lunedì 23 giugno 2025

BOTSWANA - Tsodilo

 


Tsodilo è un Patrimonio dell'umanità dell'UNESCO. Il sito archeologico è situato nella parte nord occidentale del Botswana nel Distretto Nordoccidentale, poco distante dal confine con la Namibia. Il sito archeologico si trova su un gruppo di colline, chiamate Tsodilo Hills, che si ergono improvvisamente dalle desolate pianure del Kalahari e che sono composte da quattro rilievi principali chiamati Male (il più elevato che raggiunge i 1.400 m s.l.m.), Female, Child e il quarto, quello meno elevato, è senza nome.
L'iscrizione avvenne nel 2001 ed è dovuta all'enorme significato spirituale e religioso per le popolazioni locali, nonché alle numerosissime testimonianze di insediamenti umani per un periodo di storia lungo almeno 100.000 anni. Infatti vi sono stati contati più di 4.500 esempi diversi di arte rupestre in un'area di circa 10 km² all'interno del Deserto del Kalahari, da cui il meritato soprannome di Louvre del deserto.
Le Tsodilo Hills sono sacre sia per la popolazione San che ritiene vi alloggino gli spiriti dei defunti che portano sfortuna a chiunque cacci o svolga attività violente nelle colline sia per la popolazione Hambukushu. Il particolare colore, ricco di striature rosse e arancioni, della quarzite che compone le colline e il fatto che si ergono solitarie in mezzo a una desolata pianura contribuisce alla suggestione del luogo.
Nelle colline si trovano numerose antiche miniere, vi veniva estratta l'ematite speculare usata nell'antichità come cosmetico, alcune di queste miniere sono ormai allagate da sorgenti sotterranee e anche le acque sono considerate sacre dalle popolazioni indigene.

MALAWI - Arte rupestre di Chongoni


L'Arte rupestre di Chongoni è un'area di Chongoni sulle omonime montagne a 2224 metri di altezza, situata nel distretto di Dedza, nella Regione Centrale del Malawi. È una concentrazione di pitture rupestri classificate come patrimonio dell'umanità dell'UNESCO dal 2006.
I 127 siti distribuiti su un'area di 126,4 km² rappresenta la più grande concentrazione di arte rupestre in Africa centrale. Fanno parte della tradizione tuttora esistente degli Chewa. Su questa parete rocciosa si possono distinguere due diversi stili.


Il più antico dei due è rappresentato da pitture rosse fatte dai pigmei della tribù Twa, e risalgono a 2500 anni fa. Rappresentano soprattutto figure astratte geometriche tipo alcune raggiere, cerchi concentrici, linee parallele, ecc. Differiscono da altri disegni raffiguranti la natura fatti da tribù di cacciatori-raccoglitori in Africa meridionale. Si crede che abbiano uno sfondo rituale, dovuto alla richiesta di piogge.
Le opere più recenti sono pitture bianche risalenti a circa 1000 anni fa. Si crede anche che alcune siano state fatte nei secoli XIX e XX dai Chewa. Sono uno dei pochi casi di arte rupestre in società dedite alla lavorazione del terreno. Le più vecchie di queste pitture mostrano probabilmente forme animali mitologiche, sono state dipinte da donne probabilmente durante i riti di iniziazione femminile.
Le ultime pitture in ordine cronologico rappresentano animali mascherati. Queste opere sono relative a riti funebri, operati particolarmente dai Chewa nel XIX secolo. Gli stessi riti vengono svolti anche al giorno d'oggi, ma la tradizione di rappresentarli graficamente è estinta.
Chongoni e le colline circostanti sono un'area protetta sin dal 1924. I primi studi sulle pitture vennero svolti e pubblicati in un libro negli anni cinquanta.

BURKINA FASO - Loropéni


Loropéni è un dipartimento del Burkina Faso classificato come comune, situato nella provincia di Poni, facente parte della Regione del Sud-Ovest. Il dipartimento si compone del capoluogo e di altri 69 villaggi.
Le rovine di Loropéni sono un sito archeologico situato nel dipartimento omonimo del Burkina Faso. Nel giugno del 2009 il sito è stato incluso fra i patrimoni dell'umanità dell'UNESCO per il suo valore culturale.
L'area dichiarata patrimonio dell'umanità UNESCO copre 1.113 ettari situati nell'area di Lobi, nei pressi dei confini del Burkina Faso con Costa d'Avorio, Ghana e Togo. Le rovine sono i resti delle mura in pietra di un imponente fortilizio che viene datato intorno alla fine del I millennio d.C. e che testimonia la presenza di una fiorente civiltà, probabilmente connessa al commercio trans-sahariano di oro. Tali mura costituiscono la parte meglio conservata di un più ampio complesso che comprendeva altre 9 fortezze e circa un centinaio di strutture minori in muratura.
Questa zona, tra il XIV secolo ed il XVII secolo, era abitata da popolazioni che estraevano e lavoravano l'oro, Koulango e Lokron. Buona parte è ancora da scavare.

BURKINA FASO - Antichi siti metallurgici del ferro

 

Gli antichi siti metallurgici del ferro del Burkina Faso sono un gruppo di antichi siti di metallurgia ubicati in cinque località nelle regioni del Nord e del Centro-Nord del Burkina Faso, utilizzati per estrarre il ferro dal minerale. Le più antiche di queste strutture risalgono all'incirca all'800 a.C., il che le rende i più antichi esempi conosciuti di metallurgia in Burkina Faso. Nel 2019, i siti sono stati registrati come Patrimonio dell'umanità dall'UNESCO, per le testimonianze esemplari dell'antica lavorazione dei metalli.
I cinque complessi di lavorazione dei metalli che costituiscono il Patrimonio dell'umanità si trovano intorno alle città di Douroula, Tiwêga, Yamané, Kindibo e Békuy. In tutto, ci sono 15 rovine di altoforno nei cinque siti, con forni più piccoli, miniere e abitazioni che li circondano. Gli altoforni raggiungono fino a cinque metri di altezza e sono a induzione diretta, richiedendo solo il flusso d'aria ambiente per funzionare. Gli altri forni più piccoli avrebbero richiesto l'uso di soffietti per fornire l'aria necessaria alla combustione. Mentre le grandi fornaci a tiraggio naturale si trovano solo in quelle regioni del Burkina Faso, le fornaci più piccole si trovano in tutto il paese.
Il sito di Tiwêga, situato a 5 chilometri a ovest di Kaya, contiene tre forni a induzione diretta costruiti a forma di tronco di cono. Sulla base di tradizioni orali, queste fornaci potrebbero essere state costruite tra il XV e il XVIII secolo, ed erano ancora in uso durante il periodo coloniale del Burkina Faso, anche se sono necessarie ulteriori ricerche archeologiche per datarle con precisione.
I siti di Yamané e Kindibo contengono anche forni più grandi costruiti in modo simile. Queste fornaci sono state datate rispettivamente al XIII-XIV e X-XI secolo. Le fornaci più piccole circostanti sono molto più recenti, essendo state costruite dopo il XV secolo.
Il sito di Békuy è insolito per la grande quantità di scorie accumulate, con cumuli, vicino alle rovine della fornace, che raggiungono un'altezza di 11 metri. Le fornaci di questo sito sono più antiche (500-400 a.C.) e sono parzialmente sotterranee, richiedendo l'uso di un mantice.
Le fornaci più antiche all'interno di questo gruppo si trovano nel sito di Douroula, con le opere in metallo risalenti all'VIII secolo a.C. Questo sito contiene la più antica testimonianza conosciuta di metallurgia del ferro in Burkina Faso.
Con l'invasione e la colonizzazione del Burkina Faso, nel 1890, da parte dei francesi, e la successiva costituzione della colonia dell'Alto Volta, l'uso di queste antiche fornaci decadde. Tuttavia, il ferro viene ancora estratto e lavorato nella regione.


NAMIBIA - Dama Bianca

 

La Dama Bianca (in inglese The White Lady, in tedesco Weisse Dame) è un celebre dipinto rupestre situato in Namibia, sui monti Brandberg, nella zona del Damaraland. L'archeologia moderna attribuisce in genere il dipinto ai boscimani (San), ma altri dettagli della sua origine non sono noti. In passato, la Dama Bianca ha suscitato molte controversie e sono state formulate numerose teorie contrastanti per spiegare la sua presenza nel Brandberg. Il dipinto si trova nel cuore del Massiccio Brandberg, grosso modo sulla strada fra Khorixas e Henties Bay, nei pressi della cittadina di Uis. Il sito è raggiungibile solo a piedi, al termine di un percorso di circa 40 minuti che segue una stretta valle nota come Gola di Tsisab (Tsisab Gorge).
Nel Brandberg si contano circa un migliaio di pareti rocciose dipinte, per un totale di oltre 45000 figure, soprattutto di uomini e animali. Il complesso pittorico della Dama Bianca si trova in una grotta chiamata "Maack Shelter" ("rifugio di Maack") dal nome del cartografo che per primo trovò il dipinto in epoca coloniale tedesca. Il complesso pittorico della Dama Bianca comprende numerosi soggetti, sia umani che animali (probabilmente orici) e misura approssimativamente 5,5 x 1,5 m. La "Dama Bianca" è la figura umana meglio delineata; misura 39,5 x 29 cm.
Si ritiene che il gruppo della Dama Bianca rappresenti complessivamente una danza rituale, e che la figura predominante - la "Dama" - sia in realtà uno sciamano. Lo sciamano indossa coperture decorative alle braccia, ai gomiti, alle ginocchia, al bacino e al petto, e forse anche un indumento decorativo al pene. In una mano regge un arco, e nell'altra quello che potrebbe essere un sonaglio o una specie di calice. Tutte le altre figure umane indossano qualche tipo di calzatura, e uno degli orici è stato rappresentato con gambe evidentemente umane. Un'altra interpretazione è che la Dama sia un giovane col corpo cosparso d'argilla bianca secondo una procedura rituale, forse connessa alla circoncisione.
I materiali usati per realizzare il dipinto sono probabilmente quelli tipici della pittura boscimane, ovvero principalmente polveri di pietra ferrosa ed ematite, ocra, carbone, manganese, e carbonato di calcio, miscelati con bianco d'uovo e altri liquidi di origine organica come aggreganti.
Tutto il complesso pittorico ha subito un notevole deterioramento dai tempi del suo ritrovamento. In passato, i turisti talvolta bagnavano la roccia per far risaltare meglio i colori nelle fotografie, e l'immagine si è rapidamente sbiadita. Oggi l'intero sito è un'area protetta, con lo status di "patrimonio nazionale" della Namibia, e può essere visitato solo insieme a guide autorizzate.
Il dipinto venne scoperto nel 1918 dall'esploratore e topografo tedesco Reinhard Maack, che stava cartografando il Brandberg per conto delle autorità coloniali tedesche. Maack fu impressionato dal disegno, e ne fece diverse copie, che in seguito inviò in Europa. Egli descrisse la figura con l'arco come un "guerriero", e annotò nei suoi appunti che "lo stile mediterraneo ed egizio di queste figure è sorprendente".
Nel 1929, gli appunti di Maack giunsero nelle mani dell'abate francese Henri Breuil, antropologo e archeologo (ricordato tra l'altro per i suoi ritrovamenti nelle grotte di Lascaux), che era in visita a Città del Capo. Sulla base dei disegni di Maack, Breuil osservò che il dipinto aveva forti analogie con alcune figure di atleti ritrovate a Cnosso, e suggerì che potesse essere opera di un gruppo di coloni provenienti dal Mediterraneo orientale. Fu ancora Breuil a interpretare il soggetto del dipinto come "dama", lettura da cui deriva il nome attuale con cui l'opera è nota. Breuil riuscì a visitare il sito nel 1945, e negli anni successivi pubblicò le sue osservazioni e congetture prima in Sudafrica e poi in Europa.
Il lavoro di Breuil diede origine a una serie di teorie che attribuivano il dipinto a una misteriosa presenza di popoli di origine europea o mediorientale in Namibia in tempi antichi. Alcuni autori sostennero in particolare che esso poteva risalire a un'antica colonia fenicia, teoria che è stata ripresa anche da autori recenti come lo storico zulu Credo Mutwa.
Nella seconda metà del XX secolo la maggior parte delle teorie sulle influenze mediterranee nello sviluppo dell'Africa subsahariana vennero gradualmente abbandonate. La paternità del dipinto della Dama Bianca venne quindi attribuita più semplicemente ai boscimani (che popolavano l'area fin dalla preistoria, e a cui erano già stati attribuiti in modo meno controverso gli altri dipinti del Brandberg e l'arte rupestre presente in altri siti del Damaraland, come Twyfelfontein).
Alle diverse teorie sulla paternità dell'opera sono state associate nel tempo ipotesi molto diverse sulla sua datazione. L'analisi cromatografica ha determinato che il dipinto è vecchio di almeno 1800 anni, in quanto risulta totalmente privo delle proteine originariamente presenti nei pigmenti utilizzati per dipingerlo.


NAMIBIA - Twyfelfontein

 

Twyfelfontein (in tedesco Zweifelbrunnen) è una valle della Namibia, situata nel Damaraland, circa 90 km a ovest di Khorixas. È nota per gli oltre 2000 dipinti rupestri e graffiti dell'età della pietra presenti sulle rocce di arenaria; il sito è stato dichiarato monumento nazionale nel 1952. Si ritiene che questi disegni siano stati fatti dagli antenati dei moderni San (Boscimani). La datazione è incerta, ma si pensa che i disegni più antichi possano avere più di mille anni. Rappresentano soprattutto scene di caccia a diversi animali (elefanti, leone, rinoceronti, giraffe, otarie e altri), molti dei quali sono rappresentati insieme alle loro impronte. Il paleontologo francese Henri Breuil ha definito questi disegni "paesaggi dell'anima".
I Damara che abitavano nella regione la chiamavano Uri-Ais, "sorgente saltellante". I primi coloni bianchi che provarono a insediarsi qui nel 1947 non trovarono la sorgente, e ribattezzarono il luogo Twyfelfontein, che significa "sorgente incerta".
La valle di Twyfelfontein è stata abitata, a partire da circa 6 000 anni fa, da gruppi di cacciatori-raccoglitori dell'età della pietra facenti parte della cultura di Wilton, i quali furono artefici di numerosi dipinti e incisioni rupestri. Tra i 2500 e i 2000 anni fa giunsero nella valle i Khoikhoi, un gruppo etnico correlato a quello dei Boscimani. Anche i Khoikhoi furono autori di incisioni rupestri che tuttavia si distinguono nettamente dalle opere precedenti.
La zona rimase ignorata dagli europei fino al periodo della seconda guerra mondiale quando, spinti da una grave siccità, vi si trasferirono alcuni agricoltori Boeri, popolazione di origini olandesi e di lingua afrikaans. Il territorio agricolo fu successivamente destinato negli anni settanta, durante il periodo dell'apartheid, a far parte del bantustan del Damaraland. I coloni bianchi lasciarono la valle a partire dal 1965.
Nel 1921 il topografo Reinhard Maack, lo scopritore del dipinto rupestre della Dama bianca nella zona del massiccio Brandberg, riportò la presenza di arte rupestre nella valle. Una ricerca più approfondita fu condotta solo dopo che David Levin studiò la possibilità di coltivare i luoghi nel 1947, riscoprendo la sorgendo ma incontrando numerose difficoltà per ottenere acqua sufficiente per la sua famiglia e le sue mandrie. 
L'incertezza della sorgente divenne una preoccupazione costante dell'agricoltore, tanto che per scherzo un amico di lingua afrikaans lo soprannominò David Twyfelfontein (David sorgente incerta). Quando nel 1958 David Levin comprò la terra e registrò la sua fattoria le diede il nome di Twyfelfontein.
Nel 1950 iniziò l'indagine scientifica sull'arte rupestre con una ricerca di Ernst Rudolph Scherz che descrisse oltre 2500 incisioni su roccia su 212 lastre di arenaria. Al 2007 si stimava che il sito contenesse più di 500 singole opere.
 
Twyfelfontein si trova nella valle dello Huab, nella regione montuosa del Monte Etjo, nella Regione del Kunene meridionale della Namibia, zona già conosciuta come Damaraland. Le rocce che contengono i graffiti si trovano in una valle affiancata dalle pendici di un altopiano di arenaria. Una falda acquifera sotterranea su uno strato impermeabile di roccia sedimentaria (shale) alimenta una sorgente in quest'area altrimenti molto arida. Il nome Twyfelfontein è attribuito sia alla sorgente che alla valle che a tutta l'area circostante, divenuta un'attrazione turistica, di cui fa parte anche la Foresta pietrificata di Khorixas.
L'area è una zona transitoria tra il semideserto, la savana e la macchia e riceve meno di 150 mm di precipitazioni annuali. Le temperature diurne variano da 10 a 28 °C nel mese invernale di luglio e da 21 a 35 °C nel mese estivo di novembre.
Twyfelfontein si trova 20 km a sud della strada principale C39 che collega Sesfontein a Khorixas.
L'area dei dipinti rupestri è costituita da quattordici siti più piccoli che Ernst-Rudolf Scherz ha descritto nella sua prima ricognizione. Questa suddivisione è ancora utilizzata per descrivere la posizione delle opere in Twyfelfontein.
Le arenarie di Twyfelfontein sono ricoperte dalla cosiddetta "vernice del deserto" o "patina del deserto", una dura patina di colore marrone o grigio scuro. Le incisioni sono state eseguite scavando attraverso questa patina, esponendo la roccia sottostante più chiara. Le incisioni sono state create nel corso di migliaia di anni, e quelle più antiche potrebbero avere un'età di 10.000 anni. La creazione di nuove opere probabilmente cessò con l'arrivo di tribù di pastori attorno all'anno 1000 dC.
Nel sito si possono distinguere tre diversi tipi di incisioni:
- immagini iconografiche (immagini di animali, esseri umani e creature fantastiche)
- pittogrammi (arte rupestre geometrica come segni circolari e file di punti)
- scanalature per o derivanti da usi quotidiani (grondaie, scacchiere, gong)
Inoltre a Twyfelfontein si trovano dipinti rupestri in 13 posizioni diverse, con raffigurazioni di esseri umani in ocra rossa in sei ripari rocciosi. La compresenza di incisioni e dipinti rupestri nello stesso sito è un evento relativamente raro e offre molti spunti alla comprensione delle interrelazioni tra le due forme d'arte.
I cacciatori-raccoglitori preistorici furono gli artefici dei dipinti e della maggior parte delle incisioni. Le incisioni rappresentano animali quali rinoceronti, elefanti, struzzi e giraffe, nonché raffigurazioni di impronte umane e di animali. Alcune delle figure, in particolare l'uomo-leone (Löwenplatte, sito 10) - un leone con una coda estremamente lunga e inclinata ad angolo retto terminante con una impronta a sei dita - rappresentano la trasformazione degli esseri umani in animali. Questa trasformazione e la rappresentazione degli animali insieme alle loro orme rendono probabile che essi siano stati creati come parte di riti sciamanici, mentre l'idea che queste figure rappresentino un tentativo dei loro autori di procacciarsi il cibo è ormai ritenuta semplicistica.
La restante parte delle incisioni, di forma geometrica e probabilmente raffigurante gruppi di pastori, è stata prodotta dai Khoikhoi, una popolazione dedita alla pastorizia arrivata nella valle tra i 2500 e 2000 anni or sono. Essi furono gli autori delle incisioni di carattere più pratico, come tavole da gioco e pietre per macinare; alcune rocce presentano segni di utilizzo come percussioni e colpendole emettono suoni musicali.
Il nome archeologico del sito è Twyfelfontein 534 ed è suddiviso in 15 siti minori, come descritto da Scherz nel 1975. Tra gli oggetti rinvenuti vi sono una varietà di utensili in pietra fatti principalmente di quarzite. Il tipo e la forma di questi strumenti indicano non solo l'utilizzo su roccia ma anche la prevalenza della lavorazione del legno e del cuoio. Oggetti artistici come ciondoli e perline di frammenti di gusci d'uovo di struzzo sono stati trovati in vari punti. Tra gli oggetti di uso quotidiano sono stati trovati frammenti di carbone, di ossa, oltre che di ceramica non decorata, anche se la ceramica potrebbe essere opera dei primi coltivatori piuttosto che dalla cultura dell'età della pietra che produsse l'arte rupestre. Il valore archeologico del sito non è comunque comparabile con la sua importanza come collezione di arte rupestre. I risultati degli studi archeologici sostengono l'origine sciamanica delle incisioni perché i resti di cibo provenienti dal sito si sono rivelati ossa di piccole antilopi, procavie e persino di lucertole piuttosto che delle grandi specie raffigurate.

NIGERIA - Nok

 
Nok erano un popolo nomade di cacciatori e guerrieri che si stanziò nel X secolo a.C. nel bacino del Niger, nell'odierna Nigeria. La loro civiltà fiorì fino al II secolo d.C. Alcuni studiosi pensano che essi abbiano cominciato a praticare la siderurgia nella seconda metà del primo millennio a.C., i primi in tutta l'Africa subsahariana. Non è chiaro come ebbe termine questa civiltà: pochissimi i reperti e nessun documento scritto tra questi. Le principali opere dei Nok che ci sono giunte sono sculture di terracotta, in particolare teste assai stilizzate che probabilmente rappresentano i loro dei; sulla base di questi ritrovamenti, la civiltà dei Nok viene chiamata anche cultura delle figurine di Nok.
Nok è un piccolo villaggio minerario al centro della Nigeria, dove nel 1928 per la prima volta furono ritrovate testimonianze di questa cultura. Non essendoci pervenute testimonianze scritte, il nome originale di tale civiltà rimane ignoto.
Reperti storici
Sebbene le vicende storiche che accompagnarono la civiltà Nok siano del tutto ignote, le poche testimonianze che ci hanno lasciato sono di notevole importanza per la storia
dell'Africa. Le testimonianze della loro produzione di terracotta e di manufatti in ferro sono motivo di acceso dibattito tra gli studiosi.
La testimonianza più significativa e caratterizzante della cultura Nok sono le relativamente numerose sculture ritrovate. L'area dei ritrovamenti di tali sculture è una porzione abbastanza vasta della Nigeria nordoccidentale, tuttavia quasi sicuramente questa diffusione non rappresenta la reale estensione dell'area occupata dal popolo Nok, che doveva essere minore. Infatti le sculture Nok sono state riusate, dopo la scomparsa dei loro artefici, fino in tempi recenti dalle popolazioni dell'area, ad esempio come oggetto di culto in santuari; è probabile che le più recenti arti figurative del regno del Benin e di Ife ne siano state influenzate. Le sculture in questione sono scodelle decorate a
motivi geometrici e semplici figure stilizzate rappresentanti vari soggetti, in particolare teste di dimensioni naturali, il cui scopo originale è ignoto, forse votivo o legato al culto dei morti. La maggior parte delle statuette e delle scodelle che sono state rinvenute sono incomplete o ridotte in frammenti.
La scoperta di quelle che sembrano fornaci per la fusione del ferro in due antichi siti Nok ha alimentato numerosi dibattiti nella comunità scientifica sulle reali origini della siderurgia africana. L'esatta cronologia dell'adozione del ferro è cruciale nella storia africana in quanto connessa all'espansione bantu. Pare che i Nok abbiano iniziato a fondere il ferro in relazione alla loro attività di cottura della creta intorno al 500 a.C., sebbene le testimonianze più concrete di questa attività siderurgica partano dal 350 a.C. circa. Esistono due scuole di pensiero principali su come si sia originata questa tecnica in Africa: quella diffusionista e quella autoctona; entrambe originatesi nei primi anni '50, poco dopo la scoperta di antiche fornaci nel bacino del Niger.
La teoria di Mauny ed il diffusionismo
Nel 1952 l'archeologo e storico dell'Africa francese Raymond
Mauny teorizzò che la tecnica siderurgica fosse arrivata nel bacino del Niger attraverso i berberi, dopo che essi l'ebbero appresa dai cartaginesi. Le varie teorie diffusioniste, che fanno arrivare la tecnica della forgiatura del ferro in Africa subsahariana dal Nord Africa o dal Medio Oriente, sono mosse da molteplici motivi: l'assenza di tecniche metallurgiche del rame o del bronzo antecedenti alla lavorazione del ferro, la difficoltà intrinseca della lavorazione del ferro, il fatto che tutti i più antichi nuclei della lavorazione del ferro nell'Africa subsahariana siano vicini al Sahara e quindi alle civiltà mediterranee e all'Egitto. Recenti scoperte hanno dimostrato che a Cartagine ci fu sin dalla sua fondazione una fiorente industria metallurgica e risulta probabile che gli antichi cartaginesi importassero il raro stagno dal bacino del Niger attraverso le antiche popolazioni berbere, quali i Getuli e i Garamanti. I Garamanti, siccome conoscevano l'uso del carro, sicuramente disponevano di tecniche metallurgiche che si sarebbero potute trasmettere alle popolazioni limitrofe, quali appunto i Nok. Oltre a Cartagine, altri possibili paesi di origine della
siderurgia Africana sono l'Egitto, attraverso la Nubia, e l'Arabia meridionale o l'India, attraverso l'Etiopia.

NIGERIA - Eredo di Sungbo

 


L'eredo di Sungbo è un sistema difensivo costituito da un fossato e da un muro di terra che circonda la città Yoruba di Ijebu Ode nello stato di Ogun della Nigeria sud-occidentale, che fu capitale del regno di Ijebu, uno dei regni Yoruba precedenti il periodo coloniale.
Si tratta di un'opera di dimensioni colossali, con una circonferenza di circa 160 km, e racchiude un'area di 40 km (in senso nord-sud) per 35 km (in senso est-ovest). In alcune sezioni il muro raggiunge un'altezza di 20 m.
Fu costruita intorno all'anno 1000 a scopi difensivi. Probabilmente si ispira a simili strutture nella Nigeria occidentale (Ile-Ife, Ilesa e Iya, nel Benin), che costituiscono un sistema di strutture difensive disposto su una lunghezza di circa 6.500 km. Si ritiene che avesse lo scopo di unificare l'area di diverse comunità in un singolo regno.
Una leggenda locale identifica l'opera con monumento eretto per preservare la memoria di una ricca regina, vedova e senza figli, di nome Bilikisu Sungbo, identificata con la regina di Saba (che nel Corano ha il nome di Bilqis): la sua tomba a Oke-Eiri, una città nell'area musulmana a nord, oggetto di pellegrinaggio da parte di cristiani e fedeli delle tradizionali religioni africane.
Il monumento venne studiato da Peter Lloyd alla fine degli anni cinquanta, e di nuovo, quarant'anni dopo da Patrick Darling, dell'università di Bournemouth.

NIGER - Gobero

 


Gobero è un sito archeologico situato nella parte occidentale del deserto del Ténéré, in Niger, sulle sponde di un paleolago scomparso, che ha restituito sepolture dell'Olocene.
Il sito venne identificato nel 2000 nel corso di una ricerca paleontologica nel Niger centrale e venne scavato nel 2005 e 2006 dal team multidisciplinare del "Gobero Archaeological Project", della National Geographic Society, che ha indagato 67 tombe di un sito con due fasi di occupazione, legate a periodi climatici umidi nel deserto del Sahara (Olocene antico e medio). Parallelamente sono stati indagati i depositi lacustri ad esso collegati.
La prima fase di occupazione, datata tra il 7700 e il 6200 a.C., ha restituito una necropoli con 17 sepolture, associate ad un insediamento stabile. La necropoli è riferibile ad una popolazione di cacciatori/pescatori e raccoglitori di alta statura, etnicamente simile alle popolazioni iberomaurusiane e capsiane del Maghreb e ai tipi umani mechtoidi del Mali e della Mauritania. Utilizzavano recipienti in ceramica e i manufatti mostrano affinità con la cultura kiffiana (dal sito di Adrar-n-Kiffi, presso Adrar Bous, a circa 500 km più a nord). I defunti venivano seppelliti in posizione flessa e supini.
Alla fine del periodo un innalzamento nel livello del lago sommerse il più antico insediamento e costrinse gli abitanti a spostarsi verosimilmente poco lontano. Successivamente, a seguito di un nuovo periodo arido, il lago si prosciugò e il sito venne abbandonato per circa un millennio.
Con il ritorno di condizioni climatiche umide, il paleolago si riformò, sebbene probabilmente più basso che in precedenza, e si ebbe una seconda fase di occupazione, datata tra il 5200 e il 2500 a.C., riferibile ad una popolazione di minore statura e meno robusta, che non sembra collegata ad alcun gruppo etnico noto del medio olocene.
I defunti erano sepolti in posizione semiflessa ed adagiati su uno dei fianchi e in alcuni casi presentavano un ridotto corredo funerario e ornamenti personali. Una donna adulta e due bambini, morti insieme, ma senza segni di traumi, vennero sepolti con le braccia e le gambe allacciati ed erano stati deposti su un letto di fiori dei quali si sono rinvenute le tracce dei pollini.
L'industria litica presenta i coltelli a disco, un tipico manufatto della cultura tenereana e come questa utilizzava una roccia verdastra a grana fine, per la quale era stato supposto un commercio a lunga distanza. La pietra è stata invece identificata dagli scopritori come felsite, una roccia vulcanica costituita da feldspato microcristallino, e la sua origine è stata riconosciuta in un sito di estrazione posto circa 160 km più a nord del Gobero, sul massiccio dell'Aïr (Alallaka wadi). Altri siti estrattivi dovevano probabilmente esistere nella stessa area.
Un insediamento stabile sembra testimoniato dalle numerose sepolture, spesso di individui molto giovani e dall'abbondanza di scorie della lavorazione della pietra.
La dieta era fortemente differenziata, forse in risposta a difficoltà climatiche, comprendendo molluschi, pesci e animali selvatici uccisi nella caccia, tra i quali tartarughe e coccodrilli. Erano presenti bovini addomesticati, che però non sembrano essere stati utilizzati per la carne. La raccolta di cereali doveva integrare l'alimentazione.
Con un nuovo periodo arido il lago dovette nuovamente prosciugarsi, causando la fine dell'occupazione stabile. Il sito fu tuttavia ancora frequentato fino in epoca storica da pastori nomadi.


NIGER - Bura

 

Bura è un sito archeologico situato nella regione di Tillabéri, dipartimento di Téra, nel Niger sudoccidentale. Deve il suo nome alla cultura di Bura che abitò questa zona nel I millennio. 
Il sito di Bura è composto da molte necropoli le cui bare sono sormontate da statuette di terra cotta. La principale necropoli ha un diametro di circa un chilometro. Tumuli funerari, altari religiosi ed antiche abitazioni sono sparsi su un'area molto vasta. Nel 1983 fu scavato un sito di 25 x 20 metri.
Dopo la scoperta del 1975 e gli scavi del 1983 effettuati presso il sito di Bura, ma soprattutto dopo che la mostra Bura-Asinda girò la Francia negli anni novanta, le antiche statuette in terracotta di Bura divennero molto preziose tra i collezionisti.
Le teste antropomorfe in argilla e pietra della cultura antica e medievale di Bura furono ricercate per la loro insolita astrazione e semplicità.
Questa domanda commerciale è stata seguita da un aumento del saccheggio e del contrabbando che ha colpito buona parte dei siti archeologici Bura. Secondo Le Monde il "90% dei siti Bura del Niger sono stati danneggiati" da saccheggiatori e vandali a partire dal 1994.
Altri manufatti Bura sono i grandi vasi funerari in terra cotta (sia tubolari che ovoidali) e numerose ceramiche funerarie. Gli 834 siti Bura della valle del fiume Niger, secondo l'UNESCO, hanno fornito le più antiche statue equestri in argilla.
Più recentemente, molte punte di lancia dell'età del ferro fatte con pesci topo sono entrate nei mercati dei collezionisti euro-americani.
Il sito fu proposto come nuovo patrimonio dell'umanità dell'UNESCO il 26 maggio 2006, per la sua importanza culturale.


domenica 22 giugno 2025

Sardegna - Museo archeologico nazionale "G. Asproni" di Nuoro

 


Il museo archeologico nazionale "G. Asproni" è un museo archeologico nel centro storico di Nuoro, nei pressi della Cattedrale di Santa Maria. Ha sede in un palazzo ottocentesco appartenuto a Giorgio Asproni, politico e intellettuale sardo del XIX secolo.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale della Sardegna, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
L'esposizione comprende reperti provenienti dal territorio della provincia storica di Nuoro, pertinenti a un arco cronologico compreso tra il Paleolitico e il Medioevo. Il materiale più consistente è relativo all'età nuragica. L'allestimento ha un'impronta fortemente didattica, con riproduzioni di alcuni monumenti (per esempio Sa Sedda 'e sos Carros di Oliena), da cui provengono gli oggetti scavati. Attualmente l'esposizione si sviluppa al piano terra, mentre sono ancora in fase di allestimento i piani superiori.
La prima sala del museo espone reperti paleontologici relativi ad alcuni degli animali che popolavano la Sardegna nel Pleistocene. Tra questi, spiccano i resti di animali oggi non più presenti in Europa, come alcune specie di scimmie o di iene. La maggior parte dei rinvenimenti proviene dagli scavi del Monte Tuttavista di Orosei e da grotte del territorio di Oliena.
I materiali più antichi sono costituiti da pietre scheggiate del paleolitico. È poi presente una selezione di materiali soprattutto in ceramica relativi alle varie fasi della preistoria della Sardegna. All'età del bronzo antico si data lo scheletro di Sisaia, una donna che fu sepolta individualmente con un rituale differente rispetto a quello collettivo prevalente, il cui cranio presenta i segni di una trapanazione avvenuta probabilmente per motivi magico-religiosi a cui la donna era poi sopravvissuta, come mostrato dalla perfetta saldatura della rondella ossea rimossa e poi riposizionata.
La fase nuragica è quella a cui il museo archeologico di Nuoro dedica maggior spazio, esponendo alcuni dei reperti più importanti. Sul piano tematico, l'esposizione privilegia i materiali provenienti dai luoghi di culto caratterizzati dalla presenza rituale di acqua (templi a pozzo e fonti sacre). Tra le altre cose, si segnalano come punti di forza dell'esposizione una vasta collezione di bronzetti nuragici, la ricostruzione di parte del complesso di Sa Sedda 'e Sos Carros di Oliena, e alcuni dei conci decorati del nuraghe Nurdole di Orani.
All'età ellenistica è dedicato uno spazio ridotto, ma sono comunque presenti elementi di pregio, come frammenti di ceramica decorata proveniente dalla Grecia o dalla Puglia.
La romanizzazione del territorio è rappresentata da un campionario delle più diffuse forme e produzioni di ceramica e anfore di età romana, ma sono anche presenti epigrafi e un diploma militare, cioè un attestato di congedo di un soldato che aveva servito nell'esercito romano al tempo dell'imperatore Traiano.
Un'ultima vetrina presenta alcuni frammenti di ceramica medievale e postmedievale, provenienti dall'area del castello di Posada.


Sardegna - Museo Archeologico Nazionale "Antiquarium Turritano"

 


Il Museo Archeologico Nazionale "Antiquarium Turritano" è un museo archeologico di Porto Torres.
Inaugurato nel 1984, dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale della Sardegna, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.Il percorso espositivo è articolato su due piani: al piano terra sono esposti principalmente materiali provenienti dalle necropoli messe in luce in area urbana, una sezione dedicata alla statuaria e una subacquea. Al piano superiore sono invece esposti i reperti provenienti dalle terme centrali, la sezione dei marmi e inoltre la collezione comunale, messa insieme dal signor Emilio Paglietti tra Ottocento e Novecento. Questa comprende reperti che coprono un arco cronologico molto vario, non tutti provenienti dal territorio di Porto Torres.

Sardegna - Civico Museo Archeologico di Ozieri

 
Il Civico Museo Archeologico "Alle Clarisse" di Ozieri è uno dei musei più importanti del Nord Sardegna. Dal 2003 è stato trasferito presso i locali dell’ex convento delle Clarisse. Nelle sue vetrine sono presenti i reperti più significativi ritrovati nel territorio comunale di Ozieri: materiali esposti sono datati a partire dalla preistoria all’età moderna. ((nella foto, Dea Madre, Neolitico medio 3500-4500 a.C., sala I)
Il Civico Museo Archeologico, inaugurato nel 1985 in un convento francescano del XVI secolo, si sposta nel 2003 nel settecentesco ex convento delle Recoletas de Santa Clara, appositamente restaurato e ristrutturato. Il convento, istituito ufficialmente nel 1753 per ospitare le Clarisse di Tempio, fu invece occupato dalle monache di Orosei, a causa dell'indigenza in cui versavano. A causa della legge Ratazzi, nel 1889 l’edificio fu requisito per ospitare i militari che vi insediarono la caserma Pietro Micca. Nel 1953 i militari lasciarono l’edificio e l’anno successivo una parte fu donata alla chiesa, mentre l’altra parte, rimasta in proprietà al Comune, fu utilizzata per attività scolastiche e sociali e divenne infine casa popolare. In seguito al finanziamento regionale ed europeo per il recupero di edifici monumentali fu possibile restaurare l’edificio, il quale, terminato nel 2002, divenne la nuova sede del Civico Museo Archeologico di Ozieri e per questo denominato “Alle Clarisse”. L’ingresso originario era situato in via Azuni ed introduceva a tre ambienti voltati, collegati fra loro e con un ampio corridoio anch’esso voltato.
I militari spostarono l’ingresso esattamente al lato opposto: rinforzarono le antiche mura spagnole trasformandole negli attuali bastioni e realizzarono un terrapieno che divenne la piazza d’armi, realizzarono una gradinata in granito che divenne l’ingresso principale della struttura e aggiunsero un piano superiore su una parte della struttura, che infatti si differenzia dall’altra parte perché coperto da una capriata di legno in stile piemontese.
Percorso espositivo

Esterno: Cortile – Nel cortile è sistemato un piccolo lapidario, che accoglie una stele centinata di tomba di giganti, i bacili nuragici e l’architrave della chiesa campestre di S. Luca.

Primo piano:

SALA I: La preistoria – Al Neolitico Medio (4.900 – 4.400 a.C.) si riferiscono ceramiche, una dea madre in osso, un anellone, dai siti Bariles, Baldosa e Bisarcio. IL Neolitico Recente Sardo (4.100 – 3.500 a.C.), caratterizzato principalmente dalla Cultura di San Michele o di Ozieri, è rappresentato da materiali provenienti soprattutto dalla grotta omonima e da quella contigua di Mara, che restituiscono un panorama delle fantasiose ceramiche del periodo appartenenti sia all’orizzonte del Neolitico Recente S. Ciriaco, che alla fase classica Ozieri del Neolitico finale, fra tutte la famosa Pisside, e dal primo Eneolitico Sub – Ozieri. (nella foto, Pisside della cultura di Ozieri, Neolitico recente sardo)

SALA II: La civiltà nuragica – Dedicata al territorio durante la civiltà Nuragica (1.850 – 238 a.C.), che abbraccia l’età del Bronzo e del Ferro, fino all’età romana. La presenza di giacimenti metalliferi e risorse agropastorali e il loro sfruttamento causarono una importante frequentazione del territorio testimoniata oggi da 123 nuraghi e altri monumenti dell’epoca. Le ceramiche, fra cui bracieri, bollitoi, askòs, pesi da telaio e fusaiole, gli utensili in pietra, come mortai, lisciatoi, macine e conci mammellari parlano di attività diversificate. Il lingotto egeo - cipriota di Bisarcio, e altri ritrovamenti costituiti da oggetti in metallo documentano l’importanza del territorio, inserito al centro di vie di comunicazione già nell’età preistorica. (nella foto, Lingotto egeo cipriota in rame, da Bisarcio)

SALA III: L’età fenicio - punica e romana – I ritrovamenti di età fenicio - punica nel territorio sono sporadici e costituiti da monete e pochi frammenti ceramici. I restanti reperti esposti nella sala provengono da stanziamenti e costruzioni di epoca romana, che segna una riduzione nel numero di abitanti, alcuni in continuità con i precedenti, altri di nuovo impianto ed estranei a modelli locali. Importanti documenti epigrafici sono la stele di Ferentius da Cuzi e due miliari, che insieme ai tre ponti sul Rio Mannu qualificano il territorio come luogo di transito importante e di collegamento fra Turris e Olbia nella direttrice che da Cagliari raggiungeva il porto sul Tirreno. Sono inoltre esposti materiali da stipe votiva, un busto di Sarda Ceres, balsamari, reperti vitrei, cinerari da necropoli, in particolare da Bisarcio, Punta ‘e Navole, Sa Mandra ‘e sa Jua e Ruinas. (nella foto, Olpe punica)

SALA IV: Sezione medioevale – L’epoca bizantina e altomedievale è illustrata dagli anelli a castone piramidale, fibbie, orecchini, fibule provenienti da Bisarcio nonché dagli orli e dalle pareti di grandi ziri provenienti da varie località, perché sopravvissuti fino al ‘600 e ‘700; sono esposti anche frammenti di maiolica arcaica pisana, lustri catalani, valenciani e altre ceramiche autoctone e provenienti dalla penisola. Trovano posto qui anche oggetti in osso e avorio di uso apotropaico. (nella foto, fibbie alto-medioevali)

Secondo piano:

SEZIONE NUMISMATICA: La collezione numismatica conta circa seimila monete confluite da numerosi ripostigli e ritrovamenti. La collezione, divisa in quattro sale, spazia dalle monete greche e puniche fino alle monete di epoca sabauda, a dimostrazione della continuità di frequentazione del territorio nei secoli. (nella foto, monete romane, bizantine e medievali)

SEZIONE ETNOGRAFICA: La sezione etnografica è costituita dal materiale proveniente da donazioni private (a sinistra, foto della sala donazioni). La collezione Bandini, è costituita da ritratti e oggetti personali del magistrato Pietro Cosseddu - Virdis e della nobildonna Annetta de Raimondi. La donazione Marinelli è anch'essa composta da ritratti e altri oggetti appartenuti al generale Giannino Baroncelli. La collezione Gallisay - Carta raccoglie spartiti, manoscritti autografi e stampe del musicista Priamo Gallisay. La collezione Manchia è invece costituita da abiti tradizioniali, databili ai primi anni del novecento.


Sardegna - Museo archeologico di Villa Sulcis, Carbonia

 


Il museo archeologico di Villa Sulcis è un museo archeologico facente parte del sistema museale di Carbonia. È situato dal 1988 all'interno di Villa Sulcis, che negli anni 1930 era la residenza del direttore delle miniere di Carbonia, ed è stato ampliato e rinnovato nel 2008.
I materiali esposti, provenienti da diverse località del Sulcis, sono datati a partire dal periodo preistorico sino all'epoca bizantina. Tra i reperti esposti nel museo si segnalano quelli del riparo sotto roccia preistorico (mesolitico e neolitico) di Su Carroppu di Sirri, delle necropoli a domus de janas di Monte Crobu, Cannas di Sotto e di Is Locci Santus, che hanno restituito importanti testimonianze della Sardegna prenuragica, e dell'area archeologica di Monte Sirai e dell'omonimo nuraghe.
Nel museo si trovano tre sale.
La Sala del Territorio riguarda l’intero comprensorio: da Su Carroppu di Sirri a Monte Crobu, da San Giovanni Suergiu a Su Fussu tundu di Santadi, dal Nuraghe Sirai al tempio di Bagoi a Narcao.
Qui è raccontata innanzitutto la preistoria e la protostoria: la nascita dell’agricoltura, dei villaggi, il culto delle divinità e le città dei morti nel Neolitico (6000-3300 a.C. ca.); i contatti con le culture europee, la lavorazione dei primi metalli nel periodo Eneolitico (3300-2200 a.C. ca.); le culture dell’Età del Bronzo (2200-900 a.C. ca.), con lo sviluppo della civiltà nuragica; i cambiamenti dell’Età del Ferro (900-510 a.C. ca.) e i contatti con i Greci, gli Etruschi e soprattutto con i Fenici.
Attraverso le vedute dell'antica Via Sulcitana si giunge alla Sala del Sulcis fenicio, illustrato dai materiali di Sulky-Sant’Antioco e del centro costiero di Bitia.
Nella Sala di Monte Sirai la vita del centro fenicio e punico è descritta attraverso i temi (il tempio e le divinità, l’architettura e le attività domestiche, le sepolture e i riti funerari), e gli spaccati della vita quotidiana. In particolare potrete addentrarvi nella città punica con la ricostruzione di una cucina, della tomba a camera n. 10 e del tofet. Seguendo poi il percorso circolare, sul lato sinistro, si giunge al paesaggio in età punica e romana: ritornando alla prima sala si ritrova il territorio in età romana (238 a.C. - 500 d.C. ca.), con i miliari della Via Sulcitana e le necropoli di Carbonia.

(nelle foto, dall'alto in basso:
- ricostruzione del Tophet
- tomba fenicia, coppa attica con amuleti
- vaghi di collana o di bracciale in paste vitree, oro e altri metalli)


Sardegna - Museo archeologico comunale Ferruccio Barreca, Sant'Antioco

 

Il Museo archeologico comunale Ferruccio Barreca è il museo archeologico di Sant'Antioco. È stato progettato nei primi anni settanta e la sua edificazione è stata completata nel 1975, con il contributo della Cassa del Mezzogiorno, divenuta in seguito Agenzia per il Mezzogiorno. Dopo circa vent'anni, con il passaggio della struttura alla Regione Autonoma della Sardegna e quindi al Comune di Sant'Antioco, hanno avuto inizio i lavori di allestimento tecnico. Il museo è stato inaugurato il 9 gennaio del 2006, ed è inserito nel percorso di visita dell'area archeologica di Sant'Antioco.
Nel museo sono esposti i reperti archeologici degli insediamenti nell'area di Sant'Antioco.
Risalgono al neolitico e alla civiltà nuragica gli oggetti venuti alla luce negli scavi in varie zone dell'isola.
Molti materiali testimoniano la cultura fenicia, che ebbe proprio a Sant'Antioco, nell'antica Sulki, il più antico insediamento in Sardegna. Sono esposti gli oggetti ritrovati nelle tombe del tofet: utensili, anfore, lucerne, gioielli, amuleti, maschere apotropaiche. Lo stesso tofet è ricostruito in un modello che illustra la disposizione delle stele e delle urne rinvenute negli scavi.
L'ultima sezione è dedicata alla civiltà romana, che si insediò nell'area dal III secolo a.C.; sono esposti corredi funebri e oggetti in uso nella vita quotidiana, come pentole e stoviglie.

(nelle foto, dall'alto in basso:
- ricostruzione stratigrafica del Tophet
- maschera di Sileno)


Sardegna - Museo archeologico nazionale di Cagliari


Il Museo archeologico nazionale di Cagliari è il più importante museo archeologico della Sardegna. Situato dal 1993 all'interno del complesso museale della Cittadella dei musei, negli spazi progettati dagli architetti Piero Gazzola e Libero Cecchini.
Nelle sue vetrine sono esposti molti dei reperti più significativi della Sardegna provenienti principalmente dalle province di Cagliari e Oristano, anche se non mancano oggetti preziosi rinvenuti nelle altre province dell'isola. I materiali esposti sono datati a partire dal periodo preistorico sino all'epoca bizantina.
La nascita del museo archeologico di Cagliari risale al 1800, quando il Viceré Carlo Felice, accogliendo la proposta del Cavaliere Lodovico Baylle, fece allestire in una sala del palazzo Viceregio il Gabinetto di Archeologia e Storia naturale affidato alla cura del Cavaliere De Prunner, che si occupò anche dell'ampliamento della collezione. Il Museo, concepito secondo i criteri dell'epoca come wunderkammer dove collezionare oggetti di pregio senza seguire precisi intenti scientifici, grazie al grande lavoro di raccolta di Baylle e de Prunner si arricchiva di oggetti di antichità, minerali e animali, nel 1802 fu, evento straordinario per l'epoca, aperto al pubblico. Nel 1805 il Viceré donò la collezione del Gabinetto alla Regia Università di Cagliari che nel 1806 venne trasferita nella sede universitaria a palazzo Belgrano. Gli spazi iniziali dedicati ai reperti archeologici zoologici e mineralogici vennero ampliati nel 1857. Una sala venne riservata a Museo mineralogico in cui vennero inclusi i reperti archeologici divisi in due settori una di cultura materiale e l'altro di reperti lapidei, nel 1858 i reperti mineralogici vennero smembrati nelle varie sedi universitarie e agli oggetti di antichità furono dedicati nuovi spazi.
Nonostante le diverse vicissitudini legate alla successione dei direttori del museo la collezione prosegue la sua espansione grazie delle numerose e importanti donazioni (prima Spano, poi Castagnino, Timon, Caput, Cara) e alle nuove campagne di scavo, per accogliere i nuovi oggetti venne creato da prima un gabinetto lapidario poi nel 1895 l'intero “Museo” venne spostato in alcune sale del Palazzo Vivanet in via Roma.
Nel 1904, l'edificio che ospitava la zecca in piazza Indipendenza venne adibito, su progetto di Dionigi Scano, a museo, e tra il 1901 e il 1931 il Soprintendente delle antichità della Sardegna, l'archeologo Antonio Taramelli, si occupò dell'allestimento.
Il museo era costituito da 7 sale: Sardegna prenuragica, romana, punico-romana, galleria statuaria, medagliere, età cristiana, giardino lapidario romano, giardino lapidario medievale, ed al primo piano del palazzo delle Seziate erano esposti quadri e oggetti medievali. I reperti furono divisi per età storiche e per luogo di provenienza. Vetrine lignee a parete e bacheche al centro della sala. Nel 1914 con l'acquisizione dei 1500 reperti della collezione Gouin, in seguito l'esposizione subì diversi cambiamenti ed integrazioni con materiali provenienti da scavi.
Dal 1993 il museo, arricchitosi negli anni di numerosi nuovi reperti, si è trasferito nell'attuale sede.
Il nuovo Museo archeologico fu concepito come articolato su quattro piani: il primo cronologico, esemplificativo delle principali culture e facies che si sono succedute in Sardegna dal Neolitico all'età bizantina.
Uno spazio importante fu dedicato alla ricostruzione del tophet di Tharros. Gli altri due piani, allestiti successivamente, illustrano topograficamente alcuni dei siti più importanti delle province di Cagliari e Oristano. Il quarto piano espositivo viene dedicato all'allestimento di mostre temporanee.
Da marzo 2014 ospita la mostra "Mont'e Prama 1974-2014" dedicata alle statue di Mont'e Prama.







le foto dall'alto in basso:
- Navicella nuragica con protome di bue e anatrelle sul parapetto, da Orroli
- Busto di Traiano da Olbia
- Terrecotte da Santa Gilla (foto di R.Civetta)
 - Dea Madre proveniente da Cuccurru S’Arriu
- Gigante di Mont'e Prama guerriero con scudo o pugilatore