sabato 30 settembre 2023

“Palinsesti. Il Teatro antico dalla storia al mito” a Taormina fino al 31 ottobre

 


Si intitola “Palinsesti. Il Teatro antico di Taormina: dalla storia al mito” ed è la mostra – un progetto ibrido tra archeologia e contributi multimediali – concepita dal Parco Archeologico Naxos Taormina in collaborazione con Electa in programma dal 7 giugno e fino al 31 ottobre 2023 nel grande complesso monumentale del teatro.
Il progetto prevede il nuovo allestimento e la musealizzazione della versura ovest, l’ingresso occidentale alla cavea che, da spazio di transito, diventa contenitore narrativo di tutte le fasi di vita del Teatro Antico evidenziando – dalle trasformazioni in epoca greca e romana fino al riuso come palazzo signorile (XV sec.) – la singolare stratificazione (palinsesto) architettonica e simbolica dello spazio che, oggi come duemila anni fa, consentiva l’accesso agli spettacoli. In mostra le iscrizioni più importanti per comprendere la storia millenaria del Teatro e alcuni dei frammenti della decorazione architettonica del monumento: preziosi marmi d’età imperiale recuperati fra pezzi in magazzino o sinora poco valorizzati, restaurati per l’occasione e inseriti in un percorso museale appositamente elaborato dai curatori, gli archeologi Gabriella Tigano, direttrice del Parco Naxos Taormina, Maria Grazia Vanaria e Dario Barbera. L’allestimento è dell’architetto Massimo Curzi.
Un’indagine che, nella fase di riordino dei materiali e di recupero degli spazi nella versura, ha riservato agli studiosi anche alcune soprese: il ritrovamento dell’iscrizione di Paternus, un’importante epigrafe che si riteneva smarrita dall’Ottocento e con cui gli studiosi possono rivedere le precedenti ipotesi sulla fase di ristrutturazione del teatro del II secolo d.C., ovvero nella forma in cui è arrivato a noi; e la scoperta, sulle pareti dello spazio destinato all’allestimento, di scritte sui muri che documentano il restauro e l’apertura della versura occidentale ai visitatori, dal 1869 ai nostri giorni. Testimonianze (semmai ce ne fosse bisogno) dell’intensa frequentazione turistica del celebre monumento da parte di italiani e stranieri, che confermano come la (cattiva) abitudine di scrivere sui monumenti – al di là delle chiavi di lettura sociologiche – sia un fenomeno tutt’altro che contemporaneo, quanto profondamente legato alla nascita del turismo moderno e ai relativi rischi per la tutela del patrimonio paesaggistico e culturale.
Completa la mostra “Palinsesti” un percorso audiovisivo all’aperto, scandito da paline segnaletiche con QrCode che, attraverso immagini, narrazioni e rappresentazioni artistiche, suggeriscono una rilettura “guidata” del monumento e della nascita del suo mito moderno proponendo al visitatore contemporaneo le medesime prospettive di acquerelli, affreschi e inquadrature cinematografiche. Una sorta di viaggio nel tempo – e nello spazio, grazie alle citazioni di musei e istituti culturali che ospitano opere sul teatro di Taormina – per rivivere la fascinazione di uno dei siti archeologici più iconici del vecchio continente attraverso lo sguardo degli artisti che, a loro volta, sono stati suggestionati dalla visita al Teatro antico e le cui opere sono oggi custodite nei più celebri musei d’Europa (Parigi, Monaco, Vienna), a San Pietroburgo (Ermitage) e a Chicago (Art Institute).
Un’unica grande narrazione che, a partire dal post scaenium fino alla summa cavea abbraccia l’intero monumento con alcune tra le principali tappe del mito moderno del Teatro di Taormina: da Goethe, ai vedutisti del Grand Tour (Houel, Cassas) negli anni della nascita del pittoresco e del sublime; dal restauro romantico di Viollet-le-Duc ai paradisi artificiali di Klimt e von Gloeden di fine Ottocento; dalle prime locandine pubblicitarie del periodo fascista, che promuovono Taormina come località turistica, alla coeva ripresa degli spettacoli (il teatro classico, le regie di Ettore Romagnoli e i costumi di Duilio Cambellotti, le danze ispirate all’antico); infine il cinema italiano e internazionale degli anni Sessanta. La narrazione si conclude idealmente nella versura dove sono installati due ledwall di nuovissima generazione per la proiezione di altrettanti video. Il primo, già conosciuto, è quello realizzato nel 2017 dal Parco e dal CNR per il G7 con la spettacolare ricostruzione 3D (restauro digitale) del monumento che ai visitatori illustra la decorazione architettonica originaria del teatro in età imperiale. Il secondo, dedicato al concept della mostra “Palinsesti”, riunisce foto d’epoca e scatti recenti per ricostruire la storia moderna della versura, dal restauro del 1869 fino all’ultimo allestimento del 2017, con un focus sulle scritte sui muri appena ritrovate.
Opere d’arte, voci e immagini sovrappostesi e intrecciatesi nel tempo: un palinsesto simbolico che riassume la cultura occidentale degli ultimi tre secoli e si innesta sul palinsesto materiale del Teatro di Taormina rappresentato dalla versura ovest. Una narrazione complessa che incrocia linguaggi ed epoche e fa del celebre monumento un virtuale ipertesto, una “memoria” della memoria di tutti noi.


le foto:
- Due frammenti di colonna tortile dalla scaenae frons (terzo ordine, ai lati della porta regia?) fase traianeo-adrianea (II sec. d.C.) breccia di Sciro (ph. Alessandro Licciardello)  

Blocco di cava con iscrizioni dal Teatro, 108 d.C. marmo africano (ph. Alessandro Licciardello) lato B cur pat̂ er p[r]oc [sub?] cur(a) Pater(ni) proc(uratoris) sotto l’amministrazione del procuratore Paterno


Fontana di Pirene - GRECIA

 


La Fontana di Pirene o Fontana inferiore di Pirene (in greco Πειρήνη?) è il nome di una fontana o una sorgente della mitologia greca, situata a Corinto precisamente all'interno del sito dell'Antica Corinto.
Si diceva che fosse l'abbeveratoio preferito del cavallo Pegaso, nonché luogo sacro alle Muse. I poeti viaggiavano lì per bere e ricevere ispirazione.
Nel II secolo, il viaggiatore Pausania descrive il mito di Pirene, amante di Poseidone, la quale si dissolse in fonte a causa delle morte del fratello ucciso da Artemide. Egli racconta così:
«Lasciando il mercato lungo la strada per Lecheum, si giunge a una porta d'accesso, sulla quale si trovano due carri dorati, uno che porta Fetonte il figlio di Elio, l'altro Elio stesso. Un po' più lontano dalla porta, a destra mentre entri, c'è un bronzo di Ercole. Dopo di che ci è l'ingresso alla fonte di Pirene. La leggenda su Pirene narra che lei fosse una donna che divenne una fonte a causa delle lacrime versate per suo figlio Cencria, che fu involontariamente ucciso da Artemide. La sorgente è ornata di marmo bianco, e sono state costruite delle camere come delle grotte, dalle quali l'acqua scorre in un pozzo all'aperto. È piacevole da bere, e dicono che il bronzo Corinzio, quando è rovente, è temperato da quest'acqua, finché il bronzo dei Corinzi sia forte. Inoltre vicino a Pirene c'è un'immagine e un recinto sacro ad Apollo; su quest'ultimo vi è un dipinto della vendetta di Ulisse contro i pretendenti
Esiste anche un'altra versione, secondo cui la fontana fu creata dallo zoccolo di Pegaso che colpiva il suolo. Ad ogni modo, la leggenda di Pausania è molto più diffusa.
La sorgente superiore di Pirene, legata al racconto eziologico di Pausania, si trova sull'Acrocorinto, acropoli di Corinto. Si ritiene che il primo re di Corinto Sisifo, cercando di risolvere il problema della scarsità d'acqua in città, si ritrovò nei pressi della rocca, dove vide Zeus con una bella ninfa di nome Egina che era figlia del dio fluviale Asopo, rapita dallo stesso Zeus. Il dio Asopo si presentò allora a Sisifo nelle sembianze di un vecchio e gli chiese notizie di sua figlia. Sisifo disse di averla vista, senza però rivelare subito chi l'aveva rapita preferendo chiedere una fonte d'acqua per la sua città in cambio dell'informazione. Asopo promise che gli avrebbe dato la fonte e Sisifo mantenedo il patto rivelò che la ninfa era stata rapita da Zeus. Soddisfatto, Asopo fece dono al re della sorgente perenne detta Pirene.
In questo abbeveratoio, Bellerofonte riuscì a domare il cavallo Pegaso grazie a una briglia d'oro donata da Atena, permettendogli poi di compiere l'impresa della chimera.
Le prime pietre della costruzione risalgono al periodo arcaico (VII secolo a.C. o, più probabilmente, al VI secolo), costituendo in virtù dell'epoca storica una delle prime costruzioni di Corinto, assieme al tempio di Afrodite sull'Acrocorinto e alle mura settentrionali. La fontana ha subito non meno di nove trasformazioni nella sua storia. L'attuale forma della fontana risale al restauro operato da Erode Attico (vissuto nel 101-177 d.C.) in epoca imperiale romana, ma vi sono anche ulteriori modificazioni realizzate nel periodo bizantino.


Cenotafio di Druso - GERMANIA

 


Il Cenotafio di Druso (in tedesco Drususstein, letteralmente: Pietra di Druso) è una tomba romana risalente al I secolo d.C., le cui vestigia sono visibili sulla parte meridionale della Cittadella di Magonza.
La sua costruzione circolare è il più grande monumento funerario romano che si conservi attualmente in Germania, accanto ai resti dell'acquedotto romano (il cosiddetto Römersteine), uno dei resti dell'antico castrum legionario romano di Mogontiacum. 
Originariamente era rivestito di marmo. Gli studiosi sono concordi che si tratti dei resti strutturali del cenotafio menzionato da scrittori come Eutropio e Svetonio , eretto nell'anno 9 a.C. dalle truppe romane in onore del defunto generale Druso, a Mogontiacum (ora Magonza ), Druso maggiore, figlio di Livia Drusilla, terza moglie di Augusto. L'associazione al nome del generale romano si deve a un'iscrizione latina in cui si cita Druso sul Reno. Druso morì dopo essere caduto dal suo cavallo il 9 a.C., quando tornava dalle operazioni di conquista che portò avanti in Germania.
Dopo essere stato privato del suo involucro di marmo nell'alto medioevo , il Drususstein servì come torre di guardia nelle fortificazioni della città nel XVI secolo. A tale scopo furono realizzati una scala e un telaio della porta nella struttura, che fino a quel momento era stata una solida costruzione. Oltre ai pilastri degli acquedotti e al palcoscenico del teatro, il Drususstein è una delle poche testimonianze visibili della Mogontiacum romana. Insieme alla Colonna dell'Igel è l'unico monumento funerario dell'antichità a nord delle Alpi rimasto nella sua posizione originaria  
 
Al cenotafio di Druso è stata dedicata l'emissione di un francobollo della Deutsche Bundespost del 1962, in occasione della celebrazione del secondo millenario dalla fondazione della città di Magonza.

Imago Augusti. Due nuovi ritratti di Augusto da Roma e Isernia (Mercati di Traiano Museo dei Fori Imperiali, dal 29 giugno al 26 novembre 2023)

 

In esposizione due inedite teste-ritratto dell’imperatore Augusto scoperte recentemente durante le indagini archeologiche condotte a Roma e a Isernia.
Un dialogo ideale e iconografico tra due capolavori marmorei, il ritratto del giovane Ottaviano, che diventa poi Augusto, e quello del primo imperatore di Roma già insignito del titolo onorifico di Augustus, che diventa parte integrante del suo nome, è proposto dalla mostra “Imago Augusti. Due nuovi ritratti di Augusto da Roma e Isernia”.
Il progetto nasce dalla collaborazione scientifica tra la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per il Molise, unite in questo caso dall’eccezionale rinvenimento di due ritratti di Augusto scoperti recentemente a Roma e a Isernia che, per il loro alto valore iconografico e stilistico, possono offrire al pubblico un valido e interessante apporto nell’ambito degli studi sull’immagine e sulla storia della figura sempre attuale dell’imperatore.
Tanti gli elementi in comune tra le due opere, a partire dalla recente e inaspettata scoperta rispettivamente negli anni 2019 e 2021 nel corso di indagini archeologiche nelle aree centrali di Roma, nel Foro di Traiano, e di Isernia, nella zona presunta dell’antico foro, fino al comune riutilizzo, in età medievale, come “puro materiale” edilizio e addirittura di scarto, all’identità del personaggio raffigurato e, non da ultimo, all’elevata qualità artistica dei due esemplari.
Per questi aspetti, la mostra Imago Augusti, dopo la tappa romana al Museo dei Fori Imperiali nei Mercati di Traiano, viene allestita anche a Isernia, dal dicembre 2023, nel Museo Archeologico di Santa Maria delle Monache.
Il percorso espositivo sviluppa le tematiche legate ai due ritratti: la scoperta, i contesti e le modalità di reimpiego delle opere, l’iconografia e il valore politico dei ritratti, la figura dell’imperatore. Tutti questi contenuti sono proposti in modo immersivo, attraverso l’utilizzo di videoproiezioni, che, in parallelo, consentono di entrare nello scavo di via Alessandrina, viaggiare nei paesaggi molisani fino a Isernia e, infine, rivivere l’emozione delle due inattese scoperte.
Il recente scavo di via Alessandrina, nell’area del Foro di Traiano, ha ripreso un progetto più ampio di indagini estensive dei Fori Imperiali condotte negli anni del Giubileo del Duemila.
Nel caso di Isernia, il ritrovamento della testa di Augusto è avvenuto nel corso dei lavori di ripristino di un tratto di cortina delle mura urbiche crollato a causa di un violento temporale nel marzo 2013.
Le peculiari modalità di tali rinvenimenti non forniscono indicazioni certe sul contesto originario dei ritratti e dunque sullo specifico messaggio ideologico e politico di cui essi dovevano essere portatori. È tuttavia innegabile che si tratti di due capolavori unici che si inseriscono a buon diritto nel già ricco panorama delle immagini del princeps, la cui ampia diffusione nell’Urbe e nelle aree periferiche italiche si qualifica storicamente come funzionale alla costruzione di un consenso sempre più ampio nei territori dell’impero.
Nell’approfondimento storico, iconografico e stilistico dei due ritratti, l’analisi dei dettagli fisionomici ne consente l’inquadramento in due momenti diversi: nella raffigurazione di via Alessandrina un giovane Ottaviano esprime il carattere forte e determinato dell’erede di Giulio Cesare; nell’altra si percepisce la dimensione più matura e riflessiva dell’uomo divenuto titolare di un potere illimitato. Il linguaggio figurativo elaborato tra il 40 e il 38 a.C. per il poco più che ventenne Ottaviano si evolve infatti in quello del politico ormai affermato al quale il Senato decise di conferire nel 27 a.C. il titolo onorifico di Augustus, che diventerà parte integrante del suo nome.
Proprio basandosi sulle diverse cronologie dei ritratti e sulla suggestiva conformazione spaziale semiellittica, l’ultimo ambiente del Museo dei Fori Imperiali è stato concepito come un teatro nel quale i visitatori, a orari regolari, possono assistere a un dialogo immaginario tra le due anime di Augusto, e al contrasto tra una personalità giovane e idealista e una più matura e pragmatica, dando voce ad una contrapposizione sempre attuale. Una formulazione espositiva capace di coinvolgere un pubblico diversificato e ampio attraverso l’esperienza innovativa della teatralizzazione, nella quale i reperti diventano oggetti “parlanti” che interagiscono tra loro e con il pubblico.
La mostra, infine, si propone come progetto di valorizzazione culturale accessibile e inclusivo sotto molteplici aspetti.
Grazie al servizio dedicato del Dipartimento Politiche Sociali e Salute - Direzione Servizi alla Persona, affidato alla Cooperativa Sociale Onlus Segni di Integrazione - Lazio, i testi del dialogo teatralizzato e dei pannelli didattici sono stati tradotti in LIS (Lingua dei Segni Italiana), registrati e fruibili gratuitamente attraverso QR code. Allo stesso tempo, per permettere la fruizione e la mobilità in autonomia nelle sale espositive ai non vedenti, sono state realizzate sui modelli 3D le copie in marmo sintetico a grandezza naturale dei due ritratti di Augusto, con didascalie in italiano/inglese e alfabeto Braille e una planimetria col percorso della mostra in italiano e alfabeto Braille. L’offerta didattica è completata da visite guidate (in definizione) accompagnate da operatori specializzati e laboratori integrati.

GLI DEI RITORNANO. I BRONZI DI SAN CASCIANO . La mostra al Palazzo del Quirinale prorogata fino al 22 dicembre 2023

 

La mostra Gli Dei ritornano. I bronzi di San Casciano al Palazzo del Quirinale presenta per la prima volta al pubblico le straordinarie scoperte compiute nel 2022 nel santuario termale etrusco e romano del Bagno Grande di San Casciano dei Bagni: si tratta del rinvenimento del più grande deposito di statue in bronzo di età etrusca e romana mai scoperto nell’Italia antica, nonchè uno dei più significativi di tutto il Mediterraneo.
L’allestimento della mostra, a cura del direttore generale musei Massimo Osanna e del professore dell’Università per Stranieri di Siena Jacopo Tabolli,  si sviluppa come un iter attraverso i secoli all’interno del paesaggio delle acque termali del territorio dell’antica città-stato etrusca di Chiusi (che in lingua etrusca si chiamava Clevsin o Camars).
Si tratta di oltre venti statue ed ex-voto anatomici, che raffigurano le divinità venerate nel luogo sacro assieme agli antichi dedicanti. L’eccezionale stato di conservazione all’interno dell’acqua termale della sorgente ha permesso anche di preservare le iscrizioni in etrusco e latino incise sulle statue prima della loro realizzazione. La gran parte di questi capolavori è databile tra il II e il I secolo a.C., un periodo storico di grandi trasformazioni nell’Etruria, nel passaggio tra Etruschi e Romani. In quest’epoca di grandi conflitti tra Roma e le città etrusche, ma anche di lotte interne a Roma, nel santuario nobili famiglie etrusche e romane dedicarono assieme le statue: un contesto multiculturale e plurilinguistico di pace quindi, circondato da instabilità politica e guerra.
Le statue erano poste sul bordo esterno della grande vasca sacra e ancorate sui blocchi in travertino. A più riprese – sicuramente nel corso del I secolo d.C. – le statue furono staccate dal bordo della vasca e depositate sul fondo; si tratta dunque di una deposizione rituale, mediata con la divinità. Gli atti votivi proseguirono poi fino al IV secolo d.C. con la deposizione di quasi seimila monete (in argento, bronzo e oro). Solo agli inizi del V secolo d.C. il santuario venne smantellato e chiuso. Il grande tesoro sacro nella vasca fu coperto da grandi tegole e al di sopra vennero calate le colonne del portico a suggellare la chiusura definitiva del luogo di culto.
Tutti questi preziosi reperti raccontano una storia di devozione, di culti e riti ospitati in luoghi sacri dove l’acqua termale era usata anche e soprattutto a fini terapeutici.






(le foto sono tratte dal sito del Palazzo del Quirinale)

Gladiatori nell’Arena. Tra Colosseo e Ludus Magnus Roma, Colosseo, 21 luglio 2023 – 7 gennaio 2024

 
Il Parco archeologico del Colosseo presenta l’evento espositivo “
Gladiatori nell’Arena. Tra Colosseo e Ludus Magnus”, ideato e realizzato dal Parco archeologico del Colosseo con la curatela di Alfonsina Russo, Federica Rinaldi, Barbara Nazzaro e Silvano Mattesini. L’evento si compone di una installazione multimediale permanente e di una esposizione temporanea visitabile dal 21 luglio 2023 al 7 gennaio 2024 all’interno dei sotterranei del Colosseo.
L’idea di questa iniziativa nasce innanzitutto dal recupero e valorizzazione del criptoportico orientale del Colosseo che in età romana collegava l’Arena con il quartiere delle palestre realizzate dall’imperatore Domiziano, di cui quella più famosa è il Ludus Magnus, la più grande, ma anche l’unica di cui si conserva parte delle strutture antiche. Qui i gladiatori si allenavano e si preparavano alle esibizioni.
Nel XIX secolo la costruzione di un collettore fognario a servizio del popoloso quartiere Esquilino ha interrotto questa antica connessione, che oggi finalmente torna ad essere ripristinata: grazie ad una sofisticata presentazione multimediale con proiezione olografica, perfettamente orientata sull’asse Colosseo-Ludus Magnus, sarà virtualmente “demolito” il muro che interrompe il collegamento, restituendo così al pubblico una visione unitaria dell’area archeologica contemporanea, mentre i gladiatori torneranno a solcare l’originario pavimento in opus spicatum del criptoportico, avanzando verso l'Arena vestiti delle loro pesanti armature.
Per rendere ancora più completa questa esperienza di conoscenza e valorizzazione, la riapertura del Criptoportico dei Gladiatori sarà raccontata assieme ad una esposizione temporanea che intende illustrare una selezione delle principali tipologie di coppie di gladiatori che si esibivano in combattimento sul piano dell’Arena e che con ogni probabilità proprio dal
Ludus Magnus e dalle limitrofe caserme arrivavano al Colosseo.
L’allestimento, che si snoda in alcuni degli ambienti sotterranei degli ipogei, abbina reperti originali di età romana, che riproducono immagini di gladiatori colti nelle tipiche posizioni da combattimento, con ricostruzioni, al vero, delle loro armature, realizzate secondo la tecnica antica dello sbalzo e della fusione dal Maestro Silvano Mattesini.
È così possibile ammirare le armature complete del
Murmillo e del Thraex, accanto agli elmi originari di Pompei provenienti dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ai preziosi elmi miniaturistici in ambra provenienti dal Museo Archeologico Nazionale di Aquileia e alla stele funeraria del Murmillo Quintus Sossius Albus, ugualmente da Aquileia. Sono inoltre esposti al pubblico i graffiti dei gradini della cavea del Colosseo in cui il pubblico dell’epoca aveva rappresentato i propri beniamini in combattimento, accanto alle armature complete di un Retiarius e di un Secutor. Quella dell’Hoplomachus con il suo tipico scudo rotondo, avversario del Murmillo, è esposta accanto a due statuine da Aquileia, una anche in lega metallica. Infine un video illustra le fasi delle riproduzioni delle armature, forgiate con il ricorso alle tecniche antiche, nell'ambito di un progetto di archeologia sperimentale.
All’interno di questa cornice programmatica il PArCo ha accolto la proposta di una partnership con il Gruppo Hornblower, primaria azienda statunitense attiva nei trasporti e nel turismo fondata a Boston nel 1926, orientando la propria mission verso una politica di partecipazioni pubblico-private.
La valorizzazione del Criptoportico e dei sotterranei, con il racconto di ciò che effettivamente avveniva in questi luoghi, restituisce al contesto la sua originaria funzione e rientra a pieno titolo nella strategia culturale che contraddistingue le azioni del Parco archeologico del Colosseo –
dichiara Alfonsina Russo, Direttore del Parco archeologico del Colosseo. Ampliare l'offerta culturale con tecnologie innovative, che consentano di rendere immediatamente percepibile la funzione e le vicende storiche dei monumenti, costituisce uno degli obiettivi primari che il PArCo da sempre porta avanti, anche con il partenariato pubblico-privato che negli anni ha contribuito a realizzare importanti progetti finalizzati soprattutto al miglioramento della fruizione e dell’accessibilità sia fisica che culturale.
La Hornblower Corp. è da sempre impegnata ad offrire servizi ed esperienze di alta qualità ai propri clienti, nonché coinvolta in progetti di sostenibilità in ambito ambientale e sociale – dichiara l’Azienda. L'idea di poter supportare il restauro di una porzione dei Sotterranei del Colosseo e di far rivivere le scene del passaggio dei Gladiatori dal tunnel che li collegava al Ludus Magnus, è stata accolta subito come una grande ed emozionante opportunità di restituire al mondo un "piccolo" pezzo di storia mai visto prima. L'intesa con il Parco Archeologico è stata immediata, così come la condivisione del valore culturale ed educativo di questo progetto.
Cuore dell’esposizione è il
Criptoportico che come anticipato collegava il Colosseo con il quartiere delle scuole di addestramento, comprendente oltre al Ludus Magnus anche il Ludus Gallicus, il Matutinus e il Dacicus, la sede per i marinai della flotta di Miseno addetti alla manovra del velum, i Castra Misenatium, i depositi per le Armi, gli Armamentaria, l’ospedale o Saniarium, lo Spoliarium, dove si svestivano i corpi dei combattenti morti e infine il Summum Choragium, fabbrica e deposito delle scenografie. Il Criptoportico si sviluppa fino all’interruzione moderna e conserva ancora l’originaria pavimentazione in mattoni disposti a spina di pesce (opus spicatum), parte della volta in travertino e lembi di rivestimento di intonaco alle pareti.
Il Criptoportico rimarrà visitabile anche dopo la fine della mostra, arricchendo in modo suggestivo il percorso di visita degli ipogei.
La mostra raccoglie 12 opere di età romana provenienti dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dal Museo Archeologico Nazionale di Aquileia e dalle collezioni del Parco archeologico del Colosseo, a cui si aggiungono le armature facenti parte della Collezione privata di Silvano Mattesini.


venerdì 29 settembre 2023

Ercole del Foro Boario (Lazio)

 
L'Ercole del Foro Boario, noto anche come Ercole capitolino, è una statua in bronzo dorato scoperta nel sito del Foro Boario dell'antica Roma quando i resti del tempio a lui dedicato furono demoliti durante il papato di Sisto IV (1471–84). Nel 1510 è già inventariato nel Palazzo dei Conservatori al Campidoglio dove è tuttora conservato. È probabilmente la statua di culto citata da Plinio il Vecchio nel tempio circolare, il tempio di Ercole Vincitore che si trovava nell'antico mercato del bestiame, e che presentava anche un altare all'aperto dedicato a Ercole.
La figure di Ercole ha la sua clava nella mano destra e tiene nella sinistra le tre mele del giardino delle Esperidi. Le mele lo identificano specificatamente come l'Ercole dell'occidente, il luogo dove vinse Gerione. Nelle versioni romane del mito delle fatiche di Ercole, Caco, sull'Aventino, rubò il bestiame mentre Ercole dormiva. Ercole guidò il resto della mandria vicino al luogo dove Caco aveva nascosto gli animali rubati, ed essi cominciarono a chiamarsi gli uni con gli altri. Ercole allora uccise Caco e, secondo i romani, fondò un altare dove in seguito si tenne il Forum Boarium, il mercato dei bovini.
La scultura, leggermente maggiore del reale, è un lavoro ellenistico del II secolo a.C. che, insieme all'Ercole del Teatro di Pompeo (scoperto nel 1864 nei pressi del Teatro di Pompeo e ora ai Musei vaticani), si basa sul canone della proporzioni fissato da Lisippo agli inizi del IV secolo: una figura più snella rispetto all'ideale di Fidia, con una testa in proporzione più piccola. La finezza della testa è enfatizzata dai capelli corti da atleta; è anche presente il chiasmo tipico dello stile di Lisippo, in cui il peso della figura è tutto su un piede. Nonostante la muscolatura esagerata, è netto il contrasto con il barbuto, corpulento e forse più familiare Ercole Farnese.


Arco di Germanico - FRANCIA

 


L'arco di Germanico è un arco onorario romano del I secolo situato a Saintes (dipartimento della Charente Marittima nella regione del Poitou-Charentes), antica Mediolanum Santonum.
L'arco fu eretto nell'anno 18 o 19 per l'imperatore Tiberio, suo figlio Druso minore e suo nipote e figlio adottivo Germanico. La costruzione fu finanziata da un privato cittadino, Caio Giulio Rufo.
L'iscrizione di dedica sull'attico, danneggiata dove menziona Tiberio e Druso e meglio conservata dove menziona Germanico, è all'origine della denominazione con cui l'arco è normalmente conosciuto.
Era collocato all'ingresso in città della via romana che conduceva a Saintes da Lione (Lugdunum, via Agrippa), sul ponte romano sul fiume Charente, ma venne smontato e ricostruito a partire dal 1843 a circa 15 m di distanza dalla riva, per permettere i lavori sugli argini del fiume che comportarono la distruzione del ponte e fu restaurato nel 1851.
L'arco, alto quasi 15 m e largo 15,90 m, presenta due fornici (alti 10 m), sotto i quali si svolgeva la circolazione viaria nei due sensi. I tre piloni sono decorati agli angoli da lesene su alti piedistalli, con fusti scanalati e capitelli corinzi. Le lesene sorreggono una trabeazione che gira sui quattro lati del pilone e svolge la funzione di imposta degli archi dei fornici. Sopra questa agli spigoli dell'arco, delle colonne inserite nella muratura, sempre con fusti scanalati, ma con capitelli compositi, sorreggono la trabeazione principale. Al di sopra è un basso attico con un coronamento.
L'iscrizione dell'arco riporta sull'attico la dedica "a Germanico Cesare, figlio di Tiberio Augusto, nipote del divo Augusto, pronipote del divo Giulio, augure, flamine augustale, console per la seconda volta, acclamato imperatore per la seconda volta", "a Tiberio Cesare Augusto, figlio del divo Augusto, nipote del divo Giulio, Pontefice massimo, console per la terza volta, acclamato imperatore per l'ottava volta, rivestito della potestà tribunizia per la ventunesima volta" e "a Druso Cesare, figlio di Tiberio Augusto, nipote del divo Augusto, pronipote del divo Giulio, pontefice augure.
Sul fregio della trabeazione principale il dedicante riporta la propria genealogia: "Caio Giulio Rufo, figlio di Caio Giulio Catuaneunio, nipote di Caio Giulio Agedomopate, pronipote di Epotsorovide, della tribù Voltinia, sacerdote di Roma e di Augusto presso l'altare che è ad Confluentem, praefectus fabrum (L'altare di Roma e Augusto ad Confluentem si trovava a Lione).

Ercole del Teatro di Pompeo - CITTA' DEL VATICANO

 
L'
Ercole del Teatro di Pompeo è una scultura in bronzo dorato, scoperta nel 1864 nei pressi del Teatro di Pompeo nell'area del cortile di palazzo Orsini Pio Righetti. Fu sepolta con cura sotto le piastrelle protettive, con inciso FCS (fulgor conditum summanium), indicando che era stato colpito da un fulmine ed era stato accuratamente sepolto sul posto
Si tratta di un bronzo romano classicheggiante dei primi anni del II secolo a.C., che aderisce allo stesso canone delle proporzioni di Lisippo.
La figura si appoggia leggermente sulla clava tenuta in verticale; la pelle del leone di Nemea è drappeggiato sul suo avambraccio sinistro.
Mostra caratteristiche simili all'Ercole del Foro Boario: entrambe le sculture mostrano il chiasmo tipico dello stile di Lisippo, in cui il peso della figura è tutto su un piede. Anche se la loro muscolatura è esagerata, sono in netto contrasto con il barbuto, corpulento e forse più familiare Ercole Farnese.
La statua si trova al museo Pio-Clementino.





Adrumeto - TUNISIA

 


Adrumeto (in latino Hadrumetum; in greco antico ᾿Αδρύμητος) è stata una colonia fenicia e poi città romana, oggi corrispondente alla città di Susa, capoluogo dell'omonimo governatorato in Tunisia. I resti della città antica si trovano in massima parte sotto la città moderna. Secondo la tradizione la città sarebbe stata fondata in epoca molto antica, prima della fondazione della stessa Cartagine, forse addirittura nell'XI secolo a.C., da coloni provenienti dalla città di Tiro. Le più antiche testimonianze archeologiche, raccolte nel tophet, risalgono al VII secolo a.C..
La città si impiantò inizialmente presso il fiume, utilizzando le pendici della collina come necropoli. Durante la spedizione siracusana in Africa, alla fine del IV secolo a.C., fu assediata e conquistata da Agatocle. Nel 203 a.C. servì di base all'esercito di Annibale, ritornato in Africa dopo la spedizione in Italia, prima della battaglia di Zama.
Dopo la distruzione di Cartagine da parte dei Romani (146 a.C.), ebbe lo status di città libera, collocata nella provincia dell'Africa. Aveva un vasto territorio, utilizzato per la coltivazione dell'olivo, e un porto attivo. Fu inoltre sede dell'amministrazione delle proprietà imperiali nella regione (procurator regioni Hadrumetinae). Sotto Traiano ottenne il titolo di colonia, con il nome di Colonia Concordia Ulpia Traiana Augusta Frugifera Hadrumetina.
Raggiunse l'apogeo in età antonina e severa, ma declinò a partire dal III secolo d.C.. Fu tuttavia capoluogo della provincia dioclezianea della Valeria Byzacena. Fu sede episcopale (Dioecesis Hadrumetina).
Sotto il regno dei Vandali la città, dopo essere stata saccheggiata, prese il nome di Hunericopolis (dal re vandalo Unnerico, 477-484). Dopo la riconquista bizantina la città prese il nome di Iustinianopolis, dall'imperatore Giustiniano (527-575). Fu poi presa dal califfato omayyade nel VII secolo. Al di sotto della chiesa cattolica di Susa sono stati rinvenuti i resti del tophet, in funzione tra il Vii e il I secolo a.C.; le necropoli puniche sorgevano, nelle vicinanze della città sulle pendici della collina che oggi ospita la qasba.
I monumenti cittadini sono scomparsi sotto la città moderna, ma sono stati ritrovati i resti di diverse abitazioni decorate da mosaici: dalla "casa di Virgilio" (III secolo) proviene un riquadro a mosaico con il ritratto di Virgilio conservato presso il Museo nazionale del Bardo a Tunisi; la "casa delle Maschere e del Poeta" ha restituito altri mosaici di epoca severiana. Il museo archeologico di Susa possiede una ricca collezione di mosaici e numerose sculture (un grande rilievo trionfale, un ritratto colossale di Traiano e due statue frammentarie in corazza provengono probabilmente dal foro cittadino).
Si conservano inoltre delle catacombe cristiane.

Tempio di Augusto e della dea Roma - CROAZIA

 


Il tempio di Augusto e della dea Roma di Pola è un tempio romano costruito nel I secolo d.C. per glorificare l'imperatore e la città. Sorgeva nell'antico foro di Pietas Iulia, insieme al tempio gemello probabilmente dedicato a Diana. Il tempio sorse sui resti del podio di un precedente santuario edificato tra il 42 a.C. e il 16 a.C., quando l'Impero Romano era in piena espansione e la città di Pietas Iulia era ancora fuori dai suoi confini e possedeva dunque lo status di colonia. La costruzione si colloca nel grande piano voluto dall'imperatore Ottaviano di rinnovo dell'urbanistica di gran parte delle città allora sottomesse a Roma, nell'ottica di celebrare la neonata istituzione imperiale, che aveva sostituito una repubblica durata quasi cinque secoli. Costruito tra il 2 a.C. e il 14 d.C., il tempio era dedicato all'imperatore stesso.
Il luogo di culto venne anche dedicato alla dea Roma, poiché Augusto era restio alla costruzione di edifici in suo nome che non fossero dedicati anche alla figura dell'Impero divinizzato, in modo che il passaggio alla nuova forma di governo non sembrasse troppo brusco e radicale. Il tempio fu chiuso alla fine del IV secolo, quando il Cristianesimo divenne religione di Stato e i culti pagani furono soppressi. Come molti altri edifici simili (tra cui il Pantheon, la Maison Carrée e i due tempietti del Foro Boario) deve la sua preservazione alla trasformazione in chiesa dedicata a Maria durante l'VIII secolo, quando l'Istria venne annessa dai Bizantini. Nel XVI secolo uno dei lati della cella fu danneggiato da un incendio. Il danno fu riparato solo nel XVII secolo dai Veneziani, che avevano conquistato le coste dell'Istria e della Dalmazia. Diversi edifici sorsero attorno al tempio, che venne inglobato in un complesso più esteso. Il pronao divenne un loggiato, mentre l'interno venne trasformato in un granaio. Nel XVIII secolo venne trasformato in una stalla, ma con la riscoperta dell'arte classica l'erudito Scipione Maffei propose di trasportare il tempio a Venezia, come eccelso esempio di architettura, insieme all'anfiteatro romano della stessa città, ma l'idea non venne eseguita a causa dell'alto costo dell'operazione.
Tra il 1920 e il 1925 vennero demolite le strutture che si erano insediate attorno all'edificio. Quest'ultimo venne restaurato negli stessi anni e riportato alle forme originarie dall'architetto Alessandro Rimini su incarico della Soprintendenza di Trieste. Durante la Seconda guerra mondiale, il 3 marzo 1944, il tempio subì danni a causa di un bombardamento alleato sulla città di Pola, la quale era occupata dalle forze naziste. Il restauro durò fino al 1947 e venne curato dalla Soprintendenza delle Belle Arti di Trieste, poiché la città era ancora italiana (lo sarebbe stata fino al febbraio, quando venne firmato il Trattato di Parigi). Ciò ha permesso alla struttura di giungere in buone condizioni sino ai giorni nostri.
L'interno dell'edificio ospita un piccolo museo di lapidi e sculture romane rinvenute durante gli scavi archeologici della colonia di Pietas Iulia, istituito nel 1806 dal generale francese Marmot, governatore delle Province Illiriche, durante le conquiste napoleoniche. Alcune tracce di affreschi sono ancora visibili sui muri della cella.
Un tempio gemello venne costruito nella stessa area, ma già nel XIII secolo l'edificio non era più in buone condizioni, tanto che nel 1296 venne inglobato nell'edificio del Comune. Il retro del tempio è ancora visibile all'esterno del palazzo. l tempio misura 8.05 metri in larghezza, 17.5 metri in profondità e 12 metri in altezza e poggia su un alto podio. Una scalinata composta da sette gradini unisce il livello della pavimentazione con quello del pronao.
Il tempio è tetrastilo prostilo, ossia con quattro colonne sul fronte principale, e due posizionate lateralmente, per un totale di sei colonne. L'ordine è corinzio, nonostante la scelta atipica di utilizzare colonne a fusto liscio invece che scanalato (come nel Pantheon). La cella ha ai quattro angoli pilastri scanalati, mentre l'ingresso al tempio è decorato con paraste. Il materiale usato per la costruzione dell'edificio è marmo bianco. Il tempio non aveva frontoni decorati, ma solo una dedica scritta a caratteri bronzei sull'architrave, che recitava "Romae et Augusto Caesari Divi F. Patri Patriae".
Nel complesso l'edificio appare slanciato ed elegante, con un forte contrasto tra parti aggettanti e rientranti, in particolar modo a livello del pronao, dove è presente un grande contrasto tra luci ed ombre. La struttura venne studiata da Andrea Palladio nel XVI secolo.

Grotta di Gorham - GIBILTERRA



La 
grotta di Gorham si trova a Gibilterra. Deve il suo nome al capitano britannico che la scoprì nel 1907. L'intero contesto in cui è collocata la grotta è un sito importante per i ritrovamenti di archeologia preistorica e paleontologia avvenuti a partire dal XIX secolo. Nel 1848, nel vicino sito di Forbes' Quarry, vi fu il secondo ritrovamento, in ordine di tempo, di un cranio di Uomo di Neanderthal, dopo quelli avvenuti delle Grotte di Schmerling a Engis, in Belgio.
Alcune ricerche condotte dal 1999 al 2005 suggerirebbero una frequentazione dei Neanderthaliani tra -28 000 e -24 000 anni, dunque con una lunga coabitazione con Homo sapiens, geograficamente presente dai - 32 000 anni. Questi risultati, peraltro, sono fermamente criticati da Joao Zilhao, dell'università di Bristol, secondo cui la data di estinzione dei Neanderthaliani andrebbe spostata all'indietro a -37 000 anni. Nel mese di luglio 2012 vi fu trovata un'incisione rupestre di natura simbolica, composta da otto linee profondamente scavate nella roccia, divise in due gruppi costituiti da tre incisioni lunghe, intersecati da due linee più brevi. La composizione è stata descritta come un manufatto di "arte astratta".
Secondo Joaquín Rodríguez-Vidal, dell'Università di Huelva, il ritrovamento restituisce "il primo esempio dimostrabile in modo diretto di un'opera astratta, realizzata con cura e regolarità, che ha richiesto uno impegno prolungato e concentrato, che sia stata prodotta in una grotta".
L'opera consente di ripensare le capacità dei Neanderthal nella produzione simbolica e nella elaborazione ed espressione di un pensiero astratto.

Museo archeologico nazionale della Siritide (Basilicata)

 


Il Museo archeologico nazionale della Siritide è un museo archeologico situato all'interno del sito archeologico di Heraclea (Herakleia), nei pressi di Policoro, in provincia di Matera.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale della Basilicata, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Venne inaugurato nel 1969, presenta i reperti rinvenuti ad Heraclea secondo un percorso cronologico dal neolitico all'età romana.
La prima sezione è dedicata alle testimonianze neolitiche, che provengono dalle grotte di Latronico e dal altre aree della zona e consistono in ceramiche dipinte a fasce rosse risalenti al VI-III millennio a.C.
La seconda sezione si centra invece sull'età del bronzo, a cui appartengono il corredo funerario di una tomba del 2000 a.C. rinvenuta a Tursi e le ceramiche micenee del 1200 a.C. Altri reperti provengono dagli scavi intorno all'antica colonia magnogreca di Siris con testimonianze del tempio arcaico e della necropoli consistenti in statuette votive, decorazioni e bassorilievi e elmi.
La terza sezione è tutta dedicata alla città di Heraclea: sono presenti anche qui statuette votive, laminette bronzee e anche monete mognogreche e romane, matrici per il vasellame, crateri, coppe, vasi e una matrice a rullo per decorare i vasi dei cortili delle case.
Nella quarta sezione sono situati i reperti delle necropoli magnogreche tra cui spicca la Tomba di Policoro con numerosi grandi vasi a figure rosse di tema mitologico.
La quinta e ultima sezione è dedicata alle popolazioni enotrie e lucane stanziate lungo i corsi dei fiumi Agri e Sinni. I reperti provengono dai corredi delle necropoli di Anglona, Chiaromonte, Tursi e Armento e Aliano con un corredo funebre di una principessa e circa mille tombe risalenti a circa VII-VI a.c.

Corick - IRLANDA DEL NORD

 


Corick è un sito megalitico nelle vicinanze di Magherafelt, nella contea di Londonderry, Irlanda del Nord. È composto da cinque cerchi, uno con una grande pietra eretta nel mezzo, e da tre allineamenti di massi che restano a 400 metri a sud di Corick Clachan, vicino ad un ruscello. Nel 1940 il sito fu descritto come costituito da 3 cerchi di pietra con allineamenti e una possibile tomba posta a nord-ovest. Al giorno d'oggi rimangono solo quattro allineamenti, tre dei quali molto ben definiti e composti da rocce di altezza variabile da 30 centimetri a 1,6 metri. Si possono notare due enormi massi, i quali potrebbero essere i resti di una sepoltura. Le strutture puntano in direzione nord-sud, tranne una che è rivolta a OSO-ENE e che è composta dai massi più imponenti del sito. A Sud-Ovest vi sono i resti di un cerchio di pietra, di cui solo 6 pietre del lato ovest sopravvivono, con una grande pietra centrale. Anche se spesso si crede che il monumento e i suoi allineamenti siano stati realizzati per un importante scopo, la rozzezza delle pietre indica che non avrebbe potuto essere utilizzato come calcolatrice avanzata astronomica. Il posizionamento, pertanto, è più probabilmente simbolico che funzionale.


Leone del Pireo (Veneto)

 


Il Leone del Pireo è una delle quattro statue di leoni presenti all'esterno dell'Arsenale di Venezia.
La statua originariamente si trovava al Pireo, l'antico porto di Atene. Fu portata a Venezia come bottino, dal comandante navale Francesco Morosini nel 1687, durante le guerre della Lega Santa contro l'Impero ottomano, quando i veneziani assediarono Atene. Copie della statua si trovano al Museo Archeologico del Pireo e al Museo Storico di Stoccolma.
Il leone era un monumento molto noto del Pireo, dove si trovava dal I o II secolo. La sua notorietà era tale che gli italiani chiamavano il porto Porto Leone.
L'animale è seduto, ha la gola cava e aveva sul retro il segno (ora scomparso) di un tubo. Ciò fa pensare a un suo precedente utilizzo come fontana.
La statua, di marmo bianco, alta circa 3 metri, è particolarmente conosciuta per essere stata oggetto di una singolare manomissione avvenuta intorno alla seconda metà dell'XI secolo, a opera di alcuni scandinavi che incisero due lunghe iscrizioni runiche sulle spalle e sui fianchi del leone. Le rune sono incise seguendo la forma di un elaborato lindworm (dragone), motivo ricorrente in altre pietre runiche che si trovano in Scandinavia.
Gli incisori erano quasi certamente Variaghi, mercenari scandinavi al servizio dell'Impero bizantino che erano stati inviati in Grecia a reprimere una rivolta della popolazione locale. Qualche anno fa una copia di questo leone è stata ricollocata nella posizione che occupava nel porto del Pireo.
Le iscrizioni non vennero identificate come rune sino alla fine del XVIII secolo quando furono notate dal diplomatico svedese Johan David Åkerblad. Furono trascritte e tradotte per la prima volta nella metà del XIX secolo da Carl Christian Rafn, segretario della Kongelige Nordiske Oldskrift-Selskab (Società Reale degli Antiquari Nordici). Le iscrizioni sono state erose dalle intemperie e dall'inquinamento atmosferico, che hanno reso difficilmente leggibili alcuni dei suoi caratteri. Le lacune nel testo sono state pertanto colmate dagli interpreti mediante ipotesi e inferenze sul loro significato, basandosi su ciò che è rimasto leggibile.
Lato destro del leone:
Asmund incise queste rune con Asgeir e Thorleif, Thord e Ivar, su richiesta di Harold l'Alto, nonostante i greci riflettendoci lo vietino.
Lato sinistro del leone:
Hakon con Ulf e Asmund e Örn conquistarono questo porto. Questi uomini e Harold l'Alto imposero una forte tassa a causa della rivolta dei greci. Dalk è tenuto prigioniero in terre lontane. Egil è andato in missione con Ragnar in Romania e in Armenia.
Alcuni hanno tentato di collegare il nome Harald, citato nelle iscrizioni, con il sovrano Harald III di Norvegia, ma il periodo in cui esso fu inciso non coincide con quello in cui fu al servizio dell'Imperatore di Bisanzio.

Tempio di Ħaġar Qim (Malta)

 


Il tempio di Ħaġar Qim (pronuncia hagiar im), che tradotto vuol dire la "pietra eretta" o "pietra del culto", fu scavato per la prima volta nel 1839 ed è stato datato alla fase di Tarxien (c. 3200-2500 a.C.). Si trova sulla sommità di una collina posta sul versante meridionale dell'isola di Malta, guardante il mare e la piccola isola di Filfola. Dista circa 2 km ver sud-ovest dal villaggio di Crendi. Nelle vicinanze di Ħaġar Qim si trova un altro luogo notevole dal punto di vista templare: Mnajdra. La zona circostante, tipica macchia mediterranea, è un parco archeologico atto a preservare le rovine, spesso devastate da vandali. Sono state fatte interessanti scoperte a Ħaġar Qim come un altare colonnare decorato, due altari a forma di lasta e diverse statuette raffiguranti una dea molto pingue, probabilmente raffigurazioni della Dea Madre, conservate ora al Museo nazionale di archeologia della Valletta.
Ħaġar Qim è una singola unità templare, tuttavia rimane nel dubbio se fosse stato costruito come una struttura a 4 o 5 lobi. Nelle vicinanze del tempio sorge un'altra piccola struttura a 3 lobi che, probabilmente, era il quartier generale dei sacerdoti o la casa dello sciamano. Altre rovine sorgono ad alcuni metri dal tempio principale. Lo stile costruttivo segue il modello tipico dell'arcipelago maltese, degno di nota è il fatto che alcuni blocchi sono dentellati per meglio incastrarsi con gli altri corsi di muratura. Tranne qualche blocco rimesso al suo posto perché crollato nessun altro tipo di intervento è stato fatto sul tempio.
Ħaġar Qim è uno dei Templi megalitici di Malta riconosciuti Patrimonio dell'Umanità dall'Unesco nel 1992.
Il tempio megalitico è apparso in una moneta Euro commemorativa nel 2017.


Anundshög - SVEZIA

 


Anundshög, detto anche Anundshögen (in svedese: "tumulo di Anund") è un tumulo vicino Västerås nella contea di Västmanland, il più grande in Svezia. Ha un diametro di 60 metri ed è alto circa 9 metri.
Ai piedi del tumulo, accanto alla Eriksgata ("strada di Eric"), vi sono poste più pietre runiche, tra cui la imponente Vs13, eretta attorno all'anno 1000, che recita: "Folkvid innalzò tutte queste pietre dopo suo figlio Heden, fratello di Anund. Vred scolpì le rune"
Da questa iscrizione è derivata l'attribuzione del tumulo a re Anund, sebbene le misurazioni con il radiocarbonio diano una stima molto più antica, tra l'età del bronzo e quella del ferro. Sempre in prossimità del tumulo vi sono i resti di undici sepolture minori (tra i 6 m e i 10 m di diametro), di dieci circoli di pietra e cinque navi di pietra, di cui due molto estese (51 m e 54 m), poste una dietro l'altra.
Nel lunghissimo periodo di esistenza del sito, esso fu utilizzato per rituali di ogni sorta e per le riunioni delle thing.
La maggior parte delle distruzioni avvenne attorno al 1600, presumibilmente perché la presenza del sito non era più accettabile per lo spirito cristiano del tempo. Molte delle pietre furono rierette o ricollocate negli anni sessanta del novecento.

Aggersborg - DANIMARCA

 


Aggersborg è il più grande castello circolare vichingo e uno dei siti più grandi di tutta la Danimarca. Si trova nelle vicinanze di Aggersund, nel nord del Limfjorden. Il sito consiste in un bastione circolare circondato da un fossato. Quattro strade principali disposte a croce si intersecano al centro del monumento. Le strade passano sotto il bastione esterno, lasciando la struttura circolare intatta.
L'anello aveva un diametro interno di 240 metri. Il fossato si trova otto metri al di fuori del bastione, ed era profondo circa 1,3 metri. Si ritiene che il muro fosse alto circa quattro metri. Il bastione fu costruito con del suolo e rafforzato e rivestito con legno di quercia. Il bastione costituiva la base per un parapetto in legno. Strade più piccole univano le quattro sezioni principali della fortezza.
Il sito moderno è una ricostruzione realizzata negli anni novanta del secolo scorso.
La datazione della struttura si è dimostrata difficile, dal momento che il sito archeologico è stato anche il sito di un villaggio dell'età del ferro. Comunque si ritiene che la costruzione del castello risalga al 980 durante il regno di re Harold Bluetooth e/o Sweyn Musdee. Cinque dei sei castelli circolari storici in Danimarca sono stati datati a questa epoca. La struttura venne completata entro uno o due anni, e utilizzata solo per un breve periodo di tempo; tra i cinque e i venti anni. Gli archeologi hanno stimato che il fortilizio avrebbe contenuto una guarnigione di circa 5.000 uomini, ospitati in 48 case lunghe, tipiche vichinghe, posizionate a gruppi di 12 per ogni settore del cerchio; non sono stati rinvenuti resti delle abitazioni, ma sono stati rinvenuti indizi circa la posizione dei muri.
Le case avevano tetti e lati curvi, simile alla forma di una nave; lunghe 32,5 metri e 8,5 metri larghe. Esse erano suddivise in una lunga sala interna, di circa 19 metri di lunghezza, e in sale più piccole poste alla fine della struttura. Si stima che la costruzione di un'unica casa abbia richiesto 66 grandi querce, mentre per l'intero sito, abitazioni incluse, sono stati abbattuti ben 5.000 alberi.
Un gran numero di reperti archeologici sono stati scoperti nel sito, tra cui molti oggetti di lusso importati. Tra gli esempi figurano sfere di cristallo di montagna e pezzi di vasi di vetro. Un anello d'oro danneggiato è stato scoperto sul sito e, una replica è esposta nel museo di Aggersborg.
La posizione geografica del sito permette al castello sia di essere ben protetto, sia di avere un facile accesso via mare, in quanto, quando fu realizzato il fortilizio, furono create anche delle vie marine per agevolare il transito navale. Aggersborg fu anche strategicamente situato in uno dei tre antichi incroci delle Hærvejen (strade militari) presenti in tutto il Limfjorden. Gli altri due incroci restavano a nord di Farstrup e vicino Lindholm Høje, Ålborg.
Non esistono ancora dati conclusivi per sostenere se Aggersborg sia stata una roccaforte di controllo per le rotte commerciali o se la sua funzione primaria fu quella di una caserma da dove partivano le incursioni vichinghe in Inghilterra.


Lindholm Høje - DANIMARCA


Lindholm Høje (tradotto in Collina Lindholm) è il più importante sito di sepoltura vichinga ed ex insediamento situato a nord della città di Aalborg, in posizione dominante rispetto a questa. Il primo grande scavo di 700 tombe fu iniziato nel 1952, anche se precedenti scavi, come ad esempio quello del 1889, erano stati già condotti.
La parte meridionale di Lindholm Høje risale al 1000-1050 d.C., mentre la parte settentrionale è significativamente più antica, risalente al Settecento-1000 d.C.
L'insediamento si trova su un importante incrocio sul Limfjorden, un tratto di mare che divide l'odierno Jutland. Durante il periodo vichingo, era possibile passare solo da questo punto, l'altra alternativa era il più lungo e difficile percorso attraverso il fiordo Aggersund.
L'insediamento è stato abbandonato circa nel 1200, probabilmente a causa della sabbia che si accumulava dalla costa occidentale, conseguenza questa della ampia deforestazione che ha esposto i banchi di sabbia ai venti occidentali. Comunque, l'insabbiamento del sito ha contribuito alla sua conservazione attraverso i secoli. A causa della sua posizione, l'insediamento fu evidentemente un significativo centro di commercio e questo è ancora più corroborato dai manufatti che sono stati scoperti dagli archeologi.
La maggior parte delle sepolture scoperte sono delle cremazioni, anche se un certo numero di inumazioni sono state rinvenute; sembra che la scelta tra la cremazione o l'inumazione dipendesse dal periodo dell'anno. La maggior parte delle tombe sono contrassegnate con pietre posizionate nella tradizionale forma di una barca, indicando l'importanza che aveva per i vichinghi la navigazione; sia la loro forma e le dimensioni indicavano il rango delle persone sepolte.
Il sito è immenso e molto ricco di materiale. Esiste un museo nelle vicinanze, donato dalla Aalborg Portland A/S, società produttrice di cemento per commemorare il loro centenario, il museo aperto dal 1992.

(foto di Simon Wedege Petersen)

Villa Carmiano (Campania)

 


Villa Carmiano deve il suo nome al luogo nella quale è ubicata, ossia in località Carmiano, nel comune di Gragnano ed è una villa rustica dell'ager stabianus posta a poco meno di un chilometro dal pianoro di Varano dove sono situate le ville d'otium di Stabia. La costruzione è stata riportata alla luce nel corso degli scavi effettuati da Libero D'Orsi nel 1963 e a seguito del suo stato di abbandono e per conservarne meglio le strutture murarie è stata nuovamente sepolta nel 1998: al momento della sua scoperta la villa non era stata ancora esplorata da alcuno e ciò è stato molto utile sia per scoprire importanti novità sullo stile di vita dei romani sia per la notevole quantità di reperti che sono stati ritrovati.
La villa ha una superficie di circa quattrocento metri quadrati e risale all'ultimo quarto del I secolo a.C.: del proprietario si conoscono soltanto le iniziali, MAR.A.S., incise su un sigillo in bronzo; inoltre dalla qualità dei dipinti si suppone che il proprietario fosse un ricco agricoltore. Dopo aver superato l'ingresso dove è posta anche la cuccia del cane, si entra nell'ampio porticato coperto, interamente dipinto, sul quale si aprono quasi tutte le stanze e dove si trova il larario dedicato a Minerva: le stanze di servizio, quindi la cucina con forno, torchio, vasca per la raccolta del mosto e una cella vinaria con dodici dolii dalla capacità complessiva di settemila litri di vino e gli ambienti usati per il deposito del raccolto e degli utensili per lavorare la terra, sono pavimentate in terra battuta, mentre la zona residenziale come il triclinio, finemente decorato con pitture in arte flavia, ha una pavimentazione in cocciopesto; proprio dal triclinio provengono le opere più importanti come la raffigurazione di Nettuno e Amimone, Bacco e Cerere e il Trionfo di Dioniso.

Villa Sant'Antonio Abate (Campania)

 


Villa Sant'Antonio Abate è una villa rustica rinvenuta in località Casa Salese nella parte alta dell'attuale città di Sant'Antonio Abate, dal quale prende anche il nome: la costruzione si trova in quello che era il limite estremo dell'ager stabianus al confine con Pompei e con Nuceria. La villa è stata scoperta tra la primavera e l'estate del 1974 ed ha fornito agli archeologi importanti notizie sugli usi e costumi dei romani: infatti non essendo mai stata scavata prima d'allora, neanche dai Borbone, ha offerto una grande varietà di oggetti, portati nell'antiquarium di Castellammare di Stabia. La mancata scoperta in epoca borbonica ha però negato alla villa uno studio approfondito e la possibilità di avere un'idea della grandezza del sito tramite mappe redatte in quell'epoca: si pensa che soltanto un'ala della villa sia stata riportata alla luce. Nel 2009 è stato approvato un progetto di restauro e recupero della residenza romana per una spesa complessiva di 40000 €.
Villa Sant'Antonio Abate risale all'epoca augustea-tiberina e probabilmente si articola intorno a una corte a pianta quadrata. L'area rinvenuta riguarda un ampio ambiente vicino al muro perimetrale con una piccola aia protetta da muretti più bassi e tre colonne a base quadrata che fanno parte di un portico, non completamente scavato, il quale rappresenta l'ingresso alla villa, decorato con immagini di animali, piante e maschere. Dal portico si accede a diversi ambienti: una stanza che presenta pareti dipinte con una zoccolatura in nero e la parte superiore in intonaco bianco, una piccola stanza, che ha la caratteristica di avere la volta ricavata da un dolio, ossia un recipiente dove era contenuto il vino, adibita a forno e ampio vano di ingresso nel quale sono presenti dei resti di una scala in legno che conduceva al piano superiore dove si trovavano stanze adibite a dormitorio per gli schiavi, e l'accesso alla corte: in questo ambiente si trova la cucina e cinque colonne in laterizio non intonacato. Oltre a un piccolo ripostiglio, è presente anche un triclinio a pianta rettangolare con pareti sempre a fondo nero. All'esterno della villa si trova la scala che porta al piano superiore e un collettore d'acqua, realizzato in cocciopesto, che aveva anche la funzione di isolare la villa. Di grande interesse anche i resti di una macina e una nicchia adibita a larario.


Museo archeologico nazionale "G. Asproni" di Nuoro (Sardegna)

 


Il museo archeologico nazionale "G. Asproni" è un museo archeologico nel centro storico di Nuoro, nei pressi della Cattedrale di Santa Maria. Ha sede in un palazzo ottocentesco appartenuto a Giorgio Asproni, politico e intellettuale sardo del XIX secolo.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale della Sardegna, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
L'esposizione comprende reperti provenienti dal territorio della provincia storica di Nuoro, pertinenti a un arco cronologico compreso tra il Paleolitico e il Medioevo. Il materiale più consistente è relativo all'età nuragica. L'allestimento ha un'impronta fortemente didattica, con riproduzioni di alcuni monumenti (per esempio Sa Sedda 'e sos Carros di Oliena), da cui provengono gli oggetti scavati. Attualmente l'esposizione si sviluppa al piano terra, mentre sono ancora in fase di allestimento i piani superiori.
La prima sala del museo espone reperti paleontologici relativi ad alcuni degli animali che popolavano la Sardegna nel Pleistocene. Tra questi, spiccano i resti di animali oggi non più presenti in Europa, come alcune specie di scimmie o di iene. La maggior parte dei rinvenimenti proviene dagli scavi del Monte Tuttavista di Orosei e da grotte del territorio di Oliena.
I materiali più antichi sono costituiti da pietre scheggiate del paleolitico. È poi presente una selezione di materiali soprattutto in ceramica relativi alle varie fasi della preistoria della Sardegna. All'età del bronzo antico si data lo scheletro di Sisaia, una donna che fu sepolta individualmente con un rituale differente rispetto a quello collettivo prevalente, il cui cranio presenta i segni di una trapanazione avvenuta probabilmente per motivi magico-religiosi a cui la donna era poi sopravvissuta, come mostrato dalla perfetta saldatura della rondella ossea rimossa e poi riposizionata.
La fase nuragica è quella a cui il museo archeologico di Nuoro dedica maggior spazio, esponendo alcuni dei reperti più importanti. Sul piano tematico, l'esposizione privilegia i materiali provenienti dai luoghi di culto caratterizzati dalla presenza rituale di acqua (templi a pozzo e fonti sacre). Tra le altre cose, si segnalano come punti di forza dell'esposizione una vasta collezione di bronzetti nuragici, la ricostruzione di parte del complesso di Sa Sedda 'e Sos Carros di Oliena, e alcuni dei conci decorati del nuraghe Nurdole di Orani.
All'età ellenistica è dedicato uno spazio ridotto, ma sono comunque presenti elementi di pregio, come frammenti di ceramica decorata proveniente dalla Grecia o dalla Puglia.
La romanizzazione del territorio è rappresentata da un campionario delle più diffuse forme e produzioni di ceramica e anfore di età romana, ma sono anche presenti epigrafi e un diploma militare, cioè un attestato di congedo di un soldato che aveva servito nell'esercito romano al tempo dell'imperatore Traiano.
Un'ultima vetrina presenta alcuni frammenti di ceramica medievale e postmedievale, provenienti dall'area del castello di Posada.


Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...