sabato 9 settembre 2023

Graffiti rupestri di Alta - NORVEGIA

 


graffiti rupestri di Alta (Helleristningene i Alta) fanno parte di un sito archeologico nei pressi della città di Alta, nello Stato norvegese di Finnmark. Dopo il rinvenimento del primo graffito o, più precisamente, della prima incisione, nel 1972, più di 5000 graffiti sono stati scoperti in numerosi siti attorno ad Alta. Il sito principale, situato a Jiepmaluokta a circa quattro chilometri da Alta, ospita circa 3000 incisioni ed è stato trasformato in un museo a cielo aperto. Questo luogo venne inserito tra i patrimoni dell'umanità dell'UNESCO il 3 dicembre 1985. È il solo sito archeologico norvegese ad aver avuto questo onore.
Le incisioni più antiche sono databili attorno al 4200 a.C., mentre le più recenti sono del 500 a.C. La grande varietà di immagini illustra una civiltà dedita alla caccia e raccolta in grado di controllare branchi di renne, abile nella costruzione di barche e nella pesca. Questi popoli praticavano riti sciamani che comprendevano il culto degli orsi e di altri animali. La conoscenza di questa civiltà si limita a quello che si apprende dall'analisi delle pitture rupestri.
Al momento della creazione delle incisioni la Norvegia settentrionale era abitata da una tribù dedita alla caccia e raccolta che si crede discenda dagli antichi Komsa, una civiltà dell'età della pietra che si espanse lungo la costa norvegese seguendo il recedere dei ghiacciai durante l'ultima glaciazione, intorno all'8000 a.C. Il periodo di circa 5000 anni durante i quali vennero fatte le incisioni vide numerosi cambi culturali, tra cui l'adozione degli utensili in metallo e le scoperte in settori quali la costruzione di barche e le tecniche di pesca. In ogni caso le immagini mostrano molte scene mondane e simboli religiosi. Le incisioni più recenti mostrano molti tratti in comune con quelle rinvenute nella Russia nord-occidentale, il che fa pensare a contatti tra le culture di tutto il nord Europa.
Le connessioni tra gli autori di queste opere, i Komsa ed i lapponi sono in qualche modo congetturali; nel caso dei Komsa è interessante notare che secondo le prove archeologiche l'economia dei Komsa era basata quasi esclusivamente sulla caccia ai pinnipedi, mai raffigurati nei graffiti di Alta.
Le connessioni con la cultura Sami (lapponi) sono più facilmente desumibili visto che questi ultimi hanno vissuto nella stessa zona e nello stesso periodo in cui vennero operate le ultime incisioni; inoltre numerosi soggetti dei disegni sono utensili usati anche dai Sami. In assenza di altre prove linguistiche o di DNA, tutte le ipotesi restano non dimostrabili.
Le incisioni vennero fatte utilizzando scalpelli in Quarzite costruiti utilizzando martelli di rocce più dure; alcuni scalpelli sono in mostra presso il Museo di Alta. L'abitudine di usare scalpelli in pietra sembra essere continuata anche dopo la costruzione dei primi utensili in metallo.
A causa degli effetti del rimbalzo post-glaciale l'intera Scandinavia iniziò a sollevarsi dopo la fine dell'ultima glaciazione. Anche se questo effetto è tuttora attivo (al ritmo di circa un centimetro l'anno), si crede che in passato fosse molto più marcato, addirittura tale da essere percepibile da un uomo durante la vita. Si pensa che alcune incisioni fossero sulla costa, e che siano state spostate in seguito fino a raggiungere quasi un centinaio di metri nell'entroterra.
Le prime incisioni vennero scoperte nell'autunno del 1972 nell'area di Jiepmaluokta (che in lingua Sami significa "baia dei pinnipedi"), a circa quattro chilometri dal centro di Alta. Durante gli anni settanta vennero portati alla luce molti altri graffiti nei dintorni della città, soprattutto attorno a Jiepmaluokta (in questo luogo si trovano oltre 3000 dei 5000 graffiti totali). Un sistema di passaggi in legno di circa tre chilometri venne costruito a Jiepmaluokta durante la seconda metà degli anni ottanta, ed il Museo di Alta venne spostato dal centro della città al sito archeologico nel 1991. Nonostante i siti archeologici siano numerosi, l'unico aperto al pubblico resta Jiepmaluokta.
Molte delle rocce di Alta sono ricoperte da muschi e licheni; una volta scoperti i graffiti le piante sono state attentamente rimosse e le rocce pulite per mostrare le opere. Tutte le incisioni sono state fotografate e sono state archiviate. In molte zone non viene fatta manutenzione per tenere puliti i graffiti, una volta documentati (a parte, ovviamente, il divieto di costruzione). Nella aree accessibili al pubblico i graffiti sono stati colorati con ocra, al fine di rendere maggiormente riconoscibili le opere. L'effetto estetico è quello originale delle pitture rupestri.
Il Museo di Alta contiene oggetti provenienti da tutta l'area circostante che raccontano la civiltà che creò le opere, una documentazione fotografica di tutti i graffiti ed altri reperti della cultura Sami, i fenomeni delle aurore polari e la storia della zona durante la seconda guerra mondiale. Il museo ricevette l'European Museum of the Year Award nel 1993. Dal momento che non esistono reperti scritti di quel periodo, non c'è modo di conoscere il significato dei graffiti. Possibili spiegazioni comprendono l'uso in rituali sciamani, simboli totemistici di unità tribale o segni del confine del territorio della tribù.
Alcuni dei soggetti più ricorrenti sono elencati qui sotto.
Animali
Molti animali sono raffigurati nelle scene incise; tra loro spiccano per numero le renne, spesso mostrate in branchi a volte allevati, altre volte cacciati. Altri animali rappresentati sono gli alci, varie specie di uccelli e di pesci. Gli animali gravidi venivano rappresentati con un cucciolo visibile all'interno della madre.
Sembra strano che, secondo le ricerche archeologiche, dal 30 al 95% del cibo necessario alla tribù provenisse dal mare, ma scene di pesca appaiono in circa l'1% delle opere conosciute; possibili spiegazioni comprendono il fatto che la pesca in acque costiere fosse meno difficoltosa della caccia, e quindi necessitasse di minori rituali, oppure gli animali di terra potrebbero essere stati più importanti dal punto di vista religioso, e per questo motivo venivano raffigurati più spesso.
Orsi
Sembra che gli orsi giocassero un ruolo importante nella cultura di quelle tribù: venivano raffigurati spesso, e non solo in scene di caccia. Alcune posizioni dimostrerebbero che gli orsi venivano adorati. Sono di speciale interesse anche le orme lasciate dagli animali: mentre gli altri animali e gli uomini sono associati ad orme orizzontali, quasi a disegnare un piano della terra, gli orsi sono gli unici animali ad avere talvolta delle orme verticali. Questo fatto ha portato alcuni studiosi a supporre che fossero collegati in qualche modo al culto dell'oltretomba (o della morte in generale). La rappresentazione degli orsi sembra essersi interrotta attorno al 1700 a.C., il che starebbe ad indicare un cambiamento nelle credenze religiose in quel periodo.
Scene di caccia e pesca
Molte delle scene che raffigurano uomini li riprendono in scene di caccia, davanti alla loro preda; queste scene sono state tradizionalmente spiegate come rituali di caccia, nonostante gli attuali studiosi sembrino favorire un'interpretazione più complessa secondo cui le scene di caccia e pesca sarebbero i simboli di varie tribù, e le scene contemporanee di caccia e pesca rappresenterebbero un tentativo (o la semplice speranza) di allacciare relazioni con le tribù vicine. L'uso di lance, archi e frecce è evidente nel periodo più remoto. Similmente i pescatori vengono mostrati nell'atto di usare esclusivamente lenze, il che mostra la loro capacità di creare ami ed esche.
Sono particolarmente interessanti le immagini delle barche: mentre all'inizio si disegnavano solo le piccole barche, in seguito apparvero anche barche più grandi, alcune delle quali trasportavano fino a trenta persone ed erano ben equipaggiate, con decorazioni a forma di animali sugli archi e polene simili a quelle rinvenute in seguito sulle navi vichinghe.
Scene di vita mondana e di rituali
È particolarmente difficile interpretare le scene di interazione tra umani; le scene che mostrano apparentemente danze, preparazione di alimenti o atti sessuali potrebbero riferirsi a riti particolari. In più, anche se le scene mostrano scene di vita mondana, resta misterioso il motivo che portò alla loro incisione. Scene sessuali potrebbero essere connesse a rituali di fertilità, quelle di cucina potrebbero indicare periodi di abbondanza di cibo. Alcune scene mostrano differenti posizioni sociali, indicati da particolari cappelli ed altri capi di abbigliamento; queste persone sono state riconosciute come sacerdoti, sciamani o capi di una tribù.
Simboli geometrici
Tra le immagini più misteriose vi sono i simboli geometrici, trovati soprattutto nelle zone più antiche. Alcuni sono oggetti circolari, a volte circondati da frange, altri mostrano trame complicate di righe verticali ed orizzontali. Alcuni di questi sono stati associati ad utensili di aspetto simile (le griglie di linee ad esempio rappresenterebbero le reti da pesca), ma il significato della maggior parte resta sconosciuto.

(da Wikipedia, l'enciclopedia libera)

Augusta Raurica - SVIZZERA

 


Augusta Raurica è un grande sito archeologico romano in Svizzera, nel semicantone di Basilea Campagna. Situato a circa 20 km ad est di Basilea, corrisponde alla moderna Augst. È la più antica colonia romana sul Reno di cui si abbia notizia. Augusta Raurica venne fondata attorno al 44 a.C. dal luogotenente di Giulio Cesare, Lucio Munazio Planco, in un'area occupata da una locale tribù gallica, i Raurici. Durante i primi due secoli dopo Cristo fu un luogo prosperoso e, nei suoi giorni di maggior gloria, era capitale della locale provincia romana. Potrebbe aver raggiunto una popolazione di ventimila abitanti. Gli Alemanni (o un terremoto) distrussero la città attorno al 260. Durante il tardo impero, essa perse la sua importanza a favore della vicina Basilea e gli abitanti superstiti si posero sotto la protezione del vicino Castrum Rauracense, un grande castello romano sito nella vicina Kaiseraugst e posto a difesa del Limes tardoimperiale.
Durante il medioevo, molte delle pietre dei sito vennero riciclate in nuove costruzioni. Gli scavi archeologici hanno dissotterrato templi, taverne, edifici pubblici, un Foro, un complesso di bagni e il più grande teatro romano a nord delle Alpi con diecimila posti, recentemente restaurato.
Il sito è una popolare destinazione turistica e comprende un piccolo museo. Esso ospita i principali reperti provenienti da Augusta Raurica, che raccontano la storia della città. Nelle sue vicinanze si trovano altre sale espositive e oltre venti punti di osservazione a cielo aperto. Il più importante pezzo in esposizione è il tesoro di argenteria di Kaiseraugst, così chiamato dal vicino villaggio argoviese dove fu ritrovato.
Ogni anno, nell'ultimo fine settimana di agosto, il sito ospita un importante festival dedicato alla civiltà romana.

Iulia Valentia Banasa - MAROCCO

 


Iulia Valentia Banasa fu una delle tre colonie romane della Mauretania Tingitana (Marocco settentrionale) fondate da Augusto tra il 33 e il 25 a.C. per i veterani della battaglia di Azio. Si trovava sulla riva meridionale del fiume Sebou, sul sito oggi noto come Sidi Ali Boujenoun. All'inizio del regno di Marco Aurelio, Banasa divenne la Colonia Aurelia. Nel 285 la provincia romana della Mauretania Tingitana si ridusse ai territori a nord di Lixus. Banasa fu quindi abbandonata.
Tra le rovine di Banasa si trovano i caratteristici elementi di una città romana: un forum con una basilica, a campidoglio ed i bagni, oltre a strade disposte regolarmente. Molti degli edifici risalgono all'inizio del III secolo. Il nome latino Valentia significa "giovane", "forte", e può essere paragonato a Valence (Francia) e Valencia (Spagna), anch'esse colonie. Augusto fondò almeno dodici colonie romane in Mauritania, nonostante fosse un regno assoggettato e non una vera provincia dell'impero. Alcune delle principali città romane contemporanee alla Iulia Valentia Banasa, furono Chella e Volubilis, con quest'ultima che condivide con Banasa la presenza di una basilica e di strade disposte regolarmente.
I reperti scavati a Banasa sono esposti presso il Museo archeologico di Rabat.


venerdì 8 settembre 2023

Pittore di Pentesilea

 

Pittore di Pentesilea (... – ...; fl. 460 a.C. / 440 a.C.) è il nome convenzionale assegnato ad un ceramografo attico; il suo vaso eponimo è la coppa con la rappresentazione, nel tondo interno, della morte di Pentesilea per mano di Achille, conservata a Monaco di Baviera (Staatliche Antikensammlungen 8705 =2688).
Fu attivo soprattutto nella produzione di coppe a figure rosse e di alcuni piccoli vasi a fondo bianco (skyphoi, kantharoi e pixides). John Beazley ne ha separato la personalità da quella del Pittore di Pistoxenos, un contemporaneo leggermente più anziano, con il quale condivide l'interesse per la policromia. Al Pittore di Pentesilea sono stati attribuiti circa 180 vasi, i più antichi dei quali già stilisticamente maturi e formalmente vicini alle opere del Pittore di Pistosseno; egli fece parte, probabilmente insieme a quest'ultimo, di un laboratorio che in seguito rilevò e diresse e che divenne probabilmente la più grande officina del periodo classico, caratterizzata da un sistema di produzione basato sulla specializzazione dei compiti e delle tipologie decorative tra gli artigiani, così che una stessa kylix poteva essere decorata da mani diverse (sono state distinte fino a dieci mani diverse su una stessa coppa). Beazley vi ha ricondotto circa 1500 vasi e una ventina di pittori.
La coppa di Pentesilea è un'opera isolata nella produzione dell'artista come nel resto della tradizione delle figure rosse attiche. Il disegno ha ancora tratti arcaici e la composizione è concepita per il tondo, ma le figure hanno carattere monumentale e vi è evidente la volontà di superare i limiti della decorazione vascolare. Le figure riempiono l'intero spazio interno della coppa, secondo uno schema raro nelle figure rosse e tipico delle coppe a fondo bianco; lo stesso si può dire del trattamento cromatico che riprende la policromia della tecnica a fondo bianco per aumentare la plasticità delle figure. La tecnica a fondo bianco del resto è quella che maggiormente avvicina la decorazione vascolare alla tecnica impiegata nelle megalografie.
Le prime opere del Pittore di Pentesilea si presentano studiatissime nella composizione e nella contrapposizione tra le figure, si veda ad esempio la coppa da Spina con Zeus e Ganimede (il Pittore di Penthesilea è autore del solo tondo interno). Un'opera successiva come quella conservata a Monaco di Baviera con l'uccisione di Tizio per mano di Apollo, benché presenti una composizione che, come nella kylix di Pentesilea, riempie l'intero spazio, si rivela già più aderente al linguaggio della pittura vascolare: la composizione è più semplice e non c'è policromia, la decorazione esterna inoltre sembra più interessata ad aspetti narrativi che compositivi.
Le opere più mature mostrano un autore che allontanandosi dalla complessità delle composizioni del primo periodo rivolge maggiore attenzione alla narrazione degli eventi, l'urgenza di quest'ultima appare evidente nelle figure appena abbozzate (un tratto raro tra i ceramografi).
La volontà dell'approfondimento psicologico si mostra nella particolare attenzione al trattamento dell'occhio, una caratteristica che condivide con il Pittore di Pistosseno. Le strutture corporee guardano alla scultura del tardo stile severo e una tendenza accentuata verso la drammatizzazione sembra derivare dal teatro contemporaneo.
Scoperta nel 1955 è la più grande kylix mai pervenutaci, con un diametro di 56 centimetri (72 se si comprendono le anse). Nel tondo interno la coppia di giovani che si avvicina ad un altare non è stata identificata con certezza, vi si legge talvolta una rappresentazione dei Dioscuri (simboli della pace tra Atene e Sparta, un tema frequente in epoca cimoniana), talaltra di Teseo e Piritoo, per diretta vicinanza al tema presente nella decorazione del fregio. Il tondo centrale infatti è contornato da una cornice a palmette contrapposte, ma esterno a questa si svolge il fregio con le imprese di Teseo, il culto del quale era stato rinnovato a partire dal 470 a.C. e celebrato nella grande pittura di Polignoto di Taso e Micone, nella Stoà Pecile e nel Theseion. La decorazione esterna della kylix presenta su un lato la lotta tra Aiace e Odisseo per il possesso delle armi di Achille, il soggetto del lato opposto invece è controverso, ma comunque venga interpretato, l'intera decorazione di questo oggetto unico deve essere pensata come un programma prestabilito ed elogiativo del mondo attico.


nelle foto, in ordine, dall'alto in basso:

  1. Achille e Pentesilea, tondo interno della kylix eponima del Pittore di Pentesilea. Staatliche Antikensammlungen 2688
  2. Zeus e Ganimede, kylix a figure rosse. Ferrara, Museo archeologico nazionale T212BVP = 9351
  3. Apollo e Tityos. Monaco di Baviera, Staatliche Antikensammlungen 2689.
  4. Lotta tra Aiace e Odisseo per il possesso delle armi di Achille, Kylix a figure rosse con apoteosi di Teseo, Museo archeologico nazionale (Ferrara) 

giovedì 7 settembre 2023

Museo archeologico regionale della Valle d'Aosta (Valle d'Aosta)

 


Il Museo archeologico regionale della Valle d'Aosta (in francese, Musée archéologique régional de la Vallée d'Aoste), abbreviato in MAR, è un museo archeologico con sede ad Aosta.
Il museo si trova nel luogo in cui sorgeva in epoca romana la Porta Principalis Sinistra. Sotto al museo, infatti, sono stati condotti degli scavi (tuttora in corso) per riportare alla luce i resti della porta. Parte di questi scavi è già accessibile tramite passerelle raggiungibili dal museo.
Già casaforte dei nobili Vaudan, l'edificio ha quindi ospitato a partire dal 1633 il Convento delle Visitandine, fondato per volere del marchese Pierre-Philibert Roncas e della consorte Emérentienne de Vaudan, che intendevano dare una sede alle religiose di santa Giovanna Francesca Frémiot de Chantal (Jeanne de Chantal).
Dal 1802 divenne Caserma Challant, mentre alcune ali del palazzo furono adibite a usi vari, da scuderia, a teatro fino a magazzino degli attrezzi agricoli.
Oggi la caserma è stata dismessa e il palazzo ospita il Museo archeologico regionale.
Il museo dispone di molti reperti archeologici ritrovati in tutta la Valle d'Aosta che sono disposti secondo l'ordine cronologico.
I reperti preistorici (consistenti in ornamenti funebri, vetro, vasi di terracotta e stele antropomorfe scolpite) componevano la collezione oggi ospitata nel museo dell'area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans.
Il museo dispone di una vasta gamma di reperti di epoca romana. Sono presenti oggetti funebri, oggetti in vetro (piatti, bicchieri), parti di statue, oggetti provenienti dal teatro, posate e giochi comuni.
Dei reperti medioevali ospitati nel museo, il più rilevante è senza dubbio l'ambone dell'VIII secolo (nella foto a siistra), rinvenuto negli scavi della Cattedrale di Aosta, di cui si conserva una parte. Sono inoltre presenti alcuni corredi funerari la cui datazione oscilla tra il IV e il XIV secolo, tra cui alcuni bicchieri dorati con teoria dei Santi e la spada di cavaliere con speroni proveniente da Sant'Orso.
Nel museo c'è anche un plastico della città romana di Augusta Praetoria Salassorum ricostruita basandosi sui resti degli edifici romani visibili in tutta Aosta.
Nei sotterranei del museo sono conservati i resti dello spigolo sud-ovest della torre orientale della Porta Principalis Sinistra, una delle quattro porte urbiche di Augusta Praetoria, con i piani d’uso romani e l’unico tratto di terrapieno, con relativo muro di controscarpa, ancora addossato a un tratto delle mura romane.
Il Museo ospita in alcune sale attigue dalla collezione principale la Collezione Numismatica Pautasso, una ricca esposizione di monete che spaziano dall'età greca fino al periodo sabaudo. Di particolare rilevanza è il nucleo di monete celtiche, galliche e padane.
Da segnalare inoltre la Collezione Carugo, una ricca raccolta di reperti della civiltà etrusca, dell'Antico Egitto e della Mesopotamia.

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Museo archeologico territoriale della penisola sorrentina Georges Vallet (Campania)

 


Il museo archeologico territoriale della penisola sorrentina Georges Vallet è un museo archeologico di Piano di Sorrento, in attesa di riordinamento: ospita al suo interno reperti archeologici raccolti nel corso di vari scavi effettuati in diversi siti della costiera sorrentina, che spaziano dalla preistoria al periodo romano.
Il museo, intitolato all'archeologo Georges Vallet, è ospitato all'interno della neoclassica Villa Fondi De Sangro: questa venne acquistata dal comune di Piano di Sorrento insieme al suo parco e dopo un intervento di restauro, con la Soprintendenza Archeologica di Napoli e Caserta, il 17 luglio 1999 venne inaugurato il polo museale; oltre alle varie sale espositive, è dotato anche di una sala congressi ed una area per le mostre temporanee.
All'ingresso del museo è posta una grossa statua raffigurante una figura femminile, rinvenuta nel 1971 durante le indagini di una villa di epoca imperiale a Sorrento: seguono quindi le varie sale disposte in ordine cronologico; al piano terra sono presenti due sale: la prima illustra la zona sorrentina durante l'epoca preistorica con reperti proveniente da grotte e insediamenti del luogo, mentre nella seconda sono raccolti le testimonianze ritrovate dagli scavi archeologici condotti a Piano di Sorrento, in particolare quelli svolti in località Trinità, dove era presente un insediamento risalente al II millennio a.C. della cultura del Gaudo. Lungo la scala che porta al piano superiore sono custoditi una testa in marmo proveniente da Massa Lubrense e alcuni capitelli tufacei in ordine dorico rinvenuti a Vico Equense.
Anche al secondo piano sono presenti due sale: nella prima sono esposti corredi funerari rinvenuti nelle necropoli arcaiche e classiche di Massa Lubrense, Sant'Agata sui Due Golfi, Vico Equense e Sorrento mentre nella seconda sono ospitati reperti provenienti da Sorrento in particolar modo dalla città antica e dalle necropoli, oltre a carte topografiche: tra le opere di maggior rilievo si trova un trapezoforo in tufo che raffigura un'erma maschile, balsamari in vetro, vasi a figure rosse del IV secolo a.C., columelle, oggetti in marmo e capitelli della Villa di Villazzano nei pressi di capo di Massa ed un plastico della Villa di Pollio Felice; nel corridoio che unisce le due sale è esposto materiale proveniente dal Tempio di Atena a punta Campanella, con il calco di un'epigrafe del II secolo a.C..
Il museo è dotato anche di un parco che si affaccia sulla Marina di Cassano, con vista sul Vesuvio e sul golfo di Napoli: al suo interno inoltre è stato ricostruito il mosaico risalente al 55 asportato dal ninfeo di una villa marittima di epoca romana rinvenuta a Marina della Lobra, a Massa Lubrense, per preservarne l'integrità: questo, realizzato in pasta vitrea, raffigura un giardino con uccelli, decorato con figure allegoriche e nature morte.

foto Fabrizio Reale

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mercoledì 6 settembre 2023

Antiquarium di Himera e Museo Pirri Marconi (Sicilia)



 L'Antiquarium di Himera fu realizzato con il progetto dell'architetto Franco Minissi, inaugurato nel 1984 e dopo lunghi lavori di ristrutturazione riaperto nel 2001. Al suo interno sono conservati ed esposti i principali reperti rinvenuti durante gli scavi di Himera e nel territorio della Sicilia centro-settentrionale. L'esposizione al suo interno ricalca l'impianto urbanistico e tematico della città e si sviluppa su più livelli. La saletta introduttiva sintetizza la topografia e la storia degli scavi passati della colonia di Himera, ricostruendone la storia e custodendo i reperti monetari all'interno di un medagliere, ripercorrendo la storia della zecca della città antica.
Il livello superiore è dedicato all'area sacra della città alta, con i reperti votivi e architettonici provenienti dal temenos di Athena. Il livello centrale si articola ripercorrendo le indagini di scavo dell'impianto urbanistico della città alta, analizzando i materiali rinvenuti all'interno degli ambienti indagati e analizzando topograficamente gli isolati studiati nel corso della storia degli scavi. Parte delle sezioni sono dedicate al culto domestico e al culto urbano praticato all'interno degli isolati della città alta. Il livello inferiore espone i reperti provenienti dalle tre grandi aree necropolari imeresi, rielaborando l'esposizione dei reperti e affrontando oltre che il contesto funerario, anche quello del commercio nel bacino del Mediterraneo tra età arcaica e classica. Dalle necropoli, grazie alla pratica dell'enchitrysmos, sono stati portati alla luce grandi contenitori usati per il trasporto e la conservazione di alimenti e bevande nell'antichità. Insieme alla presentazione delle pratiche funerarie e dei corredi rinvenuti all'interno delle tombe, uno spazio dell'esposizione è dedicato al calco della sepoltura RO1015, denominata tomba "degli sposi" datata a fine VI-inizi V secolo a.C. Parte della sezione del livello inferiore è suddivisa in aree dedicate alle scoperte al di fuori della colonia imerese. I reperti raccolti derivano principalmente dai siti indigeni ellenizzati sotto l'influenza di Himera e in particolare Terravecchia di Cuti, Monte Riparato, Mura Pregne con l'abitato di Brucato, il relitto della Kalura, i ritrovamenti della necropoli ellenistico-romana di Cefalù e il lacerto di mosaico della villa di Settefrati.


Nel giugno del 2016 è stato inaugurato il Museo Pirro Marconi, dopo i lavori di restauro del mulino e della casa contadina di epoca moderna siti nell'area all'interno del recinto sacro del Tempio della Vittoria. Negli anni Venti del XX secolo faceva parte di un nucleo di strutture risalenti al periodo medievale, che si installavano sopra il tempio stesso, rimosse dalle operazioni di indagine e di scavo di Pirro Marconi per riportare in luce il santuario. Dopo gli anni di indagine dell'area sacra e le scoperte della necropoli occidentale, il processo di recupero del moderno e della cultura rurale del territorio imerese hanno permesso di creare questa struttura che si snoda in sale tematiche e in connessione con la zona archeologica del Tempio della Vittoria. La sala 1 è introduttiva alla storia della colonia imerese e della produzione artigianale e degli scambi commerciali tra il VI e il V secolo a.C. La sala 2 è dedicata alle attività didattiche e alla proiezione di filmati legati alla storia della colonia, in particolare sulla ricostruzione delle vicende della battaglia di Himera del 480 a.C. La sala 3 è dedicata alle tipologie funerarie della necropoli ovest, ripercorrendo le modalità funerarie della colonia nel corso della sua vita con particolare riguardo alle fosse comuni e dei cavalli delle due battaglie di Himera del 480 a.C. e del 409 a.C. La sala 4 è incentrata sulla storia delle campagne di scavo del tempio della Vittoria e della vita della colonia a partire dalla fondazione del tempio e successivamente anche alle fasi medievale e moderna. La sala 5 ripercorre la tematica templare dal punto di vista storico e architettonico in chiave didattica, custodendo al suo interno il plastico ricostruttivo del tempio in scala 1:40. Infine la sala 6 raggiungibile all'esterno si connette al mulino prospiciente il museo ed è dedicata alla storia contadina e moderna dell'area.

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Mediobogdum - REGNO UNITO

 


Mediobogdum è un forte romano situato nell'antica della Provincia di Britannia. I suoi ruderi, conosciuti anche come Forte romano di Hardknott o Castello di Hardknott (in inglese Hardknott Roman Fort e Hardknott Castle) sorgono oggi sul colle di Hardknott, nella contea inglese di Cumbria, all'interno dell'area naturalistica nota come Lake District. Il forte fu costruito tra il 120 e il 138 d.C., in epoca imperiale, sotto il regno di Adriano, forse riadattando una struttura precedente che risaliva al 110 d.C.. Fu occupato da un distaccamento di fanteria dalmata fino al II secolo, e venne poi abbandonato in seguito all'avanzata dei confini imperiali verso la Scozia ad opera di Antonino Pio, verso il 138. Tornò successivamente ad essere utilizzato sotto Marco Aurelio, a partire dal 160 circa, e mantenne le sue funzioni fino agli inizi del III secolo; durante questo periodo un vicus romano si installò all'esterno del forte.
Il nome "Mediobogdum" o "Mediobogdo" (dal significato letterale di "Posto sulla curva") è attestato dalla Cosmografia ravennate del VII secolo.
Mediobogdum è costruito su uno sperone roccioso del fianco occidentale del Colle di Hardknott, affacciato sulla valle di Eskdale e sul fiume Esk.
Il forte, costruito su base quadrata , possedeva mura della lunghezza di 114 metri esternamente o 104 metri internamente, occupando in totale un'area di 1.3 ettari; era protetto da un terrapieno dello spessore di circa 10 metri e da un fossato. Seguendo la disposizione tipica degli accampamenti romani, possedeva quattro ingressi, posizionati al centro di ciascun lato. All'interno delle mura rimangono le fondamenta di quattro costruzioni in pietra: un granaio, un quartier generale e una costruzione adibita a dimora del capo della guarnigione. Anticamente possedeva probabilmente ulteriori costruzioni in legno che fungevano da alloggi per i soldati.
Nei pressi del forte correva anticamente una strada romana che congiungeva il forte di Galava, nell'interno (oggi nei pressi di Ambleside), al porto marittimo di Glannoventa (oggi presso Ravenglass). All'esterno delle fortificazioni sorgeva inoltre un edificio termale, di cui permangono ancora oggi le vestigia, caratterizzato da un sudatorium a base circolare.
I primi scavi archeologici nell'area furono condotti nel XIX secolo; lavori ulteriori vennero intrapresi negli anni cinquanta e sessanta del Novecento. Dell'antico forte e delle terme permangono oggi i rispettivi perimetri murari, entrambi in buono stato di conservazione; queste costruzioni sono di proprietà del National Trust britannico, e sono gestite dall'English Heritage. Mediobogdum, e la vicina città di Ravenglass, sono teatro delle vicende narrate nel romanzo Il forte sul fiume, parte del ciclo narrativo delle Cronache di Camelot dell'autore scozzese Jack Whyte. Nella finzione del romanzo, che rilegge in chiave storica le leggende arturiane, il forte è il luogo in cui un Artù bambino trascorre gli anni dell'infanzia, vegliato e istruito da un giovane Merlino.


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Oppidum di Entremont - FRANCIA

 


Entremont (in latino: Intermontes) è un sito archeologico corrispondente all'antico oppidum della tribù celto-ligure dei Salluvi, situato nei pressi dell'attuale Aix-en-Provence, circa 3 chilometri più a nord del centro cittadino, in Provenza. Il sito venne occupato verso il IV secolo a.C. dalla popolazione celto-ligure dei Salii o Salluvii, che ne fecero del sito la loro capitale.
L'oppidum di Entremont, durante il II secolo a.C., fu con tutta probabilità la capitale del popolo ligure dei Salluvii.
Sui Salluvii grava una tradizione che lo vorrebbe un popolo crudele e bellicoso; in realtà, essi sono stati probabilmente responsabili di una fusione dei popoli dell'area dei fiumi Rodano e Var, sotto l'influenza greca della vicina polis massaliota.
La città fu oggetto di assedio e di conquista da parte dei Romani nel 123 a.C. Gli scavi condotti sul sito dopo il 1946 hanno messo in luce le vestigia di un abitato protetto (data la presenza di un baluardo a nord del pianoro), e i segni di un'avanzata civiltà celto-ligure, botteghe, magazzini e laboratori, oltre a un grosso edificio, una sorta di santuario.
L'esistenza dell'abitato rimonta a circa il III secolo a.C., mentre il definitivo abbandono coincide con la sua distruzione, avvenuta nel 123 a.C., ad opera di Gaio Sesto Calvino. Alla distruzione è sopravvissuta una porzione del muro sul lato nord, con le torri rettangolari.
I resti venuti alla luce rivelano una pianificazione edilizia a scacchiera, ancora ben visibile, con costruzioni eseguite in muratura.
La visita del sito archeologico può essere completata con quella al Museo Granet, nel centro di Aix-en-Provence, in Place Saint-Jean de Malte. Nelle sale dedicate all'archeologia sono esposte le collezioni provenienti dal sito, statuaria celtica e bassorilievi, tra cui le impressionanti sculture di teste mozzate. Queste ultime sembrano collegate al rito gallico della caccia alle teste del nemico, testimoniato anche negli oppida di Manching e a Roquepertuse, un costume su cui peraltro la critica è divisa, anche se su di esso esiste l'autorevole testimonianza di Posidonio, geografo ed etnografo che visitò la Gallia ripresa e tramandataci da Diodoro Siculo, Strabone e Cesare.
Numerosi ritrovamenti archeologici testimoniano come i Salluvii non conoscessero la scrittura ma erano tecnologicamente all'avanguardia nell'epoca: ne sono prova, ad esempio, l'alta qualità delle lavorazioni in vetro e degli oggetti metallici prodotti.

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La Via Hadriana - EGITTO

 
La via Hadriana fu una strada di epoca romana costruita sotto l'imperatore Adriano durante il suo viaggio in Egitto (attorno al 130), dopo la morte del suo amante Antinoo. Questa strada serviva, insieme ad altre vie militari del limes Aegypti, le importanti cave di granito bianco Mons Claudianus (da dove uscivano colonne alte fino a 20 metri impiegate a Roma anche nel foro di Traiano e nel Pantheon) e di porfido, in particolare quello rosso del Mons Porphyrities (Wadi Umm Sidri), da dove furono prodotte colonne alte fino a 6-8 metri (ad es. quelle utilizzate nella basilica di San Crisogono o nel battistero di San Giovanni in Fonte).
Questa via iniziava sul Nilo presso Antinopoli (l'odierna "Sheikh Ibada") e poi proseguendo verso nord-est, piegava a sud lungo la costa del Mar Rosso presso Abu Sha'ar, dopo aver attraversato lo Wadi Tarfah, lo Wadi Ragalah, lo Wadi Hawashiya e lo Gebel Abu Had, per infine condurre al porto di Berenice dopo circa 800 km di percorso. La via continuò ad essere utilizzata anche durante il Tardo impero romano (V e VI secolo).

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Sabratha - LIBIA


Il sito archeologico di Sabratha è situato sulla costa mediterranea, a circa 1,5 km a nord ovest dal centro della moderna Sabratha, in Libia. È oggi fruibile grazie al lavoro compiuto nel 1920 dagli archeologi italiani, diretti da Renato Bartoccini (a quel tempo ispettore presso la "Soprintendenza ai monumenti e scavi della Tripolitania"), che hanno riportato alla luce e parzialmente ricostruito gran parte dei reperti oggi presenti nell'area.
Quando la Libia divenne una colonia italiana, il sito di Sabratha fu oggetto di scavi da parte di Renato Bartoccini prima e Giacomo Guidi poi (a partire dal 1928). Dal 1932 Guidi si occupò della ricostruzione della scena del teatro romano (oggetto di scavi dal 1927), sulla base dei filari di muratura ancora in piedi e delle numerose colonne rinvenute. I lavori si conclusero nel 1937 ad opera di Giacomo Caputo e il teatro fu inaugurato alla presenza di Benito Mussolini con una rappresentazione dell'Edipo re" di Sofocle.
Il monumento più importante del sito è il grande teatro romano, localizzato nella zona est. La data di costruzione non è certa, si ritiene sia stato realizzato tra il II ed il III secolo. La parte più spettacolare è costituita dal muro della scena, che è formato da tre piani con colonne di marmo sovrapposte. Anche la scalinata è ben conservata e offre uno spettacolo suggestivo. Si calcola che sui suoi 11 gradini circolari potessero trovare posto circa 5.000 persone.
Nella zona ovest si trova il Forum con alcuni templi e altri monumenti. Fra questi il tempio di Antonino Pio, il tempio di Giove e la Basilica cristiana fatta costruire da Giustiniano con il pavimento a mosaico (visibile nel museo). Altri mosaici colorati molto ben conservati sono visibili nelle terme prospicienti la spiaggia.
Altri interessanti monumenti di epoca romana sono: il Tempio di Liber Pater, il Tempio di Serapide, il Tempio di Ercole e, nella zona est, sul mare, il Tempio di Iside.
Nella zona ovest, al di qua delle mura bizantine che circondano il Forum ed i templi romani, si trova il mausoleo di Bes. Trattasi di una costruzione del II secolo a.C. in stile architettonico punico-ellenistica molto simile a quello del "Mausoleo di Massinissa" a Thugga. Questo mausoleo è stato in gran parte ricostruito da archeologi libici dopo il 1920.
A meno di un chilometro di distanza dal sito, in direzione ovest, alla periferia della città, si trovano i resti dell'anfiteatro romano costruito nel II secolo d.C. che poteva ospitare circa 10.000 spettatori. Le gradinate sono abbastanza ben conservate e sono ben visibili le gallerie sotterranee utilizzate per far entrare le belve nell'arena.
Il sito è completato da due musei: il Museo Romano ed il Museo Punico. Il primo contiene oggetti ritrovati nelle tombe di Sabratha, mosaici e statue. Notevole un busto di Giove. Nel museo punico il reperto più interessante è una statua che rappresenta il dio Bes.

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Los Millares - SPAGNA

 


Los Millares è un sito archeologico risalente al calcolitico situato a 17 km a nord di Almería nel municipio di Santa Fe de Mondújar in Andalusia (Spagna meridionale). Consisteva in un insediamento circondato da mura con numerosi torrioni e da un cimitero esteso per circa 5 acri. Nei dintorni dell'insediamento erano scaglionati numerosi piccoli avamposti fortificati. Venne scoperto nel 1891 durante la costruzione di una ferrovia e fu scavato per la prima volta negli anni successivi da Luis Siret. Gli scavi continuano ancora oggi. Si stima che possa aver raggiunto i 1000 abitanti. Gli appartenenti a questa cultura erano agricoltori e allevatori, e praticavano la metallurgia del rame. Los Millares era parte della cultura megalitica e del vaso campaniforme che caratterizzava larga parte dell'Europa nello stesso periodo. Le analisi sulle circa 70 tombe a thòlos del sito rivelerebbero, secondo gli archeologi, che la società di Los Millares era fortemente stratificata e bellicosa, spesso in guerra con i suoi vicini. La cultura di Los Millares venne rimpiazzata nell'età del bronzo (1800 a.C. circa) dalla cultura di El Argar.
Un altro insediamento contemporaneo a Los Millares, scoperto nella stessa regione, è quello di Los Silillos.

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Riparo Solinas (Veneto)

 


Il Riparo Solinas, attualmente noto come Grotta di Fumane, è localizzato sopra la località Ca' Gottolo lungo la vecchia strada che va da Fumane alla frazione Molina, in provincia di Verona, mostra evidenze di frequentazione dell'Homo neanderthalensis e dell'uomo moderno, riferibili ad un periodo compreso tra 60 000 e 30 000 anni, mentre i resti di animali risalgono fino a 90 000 anni fa.
Il Riparo, noto agli abitanti della zona come "Gli Osi" per via dei numerosi reperti che si trovavano, fu scoperto nel 1964 da Giovanni Solinas con il figlio Alberto Solinas, entrambi appassionati e studiosi della Paleontologia e della Preistoria locale.
Viene considerato da molti uno dei più importanti siti in Europa per il lungo periodo di utilizzo e per caratteristiche proprie. Si unisce ad un sistema di presenze preistoriche nel nord veronese che ha le più ampie ed importanti ed accessibili nel Riparo Soman, Riparo Tagliente nel Covolo di Camposilvano, nel sistema di grotte ai piedi del Ponte di Veja, nel Castelliere delle Guaite e in una miriade di presenze minori, frequentabili e documentate.
Il riparo vero e proprio fu abitato in tempi più recenti e fu colorato con ocra rossa, con resti di più focolari. Particolare importante è la presenza negli strati più recenti di una fossa usata come deposito dei rifiuti lasciando la grotta sgombra di essi, segno anche di come l'homo sapiens suddivideva lo spazio in zone più precise di quanto faceva il neanderthal.
Dalla parete si sono staccati disegni in ocra, datarti a 35 000, tra i più antichi disegni mai eseguiti. Ad oggi ne sono stati identificati cinque, di cui un paio molto conosciuti. Il primo rappresenta un essere cornuto per il quale sono state avanzate diverse ipotesi tuttora discusse: potrebbe trattarsi di uno sciamano (ipotesi molto discutibile) come di un semplice operatore rituale, con in mano un oggetto votivo, che non ha nulla a che fare con le pratiche sciamaniche, ma potrebbe anche essere una figura simbolica che sintetizza la sfera umana e quella animale, o una madre che tiene per mano un bambino, oppure un cacciatore con la preda (l'immagine dopo quasi 35.000 anni è molto sbiadita e le interpretazioni sono aperte). L'altro disegno raffigura un animale, un felide o un mustelide.
Il riparo era abitato prevalentemente dalla primavera all'autunno con uno spostamento invernale in zone meno fredde.
Una parte degli oggetti è presente al Museo di Sant'Anna d'Alfaedo. I reperti trovati vanno da selci e da utensili di osso a oggetti ornamentali, conchiglie e denti di cervo. Il ritrovamento di resti animali ha permesso una conferma della fauna della zona: la volpe, la iena, il lupo, l'orso bruno, la lince, il gatto selvatico e il leone delle caverne questi resti sono successivi anche alla presenza umana.
Inoltre è stato ritrovato un dente datato a circa 41 000 anni fa che, sottoposto ad analisi del DNA, si è dimostrato appartenuto ad un uomo moderno, uno dei più antichi resti umani ritrovati in un contesto di reperti di tipo protoaurignaziano.
La ricerca attualmente è guidata dalle Università di Ferrara e Milano, ma è aperta alle collaborazioni internazionali, tantoché la recente inaugurazione è stata coordinata dal professor Janusz Kozlowski di Cracovia attuale presidente della Commissione Europea del Paleolitico Superiore.
Il Riparo Solinas è stato strutturato come un insolito museo. Con il contributo di una fondazione bancaria locale è stato reso accessibile alle visite del pubblico. Non ha accessibilità comoda per le persone diversamente abili per la sua localizzazione a centinaia di metri dal parcheggio più vicino e su una strada in forte salita. Il lavoro di musealizzazione è stato curato da un gruppo di architetti guidati da Arrigo Rudi. La struttura ha due entrate, la prima è diretta sulla strada con una struttura di legno lamellare e plastica trasparente al fine di permettere l'entrata più alta possibile di luce naturale più un accesso secondario nella parte interna del bosco che permette di entrare nella parte alta della grotta evitando il percorso con scale a pioli. È in evidenza, e spiegato, lo scavo stratigrafico, datato col sistema del radio carbonio.
Ogni strato è evidenziato con i reperti trovati: carboni, carcasse di animali con le relative zone di macellazione, le schegge e le selci, sostanze organiche e strumenti.
Vista la recente scoperta, dovrebbe trattarsi dell'unico importante sito dove visita e ricerca coesistono. La struttura entra nel sistema museale della Lessinia che coinvolge in prima istanza la Comunità montana della Lessinia e in secondo piano l'Ente Parco e il comune.

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Doriforo - Museo archeologico nazionale di Napoli (Campania)

 
Il Dorìforo ("portatore di lancia") è una scultura marmorea databile alla metà del V secolo conservata presso il museo archeologico nazionale di Napoli. La scultura è la miglior copia romana, ritrovata a Pompei, di un originale Doriforo bronzeo di età classica, eseguito da Policleto e databile intorno al 450 a.C. L'opera venne realizzata nel periodo in cui l'artista era attivo nel Peloponneso e raffigura probabilmente Achille con la lancia. Per realizzarla Policleto procedette a una serie di misurazioni di giovani fino ad arrivare a trovare un modulo matematico, che legasse le varie parti anatomiche.
Le sue scoperte, trascritte nel perduto trattato del Canone, sono oggi note a noi tramite le citazioni di autori successivi. Da esse si evince come, al pari di quanto accadeva negli stessi anni in architettura col modulo, Policleto arrivò alla conclusione che, stabilita la misura di un elemento quale il dito o la testa, tutte le proporzioni si potessero calcolare armoniosamente. Ad esempio, nel Doriforo, la testa è 1/8 dell'altezza, mentre 3/8 sono occupati dal busto e 1/2 dalle gambe.
L'opera fu tra le più replicate del mondo antico e se ne conoscono numerosissime versioni.
Tra le migliori figure quella proveniente da Pompei è conservata nel museo archeologico napoletano, praticamente completa a parte l'assenza della lancia. La versione napoletana fu rinvenuta durante gli scavi archeologici vesuviani, nella palestra Sannitica, il 12 giugno 1797.
Vi è poi una versione frammentaria al Kunsthistorisches Museum di Vienna, e numerose altre copie, spesso reintegrate con frammenti non pertinenti, nei Musei Vaticani, tra le quali la migliore è esposta nel Braccio Nuovo.
Due statue complete, ma con restauri, sono agli Uffizi, dove si trova anche un poderoso torso in basalto verde. Esistono poi numerosi frammenti della sola testa (ospitati nel Pergamonmuseum, nel Metropolitan, ecc.).
Un giovane nudo avanza leggermente sollevando il braccio sinistro, col quale tiene una lancia appoggiata sulla spalla. L'anatomia appare regolata dalle proporzioni del canone, con un grande equilibrio formale. Nuovo era, come ricordò Plinio (Naturalis Historia XXXIV, 56), il fatto che la statua si appoggiasse solo sulla gamba destra (aiutata però da un sostegno a forma di tronco nelle copie marmoree).
Esemplare è l'applicazione del chiasmo, ovvero del ritmo incrociato in grado di conferire estrema naturalezza alla rappresentazione. La gamba destra, infatti, è tesa e corrisponde al braccio sinistro in tensione; l'arto inferiore sinistro, al contrario, è rilassato come il braccio destro abbassato: ogni tensione trova quindi la sua adeguata contrapposizione, smorzandosi sul lato opposto in un rilassamento. L'arco del bacino inoltre si trova a essere inclinato verso la gamba flessa ed è opposto allo spostamento delle spalle. Ne consegue un dinamismo trattenuto che annulla ogni impressione di staticità, a differenza dei precedenti della statuaria arcaica e severa.
L'insieme è potente e muscoloso, con una testa dalla struttura robusta e dotata di un'espressione meditativamente sospesa.
L'originale opera era bronzea, eseguita con la tecnica a cera persa; essa differiva dalla copia marmorea dal tassello posto a sostenere il braccio destro di quest'ultima (elemento di sostegno inutile in una scultura bronzea) e dal tronco, avente funzione di scaricare il peso.

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Il ratto d'Europa - Museo archeologico nazionale del Sannio Caudino (Campania)

 


Il ratto di Europa è uno dei più noti crateri realizzati da Assteas, artista pestano del IV secolo a.C. È stato definito "il vaso più bello del mondo".
L'attribuzione è certa, dato che il ceramografo incise sulla superficie del vaso sia la sua firma che i nomi delle figure dipinte.
Il cratere, appartenente alla tipologia detta "a calice", rientra nel filone della ceramica a figure rosse. È alto circa 70 cm e largo 60 all'apertura.
Sul lato anteriore è rappresentato il mito del ratto di Europa, mentre sul retro è possibile ammirare Dioniso seguito da alcune menadi, un sileno e il dio Pan (tale corteo prende il nome di tiaso).
Il cratere è stato rinvenuto nei primi anni '70 del Novecento a Sant'Agata de' Goti (in provincia di Benevento), città sorta sulle rovine dell'antica Saticula, da un operaio edile, durante dei lavori di scavo per la rete fognaria. Il carpentiere dapprima si appropriò illegalmente del reperto, poi lo portò a casa, fece alcuni autoscatti con una Polaroid a colori e infine lo vendette sul mercato nero per un milione di lire e un maialino.
Il cratere ha poi seguito la filiera di un'organizzazione criminale dedita al traffico internazionale di reperti storici, venendo depositato in Svizzera in attesa di un acquirente. Da qui, "il ratto di Europa" fu venduto al Getty Museum (Malibù, California). In questa sede fu esposto dal 1981 al 2005.
In seguito a lunghe e complesse indagini dell'Arma dei Carabinieri (Comando Tutela Patrimonio Culturale) è stato possibile riportare il cratere in Italia, grazie alla prova schiacciante di un'istantanea Polaroid ritraente il cratere e l'operaio che lo aveva ritrovato anni addietro.
A partire dal 2007 il vaso è stato esposto in diverse città europee: Roma, Montesarchio, Napoli, Paestum, Parigi, Sant'Agata de' Goti, Milano.
Attualmente il cratere è in esposizione presso il Castello di Montesarchio, sede insieme alla Torre del museo archeologico nazionale del Sannio Caudino (in provincia di Benevento), città situata sul territorio dell'antica Caudium.
La storia del cratere è stata narrata in diversi articoli giornalistici e, in maniera più approfondita, nel romanzo "Il ratto di Europa. Storia del vaso di Assteas" di Aniello Troiano e nel documentario di Michele Porcaro "ASSTEAS - Storia del vaso più bello del mondo" a cui ha collaborato il critico d'arte Vittorio Sgarbi.

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Satiro in riposo - Musei Capitolini di Roma (Lazio)

 
Copia romana di epoca imperiale, tratta da un originale greco del tardo classicismo. Risalente ca. 130 d.C. (la copia), al IV secolo a.C. (l'originale di Prassitele). Il Satiro in riposo, noto anche come Satiro anapauomenos (dalla lingua greca ἀναπαυόμενος, ἀναπαύω-a riposo) è una tipologia di statua generalmente attribuita originariamente all'antico scultore greco classico Prassitele. A tutt'oggi ne sono noti 115 esempi, di cui la copia più famosa è quella conservata ai musei capitolini a Roma.
Viene rappresentato un giovane sileno, identificabile chiaramente dalle orecchie equine a punta (presenta anche una posa a chiasmo talmente accentuata che ha bisogno di un appoggio per risultare armonico) e dalla pardalide o "pelle di pantera" indossata: drappeggiata casualmente sulla spalla destra, attorno alla vita sinistra e dietro la schiena, di modo che la testa dell'animale selvaggio ricada sulla spalla destra e finisca col coprire parte del petto. L'espressione della testa animale è calma, come se dormisse.
Il corpo dell'adolescente è leggermente paffuto, emanante un senso d'inesperienza ma estremamente affascinante. La testa è leggermente inclinata verso sinistra rivolgendo verso lo spettatore un'espressione dolce, seria ed introversa ma con, al contempo, un accenno di sorriso.
Appoggia in atto di riposo il gomito destro su un tronco d'albero ed in una posizione alquanto instabile, mantenendo come supporto solamente la gamba sinistra. La sua gamba destra rimane piegata, col piede incuneato all'indietro fino a sfiorare il tallone sinistro.
In una serie di copie successive gli autori hanno aggiunto un oggetto che viene tenuto nella mano destra, solitamente un flauto di Pan, mentre quella sinistra si trova appoggiata al fianco tenendo così premuta la pelle di pantera.
I tratti del viso sono ben definiti ed il naso è leggermente arricciato e appiattito; i capelli sono folti, ricciuti e molto curati (ricordando in questo l'iconografia inerente alle divinità fluviali (di Fauno e Silvano), trattenuti sulla fronte da un cordoncino o da una corona, le orecchie ed il collo.
Il "Satiro in riposo" (riposo del satiro) è tradizionalmente identificato con il satiro periboêtos di cui parla Plinio il Vecchio nella sua Historia naturalis XXXIV, 69: Prassitele ha prodotto una scultura in bronzo di Liber, famosa divinità ebbra che i greci denominano satiro periboetos.
Lo studioso tedesco del XVIII secolo Johann Joachim Winckelmann l'ha intesa come celebre e famosa e ciò difatti spiegherebbe il gran numero di esempi esistenti di essa, che ne hanno fatto uno dei tipi più popolari nell'intera area del Mediterraneo, più di un centinaio di cui quindici presenti solamente a Roma ed otto in Grecia.

Diadumeno di Delo - Museo archeologico nazionale di Atene - GRECIA

 
Il Diadumeno (in greco Diadúmenos, cioè "che si cinge la fronte [con la benda della vittoria]") è una statua realizzata da Policleto verso il 420 a.C. e oggi nota solo da copie romane marmoree, tra cui la migliore è considerata il Diadumeno di Delo nel Museo archeologico nazionale di Atene (h. 195 cm). Probabilmente l'opera venne scolpita ad Atene, dove l'artista era venuto a conoscenza del collega Fidia, come si evince da una certa influenza nella forma e nell'atteggiamento della testa.
Si conoscono più di trenta copie di questa scultura; le più celebri sono: il Diadumeno di Delo, conservato al Museo Archeologico Nazionale di Atene ed il Diadumeno di Vaison, conservato al British Museum di Londra. Un'altra copia detta Farnese, nello stesso museo, presenta leggere varianti (ad esempio nella testa) e si è ipotizzato che possa derivare da una copia eseguita da Fidia. Un grosso frammento di epoca flavia, restaurato e reintegrato successivamente, si trova nel Metropolitan Museum di New York. Una testa di Diadumeno è al Louvre (che possiede anche un torso), una al Museo Barracco di Roma e una al Museo nazionale di Venosa. Un torso di Diadumeno, proveniente dalle collezioni sabaude, si trova nel Museo di antichità di Torino. Un giovane atleta nudo solleva le braccia per allacciarsi in testa la benda della vittoria (la tenia).
Troviamo un'applicazione del chiasmo come nel Doriforo, il chiasmo è un ritmo incrociato capace di
dare estrema naturalezza alla rappresentazione, ogni tensione trova la sua adeguata contrapposizione. L'arco del bacino inoltre si trova ad essere inclinato verso la gamba flessa. Ne consegue un dinamismo trattenuto, che annulla ogni impressione di staticità, a differenza dei precedenti della statuaria arcaica e severa. A differenza del Doriforo, nel Diadumeno il baricentro della figura non è su una gamba, bensì al centro fra le due.
L'insieme è potente e muscoloso, ricco di sfumature, con una testa dalla struttura robusta e dotata di un'espressione medativamente sospesa. Appare esaltata la mimesis, cioè il naturalismo basato sull'imitazione del vero, equilibrato però dalla componente ideale.


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Teatro romano di Torino (Piemonte)

 


Il Teatro romano di Torino è parte delle vestigia romane dell'antica Augusta Taurinorum, comprese nell'area del Parco Archeologico di Via XX Settembre. Risalente al 13 a.C., fu attivo fino al III secolo e rappresenta l'unica infrastruttura della città romana (Quadrilatero) ad aver lasciato cospicue testimonianze delle tre fasi costruttive successive. La sua riscoperta in età moderna avvenne nel 1899, durante i lavori di demolizione di alcune ali di Palazzo Reale.
Il monumento è visitabile all'interno del Musei Reali di Torino.L’edificio venne realizzato probabilmente sotto il principato di Augusto (27 a.C. - 14 d.C.), prima ancora che venisse completata la cinta muraria, e fu uno dei primi edifici pubblici della nuova colonia di Augusta Taurinorum.
Frutto di un progetto accurato, era tuttavia una struttura molto semplice: un edificio rettangolare di circa 61 x 47 m, forse già dotato di un porticato dietro la scena, che doveva ricordare molto il teatro di Augusta Praetoria (Aosta), realizzato nello stesso periodo.
Gli spettatori entravano da porte disposte lungo le vie, che immettevano in un grande spazio di accoglienza retto da pilastri. Da qui raggiungevano i posti a sedere per assistere alle rappresentazioni: i migliori si trovavano nella cavea (gradonata) semicircolare, realizzata in muratura, ma i cittadini meno abbienti avevano a disposizione un ampio “loggione” raggiungibile con comode scale.
Secondo un modello tipico in età romana, lo sfondo del palco era decorato con una semplice frontescena rettilinea decorata con colonne addossate ai muri. Gli attori facevano la loro apparizione passando da tre porte monumentali, mentre il grande spazio semicircolare davanti al palco, detto orchestra, era destinato al coro e ai danzatori.Nei decenni successivi il teatro fu oggetto di una serie di interventi di rinforzo strutturale e di abbellimento.
Il loggione venne probabilmente ricostruito in muratura ed è forse in questo momento che il frontescena colonnato venne completamente ricostruito con un disegno più fastoso, che prevedeva colonne libere e torri ai lati della scena. Fu anche realizzato il porticato rettangolare dietro l’edificio che, estendendosi fino alla cortina delle mura urbiche, ospitava un fresco giardino dove gli spettatori si intrattenevano nelle pause degli spettacoli.
L’orchestra venne ridotta per ricavare alcune file aggiuntive di sedute con sedili di marmo (proedria), dedicati alle autorità.
Alcune di queste opere sono forse dovute al generoso contributo di Cozio II o a suo figlio Donno, rispettivamente figlio e nipote del prefetto Marcus Julius Cottius, come attesta una iscrizione in marmo esposta al Museo di Antichità.
Grazie al prolungato periodo di pace e di prosperità economica intercorso tra il 70 e il 90 d.C., il teatro fu completamente ristrutturato. Per aumentarne la capienza la cavea fu ingrandita con l'aggiunta di un ordine di scalinate più esterno e fu realizzata una nuova facciata curvilinea in sostituzione della precedente, con le porte ci accesso all'edificio.
Ogni settore della cavea poteva contare su una specifica via di ingresso e di uscita, che garantivano sicurezza e rapidità di accesso e deflusso degli spettatori.
Anche le due torri di parascenio furono raddoppiate in larghezza, in modo da ospitare al piano terreno dei foyer per gli ospiti (basilicae), dai quali si poteva accedere ad un nuovo peristilium colonnato dietro la parete di scena e un giardino a disposizione degli spettatori negli intervalli tra gli spettacoli (un frammento di intonaco dipinto raffigurante fogliame e uccellini in volo rinvenuto negli scavi del 1900 è l'unica traccia della decorazione del portico risalente a questo periodo).
Ampliato fino ad una capienza di tremila persone, il teatro, forse ospitò anche alcune naumachìe, come sembrerebbero testimoniare alcuni canali di scolo rinvenuti nelle sue immediate vicinanze e sotto il tracciato iniziale dell'attuale via Roma.
Il teatro fu utilizzato per più di due secoli fino all'affermarsi del cristianesimo che impose il divieto delle rappresentazioni teatrali. Al termine del IV secolo l'edificio, ormai abbandonato, divenne cava di materiali edilizi per la contestuale costruzione della prima cattedrale, la basilica dedicata a Cristo Salvatore, e il complesso episcopale.
Quasi irriconoscibile e in gran parte spogliato dei marmi più pregiati, i resti del teatro furono quasi completamente distrutti dal primo assedio francese del Cinquecento. Dopo secoli di oblìo, gli attuali resti furono riportati alla luce soltanto tra il 1899 e il 1906, durante gli scavi per la costruzione della nuova ala di Palazzo Reale, commissionata da re Umberto I. Di fondamentale importanza fu l'intervento dell'architetto e studioso Alfredo D'Andrade; egli si oppose fermamente alla demolizione delle vestigia e, a seguito di rilievi e scavi sul posto, fece opportunamente modificare il progetto di ampliamento della manica di Palazzo Reale, consentendone il restauro e la conservazione dei resti. I lavori di risistemazione terminarono nel 1911 e i resti del teatro sono attualmente visibili sia nella parte esterna accanto al vicino Duomo di San Giovanni, che nella parte sotterranea del palazzo adiacente, prestigiosa sede del Museo di Antichità. Il teatro occupava un intero isolato nel quadrante nord-orientale della città, ovvero il quartiere più agiato, circondato da numerose abitazioni patrizie e non lontano dal forum. Il quartiere ha sempre rivestito una particolare importanza: collegato, grazie alle Porta Palatina, alla strada proveniente da Vercellae (Vercelli) e Mediolanum (Milano), fin dalla fondazione della colonia ospitava probabilmente strutture di servizio pubblico. È qui che dalla fine del IV secolo vennero poi edificate le prime chiese cristiane, la Cattedrale dedicata a Cristo Salvatore e la sede del potente Vescovado. Una “zona di comando” riconfermata nel Cinquecento quando anche i Duchi di Savoia decideranno di costruire proprio in questi isolati i loro palazzi.
Come consuetudine, fu edificato in prossimità di un declivio per sfruttarne la pendenza e a ridosso delle mura che racchiudevano il centro abitato. Dagli scavi emersi si può infatti ancora notare l'intervallum, ovvero il camminamento ricavato nello spazio che intercorreva tra il perimetro delle mura e gli edifici in prossimità di esse. Fu poi in seguito rimaneggiato e ampliato. Esso rappresenta uno degli esempi di teatro più piccoli nel suo genere ed è strutturalmente similare al teatro romano di Augusta Raurica, l'attuale Basilea.
L'edificio primigenio occupava un'intera insula ed era originariamente costituito dalla consueta cavea semicircolare realizzata con una gradinata di marmo e da una parete con tre portali che costituiva la scæna; essa era completata dal pulpitum, ovvero il palcoscenico, che era infine affiancato da due annessi laterali detti parascænia. Il sipario, ovvero l'aulæum era azionato da meccanismi lignei i cui pali erano fissati nei dodici pozzetti ancora visibili.
Per ovviare al sole estivo o al clima piovoso nelle altre stagioni la cavea era probabilmente coperta da una seconda sovrastruttura lignea che probabilmente sosteneva un velarium, ovvero una grande copertura in tela. L'intero edificio era quindi circondato da una cinta muraria che era parte integrante delle mura urbiche e che si raccordava a un rettangolare porticus post scænam. Con molta probabilità la parete nord che cingeva il teatro era dotata di due torri simili a quelle della vicina Porta Principalis Dextera e che probabilmente erano anch'esse dotate di appositi ingressi che probabilmente consentivano l'accesso diretto al teatro da chi proveniva da fuori città. Ciò potrebbe suggerire che fosse abitualmente frequentato anche dagli abitanti delle campagne vicine.
Tuttavia il teatro non era l'unica struttura di intrattenimento della piccola Augusta Taurinorum, poiché vi sono supposizioni sulla presenza di un anfiteatro che, secondo alcune ipotesi ancora del tutto prive di riscontri, avrebbe forse trovato luogo al di fuori della Porta Principalis Dextera, presso l'attuale via Borgo Dora, oppure al di fuori della Porta Principalis Sinistra[Nota come Porta Marmorea, ubicata presso l'attuale incrocio tra via Bertola e via XX Settembre e distrutta intorno al 1660 ], in prossimità dell'attuale piazza San Carlo. (Una prima ipotesi della presenza dell'anfiteatro nell'antica Augusta Taurinorum, è quella che vedrebbe nell'andamento descrivente un'ellisse di via Borgo Dora l'unica testimonianza superstite del profilo dell'anfiteatro. L'ubicazione (a poca distanza dal teatro e dalle terme della città), le misure riscontrabili dalla lunghezza della via e dall'ipotetica ellisse generata potrebbero essere infatti compatibili con quelle di un piccolo anfiteatro.)

(da Wikipedia, l'enciclopedia libera)

Antefisse del Santuario di Cittanova (Emilia Romagna)

 

Le antefisse del Santuario di Cittanova sono 18 antefisse fittili provenienti dal Santuario di Cittanova presso Modena, oggi custodite presso il Museo civico di Modena. Tra il 2006 e il 2009 a Modena, in località Cittanova, un’area archeologica di epoca romana è stata indagata in occasione degli scavi per la realizzazione di un sottopasso della via Emilia. Nel sito esaminato, databile all'età repubblicana, è stato riportato alla luce un complesso santuariale caratterizzato da quattro fasi edilizie: le prime tre, di età repubblicana (III-I secolo a.C.), corrispondono alle fasi di vita del santuario; l’ultima, di età alto imperiale (I-II secolo d.C.), è da riferire all’abbandono dell’area sacra ed al conseguente impianto nello stesso luogo di un insediamento rustico. A quest'ultima fase sono riferibili alcune grandi buche-discariche dentro le quali sono stati recuperati, oltre a frammenti di vasi in ceramica (terra sigillata e pareti sottili)[1] databili alla prima età imperiale e dunque coevi alla fase di abbandono del complesso, anche materiali delle fasi precedenti, come le antefisse (tegole dipinte di rosso) ed altri elementi architettonici. Non essendo stati rinvenuti materiali che si datino oltre il II secolo d.C., sembra essere confermato il repentino abbandono del sito già in piena età imperiale.
Le antefisse presentano un caratteristico impasto color arancio con resti di ingubbiatura beige e misurano in media 20 cm di altezza e 15 cm di larghezza; nessuna di esse, tuttavia, è stata rinvenuta integra. Esse sono state realizzate presumibilmente con più di una matrice, ma il soggetto rappresentato, ossia una testa femminile velata con parte del collo, è il medesimo per tutti gli esemplari. Il volto ovale, leggermente inclinato, è caratterizzato da lineamenti regolari, occhi infossati, naso dritto e largo, e labbra carnose. La capigliatura, che nasconde le orecchie, corrisponde a quella del cosiddetto “melonenfrisur”: tale particolare acconciatura, realizzata con linee semplici, è costituita da ciocche che dalla fronte vengono portate sulla parte posteriore della testa e lì fermate da una vistosa treccia. Il retro del capo, semplicemente liscio, rappresenta in modo intuitivo il velo che dalla testa scende anche ai lati del volto. Lo stato di conservazione dei pezzi non consente di individuare con certezza la presenza di orecchini. Inoltre i coppi alla fine dei quali erano poste le antefisse sono andati perduti e non è stato quindi possibile stabilirne la lunghezza, ma solo la forma con sezione a ferro di cavallo.
Il tipo di antefisse con testa femminile e "melonenfrisur" è tipica della produzione romana del III-II secolo a.C. e riprende modelli greco-ellenistici. Pertanto le antefisse di Cittanova sono cronologicamente ascrivibili alla fase iniziale del santuario, che più precisamente si vuole far risalire agli anni compresi tra il 224 a.C., data della prima sottomissione dei Boi, e il 218 a.C., a cui risale l’invasione di Annibale. Dal contesto di rinvenimento tuttavia non è possibile sapere con sicurezza se le antefisse siano da attribuire alla prima o alla seconda fase dell’edificio sacro, sebbene entrambe queste fasi siano comunque riconducibili ai primi momenti di vita e sviluppo del santuario. Il tipo di matrice delle antefisse è di origine centro-italica e solitamente la sua diffusione è limitata all'area di Roma e delle sue immediate vicinanze; il rinvenimento delle antefisse di Cittanova dunque sembra testimoniare e ribadire la presenza ed il controllo dell'Urbe sul territorio modenese. Infine non è da sottovalutare il rinvenimento casuale di un’antefissa frammentaria nel territorio di Formigine e che sembrerebbe risalire alla medesima produzione di quelle di Cittanova.

foto di C.Vannini

(da Wikipedia, l'enciclopedia libera)

Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...