venerdì 1 agosto 2025

ARGENTINA - Cueva de las Manos

 


La Cueva de las Manos (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 chilometri a sud della città di Perito Moreno, all'interno dei confini del Parco Nazionale Perito Moreno che comprende altri siti di importanza archeologica e paleontologica. La Caverna si trova nella valle del fiume Pinturas, in un luogo isolato della Patagonia a circa 100 chilometri dalla strada principale. Essa è famosa (e infatti a questo deve il suo nome) per le incisioni rupestri rappresentanti mani, che appartenevano al popolo indigeno di questa regione (probabilmente progenitori dei Tehuelche), vissuto fra i 9.300 e i 13.000 anni fa. Gli inchiostri sono di origine minerale, quindi l'età delle pitture rupestri è stata calcolata dai resti degli strumenti (ricavati da ossa) usati per spruzzare la vernice sulla roccia.
La caverna principale è profonda 24 metri, con un ingresso largo 15 metri ed un'altezza iniziale di 10 metri. All'interno della caverna il terreno è inclinato, in salita, mentre l'altezza si riduce a non più di 2 metri.

Le immagini delle mani sono spesso in negativo, e oltre a queste ci sono scene di caccia, esseri umani, lama, nandù, felini ed altri animali, nonché figure geometriche e rappresentazioni del sole. Dipinti simili, anche se in numero minore, sono presenti anche nelle caverne circostanti. Sul soffitto si trovano puntini rossi, ottenuti probabilmente da quelle popolazioni immergendo nell'inchiostro le bolas e tirandole successivamente verso l'alto. I colori usati per dipingere le scene variano dal rosso (ottenuto dall'ematite) al bianco, nero e giallo.
La maggior parte delle mani sono sinistre, il che suggerisce che i "pittori" tenessero gli strumenti che spruzzavano l'inchiostro con la destra. Le dimensioni delle mani sembrano quelle di un ragazzino di 13 anni ma, considerando che probabilmente esse sono più piccole di quanto non fossero in realtà, si pensa che le mani appartenessero a persone di qualche anno più vecchie: in questo caso potremmo trovarci di fronte ad un rito, lasciare l'impronta della propria mano sul muro della caverna (probabilmente sacra) poteva significare il passaggio dall'età infantile all'età matura.
Nel 1999 la Cueva de las Manos è stata inserita nell'elenco dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO.
Nel film documentario Nomad - In cammino con Bruce Chatwin (Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin) (2019) di Werner Herzog, il regista mostra delle fotografie di Cueva de las Manos.

BRASILE - Parco nazionale Serra da Capivara

 


Il parco nazionale Serra da Capivara è un'area naturale protetta situato nel nordest del Brasile, nello Stato di Piauí. Ha una superficie di 129.140 ettari ed un perimetro di 214 chilometri.
È amministrato dall'Istituto Chico Mendes per la Conservazione della Biodiversità. Fu creato per proteggere l'area che comprende il più importante patrimonio preistorico del Brasile, con una ricchezza di vestigia archeologiche conservatesi per millenni grazie all'equilibrio dell'ecosistema, oggi estremamente a rischio.
Situato in una regione dal clima semiarido, frontiera tra due grandi formazioni geologiche, il bacino sedimentario del Maranhão-Piauí e la depressione periferica del fiume São Francisco, il parco presenta un rilievo formato da colline, valli e altopiani. L'ambiente morfo-climatico è quello della caatinga con zone di transizione col cerrado al margine nord. Le “foreste bianche” del nordest del Brasile, “caatingas” nella lingua dei nativi, sono formazioni biogeografiche caratterizzate da piante xerofile (che perdono le foglie nella stagione secca). La vegetazione è formata da arbusti sottili, estremamente ramificati, con tronco liscio e rami corti e duri, spesso spinosi. Le foglie piccole e rade lasciano passare la luce. La vegetazione erbacea generalmente è presente solo durante la stagione delle piogge.
Le ricerche realizzate nel parco hanno riscontrato la presenza di 33 specie di mammiferi non volatori, 24 di pipistrelli, 208 specie di uccelli, 208 di lucertole, 34 di anfibi. Il maggior predatore della regione del parco è il giaguaro.
Area di maggior concentrazione di siti preistorici del continente americano e dichiarato nel 1991 Patrimonio dell'umanità dall'UNESCO, il parco presenta una densa concentrazione di siti archeologici, la maggior parte con pitture e incisioni rupestri di epoca preistorica. Ad oggi sono stati catalogati 912 siti archeologici, dei quali 657 presentano pitture rupestri in ripari sotto roccia, attribuiti a popolazioni di cacciatori-raccoglitori. Tra questi Pedra Furada è uno dei più importanti, con pitture rappresentanti scene di caccia con lance e trappole, databili fino a 11.000 anni fa. Queste pitture, che sono state chiamate della «Tradizione del Nordeste», comprendono, oltre a figure umane, anche elaborati disegni geometrici.
Gli altri siti sono all'aria aperta e sono accampamenti o villaggi di agricoltori-ceramisti, siti funerari e siti paleo-archeologici. Sono stati ritrovati reperti ossei umani ed animali, manufatti ceramici datati 8.960 anni (i più antichi finora ritrovati nel continente americano) e circa 30.000 figure dipinte su roccia, le più antiche datate 26.000 – 20.000 anni fa.
Queste datazioni così antiche, così come quelle di altri siti in Cile, Messico e Stati Uniti, hanno portato alcuni archeologi sudamericani e statunitensi a mettere in discussione o quantomeno a rivedere la teoria di Clovis secondo la quale l'homo sapiens avrebbe raggiunto per la prima volta il continente americano attraverso lo stretto di Bering 10.500-13.000 anni fa.
La progressiva decifrazione dell'iconografia svela importanti aspetti della vita e delle credenze religiose delle popolazioni preistoriche succedutesi nell'ambito del parco

BRASILE - Pedra Furada

 
Pedra Furada è un sito archeologico preistorico ricavato in un riparo sotto roccia nelle arenarie Siluro-devoniane dello Stato del Piauí, Nordeste del Brasile, in quello che ora è il Parco nazionale della Serra da Capivara dove, dal 1974 furono scoperti oltre 1.200 siti dall'équipe dell'archeologa brasiliana Niède Guidon. Nel sito della Pedra Furada vi sono oltre 900 pitture rupestri risalenti datate tra 11.000 e 5.000 anni fa. Lo scavo è stato condotto da Niéde Guidon (1978-1987), per il 35% della superficie, e da Fabio Parenti (1987-1988) per la porzione rimanente. Un piccolo blocco-testimone rimane a disposizione degli studiosi. La sequenza stratigrafica è spessa 5,5 m ed è composta di sedimenti sabbiosi e ghiaie derivanti dallo smantellamento del tetto del riparo. Le 54 datazioni radiocarboniche sono comprese tra 60.000 (limite del metodo) e 5.000 anni da oggi.
Il riempimento contiene 158 tra focolari e strutture archeologiche, di cui 87 negli strati del Pleistocene finale. Le industrie litiche sono ricavate da ciottoli di quarzo presenti in loco e da blocchetti di selce provenienti dai vicini affioramenti carbonatici. L'origine antropica delle industrie degli strati pleistocenici è oggetto di controversia ed è contestata da molti archeologi, perlopiù statunitensi.
A causa della forte acidità del sedimento, ricco di silice, non si sono conservati resti organici più antichi di 6.000 anni, ciò che rende impossibile conoscere le faune accompagnanti i reperti archeologici. Sono stati tuttavia datati e studiati molti coproliti umani, che hanno fornito utili indicazioni sulla paleobotanica della zona nell'Olocene medio.
La controversia principale riguarda l'origine antropica dei manufatti e dei focolari dei livelli pleistocenici.
La monografia che descrive dettagliatamente il sito, la sua geologia, i manufatti e le strutture rinvenute è un libro di Fabio Parenti, cui si rimanda per approfondimenti.
Il sito della Pedra Furada, con le sue datazioni molto antiche, è uno dei giacimenti più discussi della preistoria mondiale anche perché obbliga a una radicale revisione del modello "Clovis first" relativo al popolamento delle Americhe, secondo il quale si postula che i primi gruppi a giungere nel nuovo mondo furono i portatori delle industrie a cuspidi bifacciali dette di Clovis, non più vecchie del 13000 anni fa.

BRASILE - Pietra di Ingá

 


La Pietra di Ingá (Pedra do Ingá in lingua portoghese) è un grande monolite scolpito e decorato che si trova nel fiume Ingá vicino alla piccola città di Ingá, a 96 km da João Pessoa, nello stato di Paraíba, nel nord-est del Brasile.
La Pietra Ingá è anche chiamata Itacoatiara do Ingá. La parola Ita significa "pietra" nella lingua tupi degli indigeni che abitavano quella zona. Si tratta di una formazione rocciosa in gneiss che copre un'area di circa 250 m 2 che comprende un muro verticale lungo 46 metri per 3,8 metri di altezza.
Le pietre sono ricoperte di simboli e glifi (se ne contano circa 450) che fino ad oggi risultano indecifrabili. Gli studiosi ritengono che sia stato creato da indigeni che hanno vissuto nella zona fino al XVIII secolo. La maggior parte dei glifi rappresenta animali, frutti, esseri umani, costellazioni e altre immagini irriconoscibili.
La maggioranza degli studiosi ritiene che si tratti di antichi simboli sacri scolpiti da un'antica cultura precolombiana, ancora non identificata, che ha abitato la regione in tempi remoti; altri hanno ipotizzato che rappresenti la loro scrittura. La maggior parte delle figure sembra astratta e gli studiosi vorrebbero tentare una traduzione ma il problema principale è che mancano paralleli su cui operare un confronto.
Tuttavia, fino ad oggi, non è stato possibile stabilire in modo definitivo chi fossero gli autori dei segni e quali sarebbero state le motivazioni per la realizzazione del monumento. Gli archeologi, come Dennis Mota e Vanderley de Brito, ritengono che le iscrizioni siano state fatte nel corso di molte generazioni, da comunità seminomadi in passaggi attraverso la regione, utilizzando scalpelli di pietra.

L'intero terreno roccioso presenta iscrizioni dalle forme più diverse, realizzate con varie tecniche di incisione su pietra . Le diverse parti sono state chiamate "Pannelli" dai professori Thomas Bruno Oliveira e Vanderley de Brito, per scopi di ricerca:
Pannello Verticale - È il più conosciuto e studiato dell'insieme dell'area rocciosa, è lungo 46 metri per 3,8 m di altezza, 15 metri di lunghezza per 2,3 m di altezza sono quasi completamente occupate da iscrizioni. La maggior parte di esse si trova al di sotto di una linea orizzontale leggermente ondulata di 112 incisioni capsulari. Queste iscrizioni sono molto pulite, presentano scanalature larghe (fino a 5 cm), relativamente profonde (fino a 8 mm) e ben levigate.
Pannello inferiore - Si trova sul pavimento della lastra di fronte al pannello verticale. Copre un'area di 2,5 m² con diverse iscrizioni arrotondate da cui emergono striature, simili a stelle . Gli studiosi ipotizzano che vi venga rappresentata la costellazione di Orione o delle Pleiadi, poiché sono le costellazioni che si possono vedere guardando il cielo notturno da quella posizione.
Pannello Superiore - Situato sopra il Pannello Verticale, in cima alla roccia, alto 3,8 metri. È composto da segni sparsi di minore profondità e larghezza e realizzati anche con meno cura di quelli sottostanti. L'iscrizione che più attira l'attenzione su questo pannello è un grande cerchio a forma di spirale , attraversato da un'iscrizione a forma di freccia che punta ad ovest .
Sono presenti anche le cosiddette Iscrizioni Marginali , che sono sparse in tutta l'area dell'insieme rupestre e hanno un aspetto più rustico rispetto alle altre iscrizioni, molti di loro sono appena stati raschiati via dalla superficie rocciosa. Il motivo per cui queste iscrizioni differiscono dalle altre, per la loro semplicità, è un altro dilemma per i ricercatori. Vanderley de Brito propone che potrebbero essere stati prodotti da culture precedenti a quella che ha prodotto le iscrizioni principali. Dennis Mota ipotizza invece che le iscrizioni marginali avrebbero potuto servire da schizzo per le iscrizioni più elaborate sui pannelli.

Ipotesi archeoastronomica 

C'è un'ipotesi che attribuisce ai petroglifi di Ingá un'importanza dal punto di vista archeoastronomico. Nel 1976, l'ingegnere spagnolo Francisco Pavía Alemany iniziò uno studio matematico di questo monumento archeologico. I primi risultati sono stati pubblicati nel 1986 dall'Istituto di Arqueologia Brasileira (Pavía Alemany F. 1986). Egli Individuò in Inga una serie di "ciotole" e un altro petroglifo inciso sulla superficie verticale del muro di pietra che formava un "calendario solare", sul quale uno gnomone proiettava l'ombra dei primi raggi solari di ogni giorno. L'Agrupación Astronómica de la Safor ha pubblicato nel 2005 una sintesi di questo lavoro nel suo bollettino ufficiale Huygens n. 53 (Pavía Alemany F. 2005).
Successivamente F. Pavia ha proseguito lo studio, concentrandosi questa volta su una serie di segni incisi sulla superficie rocciosa, che ha interpretato come un gran numero di "stelle" raggruppate a formare "costellazioni". Si ritiene che la coesistenza delle "ciotole" e delle "costellazioni" nella stessa roccia le conferisca un significato archeoastronomico.
Nel 2006, l'egittologo e archeoastronomo Jose Lull ha coordinato la pubblicazione di un libro intitolato Trabajos de Arqueoastronomía. Ejemplos de Africa, America, Europe y Oceania , un compendio di tredici articoli scritti da archeoastronomi. Tra questi ci sono "L'insieme archeoastronomico di Inga" dove è esposto lo studio sia delle coppe che delle costellazioni menzionate prima e le ragioni che giustificano Inga come un monumento archeoastronomico eccezionale.

Ipotesi Pseudoscientifiche 

Vista la mancanza di notizie certe sui costruttori della Pietra di Ingà, sono state formulate delle ipotesi riconducibili alla cosiddetta "archeologia misteriosa" che non trovano alcun riscontro presso la maggioranza degli studiosi.
Il ricercatore italo-brasiliano Gabriele D’Annunzio Baraldi, studioso di lingue antiche che ha trascorso molti anni allo studio della Pietra di Ingá, sostiene che i glifi presenti sul monolite sono simili a quelli delle culture mesopotamiche primordiali. Sempre a suo parere, la lingua Tupi – Guarani, parlata da alcuni gruppi etnici sudamericani, sembra avere una lontana assonanza con la lingua ittita. Baraldi trova in questa comunanza una prova dell’esistenza di una grande civiltà globale esistita in tempi remoti, nota più comunemente con il nome di Atlantide. Se la tesi di Baraldi è corretta, la Pietra di Ingá rappresenta un messaggio che gli antichi superstiti di quella civiltà avrebbero lasciato ai posteri, come memoria del passato e come monito per il futuro. A sostegno dell’ipotesi di Baraldi vi sarebbe la somiglianza dei glifi della Pietra di Ingá con la scrittura utilizzata dagli antichi abitanti dell'Isola di Pasqua, il Rongorongo. Si tratta di una scrittura che è stata solo parzialmente decifrata e che non utilizza geroglifici. L’isola di Pasqua è l’unica nell’area del Sud Pacifico ad aver sviluppato nella propria storia una scrittura propria.
Molti sostengono che la Pedra do Ingá abbia origini fenicie. Il professore padre Inácio Rolim, vissuto nel XIX secolo, è stato uno dei primi promotori di questa tesi, facendo analogie tra i simboli scritti su Pedra do Ingá e i caratteri della scrittura fenicia. La ricercatrice Fernanda Palmeira, all'inizio del XX secolo , viaggiò attraverso diverse regioni dell'entroterra nord- orientale, studiando presunti resti fenici in questa regione. Oltre a diversi articoli, scrisse anche il libro "Storia antica del Brasile", in cui associava non solo le iscrizioni rupestri di Ingá ai Fenici, ma anche alla scrittura demotica egizia.
Esiste anche una corrente che sostiene che i segnali di Ingá siano opera di ingegneria extraterrestre. L'ufologo Cláudio Quintans ha suggerito che delle astronavi aliene sarebbero atterrate nella regione di Pedra do Ingá. L'ufologo ha persino raccolto campioni del suolo dove, secondo lui, sarebbe atterrato tale veicolo. Un altro ricercatore, Gilvan de Brito, nel libro Viagem ao Desconhecido , afferma che esistono, in Ingá, formule per la produzione di energia quantistica e persino combinazioni matematiche che potrebbero indicare la distanza tra la Terra e la Luna.


BOLIVIA - Cultura Tiahuanaco

 


La cultura Tiahuanaco (Tiwanaku in inglese) fu un'importante civiltà precolombiana il cui territorio si estendeva attorno alle frontiere degli attuali stati di Bolivia, Perù e Cile. Prende il nome dalle rovine dell'antica città omonima, nei pressi della sponda sud-orientale del lago Titicaca e approssimativamente 72 km a ovest di La Paz, sede del governo della Bolivia (la capitale formale dello Stato è Sucre). Alcune ipotesi sul nome, affermano che derivi dall'aymara Taypikala. Tiahuanaco è molto più grande di quel che si è scoperto finora. Grazie ad uno studio con immagini satellitari e droni sembra che essa abbia una superficie almeno doppia rispetto a quella finora nota. Lo studio è stato voluto dall'UNESCO.
La civiltà Tiahuanaco fu contemporanea di quella Huari, che si trovava a nord di quella Tiahuanaco, condividendone molti aspetti, in particolare dal punto di vista artistico. Tuttavia i contatti tra le due culture sembrano essere stati limitati ad un periodo di 50 anni, durante i quali vi furono sporadiche scaramucce riguardanti una miniera occupata per prima dai Tiahuanaco. La miniera delimitava il confine tra le sfere di influenza delle due culture e gli Huari tentarono, senza successo, di assicurarsela tutta per loro.
Il declino di questa civiltà sembra sia causato dall'invasione di popolazioni dal sud o nella perdita di fede nella religione predominante. Il collasso dei Tiahuanaco influenzò la crescita dei sette regni Aymara, gli stati più potenti dell'area. Tutto il territorio fu conquistato, attorno al XV secolo, dagli Inca e annessi all'impero noto come Tahuantinsuyo. La regione occupata dai Tiahuanaco venne annessa alla provincia nota come Qulla Suyo, la provincia dell'est.
Il territorio fu fondato approssimativamente attorno al 200 a.C., come una piccola città e crebbe tra il IV ed il VI secolo, conseguendo un importante potere regionale nel sud delle Ande.
Nella sua massima estensione la città copriva 6 km² e ospitava circa 40.000 abitanti.
Una sua caratteristica sono gli enormi monoliti di circa 10 tonnellate che si possono ancora ammirare nelle rovine dell'antica città.
Il declino iniziò attorno al 950 fino al collasso completo attorno al 1100, quando il centro cerimoniale venne abbandonato. L'area circostante non fu però abbandonata completamente, ma lo stile artistico caratteristico cadde assieme agli altri aspetti della cultura.
Non vi sono prove che la civiltà Tiahuanaco utilizzasse la scrittura.
La Porta del Sole di Tiahuanaco (foto in alto) fu ricavata da un unico blocco di andesite sul quale vennero incisi rilievi, principalmente nella sezione trasversale collocata sopra il vano della porta, lungo 1,40 metri.
Il rilievo centrale mostra il "dio dei bastoni", una figura armata di due scettri a forma di serpente, attorniata da altre 48 figure alate, di cui 32 con volto umano e 16 recanti la testa di un condor.
La Porta del Sole venne così chiamata perché posizionandosi davanti ad essa all'inizio della primavera si può osservare che il sole sorge esattamente sopra la metà della porta.
Una teoria sostiene che le 48 figure ricavate nella pietra rappresentino lo schema base di un calendario che sarebbe servito a determinare ulteriori riferimenti astronomici.


BOLIVIA - Pumapunku

 


Pumapunku, anche detto “Puma Pumku” o “Puma Puncu”, è parte di un ampio complesso o gruppo di monumenti del sito di Tiahuanaco, in Bolivia. In Aymara, il suo nome significa “La porta del Puma”. All'inizio del XX secolo l'ingegnere tedesco Arthur Posnansky (1873-1946) dedicò lunghi anni delle sue ricerche alle rovine di Tiwanaku, un antico villaggio indio situato sull'altipiano boliviano. L'ingegnere concentrò i suoi studi su una zona del villaggio, dove alcune pietre erano disposte verticalmente. Da questo lo studioso dedusse che in quel luogo, migliaia di anni prima sorgeva un osservatorio astronomico. Così il sito di Tiwanaku richiamò altri studiosi tra cui l'italiano Giampaolo Dionisi Piomarta, i quali scoprirono un altro sito presente a poche centinaia di metri di distanza, Pumapunku.
Nel campo di rovine si trovano blocchi che arrivano a pesare sino a 130 tonnellate. Pare quindi che ci si trovi davanti ai resti di parecchi edifici. Però è insolita la forma delle pietre, lavorate in modo così preciso da poter essere unite l'una all'altra in diversi modi, paragonabili a un moderno sistema modulare. Per fissare le pietre venivano infatti utilizzate delle cambrette di metallo, metodo conosciuto dagli archeologi dopo gli scavi di Delfi, città dell'antichità dove risiedeva uno tra i più famosi oracoli di tutti i tempi. I blocchi modulari del sito inoltre denominati "blocchi H" mostrano un grado di
precisione elevato sia nell'intaglio degli angoli retti, che nelle misure relative a ciascun blocco. Gli incavi dei blocchi H inoltre, presentano scanalature dalle pareti non parallele, per costituire degli incastri oggi conosciuti denominati "a coda di rondine".
Non è ancora stato possibile appurare come sia avvenuta la distruzione di Pumapunku e Tiahuanaco. Confrontando però la lavorazione delle pietre, si è riscontrato che i due siti non sono sorti nella stessa epoca, altrimenti lo scambio tra le "tecniche costruttive" sarebbe stato inevitabile data la breve distanza. Nel caso di Pumapunku inoltre le devastazioni sono ancora più estese. Infatti è quasi impossibile riconoscere la struttura degli edifici ed esistono solo poche pietre vicine l'una all'altra, mentre a Tiahuanaco sporadicamente è ancora possibile vedere alcuni muri.


HONDURAS - El Puente

 

El Puente è un sito archeologico Maya nel dipartimento di Copán in Honduras. La città di El Puente diventò un vassallo della città di Copán tra il sesto e il nono secolo d.C. Il sito ha più di 200 strutture che includono tombe, strutture religiose, e quartieri, ma solo alcune sono state esaminate.
El Puente si trova nella valle di Florida, vicino alla città di La Jigua, ed è uno dei siti ai limiti della zona Maya meridionale, confinante con la regione dell'area intermedia.
La zona venne descritta inizialmente da Jens Yde nel 1935, facendo una mappa del sito. Il progetto
La zona di El Puente fu abitata fin dal sesto secolo d.C., nel periodo Classico iniziale. La città non fu occupata per un lungo periodo. Lo stile architetturale e delle ceramiche è simile a quello visto a Copán facendo pensare che questa città fosse un vassallo. Fu un centro regionale importante durante il Tardo Classico
Dopo il collasso di Copán nel periodo Terminale Classico, tra l'850 e il 950, la regione venne sconvolta da una perdita di potere politico e di prestigio. El Puente accolse immigrati da Copán durante il Tardo Classico.
L'architettura è prevalentemente in stile Maya ma è influenzata dalla manodopera di gente proveniente dalla vicina area intermedia. L'architettura non ha la tipica simmetria trovata in siti Maya tradizionali e con una lunga storia di occupazione, probabilmente a causa di una minore conoscenza tecnica. Le scalinate delle costruzioni principali possono variare in dimensioni da lato a lato. La qualità della costruzione tende a variare anche all'interno dello stesso edificio.
I materiali principali nella costruzione erano tufo, scisto e un calcare duro. Il tufo è molto fragile e le costruzioni sono state in certi casi ridotte in polvere. Il materiale riempitivo non è omogeneo ed è costituito da pietra, terriccio e argilla. La malta usata per la costruzione era suscettibile all'acqua.
Le piazze possedevano un sistema di canali per drenare l'acqua piovana.
Sono stati trovati alcuni sepolcri con all'interno degli oggetti preziosi, giada, e ceramiche decorate. Una tomba conteneva tredici lame di ossidiana. L'ossidiana proveniva dalla regione di Pachuca nel Messico centrale.
El Puente possiede 210 strutture e il nucleo contiene 5 piazze. Sono state riportate alla luce nove strutture. Alcune parti del sito sono state danneggiate dall'attività agricola e da saccheggiatori di oggetti preziosi.
La Struttura 1 è quella più alta a El Puente, misurando 12 metri. Sembra che venne costruita nel settimo secolo d.C. Era una piramide radiale con sei piani e scalinate su tutti e quattro i lati, delle quali quelle a est e ovest sono le meglio conservate. Sulla cima si trovava una struttura con tre stanze. Attorno alla struttura sono stati trovati ceramiche, argilla bruciata, mais e fagioli.
La Struttura 3 è stata costruita finemente nella prima piattaforma del lato nord, con il resto della struttura che mostra una qualità più scadente.
La Struttura 4 si trova sul lato nord ovest della Piazza 1, ai limiti del sito.
La Struttura 5 possiede tre stanze modellate sullo stile di Copán. I muri sono spessi 30 cm.
La Struttura 31 è una piramide sul lato est del nucleo del sito, danneggiata in parte da saccheggiatori. La struttura sosteneva due stanze; la stanza principale mostra ciò che rimane di una panca di pietra. La struttura mostra diverse fasi di costruzione. Associati al tempio si trovavano un altare e una stele senza alcuna iscrizione geroglifica.


HONDURAS - Copán

 

Copán è un sito archeologico maya situato in Honduras, sulle sponde dell'omonimo fiume, non lontano dal confine con il Guatemala.
Contiene alcune delle opere di scultura più famose ed importanti del periodo classico maya. È probabilmente il sito più noto dell'Honduras ed è stato proclamato patrimonio dell'umanità dall'UNESCO.
Il nome di questo sito maya deriva della parola nahuatl per incenso copal. Il nome antico della Città era Hux Witik, quello del regno/Glifo Emblema non è ancora interpretato con certezza. Esso sembra essere composto dagli elementi: xu(?)-ku-pi. L'incerta lettura della testa di pipistrello in questo caso, e l'assenza di significati funzionanti per i tentativi di lettura, rendono impervia l'analisi. Il nome antico di Copán potrebbe essere stato anche in una lingua non Maya come ad esempio il Lenca.
Copán vanta una storia molto lunga, che va dal Periodo Preclassico finale al Periodo Postclassico iniziale. La sua storia potrebbe essere separata in tre fasi fondamentali: 1. la fase predinastica, 2. la fase dinastica e 3. la fase dell'abbandono.
La fase predinastica
Copán è uno dei pochi siti che conserva dei testi che narrano episodi dell'epoca anteriore alla fondazione della dinastia reale. Molti sono anche i resti archeologici associati a questo periodo.
La fase dinastica
La fase dinastica ebbe inizio con K'inich Yax K'uk' Mo', il fondatore della dinastia. La "propaganda" maya lo presenta come straniero, come condottiero arrivato dalla lontana Teotihuacan per portare ordine e civiltà. Che fosse straniero è stato provato dall'esame degli isotopi assunti dal defunto re nei denti durante la crescita. Ridimensionata è però la distanza della sua terra natia: non Teotihuacan, bensì Tikal.
La fase dinastica finì con la morte Yax Pasaj Chan Yopaat, a cui successe un individuo di nome Ukit Took', il quale perse quasi immediatamente l'autorità ed il controllo sul suo regno.
La fase dell'abbandono
Questa fase si caratterizza per l'abbandono delle consuetudini monarchiche e lo sbandamento di una città senza guida. Copán non perse immediatamente importanza come accadde in altri centri maya. Ciò che rimase della sua popolazione visse per altri duecento anni tra steli e palazzi reali abbandonati.


COSTARICA - Insediamenti di capi precolombiani con sfere di pietra dei Diquís


Le sfere di pietra della Costa Rica sono una serie di oltre trecento petrosfere che si trovano in Costa Rica, nell'area del delta del Diquís e sull'Isla del Caño. Localmente sono note come Las Bolas.
Le sfere sono comunemente attribuite all'estinta cultura Diquís e talvolta dette sfere Diquís. Sono tra le sculture in pietra più conosciute dell'area istmo-colombiana e il loro esatto significato rimane incerto.
Nel mese di giugno 2014, gli insediamenti precolombiani di Chiefdom con le sfere sono stati aggiunti alla lista UNESCO dei siti del patrimonio mondiale. Nel luglio 2014 è stato approvato un progetto proposto nel 2011 per dichiarare le sfere come simbolo nazionale del Paese.
Le sfere di pietra sono considerate un simbolo nazionale e parte dell'identità culturale della Costa Rica, quindi è comune vederle installate in edifici governativi, musei o in alcune città. Alcune sono state portate fuori dal Paese, in particolare una si trova al museo della National Geographic Society a Washington e un'altra al Museo Peabody di Archeologia ed Etnografia, presso la Harvard University di Cambridge nel Massachusetts.
Le sfere variano in dimensioni da pochi centimetri a oltre 2 metri di diametro e pesano fino a 15 tonnellate. La maggior parte sono scolpite dal gabbro, l'equivalente a grana grossa del basalto. Ce ne sono una dozzina di calcare ricco di conchiglie e un'altra dozzina di arenaria.
L'ipotesi sulla loro creazione prevalente è che siano state create martellando massi naturali con altre rocce, quindi lucidandole con la sabbia. Secondo gli studiosi è stata usata una pratica che consisteva nel riscaldare e poi raffreddare il granito, in modo da renderlo più malleabile. Non esistono comunque riscontri sul metodo di costruzione o lavorazione delle sfere, anche se il procedimento descritto è simile a quello utilizzato dalle civiltà precolombiane per costruire asce e statue di pietra.
Il grado di finitura e la precisione della lavorazione variano considerevolmente. Il gabbro proveniva da siti posti nelle colline di Talamanca, a diversi chilometri da dove si trovano le sfere finite, anche se alcune sfere non finite rimasero sulle colline.
Il sito archeologico della Farm 6 è stato datato al periodo Aguas Buenas (300–800 d.C.) e al periodo Chiriquí (800-1550 d.C.). Era un sito multifunzionale che ospitava un insediamento e un cimitero, e sul sito sono presenti anche resti di architettura monumentale e scultura. L'architettura monumentale è costituita da due tumuli che sono stati costruiti con muri di sostegno fatti di ciottoli di fiume arrotondati e pieni di terra. Il sito contiene più posizioni in cui si trovano grandi sfere di pietra in situ. Molte delle sfere di pietra nella regione sono state rimosse dalle loro posizioni originali e servono come decorazione per altre strutture del Paese. Questo ha reso difficile la ricostruzione delle informazioni sul loro contesto archeologico e su possibili allineamenti.
Le sfere rappresentano un enigma per gli studiosi che cercano di capire la loro origine. Non si conosce il motivo per cui furono costruite e chi le fece non lasciò nessun documento scritto. I dati archeologi permettono di ricostruire il contesto ma la cultura che le creò si estinse poco dopo la conquista spagnola.
Si ritiene che le pietre siano state scolpite per la prima volta intorno al 600 d.C. con la maggior parte risalente al 1000 ma prima della conquista spagnola. L'unico metodo disponibile per datare le pietre scolpite è la stratigrafia, ma la maggior parte delle pietre non si trova più nella loro posizione originale.
Le sfere furono scoperte negli anni 1930 mentre la United Fruit Company stava ripulendo la giungla per creare delle piantagioni di banane. Gli operai vi incapparono con i bulldozer e l'equipaggiamento pesante, danneggiando alcune sfere. Inoltre, ispirati da storie di oro nascosto, gli operai hanno iniziato a praticare buchi nelle sfere e ad aprirli e molte sfere furono distrutte prima che le autorità intervenissero. Alcune delle sfere distrutte dalla dinamite sono state riassemblate e sono attualmente esposte al Museo Nazionale della Costa Rica a San José.
La prima indagine scientifica sulle sfere fu intrapresa poco dopo la loro scoperta da Doris Stone, figlia di un dirigente della United Fruit. Questi sono stati pubblicati nel 1943 su American Antiquity, attirando l'attenzione di Samuel Kirkland Lothrop del Peabody Museum presso l'Università di Harvard. Nel 1948, lui e sua moglie tentarono di scavare un sito archeologico non correlato nella regione settentrionale della Costa Rica ma i disordini civili che funestavano la regione in quegli anni minacciavano la sicurezza della squadra di Lothrop. A San José conobbe Doris Stone, che diresse il gruppo verso la regione del Delta di Diquí, nel sud-ovest e ha fornito loro preziosi siti di scavo e contatti personali. Le scoperte di Lothrop furono pubblicate su Archeology of the Diquís Delta, Costa Rica 1963.
Il lavoro di Lothrop mirava a documentare tutti i siti archeologici contenenti sfere di pietra "in situ", a registrare il numero di sfere e le loro dimensioni e a creare mappe dettagliate che illustrassero entrambe le loro disposizione e allineamenti. Lothrop suggerì che le pietre fossero state posizionate in allineamenti astronomicamente significativi ma a oggi non c’è modo di verificare se la sua teoria sia corretta.
Dopo il lavoro di Lothrop e Stone, la ricerca nell'area prese una pausa per molti anni. Negli anni 1990, Claude Baudez e un team di ricercatori hanno iniziato a redigere una cronologia ceramica della regione osservando il cambiamento degli stili ceramici nel tempo. La ricerca condotta da Ifigenia Quintanilla, sotto la direzione del MNCR dal 1991 al 1996, è stata condotta nella regione nell'ambito del progetto "Man and Environment in Sierpe-Terraba", incentrato su modelli di insediamento, sequenze occupazionali e risorse utilizzate nella regione.
Francisco Corrales e Adrian Badilla, archeologi del Museo Nacional de Costa Rica, hanno svolto continue ricerche nella regione dal 2002, concentrandosi in particolare su quattro siti archeologici nella regione contenenti sfere di pietra. Questi siti includono Grijalba, Batambal, El Silencio e "Farm 6". Corrales e Badilla hanno prodotto un opuscolo intitolato El Paisaje Cultural del Delta del Diquísche che fornisce una rapida panoramica della storia del delta di Diquí, della storia delle piantagioni di banane e dell'UFCO, dell'ambiente naturale, dei siti archeologici della regione e dell'importanza della regione di Diquí come patrimonio mondiale dell'UNESCO.
La ricerca è attualmente in corso presso il sito "Farm 6" sotto la direzione di archeologi del Museo Nacional de Costa Rica.
Recenti aggiornamenti di questa ricerca hanno sottoposto all'analisi del carbonio 14 alcune superfici e parti interne di alcune sfere portando alla rilevazione della datazione al 4.000 - 5.000 a.C. Tale datazione solleva seri dubbi e misteri sull'origine degli elementi sferoidali.
Le sfere di pietra della Costa Rica sono state oggetto di speculazioni pseudoscientifiche, fin dalle pubblicazioni dei libri di Erich von Däniken nel 1971.
Alcune leggende locali affermano che gli abitanti nativi erano in possesso di una tecnica in grado di ammorbidire la roccia, consentendogli di plasmarla e modellarla a loro piacimento. Una leggenda simile si racconta anche sui costruttori di Sacsayhuamán e di Cuzco. La leggenda afferma che gli antichi fossero in possesso di un particolare liquido ottenuto dalle piante, capace di rendere la pietra morbida e facile da modellare.
Nella cosmologia Bribri, condivisa da altri popoli precolombiani le sfere di pietra vengono indicate come le “palle di cannone di Tara”: Tara, o Tlatchque, era venerato come dio del tuono, il quale utilizzava un cannone gigante per sparare i suoi colpi verso Serkes, divinità dei venti e degli uragani, al fine di scacciarlo via dai suoi possedimenti.
Altri ancora ritengono che le sfere di roccia della Costa Rica siano i resti dell’antica cultura atlantidea. Lo stesso Lothrop era convinto che le sfere fossero molto antiche, e che quindi gli indigeni locali non avessero fatto altro che custodire un lascito di una popolazione antecedente. Le rocce non sarebbero state fabbricate dai nativi americani, ma semplicemente ricevute in eredità e custodite. Non ci sono comunque prove a sostegno di queste speculazioni.

PORTO RICO - Parco cerimoniale Caguana

 

Il parco cerimoniale Caguana (in spagnolo: centro ceremonial indígena de Caguana) è un sito archeologico situato ad Ángeles, circoscrizione del comune di Utuado, in Porto Rico.
Il centro risale approssimativamente al 1200, periodo di pieno splendore dalla cultura Taino sull'isola di Porto Rico. Gli scavi archeologici hanno portato alla luce numerosi manufatti Taino e oggi si possono osservare i campi rettangolari e circolari, chiamati batey, dove gli indigeni vi praticavano le loro cerimonie e giocavano a un particolare gioco con la palla, chiamato, per l'appunto, batey.
Nel parco sono inoltre presenti un museo, nel quale si possono ammirare parte dei manufatti rinvenuti, e alcune fedeli ricostruzioni di capanne indigene in mezzo a una vegetazione composta da esemplari di Ceiba e altri alberi tipicamente locali.


giovedì 31 luglio 2025

EL SALVADOR - San Andrés

 

San Andrés è un sito archeologico pre-ispanico situato in El Salvador costruito dalla civiltà Maya. La zona venne occupata intorno al 900 a.C. da agricoltori, intorno alla odierna valle di Zapotitán del dipartimento La Libertad. Questa colonia venne depopolata intorno all'anno 250 a causa delle eruzioni del Lago Ilopango, venendo riabitata nel V secolo assieme ad altri siti della valle. Tra il 600 e il 900 San Andrés fu la capitale della signorìa maya, di una dinastia governante a capo delle altre città della regione.
Gli scavi effettuati hanno rivelato che la città aveva rapporti con Teotihuacan, e che riceveva merce da luoghi distanti come le zone dell'odierno Petén in Guatemala e del Belize. La caduta politica di San Andrés iniziò intorno all'XI secolo. Alcuni indizi ritrovati fanno risalire l'ultima occupazione della città tra il 900 e il 1200. Tra i segni vi sono dei frammenti di ceramica che illustrano sacrifici nello stile mixteco-puebla, che appartiene a una nuova fase culturale, detta Guazapa, associata alla città pre-ispanica di Cihuatán.
Dopo la conquista delle terre mesoamericane da parte degli spagnoli, le rovine di San Andrés rimasero all'interno di una proprietà coloniale adibita all'allevamento di bovini e alla produzione di índigo. A causa dell'eruzione del vulcano Playón, nel 1658 la città venne ricoperta dalla cenere e lasciò intatto l'indigo. Nel 1996, il governo di El Salvador inaugurò il parco archeologico San Andrés, dove i turisti possono ammirare il sito e il museo dedicato.

 

EL SALVADOR - Tazumal


Tazumal è un sito archeologico costruito dalla civiltà Maya situato a Chalchuapa, in El Salvador. Tazumal significa luogo in cui le vittime vengono bruciate in lingua Quiché.
Il sito si trova nel cuore del dipartimento di Santa Ana a 60 km dalla capitale San Salvador. La zona si trova all'interno dell'area archeologica di Chalchuapa, che si estende per circa 10 km² e dove si trovano altri siti come Pampe, Casa Blanca, Trapiche e Las Victorias. La zona di Chalchuapa subì influenze culturali da Copán e dai centri del Messico centrale, Teotihuacan e i Toltechi. Il sito di Tazumal possiede una serie di rovine, sede di insediamenti maya popolati tra il 100 e il 1200, e una serie complessa di sistemi di drenaggio per l'acqua, alcune tombe, piramidi, palazzi e oggetti rituali sepolti. Intorno al 900 vennero costruite strutture in stile tolteco. La città venne abbandonata intorno al 1200.
Le rovine di Tazumal sono considerate come le più importanti e meglio conservate della nazione. I manufatti ritrovati hanno fornito la prova dell'esistenza di una via del commercio tra la città e posti lontani come la zona del Messico e Panama.


EL SALVADOR - Cihuatán

  


Cihuatán è un sito archeologico precolombiano mesoamericano legato alla civiltà Maya e monumento archeologico nazionale che si trova nel territorio comunale di Aguilares, dipartimento di San Salvador, in El Salvador.
Storicamente fu una città di grandi dimensioni risalente al primo periodo postclassico, attorno all'anno 1000. Le indagini sul campo sono state realizzate a partire dagli anni ottanta del XX secolo e durante tali ricerce sul sito sono stati individuati oltre novecento tra edifici e altre strutture.
La città si sviluppava su due principali centri. Le opere di scavo e recupero hanno potuto individuare il centro orientale e il centro occidentale. Le strutture dei due centri sono particolari, di tipo pan-mesoamericano. Le strutture esterne e periferiche sono tipicamente maya.

EL SALVADOR - Casa Blanca

 

Casa Blanca è un sito archeologico precolombiano legato alla civiltà Maya che si trova a Chalchuapa, El Salvador. Le sue origini risalgono al 500 a.C. Il sito che conserva le rovine si trova nel territorio di Chalchuapa. Gli insediamenti portano tracce che mostrano legami con gli Olmechi le popolazioni di Teotihuacan. La zona divenne sito governativo nel 1977 e il nome venne ricavato dalla piantagione di caffè che vi si trovava. Le rovine si trovano a nord del sito di Tazumal e a nord-est di Chalchuapa a circa 700 m sul livello del mare. Delle numerose piramidi presenti solo due sono in buono stato di conservazione e sono state restaurate.


BELIZE - Lamanai

 

Lamanai (da Lama'an Ai, "coccodrillo sommerso" nella lingua Maya yucateca) è un sito archeologico costruito dalla civiltà Maya, situato in Belize nel distretto di Orange Walk. Il nome del sito ha origini precolombiane, registrato da missionari spagnoli nel XVI secolo e documentato mille anni prima sulle iscrizioni geroglifiche come Lam'an'ain. La zona di Lamanai venne occupata in epoche antiche. La città diventò un centro importante nel periodo pre-classico, dal IV secolo a.C. al I secolo, e continuò a venire occupata fino al XVII secolo. Durante le incursioni spagnole nello Yucatán vennero create due chiese cattoliche, tuttora ristrutturate periodicamente.
La maggior parte del sito non venne esaminata fino al 1975 circa. Gli scavi archeologici sono maggiormente concentrati sulle strutture più grandi, come il Tempio delle Maschere, la Struttura N10-9 Tempio delle Maschere del Giaguaro, e il Tempio Alto. La cima del Tempio Alto permette di vedere il paesaggio della giungla vicino a un lago, parte del fiume New. Una parte del Tempio del Giaguaro rimane sotto ad uno strato di arbusti e di giungla.
Una prima descrizione dettagliata delle rovine venne stilata nel 1917 da Thomas Gann. Gli scavi archeologici iniziarono nel 1974 sotto il comando di David M. Pendergast del Royal Ontario Museum, che continuarono a essere effettuati fino al 1988. Almeno fino al 2004 si sono svolti altri scavi, eseguiti da una squadra proveniente dai villaggi di Indian Church e San Carlos. Il progetto attuale è co-diretto dalla Dottoressa Elizabeth Graham (Institute of Archaeology, University College London) e dal Dottor Scott Simmons (Università della North Carolina di Wilmington). Dal 2006 le ricerche si sono svolte ponendo maggiore attenzione verso l'analisi dei manufatti.
Lamanai è accessibile ai turisti, con gite organizzate in barca sul fiume New a partire da Orange Walk Town. È presente un piccolo museo che mostra i manufatti dei Maya e fornisce un quadro storico della zona.


BELIZE - Altun Ha

 

Altun Ha è un sito archeologico costruito dalla civiltà Maya, situato nel distretto di Belize in Belize, a circa 50 km di distanza dalla città di Belize e a circa 10 km di distanza dalla costa del mare Caraibico. Il sito è aperto alle visite turistiche.
"Altun Ha" è un nome moderno della lingua maya, creato dalla traduzione del nome del villaggio Rockstone Pond. Il nome antico è sconosciuto. La più grande delle piramidi del sito, il "Tempio degli Altari Murati", è alto 16 metri.
Il sito si estende su un'area di 8 km quadrati e la zona centrale del sito ospita le rimanenze di 500 strutture. Le diverse esplorazioni del sito hanno rivelato che la zona di Altun iniziò ad essere popolata intorno al 200 a.C., e che la città ospitasse intorno a 10.000 persone nel suo periodo di maggior splendore. Intorno al 900 vi furono alcuni saccheggi e depredazioni delle tombe del sito, il che porta alcuni archeologi a pensare che fosse avvenuta una rivolta contro i governatori. Il sito rimase popolato per circa 100 anni più tardi ma senza che venissero costruite nuove strutture cerimoniali. Nel XII secolo il sito ricominciò a venire occupato più stabilmente, per poi diventare un semplice villaggio basato sull'agricoltura.
Le pietre delle rovine antiche vennero riutilizzate per costruire case nel villaggio di Rockstone Pond, ma il sito vero e proprio non venne scoperto dagli archeologi fino al 1963 quando il pilota e mayanista dilettante Hal Ball si accorse della sua presenza. Nel 1965 una squadra di archeologi condotta dal Dottor David Pendergast del Royal Ontario Museum iniziò a scavare e restaurare il sito, operazioni continuate fino al 1970. Tra le varie scoperte vi è un pezzo di giada pesante 5 kg intagliato finemente per rappresentare la testa del dio del sole dei Maya, Kinich Ahau. La testa di giada è considerata come uno dei tesori nazionali del Belize.


BELIZE - Cerros

 

Cerros è un sito archeologico della civiltà Maya situato in Belize, che raggiunse il massimo splendore durante il periodo Tardo Preclassico. Arrivò a contare una popolazione di circa 1.089 persone. Il sito si trova in una zona strategica, una penisola alla foce del New River. Gli abitanti costruirono un sistema di canali. Il nucleo del sito è formato di alcune grandi strutture e piramidi, una acropoli, e alcuni campi da gioco.
Dal periodo in cui venne costruito fino all'età Preclassica, intorno all 400 a.C., Cerros era un piccolo villaggio di contadini, pescatori e mercanti.  Coltivarono il suolo fertile e sfruttarono l'accesso al mare, mentre si producevano oggetti da vendere ad altra gente nella zona. Intorno al 50 a.C., con la crescita economica, iniziarono a sperimentare un programma di ricostruzione, erigendo templi e piazze..
La prima delle nuove costruzioni era la struttura 5C-2nd (nella foto a sinistra), che era diventata il pezzo di architettura più famoso al sito. Marcava il punto più a nord del sacro asse nord-sud del sito. Quando i re morivano, altri venivano eletti e si venivano a costruire altri templi in loro onore. L'ultima delle costruzioni più importanti al sito, la struttura 3A-prima, venne completata nel 100 d.C., e molte delle altre strutture sembra che fossero state abbandonate prima. Da allora ogni nuova costruzione era circoscritta alla zona residenziale esterna, in quanto la popolazione iniziò a diminuire di numero.
Cerros venne abbandonata completamente nel 400 d.C. La città rimase quasi del tutto indisturbata, finché Thomas Gann parlò dell'esistenza di alcuni tumuli vicino alla costa nel 1900, attirando l'attenzione degli archeologi per quella zona.
I lavori archeologici iniziarono intorno al 1973, quando il sito venne comprato dalla Metroplex Corporation di Dallas, per costruire un complesso turistico intorno al centro cerimoniale. Questi piani fallirono e il sito venne dato al governo del Belize. Nel 1974 l'archeologo David Freidel e la sua squadra determinarono che il sito risaliva al Tardo Preclassico. Negli anni 70, le ricerche continuarono quando il National Science Foundation fornì altro denaro per gli scavi. La squadra originale completò i propri scavi nel 1981.
Negli anni 90, Debra Walker e una squadra di archeologi iniziò una serie di scavi nuovi per capire cosa avesse causato il declino della città alla fine del periodo Tardo Preclassico. Oltre alla ricerca effettuata al sito, la squadra di Walker effettuò datazioni al carbonio sui monili trovati.


BELIZE - El Caracol

 

El Caracol o Caracol è un grande sito archeologico costruito dalla civiltà maya situato nel distretto di Cayo, in Belize. Caracol si trova a circa 25 miglia a sud di Xunantunich e San Ignacio Cayo, a 460 metri dal livello del mare, sulle colline dei monti Maya, circondato dal Parco nazionale di Chiquibul. Caracol significa chiocciola in spagnolo, il nome originale datogli dai Maya potrebbe essere stato Oxhuitza (pronuncia o-shu-itsa). È conosciuto come tale perché A. H. Anderson, il capo delle spedizioni archeologiche nell'Honduras Britannico, trovò molte chiocciole nel sito dopo la scoperta del 1937 da parte di Rosa Mai, una boscaiola. Il sito era già abitato nel 1200 a.C., ma il periodo più florido si ebbe nella età classica dei Maya, con oltre 40 monumenti datati tra il 485 e l'889 con relative documentazioni riguardanti le dinastie dei sovrani. Caana (il palazzo del cielo, foto in basso) è il monumento più grande di Caracol, e una delle strutture maggiori costruite dall'uomo nell'intero Belize.
La Caracol antica era una delle città maya più estese, coprendo 168 chilometri quadrati e ospitando una popolazione da 120 000 a 180 000 persone. Un monumento segnala la vittoria militare contro Tikal del 562, che mostra il Signore dell'Acqua di Caracol dopo aver catturato e sacrificato il Doppio Uccello di Tikal. Queste indicazioni archeologiche mostrano l'inizio della perdita di popolarità temporanea di Tikal come città centrale della regione e dello sviluppo di Caracol come potenza maggiore della zona.
Il sito venne scoperto nel 1937. L'Università della Pennsylvania condusse esplorazioni della zona e successive documentazioni vennero fatte nel 1951 e nel 1953. Un altro progetto di scavo è incominciato nel 1985, attualmente diretto dalle dottoresse Arlen e Diane Chase della Università della Florida Centrale. Il sito è gestito da guardiani locali del Belize Institute of Archaeology, una suddivisione del National Institute of Culture and History. Il sito attrae una media di 15-20 turisti al giorno, con picchi maggiori durante il periodo pasquale.

BELIZE - Cahal Pech

 

Cahal Pech è un sito della civiltà Maya situato vicino alla città di San Ignacio nel distretto di Cayo in Belize. Situato sopra una collina, il sito era sede del palazzo di una famiglia importante. Nonostante la sua struttura più importante risalga al Periodo Classico, il sito era già abitato nel 900 a.C., durante il periodo medio pre-classico e ciò fa di Cahal Pech uno dei più antichi siti maya del Belize occidentale. Il sito sovrasta le rive del fiume Macal, occupando una posizione strategica che permette la vista in direzione della confluenza del Macal con il fiume Mopan. Si sviluppa attorno a un'acropoli centrale ed è formato da 34 costruzioni. Il tempio più alto misura 25 metri. Il sito venne abbandonato nel IX secolo d.C. per ragioni sconosciute.
Cahal Pech, che significa “posto delle zecche”, fu chiamato così negli anni cinquanta, all'epoca dei primi studi archeologici sul sito incolto condotti da Linton Satterthwaite del Museo di archeologia e antropologia della University of Pennsylvania. Oggi è una riserva archeologica e ospita un piccolo museo di manufatti rinvenuti in occasione di scavi tuttora in corso.
Gli scavi preliminari iniziarono nel 1988. Il restauro fu completato nel 2000 sotto la guida del Professor Jaime Awe, direttore del NICH, l'Istituto nazionale di archeologia del Belize.
Nelle vicinanze si trovano anche i siti maya di Xunantunich e di Chaa Creek.

BELIZE - Xunantunich

 


Xunantunich (pronuncia sciù-nan-tùnic' ) è un sito archeologico costruito dalla civiltà Maya situato in Belize, a 130 km a ovest rispetto alla città di Belize, nel distretto di Cayo.
Xunantunich si trova sopra una elevazione presso il fiume Mopan, in vista del confine con il Guatemala. Il nome significa donna di pietra nella lingua Maya (combinazione di due termini dei dialetti Mopan e Yucateco); il nome originale antico è sconosciuto. La "donna di pietra" sarebbe il fantasma di una donna che diversi abitanti del posto credono abiti nel sito sin dal 1892, vestita di bianco e con occhi rosso fuoco. Compare di fronte al Castillo, sale le scale di pietra e scompare attraverso un muro.
Molte delle strutture furono costruite durante l'Età Classica dei Maya, tra il 200 e il 900. Alcune furono danneggiate da un terremoto, probabile causa dell'abbandono della zona.
Il nucleo di Xunantunich si estende per circa 2,6 km quadrati, ed è costituito da una serie di 6 plazas circondate da oltre 26 templi e palazzi. La piramide conosciuta come El Castillo è la seconda struttura più alta in Belize dopo il tempio di El Caracol: 40 metri. Scavi archeologici hanno riportato alla luce diverse facciate ricoperte di fregi dei templi antichi. Diverse prove dimostrano che il tempio fu costruito in tre fasi diverse nei secoli VII, VIII, e IX. I fregi furono scolpiti nell'ultima fase.
Le prime spedizioni moderne del sito furono condotte da Thomas Gann nel 1894 e nel 1895; altri progetti e scavi dal 1930 al 1990. Una delle stele meglio conservate è datata tra il 200 a.C. e il 150.. Su di essa è rappresentata una figura maya rivolta a sinistra.

mercoledì 30 luglio 2025

TUNISIA - Relitto di Mahdia

 

Il relitto di Mahdia è un sito archeologico subacqueo situato circa 5 km al largo della città tunisina di Mahdia, a metà strada tra le antiche città di Tapsus e di Sullecthum.
Il sito ha restituito i resti di un'antica nave mercantile greca naufragata nel I secolo a.C., che trasportava opere d'arte ed elementi architettonici. Lo studio del carico della nave è stato importante per comprendere meglio i gusti dei committenti e la circolazione delle opere.
Il sito fu scoperto casualmente agli inizi del XX secolo e fu scavato sistematicamente in diverse campagne dall'archeologo francese Alfred Merlin fino al 1913, quando gli scavi si arrestarono per mancanza di fondi. Insieme allo scavo del relitto di Anticitera, scoperto nell'anno 1900, ha costituito l'inizio della disciplina dell'archeologia subacquea.
La maggior parte delle opere d'arte rinvenute sono custodite presso il Museo nazionale del Bardo di Tunisi e solo poche sono custodite presso il locale Museo di Mahdia.
Il relitto era situato a 4,8 km al largo del capo Africa, a una profondità di 39–40 m, su un fondale piatto e sabbioso.
Fu scoperto casualmente nel 1907 da pescatori di spugne greci che lavoravano per un armatore di Sfax. Il tentativo compiuto dagli scopritori di vendere alcuni oggetti sottratti al relitto, attirò l'attenzione della Direzione delle antichità (poi l'Istitut national du patrimoine della Tunisia) e dell'archeologo francese Alfred Merlin che ne era a capo, il quale il 21 giugno informò della scoperta, per mezzo di un telegramma, l'Académie des inscriptions et belles-lettres.
L'Académie finanziò, con il supporto dei governi francese e tunisino e della fondazione Piot, sei campagne di scavo archeologico subacqueo (1907, 1908, 1909, 1910, 1911 e 1913), i cui resoconti furono pubblicati sulla rivista dell'Académie, Comptes rendus des séances de l'Académie des inscriptions et belles-lettres. Le operazioni furono condotte con il supporto del Ministero della marina, che mise a disposizione una nave dalla squadra di stanza a Bizerta. Le operazioni si svolsero con difficoltà, sia per ritrovare il relitto in base alle notizie fornite, sia per la profondità a cui erano costretti a lavorare i palombari con le attrezzature tecniche disponibili all'epoca. Gli scavi permettono di recuperare gran parte dei materiali, ad eccezione dei fusti di colonna, troppo pesanti. Alfred Merlin si preoccupa inoltre di raccogliere i dati relativi ai resti della nave. Louis Poinssot redige una pianta della disposizione dei materiali in base alle informazioni fornite dai palombari.
Negli anni 1930 era stata realizzata una presentazione dei materiali recuperati dal relitto nelle sale del Museo del Bardo.
Gli scavi furono ripresi solo nel 1948 dall'archeologo Antoine Poidebard, dal capitano Philippe Tailliez e dall'oceanografo Jacques-Yves Cousteau del "Gruppo di ricerca sottomarina" della Marine nationale francese, con l'appoggio della Direzione delle antichità, guidata dall'archeologo Gilbert Charles-Picard. La nuova spedizione poté avvalersi di nuove attrezzature per immersioni. Nonostante la difficoltà nel ritrovare il sito sommerso, fu possibile recuperare una quarantina di fusti di colonna. Della spedizione fu prodotto il documentario Carnet de plongèe, di Jacques-Yves Cousteau e Marcel Ichac, che fu presentato all'edizione del 1951 del Festival di Cannes.
Nel 1953-1954 fu condotta una nuova spedizione, guidata dall'ingegnere Guy de Frondeville del servizio delle miniere presso la Direzione generale dei lavori pubblici, che permise di recuperare gli altri fusti di colonna che ingombravano ancora il ponte della nave, in modo da poter accedere alle zone ancora non esplorate del carico. Nonostante le difficoltà furono recuperati altri fusti di colonna, capitelli e un tratto di circa 26 m di lunghezza della chiglia della nave, divisa in tre parti e portata al Museo nazionale del Bardo, grazie alla quale fu possibile proporre una ricostruzione della nave. La chiglia della nave tuttavia si è danneggiata per essere stata collocata dopo il recupero nel cortile del Museo senza adeguata protezione.
Le sale del Museo del Bardo che ospitavano gli oggetti rinvenuti nel relitto vennero chiuse dal 1984 in seguito ad un principio di incendio. Una campagna di restauro venne iniziata nel 1987 grazie alla collaborazione del Rheinisches Landesmuseum Bonn. Nel 1993 tunisini dell'l'Institut national du patrimoine e tedeschi del Rheinisches Landesmuseum Bonn e della Deutsche Gesellschaft zur Förderung der Unterwasserarchäologie collaborarono a due nuove campagne di scavo in maggio e in settembre, che hanno permesso di fotografare e rilevare il relitto e a rimontare dei campioni di legno con alcune parti dello scafo. I risultati del restauro e dei nuovi studi hanno permesso di esporre gli oggetti recuperati dal relitto in una grande mostra a Bonn (8 settembre 1994 - 29 gennaio 1995), dopo la quale sono ritornati al Museo del Bardo in un nuovo allestimento.
Il carico comprendeva sia elementi architettonici provenienti da cava e destinati ad un edificio in costruzione, sia sculture in marmo, prevalentemente marmo pario, e in bronzo, elementi di arredo in marmo per giardini e mobili in legno rivestiti di bronzo. Le sculture sono di natura eclettica e alcune opere hanno traccia di usi precedenti.
Gli oggetti in marmo sono stati molto danneggiati dai datteri di mare nella parte che non era stata ricoperta dai sedimenti, mentre gli oggetti in bronzo, la cui superficie era protetta da un accumulo di concrezioni, erano in migliore stato di conservazione.
Le sculture in marmo sono opera di officine neoattiche che hanno mescolato influssi di diversa provenienza, ed elementi tradizionali con caratteristiche più innovative. Alcune delle statue erano state realizzate dall'assemblaggio di diversi frammenti di marmo, sia per ragioni di economia, che per facilitare il trasporto. Alcune delle sculture non erano completamente finite.
Diversi frammenti che inizialmente erano stati considerati come parti di statue, sono in seguito stati riconosciuti come busti da inserire entro clipei o tondi, per la presenza di tenoni sul retro della testa e per la lavorazione della parte inferiore. Queste sculture erano destinate ad essere fissate sulle pareti di un santuario o di una casa privata. Uno di questi busti, doveva raffigurare Afrodite o Arianna e costituisce forse una copia da un originale in bronzo di scuola prassitelica, eseguita tra l'ultimo terzo del II secolo a.C. e la seconda metà del I secolo a.C.
Tra le altre sculture in marmo si possono citare una testa del dio Pan, appartenente ad un busto o a un'applique, un gruppo con i Niobidi, di cui si conservano le teste della madre e di due dei suoi figli, che forse reinterpretava con variazioni il gruppo degli Uffizi[8], una statua di Artemide cacciatrice, che trae ispirazione da un modello del IV secolo a.C. reinterpretato in forme ellenistiche. Quattro piccole statue di fanciulli seduti dovevano essere destinati, in coppie dalla posa contrapposta, alla decorazione di una fontana.
Sculture in bronzo[modifica | modifica wikitesto]
Le sculture in bronzo erano state realizzate con la tecnica a cera persa: in un'unica colata per le statuette più piccole e in pezzi separati poi riassemblati per le sculture di maggiori dimensioni. Per ottenere una particolare patina di colore nero simile allo smalto erano state utilizzate leghe particolari.
Un'erma con la testa di Dioniso in bronzo, datato al II secolo a.C. porta la firma del bronzista Boeto di Calcedonia, nome di diversi artisti discendenti probabilmente da quello ricordato da Plinio come autore del gruppo con il Fanciullo che strozza l'oca, noto da numerose repliche. La firma venne incisa sul modello in cera prima della colata. La testa raffinatamente arcaistica contrasta con la resa realistica della stoffa del copricapo. Nella parte bassa del pilastrino era stato collocato del piombo per rendere l'opera più stabile.
L'Agone o Eros è una scultura ricomposta da più frammenti che rappresenta un adolescente alato che sta collocandosi una corona sulla testa. È datato al 125 a.C. circa e proviene forse dalla medesima officina di Boeto di Calcedonia dell'erma di Dioniso.
Tra le altre sculture in bronzo si possono citare una statuetta di Eros citaredo, destinata ad essere appesa come ornamento, una statuetta di satiro in corsa, probabilmente creazione ellenistica databile all'ultimo quarto del II secolo a.C. e appartenente forse a una coppia in posa contrapposta, una statuetta di Hermes oratore con clamide e ali sulle caviglie, due statuette di Ermafrodito e di Eros androgino che potevano essere utilizzate come lampade ad olio e databili intorno al 100 a.C., due volti di Dioniso e Arianna, con occhi inseriti a parte in altri materiali, che dovevano ornare la prua di una nave o di una fontana, forse collocate in un luogo di culto del Pireo e datata al 120 a.C. circa.
Facevano parte del carico della nave anche delle statuette burlesche raffiguranti nani, un buffone e due danzatrici, alte tra i 30 e i 32 cm., e numerose piccole sculture in bronzo appartenenti alla decorazione di mobili o oggetti di arredo (attori, Eros, levrieri accucciati, busto di Nike e busto di Atena con elmo, e ancora pantere, grifoni, maschere teatrali, satiri, protomi di animali).
Sono stati ricostruiti mobili con armatura in bronzo reinserendo gli elementi in legno scomparsi: sulla nave erano presenti circa 20 letti tricliniari, probabilmente realizzati a Delo, con cifre greche incise come indicazioni all'interno dei pezzi da montare. La nave trasportava anche treppiedi e bracieri, uno dei quali con piedi dotati di ruote, specchi e lampade. La nave trasportava anche candelabri in bronzo, rinvenuti in frammenti, che permettono di ricostruire la presenza di almeno cinque esemplari, destinati a sorreggere lampade. Sono probabilmente databili alla fine del II secolo a.C.
Sono stati individuati inoltre cinque candelabri marmorei con fusti scanalati, alti circa 2 m., composti da frammenti in tre diverse qualità di marmo. Erano costituiti da una base triangolare con protomi di grifone agli angoli, un fusto a quattro sezioni e una coppa superiore sul quale era collocato un bruciaprofumi. Erano destinati ad essere dipinti con colori e dorature. Provengono da un'officina ateniese che produceva questi elementi di arredo in serie, tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C.
Una serie di altri elementi di arredo erano forse destinati alla decorazione di un giardino, ricostruito nel Museo nazionale del Bardo: tre crateri monumentali in marmo, decorati con un tiaso donisiaco e molto simili al vaso Borghese del Museo del Louvre, hanno potuto essere ricostruiti, ma la nave ne trasportava dodici esemplari. Sono stati datati tra gli inizi del I secolo a.C.
Sono anche stati rinvenuti diversi frammenti in osso che rivestivano un cofanetto.
Tra gli elementi architettonici sono stati rinvenuti circa 70 fusti di colonna monolitici in marmo. Non erano state ancora scanalate e i fusti, di altezze diverse, sono solo sbozzati e dovevano essere rifiniti sul luogo di impiego. I fusti erano disposti nella stiva della nave su sette file diseguali, per una lunghezza di circa 24 m. La maggior parte dei fusti è stata lasciata nel relitto, due sono conservati nel Museo di Mahdia e alcuni altri sono esposti nel Museo nazionale del Bardo.
Insieme ai fusti il carico comprendeva inoltre numerosi capitelli, sia dorici, sia ionici sia figurati con teste di grifoni, di produzione attica ad opera di due gruppi di artigiani e di misure maggiori di quelle di solito impiegate per questo tipo. Tutti i capitelli sono databili tra il 150 e il 50 a.C. Sono anche state rinvenute basi di tipo attico e alcuni elementi di cornici.
Nel carico erano comprese quattro grandi lastre di marmo con iscrizioni della seconda metà IV secolo a.C.. Due iscrizioni sono decreti che erano collocati nel santuario del Paralion al Pireo, una delle quali anteriore al 322-321 a.C., un'altra riguarda dei doni offerti al dio Ammone dagli Ateniesi e un quarto è un'iscrizione funebre di un personaggio di un demo ateniese. Alla stessa serie appartengono anche dei piccoli rilievi votivi che raffigurano divinità, uno dei quali precisamente datato da un'iscrizione al 363-362 a.C.
La prua della nave (modellino ricostruito) nel Museo del Bardoa costruita in legno di olmo e aveva una lunghezza di 40,6 m per una larghezza di 13,8 m. Il suo carico al momento dell'affondamento era di circa 200 tonnellate.
Il ponte della nave aveva circa 20 cm di spessore; ponte e scafo erano ricoperti di piombo e il fasciame era fissato con un gran numero di chiodi in bronzo. La stiva era suddivisa in più compartimenti da divisori verticali, i cui resti furono visti al momento delle prime campagne di scavo del 1907-1913.
La nave trasportava una pompa di sentina e cinque grandi ancore per un peso totale di 13 tonnellate, rinvenute in corrispondenza della prua, del tipo in uso nella metà del I secolo a.C..
Era dotata inoltre di due catapulte e di una Balestra (arma), che potevano tuttavia essere anche trasportate per reimpiegarne il metallo. Delle pietre grezze e frammenti di ceramica erano state caricate come zavorra e questa funzione potevano avere anche delle macine. La nave trasportava anche lingotti di piombo proveniente dalla Spagna
Il carico comprendeva delle anfore, di origine punica o iberica o italiche del secondo o terzo decennio del I secolo a.C. per i vettovagliamenti, alcune chiuse da sigilli in piombo, e della ceramica d'uso, tra cui ceramica a vernice nera. Delle ossa di animali hanno permesso di ipotizzare che la carne fresca per l'equipaggio fosse assicurata da animali vivi.
Dopo il naufragio lo scafo si è aperto per il peso dei fusti di colonna e il carico della stiva si è disteso, venendo in parte coperto dai sedimenti del piano di marea.
L'allestimento del Museo nazionale del Bardo ospita un modellino della nave ricostruita.
Nel 1909 il naufragio era stato datato da parte degli scopritori dopo la fine del II secolo a.C., sulla base principalmente del rinvenimento di una lucerna di un tipo prodotto solo in quest'epoca, nella quale si conservava ancora lo stoppino carbonizzato.
Secondo l'ipotesi maggiormente accettata il naufragio sarebbe avvenuto tra l'80 e il 70 a.C. Le opere d'arte trasportate sarebbero state realizzate tra il 150 e il cambio d'era.
La nave proveniva certamente dall'Attica e la sua destinazione doveva essere probabilmente l'elite senatoria romana: non è chiaro se si trattasse di un insieme di oggetti di varia provenienza da rivendere sul mercato, oppure degli oggetti acquistati da un unico per uno scopo preciso. In quest'epoca l'aristocrazia romana raccoglieva avidamente opere d'arte e di alto artigianato provenienti dalla Grecia, utilizzate per ornare gli edifici pubblici come manifestazione della propria potenza e ricchezza, o destinate a decorare giardini e spazi privati.
È stato ipotizzato che la nave potesse essere stata una di quelle che trasportavano a Roma il bottino saccheggiato da Silla dopo la presa di Atene dell'86 a.C.. La nave avrebbe deviato dalla propria rotta a seguito di una tempesta, che ne avrebbe causato inoltre l'affondamento, anche a causa delle difficoltà di manovra dovute al grande peso trasportato.


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