in parallelo l'evoluzione della cultura materiale dei due popoli tra IX e III sec. a.C.. Qui è esposto il Cippo di Perugia, importante documento della lingua etrusca.
Perugia
La storia della città di Perugia è narrata tramite l'esposizione di materiali rinvenuti nelle necropoli e in area urbana. Nel settore dedicato alle necropoli si segnalano il sarcofago dello Sperandio (VI sec. a.C.), alcuni corredi funerari che comprendono armi e ceramica attica a figure rosse ed un corredo femminile dalla necropoli di Santa Caterina, di cui fanno parte uno specchio con la rappresentazione di Elena e dei Tindaridi e un orecchino d'oro. Nel settore dedicato all'area urbana è documentata l'evoluzione dell'abitato dalle origini (VIII sec. a.C.) all'età tardoantica: le prime fasi di occupazione nella prima età del Ferro, le prime testimonianze scritte (serie alfabetica su fondo di vasetto in bucchero, VI sec. a.C.), la strutturazione urbana nel III sec. a.C. (mura e sostruzioni, materiali e terrecotte architettoniche dagli importanti scavi recentemente condotti sotto la Cattedrale), la guerra di Perugia (proiettili in piombo riferibili all'assedio della città da parte di Ottaviano), impianti produttivi di età imperiale (una fullonica rinvenuta al di sotto della chiesa di San Bevignate a Perugia), un mosaico tardoantico. In una sala adiacente è esposto il cippo di Perugia, una delle più lunghe iscrizioni etrusche note.
L'Umbria romana

In questa sezione, attualmente in fase di riordino, si descrive l'età romana nel territorio umbro: la viabilità, le più antiche iscrizioni latine, i principali monumenti, le testimonianze del culto, i materiali rinvenuti nell'officina di produzione ceramica scoperta nella località di Scoppieto, lungo il corso del Tevere.
I municipi dell'Umbria
Questa sezione, situata nel nucleo più antico del convento (i piccoli ambienti ospitavano le cellette dei monaci), descrive le principali città dell'Umbria romana, con una sintesi topografica illustrata tramite pannelli e una scelta dei materiali più significativi, tra cui un raro frammento di iscrizione su lamina bronzea che dispone onori funebri per Germanico.
Le collezioni del Museo
Questa sezione ospita alcuni reperti dei principali nuclei collezionistici storici che hanno costituito la raccolta museale: la collezione Guardabassi (solamente i sigilli), la collezione Bellucci (materiali preistorici e protostorici), i materiali rinvenuti da Umberto Calzoni nelle grotte di Cetona. In una sala è inoltre ricostruito lo studio di un archeologo della fine dell'Ottocento, con arredi originali e reperti litici e faunistici, tra cui uno scheletro di orso di 40.000 anni fa.


La tomba Cutu

Dal chiostro al piano terra è accessibile un ambiente sotterraneo che accoglie la ricostruzione della tomba Cutu, una tomba ipogea rinvenuta nel 1983 poco fuori dalle mura etrusche di Perugia, nell'attuale quartiere di Monteluce. Le urne cinerarie e i materiali di corredo sono stati esposti in un ambiente identico, per forma e dimensioni, al sepolcro originario. La tomba ospita un sarcofago e 52 urne cinerarie, appartenuti agli uomini della famiglia Cai Cutu; il capostipite è sepolto nel sarcofago collocato in fondo all'ambiente in asse con l'ingresso, ai lati le urne di Arnth e Larth Cai Cutu e poi tutti i discendenti. L'utilizzo della tomba si data tra III e I sec. a.C.

Umbria - Museo civico di Amelia / sezione archeologica



Il Museo civico archeologico e pinacoteca "Edilberto Rosa" di Amelia è stato inaugurato nell'aprile del 2001 ed è ospitato nell'ex convento di San Francesco (ove, dopo gli espropri in epoca unità d'Italia trovarono spazio dapprima una scuola pubblica gestita dal Municipio, quindi un collegio maschile gestito dai padri salesiani intitolato a Flavio Boccarini, quindi un istituto tecnico commerciale intitolato a Federico Cesi fino agli anni 70 del secolo scorso a cui seguì un periodo di totale abbandono per circa 30 anni) in piazza Augusto Vera. L'ingresso al museo è preceduto da un chiostro tipico dei conventi francescani caratterizzato da un doppio loggiato, realizzato in forme rinascimentali da fra Egidio Delfini nel XVI secolo.
Il museo, diviso su tre livelli ospita diverse collezioni che testimoniano la nascita e lo sviluppo della città di Ameria, antichissimo centro italico, dalla fase pre-romana, al tardo antico passando per il fiorente periodo romano ed in particolare augusteo, periodo nel quale Ameria divenne tra i più importanti municipi della regione. Al piano terra sono ospitati i reperti più antichi tra i quali quelli provenienti dalla necropoli ellenistica dell’ex consorzio Agrario ; al primo piano, dominato dalla presenza della splendida statua bronzea con ritratto di Germanico, si trovano testimonianze del fiorente periodo romano di Amelia, con iscrizioni, capitelli, statue, are, urne funerarie e stele che coprono un periodo che va dal I secolo a.C. fino al II secolo d.C.. Testimonianze che proseguono al secondo piano il quale ospita anche la sezione archeologica medievale e una parte della collezione Spagnoli. Sempre al secondo piano troviamo la pinacoteca con opere pittoriche che abbracciano un periodo che va dal XV al XVIII secolo tra cui ricordiamo il sant’Antonio Abate di Piermatteo d'Amelia. Il percorso museale si è arricchito negli anni di installazioni multimediali ed immersive che accompagnano il visitatore alla comprensione delle vicende legate al generale Germanico Cesare e all’evoluzione della città romana. È presente inoltre un laboratorio didattico attrezzato.
Sezione archeologica
Corredi funerari
Nel 2001, durante uno scavo edilizio, è stata scoperta una necropoli, non lontana da via I Maggio, risalente al IV secolo a.C. Gli oggetti ritrovati sono ora conservati nella sezione preromana del Museo civico. Le tombe ritrovate potrebbero essere appartenute a persone nobili: lo si ricava dalla manifattura e dalla ricchezza dei resti preziosi rinvenuti come accessori per la cura della persona (specchi, pinzette, pettini per sopracciglia), ornamenti (orecchini, anelli preziosi) e altri oggetti di uso quotidiano (caraffe). Sono stati ritrovati, inoltre, dei piccoli vasi di varie grandezze, usati a contenimento dell'olio per alimentare le lucerne, gli askos. Nella stessa sezione del museo si trova lo scheletro di un cane, mancante di alcune parti; venne trovato vicino alla sepoltura di un bambino.
La statua bronzea con ritratto di Germanico

Nell'agosto del 1963 a seguito della demolizione di un mulino, vennero alla luce, fuori dalla cinta muraria antica, non lontano da Porta Romana numerosissimi frammenti di una statua bronzea, raffigurante un personaggio stante identificato in seguito come Nerone Claudio Druso Germanico, membro della dinastia Giulio-Claudia, valente generale e sensibile uomo di cultura, destinato, per volontà dello stesso Augusto, a salire sul trono imperiale.
Nerone Claudio Druso nacque a Roma il 24 maggio del 15 a.C.; rimase orfano nel 9 a.C. ereditando il titolo onorifico di Germanicus che il senato aveva conferito al padre Druso maggiore, fratello di Tiberio, e ai suoi successori, in seguito alla campagna contro i Germani tra il 13 e 19 a.C. Nel 4 d.C viene adottato da Tiberio, per volontà di Augusto che voleva assicurarsi la successione dopo la morte dei figli adottivi.
Germanico inizia la carriera militare sedando, tra il 7 e l'8 d.C., le rivolte in Dalmazia e in Pannonia. Nell'autunno del 14 d.C. Inizia le campagne contro i Germani che si concluderanno con successo. Viene quindi inviato in Oriente per sedare la sommossa guidata dal re Artabano II: al ritorno, in Siria, contrae una malattia sconosciuta. Muore ad Epidaphne vicino Antiochia nel 19 d.C.
La figura poggia il peso del corpo sulla gamba destra, mentre la sinistra è leggermente piegata al ginocchio. Ai piedi porta calzari di pelle mentre dalle spalle scende una leggera tunica di lino manicata. La figura indossa una lorica di tipo anatomico con spallacci, decorata da rilievi sia sul petto che sul dorso, mentre nella parte inferiore sono visibili una doppia serie di pteryges. La testa del personaggio è girata leggermente verso destra nella direzione del braccio destro sollevato nel gesto della adlocutio. Il braccio sinistro è piegato al gomito e tiene con la mano sinistra una lancia e le pieghe del mantello.
Di particolare interesse ed anche bellezza è la ricca decorazione della corazza. La parte posteriore, molto rovinata, è decorata da due figure femminili con corta veste che sono intorno ad un candelabro.
Di grande qualità è la decorazione della fronte della corazza. Appena sotto lo scollo è rappresentata a rilievo Scilla, che solleva il braccio destro nell'atto di gettare una grossa pietra. Al centro c'è la scena dell'agguato di Achille a Troilo. L'eroe greco, nudo, è raffigurato frontalmente, con la testa, coperta da un elmo attico. Con la sinistra sorregge uno scudo circolare, mentre il mantello scende dalla spalla, ed è visibile in parte davanti allo scudo e in parte sullo sfondo. Con la destra afferra per i capelli, nell'intento di disarcionarlo, il giovane Troilo che, nudo, coperto solo da alti calzari e da una clamide fermata al collo, cavalca un destriero che si solleva sulle zampe posteriori. Invano Troilo, alzando le braccia, tenta di difendersi. La scena è fiancheggiata da due vittorie alate entrambi in volo verso il centro ed è decorata in basso da motivi vegetali.
Dobbiamo ricordare che Germanico, per il suo valore militare e per la sua morte in Oriente, venne in seguito associato alla figura di Alessandro Magno e che Achille era l'eroe prediletto di Alessandro. La figura di Troilo, invece può farci pensare al destino di una morte prematura, tra l'altro di un personaggio troiano, da cui secondo il mito celebrato da Virgilio nell'Eneide trae origine la stirpe romana.
Capitello figurato

Il capitello figurato, scolpito nel travertino, è stato ritrovato ad Amelia nel 1963 lungo via delle Rimembranze. È un reperto molto interessante perché non presenta gli stili noti come quelli dorici o corinzi, bensì dei trofei di guerra e rostri di navi; è infatti, con molta probabilità, dedicato al trionfo di Augusto nella battaglia di Azio svoltasi nel 31 a.C., che vide la fine della guerra civile contro Marco Antonio. Il capitello è diviso in quattro facce raffiguranti scene identiche. Viene riprodotto, nella posizione centrale di ogni faccia un trofeo, sorretto da un palo nella parte inferiore, costituito da una corazza ed elmo a calotta. Ai lati del trofeo appaiono delle lance e degli scudi. Si possono notare agli angoli delle facce del capitello, dei rostri di navi, che servivano a speronare gli avversari nel corso degli scontri marittimi: inoltre, le prue delle navi qui raffigurate, sono decorate con polena a testa leonina. Viste le misure del reperto e le sue proporzioni, probabilmente il capitello è stato usato come elemento di colonna onoraria per una statua raffigurante la Vittoria.
Ara Neoattica

L'altare, in marmo greco, è a base circolare e raffigura a rilievo una scena di danza con satiri e ninfe; nella parte superiore corre una decorazione a ghirlande e crani bovini (bucrani), allusivi, questi ultimi, all'abitudine di appendere agli altari o intorno ai templi le teste di buoi o di altri animali sacrificati. Molti dettagli sono andati perduti a causa dei gravi dannaggimenti che ha subito questo reperto, ma fortunatamente abbiamo un'immagine completa della scena grazie ai disegni manoscritti di Giovanni Antonio Dosio, architetto e scultore, che la vide ancora integra nel XVI secolo presso la chiesa di San Secondo, in Amelia. Il pezzo, di grande interesse artistico, è il prodotto di officine scultoree di artisti neoattici che probabilmente si trasferirono a Roma all'inizio del I secolo a.C.
Thesaurus
Il thesaurus era un contenitore in cui si raccoglievano le offerte dei fedeli nei templi: possiamo considerarlo l'antenato della cassetta delle offerte che viene usata oggi nelle chiese. Il thesaurus di Amelia è di marmo bianco e di forma quadrangolare ed in origine aveva anche un coperchio, oggi perduto. Al suo interno era posta una cassa in bronzo che serviva da raccoglitore per le monete. Questo pezzo, in epoca rinascimentale venne utilizzato come fontana; lo si può notare da una rilavorazione eseguita su di un lato. Nella faccia anteriore si trova l'iscrizione che ricorda come quest'opera sia stata donata dal magistrato Tito Roscio Autuma.
Ara funeraria
Si tratta di un altare di forma parallelepipeda, risalente alla seconda metà del I secolo d.C. È lavorata solo su tre dei quattro lati ed è più larga sulla fronte che sui fianchi. Il materiale usato è un marmo bianco a grana fine. Nell'iscrizione, che si trova nella faccia anteriore, si possono leggere delle lettere che fanno pensare alle iniziali del nome e del cognome del defunto a cui era stata dedicata. Ai due spigoli di questa stessa facciata, si possono intravedere delle sfingi sedute che sorreggono sulla testa delle palme su cui troviamo due eroti nudi, di cui solo uno è conservato: questi ultimi sorreggono una ghirlanda di frutta che scende fin sotto l'iscrizione. Tra lo specchio epigrafico e la ghirlanda, si può riconoscere una scena mitologica: si tratta di un momento immediatamente successivo alla nascita di Dioniso. Si riconoscono, infatti Zeus, il piccolo Dioniso ed una figura femminile identificata forse, come Semele, sua madre. Nella parte alta degli angoli delle facce laterali, sono state scolpite due teste d'ariete dalle cui corna partono altre ghirlande; sempre sulle facce laterali, sono riprodotte scene naturalistiche con animali, fiori e frutta.
Leone funerario

Il leone, di dimensioni naturali, è accosciato su una base parallelepipeda. Scolpito nel travertino, è disposto in posizione frontale, con il dorso inarcato, le zampe piegate ad angolo retto e aderenti alla base come a suggerire uno stato di allerta. La testa è molto voluminosa, grazie alla ricca criniera, rispetto al resto del corpo. Il muso è caratterizzato da grandi fauci spalancate, mentre la criniera è resa con effetto realistico attraverso grosse e pesanti ciocche a virgola. La scultura ha subito nei secoli diversi danni che rendono difficile la ricostruzione di tutti particolari, tuttavia, sulla base di alcuni indizi è proponibile ricostruire la zampa sinistra mancante, in posizione sollevata ad artigliare una testa mozzata di animale o umana. L'animale raffigurato appartiene alla nota classe di sculture leonine associate ai monumenti funerari dell'Italia romanizzata soprattutto tra la tarda età repubblicana e l'inizio dell'età imperiale; in particolare questo tipo di leone funerario monumentale ha goduto di un particolare favore nell'Umbria meridionale. Il leone riveste nella simbologia funeraria il ruolo di custode della tomba e di protettore della pace del defunto. La scultura proviene da una zona esterna alle mura, a sud di Amelia, situata lungo il tracciato dell'antica via Amerina. Anche se priva di un contesto, i confronti con altre sculture simili, inducono a collocarla tra la fine dell'età repubblicana e la prima età imperiale.
Erma del dio Termine

Questo manufatto, realizzato in travertino, è formato da un corpo con una base a forma parallelepipeda e da una testa dalle forme sbozzate: raffigura l'immagine del dio Termine. Opere simili venivano poste nelle campagne per delimitare i confini di proprietà, e questo potrebbe spiegare il perché del volto così semplificato che presenta lineamenti poco evidenziati come il naso e la bocca. I capelli sono appena accennati e gli occhi sono di forma molto allungata. Nella parte inferiore corre una breve scritta identificata come la dedica al dio. Il manufatto è stato trovato ad Amelia ed è databile alla fine del I secolo a.C.
Altare funerario
L'altare, di marmo bianco, era già stato utilizzato nella cappella Geraldini, nella chiesa di Santa Firmina, come pila per l'acqua lustrale. Nella parte posteriore destra l'altare è stato tagliato e scalpellato probabilmente quando fu addossato a un pilastro nella cappella Geraldini. Il testo epigrafico, è circondato da colonnine tortili con capitelli corinzi, scene ed animali mitologici. In basso vi è raffigurato Bacco a cavallo di un asino al centro insieme al suo corteggio. Quest'altare fu dedicato a Sessia Labionilla, personaggio del quale non sono noti altri dati. Il manufatto potrebbe riferirsi alla tarda Età flavia o adrianea.
Cassa di urna in travertino

Le casse di urna servivano a contenere le urne cinerarie ed erano solitamente realizzate in travertino. Questa cassa è di forma parallelepipeda. Ai lati della faccia anteriore sono scolpite due lesene ciascuna delle quali presenta la base modanata e un capitello decorato con motivi vegetali: al centro c'è una palmetta con tre petali legata con un listello a due steli terminanti con coppia di foglioline. Sempre sulla fronte della cassa c'è una fascia sporgente dove è riportato il testo epigrafico: T(itus) Gnevidius T(iti) l(ibertus) Secundus fec(it) / Suconiae C(aiae) l(ibertae) Nice matri suae.Il committente, un liberto della gens Gnevidia, fece fare l'urna per la madre Nice, liberta di una donna della gens Suconia; la cassa è stata ritrovata in località Cinquefonti.


UMBRIA - Ocriculum

 

Ocriculum
 fu un municipio romano della Regio VI, lungo le sponde del fiume Tevere, nell'attuale provincia di Terni.
Città umbra probabilmente di stanza sul colle dove si trova l'odierno abitato di Otricoli, deve probabilmente il suo nome a OKRI- (sacro): ossia quel monte antropizzato (l'OCAR umbro, l'VKAR etrusco) che faceva da riferimento territoriale identitario a ogni comunità (TOTA) umbra.
Narra Tito Livo che, dopo la battaglia di Mevania (Bevagna), rispetto alle tribù umbre sconfitte, agli abitanti di Ocriculum venne formalmente promesso che sarebbero stati accolti tra gli amici di Roma - "Ocriculani sponsione in amicitiam accepti": in epoca romana la città iniziò a svolgere una funzione strategica sia in ambito fluviale, attraverso il cosiddetto "Porto dell'Olio", sia in quello terrestre, a seguito della costruzione nel 220 a.C. della Via Flaminia; è da questo periodo che si suppone che la città, con le attività commerciali, si sposto lungo la riva del Tevere.
Sempre Livo narra l'episodio dell'incontro nei pressi della città, durante la seconda guerra punica, tra gli eserciti consolari di Fabio Massimo e Servillo. 
Fu ascritta alla tribù Arnensis, come documentato da diverse epigrafi rinvenute in loco e divenne municipio, retto da quattuorviri: nella divisione operata da Augusto assegnata alla Regio VI, di cui costituì l’estremo lembo verso la regio IV Samnum et Sabina agustea.
Le bellezze dei suoi dintorni la rendevano luogo adatto per villeggiatura: vi aveva una villa Tito Annio Milone, amico di Cicerone e politico di spicco della metà del I secolo a.C. – infatti una delle accuse per l'uccisione di Clodio, fu quella di aver fatto trasportare armi per il Tevere, sino alla sua villa di Otricoli; anche Pompea Celerina, la ricchissima suocera di Plinio il Giovane, aveva possedimenti a Otricoli alla fine del I secolo. In età imperiale ebbe vita fiorente con un’economia basata sull’agricoltura, sul commercio e sull’industria figulina: famose le note coppe a rilievo dette “Coppe di Popilio” e le fabbriche di tegole e mattoni di cui si conoscono i bolli, rinvenuti a Roma nel Tevere.
Narra Tacito che nel 69, durante la guerra tra i pretendenti alla porpora Vespasiano e Vitellio, Marco Antonio Primo, comandante del primo, radunò le truppe a Carsulae, passò indenne da Narni, e poi raggiunse Ocriculum, dove si fermò per festeggiare i Saturnalia.
In occasione della riforma dioclezianea delle suddivisioni amministrative della penisola italiana, Ocricolum entrò a far parte della Tuscia et Umbria. Nel IV secolo vi si fermò l'imperatore Costanzo II mentre si recava a Roma. L'evento più rilevante avvenuto sul suo territorio sarebbe, stando allo storico Idazio vissuto nel V secolo, la sanguinosissima battaglia (50.000 morti) svoltasi in Utriculo tra la fine del 412 e l'inizio del 413, e combattuta tra l'esercito dell'usurpatore e comes d'Africa Eracliano (venuto da Cartagine su 3700 navi) e l'esercito fedele all'imperatore Onorio guidato dal comes Marino, con la vittoria di quest'ultimo e la fuga del primo, poi messo a morte.
Della diffusione del Cristianesimo nell'area si sa poco: sono noti i nomi di quattro vescovi, un Erculio che partecipò al concilio romano del 487, un Costanzo che partecipò al concilio romano del 499, un Fulgenzio citato da papa Gregorio I e di cui resta una mensola dell'altare da lui eretto a san Vittore, e un Domenico che prese parte ai concilii del 595 e del 601.
La città fu distrutta fra il 569 e il 605 durante l’invasione longobarda, è a questo periodo che è fatto risalire l’abbandono della città bassa a favore di quella sul colle.
L'area archeologica oggi si sviluppa nei pressi del comune di Otricoli.
Nei circa 36 ha in cui si sviluppava il centro romano affiorano i resti di una grande costruzione forse adibita a magazzino, visto il vicino porto fluviale detto "dell'Olio", delle terme risalenti al II secolo a.C., del teatro del I secolo d.C. e dell'anfiteatro del I secolo d.C., portati alla luce già nei primi scavi del XVIII secolo.
Monumento funerario a nicchia
È costruito in opera cementizia con grosse scaglie di tufo e malta e ricoperto di laterizi ora poco visibili e risale all'età imperiale.


Monumento funerario a torre

Il monumento ha la pianta quadrata sormontata da un corpo circolare con una colombaia in alto, questo tipo di monumento era molto diffuso in Oriente e era fatto per essere avvistato da lontano.
Monumento funerario a tamburo
Il monumento funerario a tamburo è affacciato direttamente sulla via Flaminia,è a base quadrata e costruito in opera cementizia ricoperto di travertino.


Anfiteatro

Tutta la parte esterna è scomparsa, della cavea rimangono alcuni tratti della galleria intermedi. Ci sono ancora i resti dei due ingressi principali,è conservato anche il piano antico dell'arena ed è stata messa in luce una parte del podio.


Via Flaminia

Seguiva un tracciato parallelo all'odierna statale entrando con un divincolo all'interno della città antica. Il tratto ora visibile è formato da grandi massi di leucite provenienti da cave delle vicinanze e conserva ancora segni evidenti delle ruote dei carri.


Fonte

È divisa all'interno da due balaustre di pietra dove sono ancore visibili i segni delle corde dei secchi usati per il rifornimento dell'acqua.
Pilone monumentale
È un'altra costruzione rettangolare in opera reticolata. L'alto pilastro è uno dei piloni della porta monumentale che indicava l'ingresso nell'area urbana tra cui all'interno si trovano monumenti, edifici pubblici tra cui a sinistra il ninfeo.


Ninfeo

È una lunga sostruzione costruita in opus reticolatum. La parete fungeva da facciata alterna a due nicchie rettangolari e altre due a sesto circolare. L'edificio conteneva fontane pubbliche, ed era collegato attraverso cunicoli sotterranei ancora funzionanti alla cisterna dell'Antiquarium Casale San Fulgenzio.


Grandi sostruzioni

Consiste in 12 "grotte" disposte su due piani. La struttura era lunga circa 80 m e doveva sostenere un edificio pubblico.


Terme

Costruite nel II secolo d.C., sorgono in un'area pianeggiante artificiale sistemata e livellata in età romana con opere che hanno permesso di convogliare le acque di rio San Vittore in un canale sotterraneo. Rimane tuttora visibile la sala ottagonale del mosaico che ricopriva il pavimento, ne sono rimasti intatti alcuni pezzi.


Teatro

Il teatro è costruito in opus reticolatum , sfruttando il pendio naturale del terreno circostante. La cavea utilizza il terreno retrostante appoggiandovisi solo per estremità,è costruita con ambienti sostruttivi tre a destra e tre a sinistra.Dietro le gradinate si trovano due ambulacri parzialmente visibili,a destra si osserva l'ingresso alla scena costruito con grandi blocchi di tufo. Della galleria superiore rimane solo un settore coperto con una volta a botte;il perimetro esterno è formato da un muro di contenimento del terreno rafforzato da pilastri.Davanti alla cavea si trovava la scena adornata di statue e decorazioni tra cui le gigantesche Muse ora conservate nei Musei Vaticani.

UMBRIA - Urvinum Hortense

 

Urvinum Hortense
 è il sito archeologico di un'antica città romana situato a poche centinaia di metri dall'attuale Collemancio, in località La Pieve, con ogni probabilità menzionata nella Naturalis Historia (III, 114) da Plinio il Vecchio. Non deve essere confusa con Urvinum Metaurense nella Valle del Metauro (l'odierna città di Urbino).
Urvinum Hortense fu fondata nel III secolo a.C., in concomitanza con la colonizzazione della vallata umbra avvenuta in quello stesso secolo. Non è certa l'esistenza di un vicus edificato in età preromana sul posto o nelle immediate vicinanze. Il centro abitato, che fin dal III secolo a.C. si dotò di un tempio e di mura erette con blocchi squadrati di arenaria reperita localmente esercitava una funzione di controllo sulla rete stradale e serviva come centro di passaggio per le merci. Conobbe un notevole sviluppo urbano sul finire dell'età repubblicana e agli inizi di quella imperiale, epoca in cui venne inserita da Augusto, tra i municipi della Regio VI. Di età tardorepubblicana sono le Terme, successivamente ampliate durante il regno dell'imperatore Antonino. Nel 47 a.C. diede forse i natali al poeta Properzio e nel 69, il console romano Fabio Valente venne ivi imprigionato, mentre lottava per il potere contro Vespasiano.


Nel corso del V secolo, durante le invasioni barbariche decadde al pari di tante altre realtà urbane della propria regione di appartenenza e del resto d'Italia. Pur andando incontro a un progressivo spopolamento, la località doveva tuttavia essere ancora abitata all'indomani delle guerre gotiche a giudicare dalla costruzione in loco di una basilica paleocristiana a pianta rettangolare di medie dimensioni (21 m x 6 m) eretta tra il VI e il IX secolo. Tale basilica era adorna di sculture i cui frammenti le fanno risalire al IX secolo.
I primi scavi che riportarono alla luce il municipio romano sono del 1931, e furono condotti da un maestro elementare appassionato di storia e di archeologia, Giovanni Canelli Bizzozzero.

ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...