mercoledì 16 aprile 2025

Lazio - Lucus Feroniae

 

Lucus Feroniae è un sito archeologico situato nel comune di Capena, sull'antica via Tiberina. È localizzato nei pressi del casello autostradale della A1 Roma-Milano. Secondo la tradizione era una colonia Falisca.
Lucus Feroniae era un antico lucus dedicato alla dea sabina Feronia, protettrice delle liberte, le ex-schiave delle matrone romane.
La città, sita nella pianura lungo il fiume Tevere, era già abitata nella seconda metà del III secolo a.C.
Il santuario era frequentato sia dai Latini sia dai Sabini anche al tempo di Tullo Ostilio, per alcuni anche dagli Etruschi, sia per motivi religiosi, sia per i commerci che vi si facevano, durante le festività, che facevano di Lucus un importante centro commerciale.
«[...] Ai piedi del monte Soratte è la città di Feronia, c’ha il nome a comune con una divinità di quel luogo, grandemente onorata dagli abitanti circonvicini, e della quale avvi colà un tempio dove le suol esser renduto un mirabile culto. Perocchè alcuni invasati da quella Dea attraversano a piedi nudi un ampio letto di cenere calda e di ardenti carboni, senza rimanerne offesi; e vi concorre gran numero d’uomini, così per la fiera che vi si celebra ogni anno, come per lo spettacolo or ora detto
Il ricco santuario fu saccheggiato
da Annibale nel 211 a.C..
Divenne colonia romana al tempo di Gaio Giulio Cesare.
In età imperiale divenne una comunità indipendente con lo status di colonia in cui si insediarono veterani di Ottaviano (Colonia Iulia Felix Lucus Feroniae) e rimase un centro, essenzialmente agricolo, fino al IV secolo, quando il sito fu abbandonato.
La disposizione est-ovest del luogo fa ipotizzare una correlazione con la limitrofa area sacra di Feronia.
Il parco archeologico comprende
il Foro rettangolare sul quale si affaccia una terrazza sacra, con l'Aedes Genii Coloniae di età augustea (12 a.C.), un Augusteum tardo-tiberiano, una culina connessa agli Augustales e il Tempio di Salus Frugifera, tutti aperti su un cortile colonnato dorico sotto cui erano collocate statue di benemerenti della città. Un altro portico colonnato borda il Foro solo sul lato occidentale, sul quale si aprono tabernae, alcune delle quali pavimentate con mosaici, mentre all'ingresso di altre una sorta d'ideogramma faceva capire l'attività del
commerciante svolta all'interno (una sorta d'insegna pubblicitaria moderna). Al centro del Foro pare che ci fosse una statua di imperatore. Dietro le tabernae sono stati rinvenute alcune delle insulae residenziali. Nel sito archeologico si trovano anche un anfiteatro con una capienza di circa 5000 persone (di età traianea), due termae con annessi frigidarium, tepidarium, calidarium, un'area sacra e, fuori il centro urbano, la Villa dei Volusii Saturnini.
La Villa dei Volusii si trova a 400 metri circa dalla restante zona archeologica di
Lucus Feroniae a ridosso dell'area di servizio "Feronia Ovest" dell'autostrada A1, in prossimità del casello di Fiano Romano, di sicuro la più grande villa nei dintorni di questo piccolo centro romano sull'antica via Tiberina. Questa era un complesso residenziale, dotato di due grandi peristili (quello settentrionale è stato in passato confuso con un ergastulum, mentre quello meridionale era legato alla produzione agricola) e una cisterna a quattro navate. Ha restituito interessanti ritratti (Caligola, Agrippina
minore, Nerone, Vibia Sabina) ed erme marmoree di Menandro, Euripide ed Eracle tipo Lansdowne. Nel quartiere propriamente residenziale della villa sono conservati splendidi mosaici di tarda età repubblicana.
Nel museo annesso si possono ammirare delle statue provenienti dallo scavo del Foro e dell'area suburbana.
Numerosi monili, anfore, busti e travertini con incisioni latine, testimonianze della antica civiltà.
Dal 2007 l'antiquarium ospita anche i blocchi del Mausoleo di Fiano Romano con scene gladiatorie.

Lazio - Oriolo Romano

 

Oriolo Romano è un comune italiano di 3 671 abitanti della provincia di Viterbo nel Lazio.
Il territorio comunale si estende sui Monti Sabatini, una zona collinare ricca di boschi cedui e d'alto fusto in particolare castagno, cerro e faggio, e fa parte del parco naturale regionale di Bracciano-Martignano. Nonostante Oriolo Romano abbia una superficie di poco superiore ai 19 km2 e si trovi a circa 22 km dal mare, il territorio presenta ambienti naturali ed ecosistemi assai eterogenei e di elevato pregio: si va dalla macchia mediterranea all'ambiente maremmano per arrivare a quello montano delle faggete, presenti negli Appennini a quote superiori ai 900 m. Il territorio, situato al confine con la città metropolitana di Roma, è attraversato dal fiume Mignone e dall'affluente Biscione. Numerosi studi realizzati nei Colli Albani, Monti Sabatini, Monti Cimini e Monti Vulsini hanno dimostrato come sia presente una forte emissione di gas naturali di origine vulcanica, in particolare del radon, un gas naturale radioattivo considerato la seconda causa di morte per tumore al polmone dopo il fumo ed emesso dal sottosuolo e da alcuni materiali da costruzione provenienti da aree vulcaniche. Lo studio effettuato nel 2013 da ISPRA e ARPA Lazio ha riscontrato nelle abitazioni del paese una concentrazione media di Radon pari a 360 Bq/m3 con un massimo di 2 194 Bq/mm3, dati al di sopra di 300 Bq/mm3, valore di riferimento massimo raccomandato dall'OMS. Per ridurre il rischio derivante dal radon di contrarre il tumore al polmone, il 3 dicembre 2010 l'amministrazione comunale ha adottato un nuovo regolamento edilizio che prevede specifiche norme per l'edificazione dei nuovi edifici.
Incerta è l'origine del nome e numerose sono state le ipotesi, ma quelle plausibili sono sostanzialmente tre. Come Oriolo (Cosenza), potrebbe derivare da hordeolus, ‘chicco d'orzo’, secondo un'ipotesi che risale a Gerhard Rohlfs. Più probabile appare la derivazione da aureus ‘d'oro’, in analogia con omonimi lombardi, per la fecondità del terreno o anche da Aureoulus, nome personale romano. Anche Pellegrini sostiene la derivazione da aureu(m) per il toponimo laziale.
Testimonianze di presenza e frequentazione del luogo da parte dell'uomo non ancora organizzati in insediamenti stanziali si rintracciano già in epoca protostorica risalente al periodo villanoviano-etrusco e romano: in località "La Mola" sono stati rinvenuti da F. Enei frammenti ceramici con decorazioni di tipo appenninico databili al Bronzo medio; al periodo villanoviano-etrusco appartengono tre tombe a camera in località Campetto, delle pestarole e una tomba in località Pascolaro, mentre sono databili al periodo romano una strada che collega la località Campetto alla Mola del Biscione, resti di una cisterna in località Muraccio e una seconda a Monte Rosano, un colombario in via Aldo Moro.
Il colombario, originariamente situato nelle vicinanze della via Clodia e datata tra il I-II sec. d.C. fu ripulita e scavata dal prof. Livio Gasperini durante gli scavi nel 1973 dell’Associazione Forum Clodii. All’interno dell’edificio di pianta quadrata e volta a crociera è ancora presente parte di un mosaico a grandi tessere bianche e nere e lungo le pareti sono disposte su due registri 24 nicchie, a forma di edicola quelle in alto mentre sono ad arco quelle in basso.

Lazio - Tomba di Cicerone e Tomba di Tulliola

 


La Tomba di Cicerone è un mausoleo monumentale di età imperiale che si trova a Formia, in provincia di Latina nel Lazio. Il mausoleo di epoca augustea, è tradizionalmente attribuito a Cicerone, che qui vicino aveva la villa, dove fu raggiunto dai sicari di Marco Antonio, anche se tale attribuzione è ancora dubbia.
La tomba, che poggia su di una base quadrata che misura 18 metri per lato, è alta 24 metri ed è costruita con anelli di pietra, che dovevano essere ricoperti da lastre di marmo. All'interno della base si trova una cella, che era il sepolcro vero e proprio. La tradizione vuole che il feretro dell'oratore fosse deposto nella tomba dopo che gli furono mozzate le mani e la lingua, i simboli della eloquenza del filosofo.
Sulla collina sovrastante, a 100 metri di distanza in linea d'aria, si trova la Tomba di Tulliola, l'amata figlia di Cicerone.

La Tomba di Tulliola è un mausoleo di età imperiale che si trova a Formia, in provincia di Latina nel Lazio. Il mausoleo, di epoca augustea, è tradizionalmente attribuito a Tullia, o Tulliola, come affettuosamente la chiamava il padre Marco Tullio Cicerone, che qui vicino aveva una villa.
La tomba si trova in linea d'aria a circa 100 metri dalla Tomba di Cicerone, sulla collina soprastante, ed è ormai condiviso che, mentre il corpo del padre è stato sepolto a Roma, Tulliola fu sepolta in questo mausoleo. 
La tomba, restaurata nel luglio del 2017, è ora visitabile. 
La zona in cui si trova il tomba prende il nome di Acervara con riferimento alla ragazza: acerbam, in quanto morì molto giovane, e ara per indicare il luogo effettivo.

Lazio - Grotte dell'Arco, Bellegra


Le Grotte dell'Arco si sono originate da un emissario sotterraneo proveniente dalla valle del Pantano, dove esisteva un lago prosciugato nel 1911. Per lo sviluppo in lunghezza e per l'ampiezza di alcune grandi sale, rappresentano una delle più importanti manifestazioni carsiche ipogee presenti nella Regione Lazio.
Le Grotte dell'Arco sono lunghe quasi 1.000 m. ed estese per 34 ettari
Sono denominate “Grotte dell'Arco” perché ad una trentina di metri più a valle della sua entrata, si trova un arco naturale di pietra.
Le Grotte dell'Arco sono ricche di stalattiti, stalagmiti, inghiottitoi e camere per l'osservazione della fauna di grotta in particolare chirotteri, anfibi e ancora micro e mesofauna tipica di tale strutture.
Lo sviluppo morfologico di queste grotte è caratterizzato da una galleria di 940 metri di lunghezza, percorsa per gran parte dal deflusso idrico di una sorgente carsica emergente nella parte terminale interna della cavità, alimentata internamente verso monte da un sistema carsico secondario di reti di condotte principali e di fessurazioni minori secondarie.
Il torrente sotterraneo anticamente faceva da serbatoio di acqua per un mulino, detto nel dialetto locale “Mola”.
La Grotta si può suddividere in tre tratti : 1. iniziale; 2. mediano; 3 terminale.
Il tratto iniziale è composto da una prima galleria fangosa lunga 190 metri alta dai 7 ai 10 metri, e da una seconda galleria lunga circa 80 metri ed alta dai 12 ai 15 metri, facilmente attraversabili con una passerella.
Il tratto mediano è composto da una galleria lunga 150 metri, avente un'altezza media di 20 metri e tre saloni: il salone ciclopico, il salone titanico e la sala del duomo.
Il tratto terminale è composto dalla galleria dell'altarino e dalla galleria terminale, entrambi questi tratti sono visitabili esclusivamente da speleologi attrezzati.
Nel 1999 sono stati rinvenuti due gruppi di pitture rupestri (un gruppo di figure rosse ed uno a figura nera), attribuite al periodo eneolitico, e di resti paleontologici che arricchiscono l'importanza scientifica della grotta.

Lazio - Monterano


Monterano (anche conosciuta come Antica Monterano o Monterano Vecchia; in latino quasi certamente Manturianum poi corrotto in Manturanum) è una città fantasma in Italia, situata nella provincia di Roma, nel territorio di Canale Monterano. Arroccata sulla spianata sommitale di un'altura tufacea, è attualmente inclusa nella Riserva naturale regionale Monterano. Le rovine dell'antico borgo, per la loro bellezza e la relativa vicinanza a Roma, sono state utilizzate come set per numerosi film sia italiani che stranieri.
La collina tufacea su cui sorge Monterano è lambita dal fiume Mignone a nord e a ovest e dal fosso del Bicione a sud. L'area sommitale occupa uno spazio di 5,3 ettari. Alla base della collina in direzione nord e sud-est si trovano le solfatare, seguite poco oltre dalla cascata della Diosilla. Il territorio circostante è scandito da sorgenti di acqua termale, tra cui le terme di Stigliano, attrezzate per la ricezione turistica, circa 3 km a sud-ovest.
Il territorio di Manziana e di Canale Monterano era consacrato dagli Etruschi al dio dell'oltretomba Manth (in latino Mantus): da questo prendeva il nome la silva Mantiana, grande area boscosa che dominava le colline ad occidente del Lago di Bracciano di cui sopravvive un settore oggi denominato Bosco Macchia Grande, a Sud-Ovest di Manziana; lo stesso abitato di Manziana deriva quasi certamente il nome dalla foresta che lo cingeva; al dio Manth rimanda anche il toponimo di Manturianum/Manturanum, con il quale ormai di norma si identifica il sito di Monterano. Essendo il nome formato dalla radice Mantur- cui è aggiunto il comune suffisso aggettivale -ianum/-anum, derivato presumibilmente dall'associazione con il termine neutro castrum presente nelle fonti altomedievali, se ne può dedurre che il nome etrusco dell'abitato potesse essere Manthuria o Manthura, divenuto castrum Manturianum in età tardo-antica per la presenza di una fortificazione, poi corrotto in Manturanum da cui in italiano Monterano. Un gentilizio derivato dal toponimo, come in altri casi, sembra riscontrabile nell'attestazione di un Larth Manthureie su un dolio rinvenuto a poche decine di chilometri da Monterano. L'associazione tra il bosco ed il dio degli Inferi Manth derivò probabilmente dall'aspetto tetro ed impenetrabile della foresta e dalla presenza diffusa di polle di acqua sulfurea, anticamente considerate un'emanazione del mondo sotterraneo.
La rocca tufacea su cui sorge Monterano fu sede di un villaggio dell'età del bronzo, di cui sono noti materiali archeologici riferibili alla fase del Bronzo finale (secolo XI a.C.). Dal VII secolo a.C. la presenza di un centro etrusco è attestata in primo luogo dal ritrovamento di numerose tombe che occupano i poggi circostanti: Casale Palombara, I Grottini, Franco, Gatta Pelosa (le Pestarole, con resti di tombe a pozzetto), largo della Bandita (con la grotta di Tabacco e il Grottino, tombe a camera del VI secolo a.C.) e Ara del Tufo. Considerata la vicinanza spaziale, l'abitato di Monterano rientrava probabilmente nell'area di influenza politica della città di Cerveteri.
Il territorio cominciò ad entrare sotto il controllo di Roma negli anni successivi alla conquista di Veio (396 a.C.) e al sacco gallico (390 a.C.): nel 383 a.C. la vicina Sutri cadeva definitivamente in mano ai Romani, ma un'occupazione dei centri minori come Monterano non si ebbe fino agli anni centrali del IV secolo, quando si mise fine all'antica amicizia tra Roma e Cerveteri. Nella seconda metà del III secolo il controllo romano sul territorio fu rafforzato dalla realizzazione della via Clodia da Roma a Saturnia, che transitava circa 3 km a est di Monterano, nel luogo in cui sorse il municipio di Forum Clodii, che dovette svolgere un ruolo di centro aggregante per la popolazione dell'area a danno degli abitati limitrofi tra cui Monterano. Tracce di un mausoleo romano a valle dell'abitato e le sepolture ad arcosolio scavate nella parete tufacea testimoniano che Monterano sopravvisse come piccolo borgo per tutta l'età romana. Numerose erano le ville diffuse nelle campagne circostanti.


Lazio - Necropoli della Banditaccia


La necropoli della Banditaccia è una area funebre etrusca, afferente all'antica città di Caere, situata su un'altura tufacea a nord-ovest di Cerveteri, in provincia di Roma.
La necropoli si estende per circa 400 ettari e vi si trovano molte migliaia di sepolture (la parte recintata e visitabile rappresenta soli 10 ettari di estensione e conta circa 400 tumuli), dalle più antiche del periodo villanoviano (IX secolo a.C.) alle più "recenti" del periodo ellenistico (III secolo a.C.). La sua origine va ricercata in un nucleo di tombe villanoviane nella località Cava della Pozzolana, e il nome "Banditaccia" deriva dal fatto che dalla fine dell'Ottocento la zona viene "bandita", cioè affittata tramite bando, dai proprietari terrieri di Cerveteri a favore della popolazione locale. Vista la sua imponenza, la Necropoli della Banditaccia è la necropoli antica più estesa di tutta l'area mediterranea.
Le sepolture più antiche sono villanoviane (dal IX secolo a.C. all'VIII secolo a.C.), e sono caratterizzate dalla forma a pozzetto, dove venivano custodite le ceneri del defunto, o dalle fosse per l'inumazione.
Dal VII secolo a.C., durante il Periodo orientalizzante si hanno principalmente tumuli di grandi dimensioni. Le sepolture a tumulo sono caratterizzate da una struttura tufacea a pianta circolare che racchiude all'interno una rappresentazione della casa del defunto, con tanto di corridoio (dromos) per accedere alle varie stanze. La dovizia di particolari dell'interno di queste sepolture ha permesso agli archeologi di venire a conoscenza degli usi casalinghi degli Etruschi. Di questo periodo fanno parte la "Tomba della Capanna", il "Tumulo Maroi" e il "Tumulo Mengarelli".
Nel V secolo a.C. le tombe a tumulo furono sostituite da quelle "a dado". Quest'ultime consistono in una lunga schiera di tombe allineate regolarmente lungo vie sepolcrali. Nella parte visitabile della Necropoli della Banditaccia ci sono due di queste vie, via dei Monti Ceriti e via dei Monti della Tolfa, risalenti al VI secolo a.C..
Le sepolture più "recenti" sono del III secolo a.C., periodo dell'ellenizzazione etrusca. La sepoltura più rappresentativa di questo periodo risulta essere la "tomba dei Rilievi", risalente al IV secolo a.C. e appartenuta alla famiglia dei Matunas, come si legge nelle iscrizioni: l'interno della tomba si è mantenuto in condizioni particolarmente buone, permettendo di osservare anche gli affreschi alle pareti e sulle colonne (per questo, infatti, questa tomba è l'unica della Banditaccia che non si possa visitare -ma l'interno è visibile attraverso un vetro-, a causa della particolare delicatezza degli affreschi).
Molti dei reperti trovati nella necropoli sono raccolti nel Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma ed in molti altri musei sparsi in tutto il mondo, mentre solo una piccola parte dei corredi funebri rinvenuti in loco è conservata nel Museo nazionale cerite. Dal luglio 2004 la necropoli della Banditaccia, insieme a quella dei Monterozzi di Tarquinia, entra a far parte della lista dei siti patrimonio dell'umanità dell'UNESCO. Nel 2012 venne inserito un percorso di visita multimediale all'interno di alcune tombe, in modo da ricreare quello che era l'ambiente nell'antichità e nel periodo in cui furono scoperte.
Inizialmente nell’800 gli scavi furono compiuti da amanti dell’antiquariato ,con il fine di trovare oggetti preziosi per venderli al mercato . Nel ventesimo secolo invece cominciarono ad essere regolarizzati, grazie all’archeologo Raniero Mengarelli, direttore dell’Ufficio Scavi dei Mandamenti di Civitavecchia e Tolfa, che portò avanti l’opera dal 1909 fino al 1936.
L’intento di questi scavi era quello di recuperare oggetti preziosi, tanto che si limitò allo sterro in quelle strutture più evidenti. Nel 1927 portò alla luce quella che denominò Via degli Inferi, ossia la via principale dei sepolcri. Mengarelli effettuò ulteriormente degli studi topografici e approntò una serie di interventi volti ad aprire l’area al pubblico, trasformando progressivamente l’antica necropoli in un sito archeologico. A partire dal 1936 il sito venne abbandonato e approfittando di questa situazione di degrado, il luogo fu soggetto a numerosi scavi clandestini con lo scopo di trovare reperti archeologici da essere venduti privatamente ai collezionisti. Le ricerche ripresero legalmente negli anni sessanta del 900 grazie a Mario Moretti, un archeologo collaboratore di Mengarelli. Nominato direttore degli scavi di Cerveteri dal 1952, nel 1957 avviò le campagne di scavi per la Banditaccia, riportando in auge la zona ‘dei grandi tumuli’ e quella del ‘nuovo recinto’. Negli anni 80 Mauro Cristofani operò nell'area dell'antica civita, lavoro che poi venne proseguito dal Consiglio Nazionale delle Ricerche in collaborazione con il comune di Cerveteri, la Fondazione Luigi Rovati di Monza e la onlus A.S.S.O.

Nelle foto, dall'alto in basso:
Tomba dei vasi greci, Tumulus II, VI secolo a.C.
Tomba della Cornice (Banditaccia)
Tomba della casetta
Tomba dei capitelli
Tomba dei letti funebri

Lazio - Parco archeologico di Minturnae


Il Parco archeologico di Minturnae è un sito archeologico romano che si trova a Minturno, sulla costa meridionale del Lazio. Il Parco archeologico racchiude le spoglie dell'antica città-porto di Minturnae.
La città fu distrutta dai Romani nel 314 a.C. durante la seconda guerra sannitica, combattuta dalle città aurunche accanto ai Sanniti. Vista la posizione favorevole ai commerci e al controllo della via d'acqua, i Romani ricostruirono la città facendone una colonia nel 295 a.C..
La città romana è stata teatro della fuga di Caio Mario, inseguito dai sicari di Silla, come raccontato da Plutarco. Nell'alto medioevo, Minturnae venne nuovamente distrutta, probabilmente dai Longobardi tra il 580 e il 590.


Dal sito archeologico in passato sono stati sottratti reperti, in particolare 158 sculture dal maresciallo Laval Nugent, comandante dell'esercito borbonico, nel 1820. A seguito di ciò molte opere sono approdate all'estero.
Il parco archeologico si trova nel comune di Minturno (LT) al chilometro 156 della Via Appia, in prossimità della foce, sulla sponda destra del fiume Garigliano.


Il Comprensorio archeologico racchiude, oggi, gran parte dei resti; si possono ammirare:
- Il Teatro Romano, costruito verso il I secolo d.C. Diviso nei tre settori caratteristici (scaena, orchestra, cavea), accoglieva oltre 4000 spettatori. D'estate, dal 1960, l'antica struttura ospita rappresentazioni teatrali e spettacoli musicali. Negli spazi sottostanti alla càvea è situato il Museo che accoglie statue acefale, sculture, ex voto, epigrafi, monete (ripescate nel vicino fiume) e numerosi reperti, rinvenuti nel secolo scorso a Minturnae, nel centro urbano di Scauri (l'antica Pirae) e nella zona di Castelforte.
- Un tratto originale della via Appia (Decumanus Maximus), costruito in blocchi di lava basaltica.
- I resti del Foro Repubblicano (II secolo a.C.), del Capitolium (dedicato a Giove, Giunone e Minerva), del Foro Imperiale, del Macellum (mercato), delle Tabernae, del complesso termale (II secolo d.C.).


Nei pressi del comprensorio il moderno tracciato dell'Appia si interseca con le numerose ed imponenti arcate dell’Acquedotto Romano, un tempo lungo circa 11 chilometri, nonché è possibile ammirare il "Ponte pensile" sul Garigliano, con tiraggi a catene di ferro, il primo realizzato in Italia con tale tecnica. Tale ponte fu progettato dall'ingegnere Luigi Giura ed inaugurato nel 1832 dal re Ferdinando II delle Due Sicilie. Adiacente al comprensorio sorge anche il vasto Cimitero di guerra di Minturno e che accoglie 2049 caduti durante Seconda guerra mondiale dell'Impero britannico.
A ridosso della foce si trovano, infine, le rovine di un antico luogo sacro, il Tempio della ninfa Marica, divinità delle acque.
L'area degli scavi e l'antiquarium entrambi di proprietà dello Stato Italiano, otre che sito archeologico sono teatro anche di eventi museali, musicali ed artistici.
Testimonianze provenienti da Minturnae sono custodite, tuttora, presso i musei archeologici di Zagabria in Croazia, di Filadelfia negli Stati Uniti d'America e in quello di Napoli. Nei pressi delle rive del Liri-Garigliano è stata ritrovata la Statua di Traiano da Minturno, poi utilizzata per realizzare repliche da collocare a Roma, Ancona, Benevento, Londra.




Lazio - Fèrento



Fèrento (in latino Ferentium) è un'antica città etrusca, romana e medievale nelle vicinanze di Viterbo, sulla strada Teverina verso la valle del Tevere.
Dalla città provenivano diverse famiglie famose, tra cui quella dell'imperatore romano Otone e Flavia Domitilla, moglie dell'imperatore Vespasiano.
La città sorgeva sull'altura di Pianicara, dove potrebbero essersi insediati gli abitanti della vicina città etrusca di Acquarossa, distrutta da un terremoto o da città nemiche intorno al 550-500 a.C.. Il collegamento con la via Cassia era assicurato dalla via Publica Ferentiensis della quale sono conservati tratti del basolato.
Fu un ricco municipio romano dove le attività principali erano il commercio che si svolgeva tra la costa del Tirreno e la valle del Tevere, l'agricoltura, l'allevamento, nonché l'estrazione e lavorazione di tufo e peperino. Importante era la lavorazione e il commercio del ferro che era facile da reperire in grandi quantità e soprattutto in superficie, su gran parte del territorio circostante.
In età repubblicana, era sviluppata lungo il decumano massimo della via Ferentiensis, con una disposizione urbanistica ortogonale a cardi e decumani. Nel Liber coloniarum e in un passo dei Gromatici veteres risalente al 123 a.C. si trova la prima menzione della città, in riferimento alla deduzione di una colonia o forse alla spartizione di alcuni terreni demaniali. Dopo la guerra sociale, nel I secolo a.C., divenne municipium.
Nella prima età imperiale, Ferento raggiunse il suo massimo splendore: infatti risale a questo periodo la costruzione dei più importanti edifici pubblici, come il teatro, il foro (non ancora scavato), le terme, l'anfiteatro (a nord-est rispetto all'abitato), una fontana contornata da numerose statue e l'augusteo. Lo splendore proseguì anche nel secolo successivo e fu definita "civitas splendidissima", come è scritto in un'epigrafe di marmo rinvenuta nei pressi della città.
Tra gli abitanti di Ferento, spiccano alcuni nomi illustri, tra cui Salvio Otone, imperatore per pochi mesi nel 69, e Flavia Domitilla Maggiore, moglie dell'imperatore Vespasiano e madre di Tito e Domiziano.
Dal III secolo le notizie su Ferento si fanno più rare. Dal Liber pontificalis si evince che in quel periodo in città si praticava il culto per sant'Eutizio, morto nei pressi di Soriano nel Cimino durante le persecuzioni messe in atto dall'imperatore Aureliano nel 269. La città viene citata nel IV secolo all'epoca dell'imperatore Costantino, e altre menzioni sono sotto i papi Silvestro (314-355) e Damaso (366-384), nei Tituli constituiti.
Fino alla metà del VII secolo Ferento è stata una diocesi, di cui il primo vescovo dovrebbe essere stato san Dionisio nel III secolo. Informazioni più precise si hanno invece dei vescovi Massimino nel 487, Bonifacio (probabilmente 519-530), Redento (567-568), Marziano (595-601) e Bonito (649).
Nel VI e VII secolo, durante la guerra gotica e le guerre tra Bizantini e Longobardi, la città di Ferento non fu risparmiata, come gran parte dei centri dell'Etruria meridionale. La popolazione subì un forte calo demografico e si ritirò a ovest dell'antica città, cercando di fortificare la zona con delle recinzioni murarie, circoscrivendo un'area di circa 30000 m².
Anche la sede vescovile venne spostata nel VII secolo da Ferento a Bomarzo, che si trovava in una più favorevole posizione per il controllo della valle del Tevere. I Longobardi, nel riassetto dei confini della Tuscia, divisero il territorio ferentano in tre diocesi diverse: Bagnoregio, Bomarzo e Tuscania.
Il re longobardo Liutprando nel 740 lasciò la città di Ferento e si spostò in Umbria dove nei pressi della Cascata delle Marmore fondò un piccolo borgo, al quale diede poi il nome di Ferentillo in ricordo della città lasciata.
Nel 787-788 Carlo Magno consegnò Ferento a papa Adriano I, a seguito della Promissio donationis del 744 di Pipino il Breve.
Nel 940 Ferento risulta far parte di una circoscrizione amministrativa nominata Comitato ferentensis.
Dei secoli XI e XII non si hanno molte notizie, sebbene alcuni documenti facciano pensare che Ferento si fosse organizzata come comune autonomo, riprendendo a crescere economicamente e di importanza. L'abitato si è certamente ripopolato allargandosi ad est del Teatro, dentro una nuova cinta muraria che delimitava circa 70000 m²; fu costruita una torre di guardia all'interno del teatro romano, e sotto le sue arcate furono sistemate varie botteghe artigiane.
Nel XVI secolo sorse lungo la strada principale un piccolo sobborgo che prese il nome di "borgus Ferenti", divenuto poi Borgo di Ferento.
La distruzione della città ad opera della vicina Viterbo, allora in grande espansione nella Tuscia, è oggetto di diverse leggende e ipotesi.
Il declino e la successiva distruzione della città di Ferento, sembrano essere scaturiti da un episodio del 1169 che alcune cronache riportano con una certa confusione, infatti sembrerebbe che i Ferentani avessero chiesto a Viterbo un aiuto per la lotta contro la città di Nepi (ma si parla anche del contrario). Tuttavia mentre l'esercito viterbese attendeva gli alleati sui Monti Cimini, i ferentani, arrivati davanti alle mura di Viterbo, si fecero aprire la porta Sonsa e misero la città a sacco. La popolazione impaurita si rifugiò presso la chiesa di Santa Cristina e l'arciprete, venuto a conoscenza dell'accaduto partì subito a cavallo verso i soldati viterbesi i quali, appresa la notizia presero subito a rincorrere i ferentani già sulla via del ritorno. Arrivati addosso al nemico, i viterbesi scatenarono una feroce carneficina che non risparmiò nessuno e tanti furono i morti sparsi in quel luogo, che prese il nome di "Carnajola" o "Carnaio". Una leggenda dice che da quel giorno, le acque del fosso sottostante iniziarono a depositare sul fondo una scia rossa, dovuta al sangue dei ferentani morti (in realtà le acque contengono materiale ferroso che imprime alle rocce una colorazione rossastra). Questa versione dei fatti, è quella chi ci viene tramandata dai viterbesi, senza nessuna documentazione che possa darci una controversione ferentana, certo è che i viterbesi, erano determinati ad avere il totale controllo del territorio e dovevano a tutti i costi togliersi di mezzo la città di Ferento, che posta in quella zona così strategica, non poteva che essere sottomessa.
Un'altra versione dei fatti, che invece si tramanda a Grotte Santo Stefano, dice che i viterbesi, usarono il pretesto dell'aiuto per la lotta contro Nepi, semplicemente per far uscire l'esercito ferentano dalla città e quando questo giunse allo scoperto, i viterbesi scatenarono l'attacco che portò alla carneficina, in quel luogo che come già detto prese il nome di "Carnajola".
Nel 1170, Viterbo attaccò Ferento e dopo averla saccheggiata, la diede alle fiamme. Dopo questo assalto Ferento, fortemente indebolita, fu costretta a giurare sottomissione a Viterbo nel 1171. Alla fine dello stesso anno la popolazione tuttavia si rivoltò e Viterbo, con l'aiuto della vicina Celleno reagì duramente: la notte del 1º gennaio 1172, con il favore del buio e con il pretesto di eresia, l'esercito viterbese alleato con i cellenesi, attaccò a sorpresa la città addormentata, uccise uomini, donne, vecchi e bambini e finito il massacro, appiccò il fuoco distrugendo tutto.
I viterbesi risparmiarono alcuni ferentani di nobili famiglie e li concentrarono a Viterbo presso la zona di San Faustino, mentre altri ferentani che si salvarono dalla strage, perché erano fuori della città e guardare le greggi (nelle fredde notti invernali, erano frequenti gli attacchi dei lupi), si allontanarono dirigendosi verso la valle del Tevere. Lungo il percorso, trovarono riparo in alcune grotte di origine etrusca, presso le quali si stabilirono definitivamente, usandole come abitazioni, dando così origine a Grotte Santo Stefano.
I viterbesi fin dal 1158 si erano alleati all'imperatore Federico I detto il Barbarossa e avevano scatenato molte guerre nei confronti di vari castelli della Tuscia, senza però avere il consenso dell'imperatore, che mise così la città al bando. Il bando venne tuttavia tolto nel 1174 e Cristiano, arcivescovo di Magonza assicurò la non riedificazione di Ferento, riassegnando il territorio di quest'ultima al contado di Viterbo. Tutti i possedimenti delle due più ricche chiese di Ferento, San Bonifacio e San Gemini, furono poi assegnati nel 1202 alle chiese viterbesi, Santo Stefano e San Matteo in Sonza.
Il simbolo della città di Ferento, era una palma e quello di Viterbo un leone, e per evidenziare l'annientamento della città rivale, i viterbesi aggiunsero la palma al leone dando origine allo stemma comunale viterbese che ancora oggi è così rappresentato.
Negli statuti comunali viterbesi degli anni 1237-38 e 1251-52 erano previste sanzioni gravissime per chiunque avesse tentato di ripopolare la città di Ferento, vietando persino ogni tipo di coltivazione e addirittura, nello statuto del 1251-52, era prevista la totale distruzione del teatro e di tutto ciò che c'era intorno, che però non venne attuata.
A cavallo del XIV e XV secolo, le rovine di Ferento, furono utilizzate dagli eserciti di passaggio per accamparsi e nonostante papa Martino V avesse incaricato Cristoforo D'Andrea di Siena di riedificare e ripopolare il sito, i viterbesi, riuscirono nuovamente ad impedirlo.
Il "re archeologo" Gustavo VI Adolfo di Svezia per diversi anni lavorò per riportare alla luce i resti della città, sia di età romana che medioevale. Oggi gli scavi sono affidati alle campagne promosse dall'Università della Tuscia, ma solo una piccola parte dell'abitato è stato scavato ed è visitabile, mentre altre aree sono state indagate e ricoperte, tra cui l'area del foro sopra il quale sorge un'azienda agricola.
I reperti più significativi sono esposti nel Museo nazionale etrusco Rocca Albornoz a Viterbo, in particolare alcune statue in marmo raffiguranti i personaggi della tragedia e della commedia greco-romana che presumibilmente erano posizionate nel frontescena del teatro, oltre a una piccola ricostruzione in legno del teatro romano.

Lazio - Acropoli di Arpino

 


L'Acropoli di Arpino è un sito archeologico situato al centro di Arpino, uno dei più importanti per la conoscenza dell'architettura megalitica del Lazio meridionale, non solo per la grande estensione delle mura ma anche per la loro vetustà, maggiore di quella di altri siti (collocabile secondo alcuni in piena età del ferro, VIII/VII secolo a.C.), e classificabili secondo la scala ideata da Giuseppe Lugli nella seconda maniera.
La civitas vetus della città rappresenta una delle cinte murarie meglio conservate costruite in opera poligonale in epoca preromana. Di particolare significatività è la presenza di un "arco a sesto acuto" unico sopravvissuto nel suo genere in tutta l'area mediterranea.
Trattasi di un tipico arco a mensola, che viene a costituire una porta cosiddetta scea.
Le porte scee (famose quelle dell'antica Troia) sono varchi nelle cinte murarie che non si aprono frontalmente, bensì di lato, e precisamente in lato sinistro (scaevus, in latino "sinistro") su una muraglia sghemba; in tal modo, per entrare nella città fortificata si doveva esporre agli abitanti il lato destro del corpo, che in caso di guerra e in caso di soldati attaccanti era quello sguarnito dalla difesa dello scudo (il quale veniva tenuto con la mano sinistra, mentre l'arma veniva tenuta con la mano destra).
Gli abitanti godevano pertanto del sostanziale vantaggio di poter respingere un potenziale attacco nemico, colpendo il nemico nel lato sguarnito da difesa, quello destro.
Giustiniano Nicolucci, antropologo e archeologo originario di Isola del Liri, in gioventù allievo del collegio Tulliano di Arpino, indi illustre docente all'università di Napoli (ove fu fondatore e titolare della cattedra di antropologia), strinse amicizia con il celeberrimo archeologo tedesco Heinrich Schliemann, riuscendo tra l'altro a condurlo ad Arpino nel settembre 1875 e a intrattenere con lui un interessante carteggio tra il 1874 e il 1889.
L'Acropoli è difesa in lato nord da poderose mura poligonali della seconda maniera, che raggiungono anche l'altezza di sei metri in alcuni punti, e si articolano con l'Arco a sesto acuto in un sistema di difesa di epoca preromana.
L'Acropoli, situata a un'altitudine media di m. 627 s.l.m., è oggi chiamata Civita Vecchia o Civitavecchia (C'tavecchia in dialetto arpinate), probabilmente in contrapposizione alla Civita Falconara (cì'uta in dialetto arpinate), costituente la parte più impervia ed elevata del sottostante centro storico di Arpino e situata su un contrafforte quasi opposto alla Civitavecchia in aspetto ovest-sud-ovest.
Sia la Civitavecchia sia la Civita Falconara sono raggiunte e difese da mura poligonali della seconda maniera, le quali costituiscono una cinta muraria completa per un perimetro di più di tre chilometri (di cui almeno un chilometro e mezzo in buone condizioni), racchiudente sia la città di Arpino propriamente detta (altitudine media m. 450 s.l.m.) sia la Civitavecchia (m. 627 s.l.m.), sia la collina e il dislivello esistenti tra le due; le mura si sviluppano non solo in tratti pianeggianti, dove a volte assumono aspetti imponenti di più di sei metri di altezza, ma anche lungo i dislivelli orografici, discendendo e risalendo dalla Civitavecchia alla Civita Falconara, e fungendo spesso in quest'ultima (specie nel quartiere Caùto, attuale via Caio Mario) da fondamenta di case, giardini e palazzi di epoca più recente, non di rado inglobate nei sotterranei e nei divisori di tali fabbricati.
Civitavecchia, come l'Acropoli è oggi chiamata comunemente, è ancor oggi abitata da un centinaio di persone, alcune delle quali dedite in loco all'artigianato e alle attività agricole; il borgo è tutelato ai fini storico-ambientali e all'interno di esso non vi sono esercizi commerciali.

Oltre all'Arco a sesto acuto e alle mura poligonali, con vari torrioni strategici aggiunti nell'età moderna (probabilmente a cavallo tra il quindicesimo e il sedicesimo secolo), i monumenti di più grande interesse all'interno dell'Acropoli sono la cosiddetta "Torre di Cicerone", restaurata nel 2011 (residuo di un castello merlato medievale di cui si conserva sul retro della torre una piccola piazza d'armi con cisterna e ruderi delle fondazioni delle altre torri), la Chiesa di San Vito, con una bella facciata e campanile del XVII/XVIII secolo in puddinga di Arpino, un interno pesantemente rimaneggiato in epoca moderna e una pala d'altare del Cavalier d'Arpino raffigurante i Santi Vito, Modesto e Crescenzia del 1625/1627, e, in aderenza all'Arco a sesto acuto, la piccola Chiesa della Santissima Trinità o del Simulacro del Crocefisso, unica chiesa con pianta a croce greca in Arpino, edificata nel 1720, con una facciata in severo stile tardobarocco con suggestioni neoclassiche, costituita da un corpo aggettante delimitato da due paraste in puddinga, e interno in parte affrescato e ornato con motivi religiosi tardobarocchi.

Lazio - Cista Ficoroni

 

La Cista Ficoroni è un cofanetto portagioielli, di rame e impropriamente detto in bronzo, decorato di forma cilindrica, finemente cesellato e sormontato da un coperchio ornato da tre sculture, per un'altezza di 77 centimetri. È il migliore reperto conosciuto, per dimensioni, qualità, ricchezza decorativa e stato di conservazione, di cista etrusco-italica.
La cista fu ritrovata a Palestrina da Francesco de' Ficoroni, antiquario, nel 1738. Passò poi al Museo kircheriano per poi finire nella collezione del Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma, dove tuttora si trova.
Si ipotizza possa trattarsi di un manufatto del IV secolo a.C., commissionato come dono di dote per la figlia da una matrona di una famiglia nobile prenestina, Dindia Macolnia, ad un artigiano probabilmente di origini campane, come traspare dal nome, Novios Plautios. Ne è conferma l'iscrizione sul coperchio, in latino arcaico (CIL I, 561= ILLRP 1197 = ILS 8562):
DINDIA MACOLNIA FILEAI DEDIT
NOVIOS PLAUTIOS MED ROMAI FECID

In latino classico:
DINDIA MACOLNIA FILIAE DEDIT
NOVIUS PLAUTIUS ME ROMAE FECIT

"Dindia Macolnia (mi) donò alla figlia / Novio Plauzio mi fece a Roma". Importante è anche la notizia che il manufatto venne eseguito a Roma, mentre il nome dell'artista farebbe pensare a un'origine campana.
La cista, di forma cilindrica, è decorata da finissime incisioni sul corpo e sul coperchio, con parti di bronzo fuso applicate, quali i tre piedi (uno è rifatto in epoca moderna) con elementi cesellati (Ercole, Iolao e Eros, ripetuto identico -nella foto a destra). Tre statuette in bronzo, collegate fra di loro tramite le braccia allargate, decorano la cima del coperchio e hanno la funzione di manico.
Coperchio

Il coperchio è decorato da tre fregi concentrici: al centro un'infiorescenza cruciforme, nella fascia media due scene di assalto di animali (una con protagonista un leone e l'altra con un grifo) e in quella esterna una scena di caccia, forse quella mitologica del cinghiale calidonio. Le tre figurette (nella foto a sinistra) a tutto tondo sul coperchio, che ritraggono Dioniso e due satiri, fanno da manico. Queste parti applicate non tengono conto della decorazione incisa, per cui non rientrano in un disegno decorativo unitario.

Corpo

Le incisioni sul corpo si dispongono su una grande fascia centrale, con figure mitologiche, e due alte fasce decorative ai bordi: quella superiore con una doppia serie (dritta e rovescia) di palmette e fiori di loto che inquadrano una piccola testa di Gorgone (gorgoneion); quello inferiore con sfingi alternate a palmette e fiori di loto, con un doppio bordo, uno con kyma lesbio e uno con kyma ionico.
La scena mitologica ritrae una scena del mito degli Argonauti, con la vittoria di Polluce sul re dei Bebrici (popolo della Bitinia), Amico. Gli Argonauti, sbarcati in cerca di approvvigionamenti, sono sfidati dal re, che aveva l'abitudine di attaccare gli stranieri colpendoli a morte coi suoi pugni. Il gigante è però sconfitto dal dioscuro Polluce che, risparmiandogli la vita, gli fa tuttavia promettere di rispettare d'ora in
avanti chiunque approdi sull'isola.
La composizione si articola in tre parti principali, che non sono del tutto unite, anche se lo sfondo roccioso del terreno è comune.
La prima scena mostra Polluce che lega Amico all'albero, sotto lo sguardo di Atena e di uno schiavetto con gli accessori del pugilato (tra i quali si ritrova il tipico vaso "a gabbia", noto in altri esemplari prenestini), mentre una Nike volante porta le bende e una corona al vincitore. A destra e a sinistra due coppie di spettatori chiudono a mo' di quinta la scena. Notevole è il senso di spazialità dato anche dalla diversa disposizione dei personaggi ai lati (uno seduto di profilo e uno in piedi di tre quarti a sinistra e uno seduto e uno in piedi di spalle a destra), nei quali sono forse da riconoscere il demone alato Sostene e il fratello di Amico Migdone di Frigia.
La seconda parte, raccordata da un'anfora, comprende alcuni argonauti alla fonte, tra i quali si riconosce un Greco che beve da una kylix decorata (un'altra si trova vicino appesa a un chiodo), un altro che si allena al pugilato e un Papposileno che è seduto e che imita scherzosamente il precedente. In terra giacciono varie anfore, alcune raffigurate in scorcio con notevole virtuosismo.
La terza parte mostra la prua della nave Argo dove si trovano tre Argonauti, mentre un quarto, con una cista e un barilotto in mano, scende da una scaletta e un quinto è lì seduto appresso.
Stile e datazione
La scelta delle scene non è completamente chiarita: la prima mostra un episodio concluso, da mettere in relazione alle analoghe raffigurazioni su specchi, mentre le altre due sembrano solo riempitive, per di più senza il senso logico che vedrebbe prima la nave (simboleggiante l'arrivo). Nonostante queste debolezze le figure sono costruite con notevole abilità, con scorci realistici e con un minuto tratteggio che indica alcune ombreggiature.
Da un'analisi complessiva emerge la coesistenza di diverse influenze artistiche: alla forma dell'oggetto, tipicamente prenestina, si affiancano decorazioni non originarie di Preneste, con alcuni dettagli legati al mondo etrusco-italico (i gioielli di Atena, le bullae su braccio di un Argonauta o il barilotto e il vaso "a gabbia"). Alcuni hanno ipotizzato un'origine letteraria delle scene in un dramma satiresco perduto di Sofocle (come farebbe pensare la presenza del Papposileno), mentre si esclude la derivazione dal perduto Ritorno degli Argonauti di Micone. Lo stile generale delle scene fa pensare infatti a un modello greco del IV secolo a.C., confrontabile anche con il Cratere degli Argonauti al museo archeologico nazionale di Firenze (370 a.C. circa). Altre analogie sono con le lotte tra animali della Tomba François, con sarcofagi di Tarquinia e di Praeneste. La datazione in ultima analisi viene fatta in genere risalire attorno al 340 a.C.