lunedì 9 giugno 2025

TURCHIA - Anazarbo

 


Anazarbo fu un'antica città della Cilicia, nell'attuale Turchia, posta nella pianura aleiana a 15 chilometri a occidente del corso principale del fiume Piramo, nei pressi del fiume immissario Sempas Su. L'acropoli sorge su un saliente isolato.
La città era di epoca pre-romana; sotto l'Impero romano assunse il nome di Cesarea (Caesarea) e divenne la metropoli della provincia della Cilicia Secunda.
Nel 525 fu ricostruita a seguito di un terremoto per volere dell'imperatore Giustino I, che le cambiò il nome in Giustinopoli (Justinopolis), ma l'antico nome nativo resistette e, quando Thoros I d'Armenia ne fece la capitale del Regno armeno di Cilicia, all'inizio del XII secolo, era nota come Anazarva.
Dioscoride di Anazarbo, Giuliano di Anazarbo e Oppiano di Anazarbo erano originari di questa città.


TURCHIA - Nicomedia

 

Nicomedia era un'antica città dell'Anatolia (dal greco Νικομήδεια, oggi la moderna İzmit in Turchia). Fu fondata attorno al 712/711 a.C. come colonia megarese con il nome di Astacus. Dopo la sua distruzione ad opera di Lisimaco fu ricostruita intorno al 264 a.C. dal re ellenistico Nicomede I, che le diede il nome. Nicomedia fu fondata nel 264 a.C. dal re Nicomede I, re di Bitinia, vicino al sito dell'antica città di Astacos, colonia di Megara, poi distrutta da Lisimaco. Qui Annibale trascorse i suoi ultimi anni (attorno al 183 a.C.), suicidandosi nei pressi di Libyssa (Gebze). Qui a Nicomedia si rifugiò Prusia II, re di Bitinia dal 181 a.C., il quale, dopo essersi scontrato tra il156 e il 154 a.C. con Attalo II, re di Pergamo, era stato costretto da Roma a rinunciare alle proprie conquiste, oltre a pagare un pesante tributo. A Nicomedia egli fu ucciso presso il tempio di Giove nel 149 a.C. dal figlio Nicomede II, che Prusia aveva tentato di escludere dalla successione. Nell'85 a.C. il consolare Lucio Valerio Flacco fu costretto a fuggire da Bisanzio ed a rinchiudersi a Nicomedia, dove poco dopo fu raggiunto dal rivoltoso Gaio Flavio Fimbria, il quale lo fece catturare e decapitare, gettando la sua testa in mare e lasciando il corpo senza sepoltura. Nel corso della terza guerra mitridatica, Mitridate VI si rifugiò nella città di Nicomedia con parte della flotta, mentre il generale romano Lucio Licinio Lucullo stava assediando Lampsaco (nel 73 a.C.). Sesto Pompeo dopo essere stato sconfitto nella battaglia di Nauloco dalle forze navali di Marco Vipsanio Agrippa, generale di Ottaviano, si rifugiò in Oriente, dove chiese aiuti finanziari e militari dalle città di Nicea e Nicomedia, ottenendoli (nel 36-35 a.C.).
Lo storico Arriano nacque in questa città. Nel 64 a.C. divenne capitale della provincia di Bitinia e Ponto. La città fu probabilmente visitata dall'Imperatore Marco Aurelio nel corso del suo viaggio in Oriente del 175-176, a seguito della ribellione di Avidio Cassio; dall'Imperatore Settimio Severo durante il periodo delle campagne partiche degli anni 197-198. Vi trascorse l'inverno del 214/215 l'imperatore Caracalla in vista delle campagne contro i Parti e pochi anni più tardi anche Elagabalo nel 218/219. Ancora potrebbe essere stata visitata dall'Imperatore Gordiano III durante il periodo delle campagne sasanidi degli anni 242-244.
Nel 256 una nuova invasione di Goti percorse il Mar Nero via mare, avanzando fino al lago di Fileatina (l'attuale Durusu) ad occidente di Bisanzio. Da qui proseguirono fin sotto le mura di Calcedonia. Molte altre importanti città della Bitinia, come Prusa, Apamea e Cio furono saccheggiate dalle armate gotiche, mentre Nicomedia e Nicea furono date alle fiamme. Pochi anni più tardi, nel 261-262, la città fu nuovamente devastata ed incendiata da un'invasione di armate gotiche.
Qui fu elevato al rango di Augusto, Diocleziano il 20 novembre del 284, tanto che lo stesso la scelse come una delle sue capitali del nuovo sistema tetrarchico della parte orientale dell'Impero per la sua posizione strategica, nelle vicinanze dello stretto dei Dardanelli e del Bosforo. E infatti sotto Diocleziano venne molto arricchita e nel 305 vi fu costruito un ippodromo, un anno dopo i Decennalia di regno. Nel 311 la città vide promulgare un editto di tolleranza verso i Cristiani. Tale editto concedeva una indulgenza ai Cristiani, ovvero i cittadini che avendo "assecondato un capriccio erano stati presi da follia e non obbedivano più alle antiche usanze". Il documento affermava che:
«in nome di tale indulgenza, essi farebbero bene a pregare il loro Dio per la Nostra salute, per quella della Repubblica e per la loro città, affinché la Repubblica possa continuare ad esistere ovunque integra e loro a vivere tranquilli nelle loro case.»
Il 25 luglio del 325 furono, invece, celebrati i Decennalia di Costantino I, in occasione dei suoi vent'anni di regno.
Perse il ruolo di centro dell'Impero nel 330, con il trasferimento della capitale a Costantinopoli, sebbene Costantino I morisse in una villa imperiale non molto distante da Nicomedia nel 337. Qui si trasferì Costanzo Gallo nel settembre del 354. Fu distrutta da un terremoto nella primavera del 357, pochi anni prima che qui vi facesse visita l'imperatore Flavio Claudio Giuliano (inizi del 362). Ecco come viene descritta la città e le sue rovine, dallo storico Ammiano Marcellino, contemporaneo agli eventi: «[...] dopo aver attraversato lo stretto [...] venne a Nicomedia, città famosa fin dall'antichità, che fu tanto ampliata dagli imperatori precedenti con un gran numero di edifici pubblici e privati, tanto da essere considerata da buoni giudici, come una delle regioni, per così dire, della Città Eterna. Quando [Giuliano] vide che le sue mura erano sprofondate in un mucchio di cenere pietose, mostrò la sua angoscia con lacrime silenziose e si diresse verso il palazzo imperiale con passo lento: in particolare, pianse sullo stato miserabile della città, perché il senato ed il popolo, che in precedenza era stato in una condizione più fiorente, gli andava incontro vestito a lutto. E alcuni di essi egli riconobbe, quando egli era stato portato in quella città, al tempo del vescovo Eusebio, di cui egli era lontano parente. Avendo anche qui, in un modo simile e generosamente [a ciò che aveva fatto in altre città], sistemate molte cose che erano necessarie per riparare i danni causati dal terremoto, si diresse verso Nicea.» (Ammiano Marcellino, Storie, XXII, 9.3-5.)
Poco dopo la città fu distrutta nuovamente da un altro terremoto il 2 dicembre del 362. Nel V secolo fu un centro dell'arianesimo. Della città antica oggi resta solo qualche rovina del Palazzo imperiale di Diocleziano, tracce dell'acquedotto, una fontana del II secolo e resti nelle vicinanze del porto.
Il 24 agosto del 358, un terribile terremoto provocò ampi danni alla città, a cui seguì un devastante incendio che ne completò la distruzione. Nicomedia fu ricostruita, anche se su scala più ridotta.
Nicomedia fu centro per la lavorazione del marmo bitinio e seppure tra le rovine, ci sono rimaste numerose testimonianze del periodo dioclezianeo e tetrarchico, come i bagni di Caracalla, ingranditi da Diocleziano quando elesse Nicomedia a sua capitale in Oriente. Fu inoltre costruito un circo, inaugurato un anno dopo i vicennalia di regno di Diocleziano (vent'anni, festeggiati il 20 novembre del 304), come ci racconta anche lo stesso Lattanzio: «[...] a Nicomedia c'era una basilica, un circo, una zecca, una fabbrica di armi, una casa per sua moglie e una per la figlia. Improvvisamente egli fece abbattere una gran parte della città.» (Lattanzio. De mortibus persecutorum, XVII, 4.)
Nel VI secolo, sotto l'imperatore Giustiniano, la città tornò ad essere ampliata con nuovi edifici pubblici. Posizionata sulla strada che conduceva alla capitale Costantinopoli, la città rimase un importante centro militare, giocando un ruolo importante nelle campagne tra l'Impero bizantino ed i vicini Arabi. Dall'840 in poi, Nicomedia divenne la capitale della thema Optimaton seppure la popolazione continuasse ad invecchiare e la città venisse gradualmente abbandonata, come viene descritto dal geografo arabo, Ibn Khordadbeh. L'insediamento andava così progressivamente restringendosi fino a limitarsi alla sola cittadella in collina. Nel 1080, la città servì come base militare ad Alessio I per le sue campagne contro il turchi Selgiuchidi, durante la prima e la seconda crociata. La città rimase nel possesso dell'Impero latino tra il 1204 ed il 1240, quando fu recuperato da Giovanni III Vatatze. Rimase così sotto il controllo dell'Impero bizantino per più di un secolo, ma dopo la sconfitta bizantina nella battaglia di Bafeo del 1302, rimase sotto la continua minaccia delle armate ottomane. La città fu assediata per due volte da parte degli Ottomani (nel 1304 e 1330) prima di soccombere definitivamente nel 1337.
Le rovine di Nicomedia sono sepolte sotto la moderna città densamente popolata di İzmit, cosa che ha ampiamente ostacolato lo scavo completo. Prima che si verificasse l'urbanizzazione del XX secolo, si potevano vedere rovine selezionate della città di epoca romana, in particolare sezioni delle mura difensive romane che circondavano la città e molteplici acquedotti che un tempo fornivano l'acqua di Nicomedia. Altri monumenti includono le fondamenta di un ninfeo in marmo del II secolo d.C. in via Istanbul, una grande cisterna nel cimitero ebraico della città e parti del muro del porto.
Il terremoto di İzmit del 1999, che ha seriamente danneggiato la maggior parte della città, ha portato anche a importanti scoperte dell'antica Nicomedia durante la successiva rimozione dei detriti. È stata scoperta una ricchezza di statue antiche, comprese le statue di Ercole, Atena, Diocleziano e Costantino.
Negli anni successivi al terremoto, la Direzione culturale provinciale di Izmit si è appropriata di piccole aree per lo scavo, tra cui il sito identificato come Palazzo di Diocleziano e un vicino teatro romano. Nell'aprile 2016 è stato avviato uno scavo più ampio del palazzo sotto la supervisione del Museo di Kocaeli, che ha stimato che il sito copre 60000 metri quadrati.


TURCHIA - Myra

 

Myra (o Mira) è un'antica città ellenica, nella Licia in Asia minore, oggi situata nei pressi di Demre (Kale fino al 2005), nell'attuale Turchia meridionale.
Era situata nella fertile pianura alluvionale del fiume Myros (oggi Demre Cay), a circa 3 km dal mare, ove sorgeva il porto chiamato Andriake.
È la città di cui fu vescovo san Nicola.
Le prime notizie sull'esistenza della città risalgono al VI secolo a.C., dove assieme alle città di Xanthos, Patara e Phaselis costituì una federazione di città stato, la confederazione licia. Secondo Strabone era una delle più importanti città di questa alleanza. Nel II secolo a.C. visse il suo periodo di maggiore splendore. Prospero centro commerciale in età romana, è ricordata come scalo nel viaggio che san Paolo intraprese verso Roma (Atti 27,5) e fu in gran parte ricostruita dopo un devastante terremoto nel 141.
Fu sede vescovile a partire dal IV secolo ed uno dei primi vescovi fu san Nicola, che si batté contro l'arianesimo e forse partecipò nel 325 al Concilio di Nicea. Divenne nel V secolo capoluogo della provincia bizantina di Licia.
Venne conquistata dagli Arabi per la prima volta nell'809, dalle truppe di Hārūn al-Rashīd dopo un lungo assedio. Da questo momento la città perse d'importanza ed iniziò un inesorabile declino.
Nel 1087 le spoglie di san Nicola vennero traslate a Bari e in questa città si trovano tuttora, deposte nella Basilica di San Nicola. Ritornata all'impero bizantino sotto Alessio I Comneno, passò poi definitivamente ai Selgiuchidi.
Patrona della città era Artemide, alla quale era dedicato il maggiore santuario, ma vi si veneravano anche Zeus, Atena e Tyche. Le rovine della città sono coperte da materiale alluvionale, ma sono stati parzialmente riportati alla luce il teatro romano (nella foto), ricostruito dopo il terremoto del 141, le terme e una basilica bizantina dell'VIII secolo dedicata a san Nicola.
La necropoli (foto in alto), collocata su una scogliera a strapiombo sul mare, conserva le facciate delle tombe scavate nella roccia, con colonne e frontone. Il primo ad investigare la città, l'archeologo inglese Charles Fellows (1799-1860), quando visitò le tombe nel corso della sua seconda spedizione nel 1840, le trovò ancora colorate a tinte vive: rosso, giallo e azzurro.



TURCHIA - Relitto di Uluburun

 Il relitto di Uluburun è un relitto dell'età del bronzo databile alla fine del XIV secolo a.C., scoperto al largo di Uluburun, a circa 10 km a sud-est di Kaş, in Turchia sud-occidentale. Il relitto fu visto la prima volta nell'estate del 1982 da Mehmed Çakir, un cercatore di spugne locale originario di Yalikavak, un villaggio nei pressi di Bodrum.
Dal 1984 al 1994 i susseguirono sul luogo undici campagne di recupero, ognuna delle quali lunga dai tre ai quattro mesi, per un totale di 22 413 immersioni, riuscendo a portare alla luce uno dei più spettacolari reperti dell'età del bronzo emersi dal mar Mediterraneo.
Il relitto fu scoperto nell'estate del 1982, quando Mehmet Çakir riportò a galla dei "biscotti metallici con le orecchie" riconosciuti poi come particolari lingotti dell'età del bronzo. I cercatori di spugne turchi venivano spesso contattati dall'Institute of Nautical Archaeology (INA) per poter identificare antichi relitti durante le loro immersioni. I ritrovamenti di Çakir allertarono Oğuz Alpözen, direttore del museo di Bodrum di Archeologia Subacquea, tanto da inviare una squadra di esplorazione per localizzare il relitto. La squadra riuscì a recuperare numerosi lingotti di rame a soli 50 metri dalla costa di Uluburun.
Grazie alle prove raccolte, si può ipotizzare che la nave fosse salpata da Cipro o da un porto in Siria o Palestina. La nave di Uluburun era senza dubbio diretta alla parte occidentale di Cipro, ma la sua destinazione finale può essere determinata solo dagli oggetti presenti a bordo al momento del naufragio. È stato quindi ipotizzato che fosse diretta a Rodi, al tempo un importante centro di smistamento per l'Egeo.
Peter Kuniholm della Cornell University fu incaricato della datazione dendrocronologica in modo da ottenere una datazione assoluta per la nave. I risultati hanno datato il legno al 1305 a.C., ma non essendo sopravvissuto nessun pezzo di legno è impossibile determinare con sicurezza l'esatta data, e si può ipotizzare che la nave sia affondata intorno a quella data. Basandosi sulle ceramiche ritrovate, sembra che la nave di Uluburun affondò verso la fine del periodo Amarna, e non prima del tempo di Nefertiti, visto che a bordo è stato trovato uno scarabeo in oro col suo nome. Sintetizzando, si ritiene che la nave sia affondata alla fine del XIV secolo a.C.
Gli oggetti a bordo della nave provengono da Europa e Africa settentrionale, dalla Sicilia e la Sardegna alla Mesopotamia, e sono stati prodotti da circa nove o dieci diverse culture. La presenza di questo carico indica che l'Egeo della tarda età del bronzo era impegnato in commerci internazionali anche col Vicino Oriente.
I resti dell'Uluburun e il contenuto del suo carico indicano che la nave era lunga tra i 15 e i 16 metri. Si sa che è stata costruita col metodo del "prima lo scafo" con giunzioni a tenone e mortasa in simili a quelli greco-romani dei secoli successivi.
Sebbene lo scafo sia stato dettagliatamente esaminato, non sono stati individuati reperti del suo telaio. La chiglia appare rudimentale, forse più una piattaforma che una vera e propria chiglia. La dendrocronologia ha permesso di stabilire che la nave fu costruita con tavole e chiglia in legno di cedro del Libano e quercia. Il cedro del Libano è un albero indigeno delle montagne del Libano, della Turchia meridionale e della parte centrale di Cipro. la nave trasportava 24 ancore di pietra. La pietra è di un tipo quasi completamente sconosciuto nell'Egeo, ma spesso utilizzata nelle mura dei templi siro-palestinesi e di Cipro. Rami secchi e sterpaglie servivano per proteggere lo scafo dal contatto con i metalli trasportati.
L'Institute of Nautical Archaeology (INA) iniziò gli scavi nel luglio del 1984, sotto la direzione prima del suo fondatore George F. Bass e poi del vicepresidente Cemal Pulak dal 1985 al 1994. Il relitto si trovava tra i 44 e i 52 metri di profondità su un piano roccioso in pendenza pieno di banchi di sabbia. Metà del personale che aiutò negli scavi era accampato nella parte sud-orientale del promontorio che fu probabilmente colpito dalla nave, mentre gli altri vivevano a bordo del Virazon, la nave di ricerca dell'INA in quel periodo. La mappatura del sito fu fatta tramite triangolazione con metri flessibili e quadrati di metallo per facilitare l'orientamento degli operai. Quando gli scavi furono completati nel settembre 1994, tutti gli sforzi si concentrarono sulla conservazione del relitto, sullo studio, e sulla raccolta di campioni per le analisi nel laboratorio dell'Istituto d'archeologia marina in Turchia.





TURCHIA - Šapinuwa

 


Šapinuwa (o Shapinuwa) fu una città ittita dell'età del bronzo che sorgeva nei presso della moderna città di Ortaköy nella provincia di Çorum in Turchia. Fu uno dei maggiori centri religiosi, amministrativi e militari ittiti ed occasionalmente residenza imperiale. Il palazzo di Sapinuwa è citato in numerosi testi ritrovati nella capitale dell'impero Ḫattuša. Ortaköy fu identificata come il sito dell'antica Sapinuwa durante una ispezione nel 1989 e l'università di Ankara ottenne rapidamente dal ministero della cultura turco il permesso di organizzare gli scavi archeologici, che iniziarono l'anno successivo. L'edificio A fu il primo portato alla luce e successivamente toccò all'edificio B nel 1995. L'edificio con la stele con il rilievo del guerriero e legno carbonizzato datato con radiocarbonio al XIV secolo a.C. fu scavato dopo il 2000.
L'edificio A, il palazzo con gli uffici amministrativi, è dotato di muri ciclopici ed al suo interno sono state ritrovate 3000 tavolette e frammenti. Queste erano conservate al piano superiore in tre separati archivi, che collassarono quando l'edificio venne incendiato.
A Kadilar Höyük, 150 metri a sudest dell'edificio A, l'"edificio B" (nella foto a sinistra) è risultato essere un deposito colmo di giare di terracotta ed anche qui furono ritrovate delle tavolette. In un altro edificio (edificio D) è stata ritrovata una stele con il rilievo di un guerriero, simile a quella di Tudhaliya IV a Yazılıkaya. Probabilmente rappresenta il dio Teshub.
Il numero di tavolette ritrovate nel sito (oltre 3500) è secondo solo a quello di Hattuša. Il fuoco che distrusse Sapinuwa danneggiò anche gli archivi e la maggior parte delle tavolette è in frammenti.
L'identificazione del sito come Sapinuwa ha corretto un malinteso nella geografia ittita. In base alle informazioni contenute negli archivi trovati a Hattuša, si pensava che Sapinuwa fosse una città in origine hurrita a sudest di Hattuša. Ora si sa che Sapinuwa (e quindi le città ad essa associate) si trovano a nordest di Hattuša.
Le tavolette ritrovate nell'edificio A sono in maggior parte in lingua ittita (1550), ma anche in lingua hurrita (600), accadico e lingua hattica. Sono state inoltre ritrovate tavolette con testi bilingui in ittita e hattico, ittita e hurrita ed ittita con una lingua ancora sconosciuta; altre tavolette contengono liste di vocaboli in ittita, sumero ed accadico e tavolette con geroglifici anatolici. I testi bilingui ed i vocabolari sono importanti per la conoscenza delle lingue anatoliche del periodo. I testi ittiti includono molte lettere. La lingua hurrita era principalmente usata per i rituali di purificazione chiamati itkalzi. Molte lettere sono collegate ad altre ritrovate nell'archivio di Maşat Höyük. Il dialetto ittita in questa corrispondenza è il medio ittita, ma il sito fu utilizzato anche nei secoli successivi I contenuti dei documenti ritrovati sono stati riassunti in: lettere, elenchi di persone, cataloghi, testi oracolari, preghiere, rituali e descrizioni di feste. Fra i cataloghi, molto interessanti sono i cataloghi di piante commestibili e medicinali
I testi ritrovati dimostrano che Sapinuwa era una seconda capitale durante il medio impero ittita (dal 1400 a.C.) in particolare durante il regno di Tudhaliya I/II che da qui incominciò la sua lotta contro Muwatalli I per la conquista del trono. Durante il regno di Tudhaliya III e la prima parte del regno di Šuppiluliuma I, durante una fase di debolezza dell'impero, la corte ittita si trasferì in questa città che divenne la capitale del regno per alcuni decenni. Sapinuwa era una delle più importanti se non la più importante città sacra ittita, qui si celebrava gli importanti riti di Itkalzi che avevano lo scopo di purificare la famiglia reale. Questi riti includevano varie diverse cerimonie che avevano il nome di agenti purificanti come l'acqua, l'olio, l'argento, i lapislazzuli e così via.
«Un esempio di cerimonia con il rito dell'acqua potrebbe essere il seguente: "Ed il sacrificante si lava. Ma quando si prepara per lavarsi il sacerdote, che porta acqua pura, li porta a lavarsi ... e quando il sacrificante ha finito di lavarsi, essi purificano quest'acqua in un vaso di bronzo o rame."»
(Aygul Süel, The religious significance and sacredness of the hittite capital city of Sapinuwa)
Da questa descrizione si può dedurre che questo rito veniva celebrato nel bacino posto al centro dell'edificio D. Il re e la regina ittiti si immergevano nel bacino, ora in rovina, di cui però resta il sistema di scarico dell'acqua. Questa cerimonia aveva un grande valore simbolico. Dietro al bacino era un muro di legno ora rivelato solo dalle tracce sull'intonaco bruciato.
Su una stele posta all'ingresso dell'edificio C è rappresentato il dio Teshub (foto a sinistra). Il dio, che veste l'armatura, è appoggiato contro una lancia ed accoglie con la mano sinistra chi entra nell'edificio.
Lancia e punte di lancia in bronzo con il titolo «Il grande re», un'armatura di bronzo, un elmo di bronzo e le impressioni dei sigilli reali, scoperti in un angolo di una stanza di questo edificio, ci hanno fornito ulteriori informazioni su questo rito. Una tavoletta d'argilla descrive questo rito eseguito da Daduhepa nell'occasione delle sue nozze con Tashmi-Sharri, il futuro Tudhaliya III. Considerata l'importanza della cultura hurrita per la famiglia reale ittita, non sorprende che molti nomi dei dipendenti palatini di Sapinuwa fossero hurriti. Gli hurriti erano infatti rinomati esperti di rituali religiosi e magici, come la sacerdotessa Alaiturahhi, siriana, i cui insegnamenti sono contenuti in alcune tavolette.
L'importanza strategica e religiosa di Sapinuwa è legata anche al sito in cui fu fondata: sopra un altopiano che domina la pianura sottostante di Amasya, e quindi facilmente difendibile, e vicino a 7 o addirittura 9 fonti di acqua limpida necessarie per i riti di purificazione. La città sorgeva anche in un punto chiave fra le pianure di Alaca e di Amasya, a due giorni di cammino da Hattuša.
Il dio delle tempeste di Sapinuwa veniva invocato alla pari del dio delle tempeste della città di Nerik. Dato che sia Hattuša al sud che Nerik più a nord erano città fondate dagli Hatti, è probabile che anche Sapinuwa sia stata fondata da quel popolo. Il nome della città allora potrebbe avere un significato religioso (sapi, dio, nuwa, città, perciò città degli dei). Gli Ittiti conquistarono la città nel XVII sec. a.C
Probabilmente furono i Kaska gli autori della distruzione della città nel XIV sec. a.C. La città non fu ricostruita e la corte ittita si trasferì a Samuha.

TURCHIA - Pozzo di Ḫattuša

 

Nell'antica capitale ittita Ḫattuša, presso l'attuale cittadina di Boğazkale (già Boğazköy) in Turchia, si trovano numerose opere idrauliche di adduzione e scarico delle acque, ivi incluse vasche di accumulo e un pozzo con camera sotterranea. La forma ricorda i pozzi sacri nuragici, con un vestibolo privo di sedili e una scalinata che conduce alla sorgente sotterranea contenuta in una camera sotterranea. Tuttavia la forma della camera è quadrata; essa non trova riscontro nei templi a pozzo sardi che hanno sempre camere circolari e sub circolari, ma alcune fonti sacre nuragiche hanno camere di forma quasi quadrata. Il portale di accesso alla camera, forma trapezoidale, è sormontato da uno spesso architrave. I primi cinque gradini della scala sono esterni al portale.
Il pozzo si trova nella città bassa sul lato sudoccidentale del tempio. L'architrave è decorato con un rilievo che rappresenta una figura umana con cappello rotondo, orecchini e la mano alzata davanti alla testa in un gesto di preghiera. Questa figura è probabilmente il Gran Re: di fronte a lui sono ancora visibili i resti di un altro personaggio che potrebbe essere interpretato come un dio di fronte al quale il Gran Re sta compiendo un gesto di adorazione.
Nei culti ittiti l'acqua aveva carattere sacro ed era considerata elemento di purificazione ed usata per riti lustrali. I testi ittiti rivelano il carattere sacro delle acque tramite culti attribuiti a sorgenti e fiumi. I luoghi dell'acqua sacra venivano anche usati per la divinazione. L'ordalia, prevista dalla legge ittita, veniva indicata dall'espressione "andare al fiume".


TURCHIA - Göbekli Tepe

 

Göbekli Tepe ("collina panciuta" in turco, Portasar in armeno, Xerabreşkê, "sacre rovine" in curdo) è un sito archeologico, situato a circa 18 km a Nordest dalla città di Şanlıurfa nell'odierna Turchia, presso il confine con la Siria, risalente forse all'inizio del Neolitico, (Neolitico preceramico A) o alla fine del Mesolitico.
Vi è stato rinvenuto un complesso di costruzioni in pietra datato al X millennio a.C.. La datazione sarebbe stata ricavata da un esame col metodo del carbonio-14 sullo stucco organico (composto da fango impastato con paglia e fibre di fogliame) che ricopre alcuni muri del sito. Esso potrebbe anche essere stato applicato, o riapplicato, in un momento successivo, anche a grande distanza di tempo dall'edificazione e, quindi, l'edificio potrebbe essere anche più antico; successivamente sono stati analizzati altri resti organici che hanno confermato le datazioni e in particolare si sono ottenute date dai vari reperti dal 9700 a.C. al 8200 a.C. . La sua costruzione avrebbe interessato centinaia di uomini in un arco fra tre o cinque secoli. Le più antiche testimonianze architettoniche note sono le ziqqurat sumere, datate 5.000 anni più tardi. Secondo i suoi fautori, è la più antica testimonianza di una antica civiltà, assieme al sito "gemello" Karahan Tepe.
La datazione al X millennio a.C. metterebbe in discussione la storia delle civiltà umane, così come finora conosciuta. Al 2023, il sito ospita infatti il più antico luogo di culto mai scoperto. Fino ad allora, si riteneva che la transizione verso l'agricoltura avesse segnato nel Neolitico il passaggio da una vita nomade a una vita stanziale e organizzata in gruppi; il sito attesta invece l'esistenza di una comunità orbitante intorno a un centro religioso in un'epoca antecedente alla transizione agricola.
I manufatti artistici, in pietra scolpita, rivoluzionerebbero la dottrina che definisce tale era come quella di popolazioni nomadi dedite alla caccia ed alla raccolta di frutti selvatici. Non si è ancora scoperto il modo in cui i blocchi di pietra, gli obelischi, i monoliti e soprattutto le figure in altorilievo possano essere state scolpite (la metallurgia ufficialmente è iniziata circa 5 millenni dopo). Né si ha un'idea precisa sul modo di trasporto dei giganteschi monoliti, estratti da una cava situata ad un chilometro di distanza; pertanto l'ipotesi ufficiale, che si basa sulle conoscenze che sono attualmente certe per quell'epoca, è che i blocchi siano stati scolpiti con utensili di pietra e trasportati facendoli rotolare su tronchi.
Inizialmente non si era trovata traccia di insediamenti umani nei pressi del sito, pertanto lo scopritore Klaus Schmidt aveva ipotizzato si trattasse di un luogo monumentale assimilabile ad un tempio. L'agricoltura, ritenuta indispensabile per superare il nomadismo, è sorta sì in questa area del mondo, ma sicuramente dopo la costruzione del sito. Pertanto resta tuttora inspiegato quali fossero le risorse utilizzate per l'edificazione, che avrebbe impiegato un gran numero di persone per un periodo di secoli.
Intorno all'8000 a.C. l'intero complesso, per motivi a oggi ancora sconosciuti, fu abbandonato. Secondo l'ipotesi iniziale di Schmidt, poi scartata in seguito a più recenti scoperte, fu deliberatamente occultato coprendolo con terra di riporto. Il sito, una collina in mezzo ad una vasta pianura, è oggi chiamata Göbekli Tepe che, in turco, significa "collina panciuta".
La stratigrafia ha inizialmente suggerito che il luogo fosse stato intenzionalmente riempito con terra di riporto, ossa di animali ed umane, frammenti di attrezzi in selce e suppellettili, ciottoli e materiale calcareo, per un ammontare di almeno 500 metri cubi. Un'ipotesi era che fosse stato interrato per proteggerlo, forse dai cambiamenti climatici, così da poter essere utilizzato dalle future generazioni, in quanto il sito non è stato abbattuto o smantellato, ma semplicemente "nascosto". In seguito il direttore dei lavori Lee Clare ha trovato indizi che suggeriscono possa essersi trattato di eventi naturali o catastrofici, come appare evidente in almeno due delle costruzioni finora portate alla luce, nelle quali si riscontrano segni di inondazione e frane.
Gli edifici scoperti inizialmente sono stati denominati con le lettere dell'alfabeto da A ad H, e gli edifici C e D infatti mostrano evidenze di frane e allagamenti con conseguenti riparazioni. Dal 2017 ad oggi sono state anche rinvenute decine di abitazioni domestiche, alcune piccole ma anche a due piani, circolari e rettangolari, con resti di magazzini, focolari, attrezzi in selce e persino un sistema di condutture per la distribuzione dell'acqua nelle abitazioni. Tutti gli edifici, sia monumentali che abitativi, nel corso dei due millenni in cui sono stati utilizzati mostrano un susseguirsi di modifiche, spostamenti di muri, aggiunte o sottrazioni di monoliti, riciclo degli stessi monoliti, cambiamenti di decorazioni e bassorilievi, riparazioni, demolizioni, rifacimenti dei pavimenti ed opere di ampliamento, evidenziando come il complesso abbia avuto una presenza umana continuativa per un lungo lasso di tempo.
Göbekli Tepe è costituita da una collina artificiale alta circa 15 m e con un diametro di circa 300 m, situata sul punto più alto di un'elevazione di forma allungata, che domina la regione circostante, tra la catena del Tauro e il Karaca Dağ e la valle dove si trova la città di Harran. Il sito avrebbe avuto un'estensione da 300 a 500 m².
Il sito fu scoperto nel 1963 da un gruppo di ricerca turco-statunitense, che notò diversi consistenti cumuli di frammenti di selce, segno di attività umana nell'età della pietra, ma fu superficialmente scambiato per un complesso funerario medievale.
Fu "riscoperto" trent'anni dopo da un pastore locale, che notò alcune pietre di strana foggia spuntare dal terreno. La notizia arrivò al responsabile del museo della città di Şanlıurfa, che contattò il ministero, il quale a sua volta si mise in contatto con la sede di Istanbul dell'Istituto archeologico germanico. Gli scavi furono iniziati nel 1995 da una missione congiunta del museo di Şanlıurfa e dell'Istituto archeologico germanico sotto la direzione di Klaus Schmidt, che dall'anno precedente stava lavorando in alcuni siti archeologici della regione. Nel 2006 i lavori passarono alle università tedesche di Heidelberg e di Karlsruhe.
Il sito archeologico è stato aperto alle visite del pubblico nel marzo del 2019.
Gli scavi misero in luce una costruzione monumentale megalitica, costituita da una collina artificiale delimitata da muri in pietra grezza a secco.
Furono inoltre rinvenuti inizialmente quattro recinti circolari, delimitati da pilastri in calcare pesanti oltre 15 tonnellate ciascuno, cavati, s'ipotizza, con l'utilizzo di strumenti in pietra. Secondo il direttore dello scavo le pietre a "T" più piccole, drizzate in piedi e disposte in circolo e decorate con bassorilievi di vari animali, motivi geometrici e altre scene dal significato oscuro, avrebbero simboleggiato culti sciamanici e riferimenti astronomici, mentre le due più grandi poste al centro di ogni circolo, con una stilizzazione antropomorfa (mani, braccia, testa e perizoma) sono state definite da Klaus Schmidt "i vigilanti". In seguito nel 2021 l'archeologo Lee Clare che ha preso l'eredità degli scavi di Schmidt dopo la sua morte, ha rivelato che nel sito ci sono ormai molte evidenze sia di sepolture che di edifici domestici, un sistema di cisterne per la raccolta di acqua piovana e oggetti che fanno scartare l'ipotesi che il sito sia stato solo un luogo di culto, ma qualcosa che rappresenterebbe l'apice della civiltà degli ultimi cacciatori-raccoglitori, una sorta di ultimo rifugio di quel modus vivendi che sarebbe poi scomparso con l'arrivo dell'agricoltura. Secondo lo studioso i monoliti antropomorfi sarebbero stati volutamente senza testa, poiché in alcune statuette, le teste e i volti erano ben rappresentati e quindi, se i costruttori avessero voluto, avrebbero potuto scolpirle. Ciò non sarebbe stato fatto perché queste "T" di pietra non avrebbero rappresentato uomini bensì narrazioni che, combinandosi con gli animali, forse avrebbero rappresentato miti da tramandare.
Un'altra interpretazione, più pratica e non ideologica, ipotizza invece che la particolare forma dei pilastri centrali avrebbe potuto sostenere una piattaforma il cui uso e la cui composizione restano sconosciuti.
Fino al maggio 2020, sono stati scavati 8 circoli di pietra tra loro vagamente simili, delimitati da imponenti colonnati di monoliti, di 6 metri di altezza e pesanti 15 tonnellate, ma prospezioni geologiche farebbero presumere che questi circoli di pietra siano presenti a centinaia nella zona.
Gli edifici scoperti hanno in maggioranza una pianta ovale, ma ce ne sono anche alcuni quadrangolari. Non hanno alcun orientamento geografico ed il numero e il posizionamento dei monoliti esterni non sembra seguire alcun ordine, monoliti che sono molto precisi e curati nei particolari.
Si è dedotto che le costruzioni avevano un tetto poiché non riportano segni d'intemperie e si ipotizza che tale tetto poggiasse sulle "T" più alte e che si accedesse al loro interno calandosi dal tetto, come era in uso in quell'epoca e come è stato scoperto in altri siti simili in quella zona della Turchia.
Dopo avere geometricamente calcolato il centro degli insediamenti B, C e D, i ricercatori israeliani Gil Haklay ed Avi Gopher dell'Università di Tel Aviv hanno scoperto che, unendo i tre punti centrali, si ottiene un triangolo equilatero. Inoltre hanno verificato che i punti centrali delle strutture cadono sempre tra la linea che congiunge i lati minori dei due pilastri centrali, presenti all'interno di tutti i circoli. Queste scoperte, se confermate, dimostrebbero le notevoli capacità ingegneristiche e matematiche di chi ha costruito il complesso.
Sono state riportate alla luce circa 40 pietre a forma di "T" con altezze comprese tra i 3 e i 6 metri. Per la maggior parte sono incise e vi sono raffigurati diversi animali (serpenti, anatre, gru,
tori, volpi, leoni, cinghiali, vacche, scorpioni, formiche). Alcune incisioni vennero volontariamente cancellate, forse per preparare la pietra a riceverne di nuove. Sono inoltre presenti elementi decorativi, come insiemi di punti, motivi geometrici ed animali selvaggi (coccodrilli ed altre fiere) in alto rilievo. Alcuni elementi, essendo ripetuti senza uno schema fisso, fanno balenare l'ipotesi che potrebbe trattarsi di una forma di scrittura.
Indagini geomagnetiche avrebbero indicato la presenza di almeno altre 250 pietre monolitiche ancora sepolte nel terreno.
Un'altra pietra a forma di "T", estratta solo a metà dalla cava, fu rinvenuta a circa 1 km dal sito. Misura circa 9 m di lunghezza ed era probabilmente destinata al complesso, ma forse una rottura costrinse ad abbandonare il lavoro. Dopo tale rinvenimento furono effettuati degli scavi sia a lato che sotto, allo scopo di cercare eventuali utensili, ma senza successo. Si scoprì invece, che sotto il monolite ce ne era uno ancora più grande, misurante circa 15 metri di lunghezza, anch'esso in fase di taglio.
Oltre alle pietre sono state trovate sculture in argilla isolate, molto rovinate dal tempo, che rappresentano probabilmente un cinghiale o una volpe. Confronti possono essere fatti con statue del medesimo tipo rinvenute nei siti di Nevalı Çori e di Nahal Hemar. Gli scultori dovettero svolgere la loro opera direttamente sull'altopiano del sito archeologico, dove sono state rinvenute anche pietre non terminate e cavità a forma di scodella nella roccia argillosa, secondo una tecnica già utilizzata durante l'epipaleolitico per ottenere argilla per le sculture o per il legante argilloso utilizzato nelle murature.
Nella roccia sono anche presenti raffigurazioni di forme falliche, che forse risalgono ad epoche successive, trovando confronti nella cultura sumera e mesopotamica (siti di Byblos, Nemrik, Helwan e Tell Aswad).
Molte scene raffigurate hanno significati ignoti, come ad esempio la stele #43 in cui, sulla parte superiore appaiono dei cigni, un avvoltoio con una sfera fra gli artigli e 3 oggetti che ricordano quelli che talvolta sono presenti in alcune raffigurazioni Mesopotamiche più tarde di vari millenni.
Le raffigurazioni di animali hanno permesso di ipotizzare un culto di tipo sciamanico, antecedente ai culti organizzati in pantheon di divinità delle culture sumera e mesopotamica.
Lo studio degli strati di detriti accumulati sul fondo del lago di Van in Anatolia ha prodotto importanti informazioni sui cambiamenti climatici del periodo, individuando una consistente crescita della temperatura intorno al 9500 a.C. I resti di pollini presenti nei sedimenti hanno permesso di ricostruire una flora composta da querce, ginepri e mandorli. Fu forse il cambiamento climatico a determinare una progressiva sedentarizzazione delle genti che avrebbero costruito il sito. All'inizio degli anni novanta del secolo scorso, è stato ipotizzato che lo sviluppo delle concezioni religiose avrebbe costituito una spinta alla sedentarizzazione, spingendo gli uomini a raggrupparsi per celebrare riti comunitari. Questa ipotesi ribaltava completamente la concezione secondo cui la religione si sarebbe sviluppata solo in seguito al formarsi di insediamenti stabili causati dalla nascita dell'agricoltura.
La presenza di una così grande struttura monumentale dimostrerebbe che, anche nell'ambito di un'economia di caccia e raccolta, i costruttori hanno posseduto mezzi sufficienti per erigere strutture monumentali. Secondo il primo direttore dello scavo, Schmidt, sarebbe stata proprio l'organizzazione sociale necessaria alla creazione di questa struttura a favorire uno sfruttamento pianificato delle risorse alimentari e di conseguenza lo sviluppo delle prime pratiche agricole, ribaltando quindi di nuovo ipotesi consolidate. Secondo il secondo direttore dello scavo, Clare, questo villaggio invece sarebbe il culmine della civiltà dei cacciatori-raccoglitori che si sarebbe poi esaurita nei 2 millenni seguenti. Il sito si trova nella regione della Mezzaluna fertile, dove era presente naturalmente il grano selvatico, che poi gli uomini addomesticarono dando vita ai primi esperimenti agricoli nei seguenti millenni.
Nessuna traccia di piante o animali domestici è stata rinvenuta negli scavi, dimostrando come sia stata un'opera costruita da cacciatori-raccoglitori. A circa quattro metri di profondità, ossia ad un livello corrispondente a quello della primigenia costruzione del sito, sono state rinvenute tracce di strumenti in pietra (raschiatoi e punte per frecce), insieme ad ossa di animali selvatici (gazzelle e lepri), semi di piante selvatiche e legno carbonizzato (focolari) ed alcune edificazioni domestiche, come pure un sistema di raccolta in cisterne e distribuzione di acqua attraverso canaline. Ciò testimonierebbe , assieme all'esistenza di sepolture (sotto il livello del pavimento delle abitazioni), la presenza in questo periodo di un insediamento stabile abitativo domestico.
Il primo direttore degli scavi, come proposta di tipo speculativo, ha lasciato intendere che la civiltà sviluppata nella provincia di Urfa, che avrebbe avuto qui uno dei suoi principali templi (definibile anche come archetipo di anfizionia, o "anfizionia dell'età della pietra"), sarebbe stata trasfigurata nel mito dei monti di Du-Ku della cosmogonia sumera. In questi monti avrebbero abitato le prime divinità, non dotate di nomi individuali, ma semplici spiriti, retaggio degli spiriti sciamanici. I Sumeri ritenevano che fu tramite essi che l'uomo avesse appreso l'agricoltura, l'allevamento e la tessitura e vi sarebbero indizi che almeno i primi due di questi elementi fossero forse comparsi in questa zona durante la costruzione del complesso megalitico). Lo studioso Lee Clare, che ha lavorato con Schmidt ed ora gli è succeduto dopo la sua morte nel 2014 come direzione del lavoro archeologico, invece spiega che, viste le attuali evidenze, l'ipotesi del "Tempio" abbia ormai perso l'aderenza con le prove archeologiche oggi disponibili; le evidenze rivelano infatti che potrebbe essere stato un luogo dove risiedeva una comunità di cacciatori-raccoglitori che legavano ambienti anche domestici con la loro mitologia .
Ian Hodder, del programma archeologico della Stanford University, è uno dei sostenitori dell'autenticità del sito.


TURCHIA - Arslantepe

 

Arslantepe, la "collina dei leoni", sorge nel villaggio di Orduzu, nella piana di Malatya nell'Anatolia Orientale, in un'oasi nella catena dell'Antitauro, a circa 15 chilometri dalla riva destra dell'Eufrate e a 6 chilometri dalla città moderna di Malatya.
Il sito di Arslantepe è un tell, una collina artificiale nata per il sovrapporsi di abitati ricostruiti sempre nello stesso punto per millenni; esso è stato occupato ininterrottamente a partire almeno dal V millennio a.C. fino all'età romana e bizantina.
I primi scavi furono condotti dall'archeologo francese L. Delaporte tra il 1932 e il 1939. Dopo il secondo conflitto mondiale le indagini furono riprese brevemente da Claude F. A. Schaeffer. A partire dal 1961 la Missione Archeologica Italiana in Anatolia Orientale ha condotto sistematiche campagne di scavo.
Notevole è la scoperta di un complesso palatino (Arslantepe IVa) datato alla fine del IV millennio a.C. Unico nel suo genere, esso si caratterizza per la presenza di almeno due aree templari, magazzini e dipinti. Nel palazzo sono state riesumate le più antiche spade mai ritrovate al mondo. Questo insediamento era forse il più settentrionale avamposto di Uruk e poco dopo fu conquistato, distrutto e ricostruito da una popolazione proveniente dal Caucaso, che ne fece la capitale di uno stato locale.
Il 26 luglio 2021 il sito archeologico di Arslantepe è diventato Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.

TURCHIA - Gonur Depe

 

Gonur Depe è un sito archeologico, datato nel periodo compreso tra il 2400 e il 1600 a.C., che si trova a circa 60 km a nord di Mary (l'antica Merv), in Turkmenistan, costituito da un grande insediamento della prima età del bronzo, il principale della Civiltà dell'Oxus. Il sito, oggetto si scavi e studi decennali, ha riportato alla luce una zona dove si trovava un complesso di palazzi, un'altra di tipo religioso che ruotava intorno ad un temenos dove si celebravano riti dedicati al fuoco, oltre ad alcune necropoli.

foto di Kenneth Garrett, da National Geographic

TURCHIA - Çatalhöyük

 

Çatalhöyük (spesso scritto Çatal Hüyük fuori dalla Turchia), fu un importante centro abitato di epoca neolitica, sito nella odierna provincia turca di Konya, ai margini meridionali dell'altopiano anatolico.
Il sito, ricostruito attraverso una sequenza di 18 livelli stratigrafici che vanno dal 7400 al 5700 a.C. circa, occupa una superficie di 13,5 ettari, dei quali solo il 5% è stato indagato con scavi archeologici.
Çatal Höyük è stata scoperta alla fine degli anni cinquanta del Novecento. L'archeologo inglese James Mellaart vi condusse campagne di scavo tra il 1961 ed il 1965. A partire dal 1993, ulteriori ricerche sono state condotte da Ian Hodder.
Dal 2012 il sito, che si trova a circa 50 chilometri a sudest della città di Konya ed è visitabile dai turisti, è riconosciuto dall'UNESCO come parte del "Patrimonio dell'umanità".
Il villaggio era costruito secondo una logica completamente diversa da quella moderna: le case erano monocellulari e addossate l'una all'altra; essendo poi di altezze diverse, ci si spostava passando da un tetto ad un altro e, per molte case, l'ingresso su quest'ultimo era l'unica apertura. La circolazione e gran parte delle attività domestiche avveniva dunque al livello delle terrazze. L'assenza di aperture verso l'esterno, nonché di porte a livello del terreno, difendeva la comunità dagli animali selvatici e da eventuali incursioni di popolazioni confinanti, anche se resta oscuro il livello di conflittualità tra le diverse comunità dell'epoca. Le sole vie d'accesso all'intero complesso erano scale che potevano facilmente essere ritirate in caso di pericolo.
A Çatalhöyük ogni abitazione era divisa in due stanze: quella più grande aveva al centro un focolare rotondo ed intorno dei sedili e delle piattaforme elevate per dormire, mentre in un angolo c'era un forno per cuocere il pane. La stanza più piccola era una dispensa per conservare il cibo. Tra una casa e l'altra c'erano dei cortili usati come stalle per capre e pecore. 
Circa un terzo delle case presenta stanze decorate e arredate apparentemente per scopi cultuali: sulle pareti, infatti, sono state rinvenute pitture e sculture di argilla che raffigurano teste di animali (qualcosa di analogo ai bucrani) e divinità (specialmente femminili, legate al culto domestico della fertilità e della generazione). Queste abitazioni non vanno pensate come santuari: il culto è ancora solo domestico e dà conto di una "ossessione simbolica", quella di un aggregato di umani che vivono a stretto contatto con i propri morti e che ha da tempo istintivamente associato penetrazione sessuale e sepoltura dei semi per l'agricoltura.
Gli abitanti di Çatal höyük seppellivano i propri morti, divisi per sesso, sotto le piattaforme usate come giacigli. I cadaveri, prima di essere sistemati sotto i giacigli, venivano esposti all'aperto in attesa che gli avvoltoi procedessero ad una completa scarnificazione, lo stesso sistema usato ancora oggi dai Parsi in India ed in Iran, dove i cadaveri sono depositati nelle cosiddette torri del silenzio.
Fra i ritrovamenti relativi alla cultura materiale sono da segnalare l'abbondante produzione ceramica (via via lustrata chiara, poi scura, poi ingubbiata di rosso, ma non ancora dipinta, come poi accadrà nel neolitico anatolico) e la raffinata industria litica, realizzata per il 90% in ossidiana, pietra vulcanica vetrosa di cui la regione è ricca e di cui è attestato un intenso commercio locale fin dall'epoca protostorica.
Lo schema economico di base è quello tipicamente agro-pastorale, ma si segnalano scelte ardite, quali quella di coltivare frumento invece che orzo e quella di allevare bovini invece che suini.



ARGENTINA - Cueva de las Manos

  La  Cueva de las Manos  (che in spagnolo significa Caverna delle Mani) è una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, 163 ...