Senza dubbio il complesso monumentale
di Pietrabbondante è stato edificato per una funzione esclusivamente
religiosa, e tale carattere dovette conservare preminentemente fino
al suo definitivo abbandono. Tutti gli edifici mostrano con evidenza
la loro destinazione cultuale, compreso il teatro, intimamente
connesso con la zona templare retrostante. Purtroppo un solo
documento, una lamina bronzea trovata nelle vicinanze del tempio
maggiore, testimonia uno dei culti praticati: si tratta di una dedica
votiva alla dea Vittoria. Si conosce la diffusione del suo culto
in Campania e nel Lazio, e si ha un'ampia documentazione sia
letteraria che archeologica già a partire dal IV – III secolo a.C.
confermata anche da una ricca documentazione numismatica. Alquanto
controversa è l’origine del culto secondo la tradizione letteraria
latina. La divulgazione di questa forma religiosa nell'Italia
centro-meridionale è da attribuirsi ad influsso greco: il culto per
la dea Vittoria sarebbe quindi un'interpretazione ellenizzante di una
divinità locale, già esistente in epoca più antica, come, ad
esempio, la dea sabina Vacuna. Per il resto nulla sappiamo degli
altri culti praticati nel santuario, neppure dalle numerose
iscrizioni rinvenute nel sito.
Costruito per volontà politica del
governo centrale, con l’appoggio ed il sostegno di eminenti
famiglie, l’area sacra svolgeva inoltre anche un preciso ruolo in
rapporto alle imprese belliche condotte dai Sanniti: la grande
maggioranza di oggetti rinvenuti nei livelli più antichi esplorati è
costituita da armi, certamente bottino predato ai nemici dopo una
vittoria, che proprio qui venivano consacrate come trofeo alla dea
Vittoria. Questo particolare giustifica così la mancanza quasi
assoluta di ritrovamenti di armi in altri luoghi, anche dove potrebbe
essere legittimo attenderseli.
Più di ogni altra località
del Sannio, il territorio di Pietrabbondante rivela, attraverso
la distribuzione delle strutture insediative, le caratteristiche
tipiche di una comunità non urbanizzata. Il santuario però non
rappresenta una presenza isolata nell'area, anzi rispecchia
un'attività federale e non più soltanto municipale, il risultato di
una grande azione collettiva che va oltre il tradizionale
particolarismo delle singole realtà locali. Il complesso
teatro-tempio, per il grande impegno economico richiesto, costituisce
un episodio di massima rilevanza politica, che va al di là della
modesta fortificazione presente sul monte Saraceno. Infatti i
risultati delle ricognizioni territoriali, sebbene parziali, hanno
offerto dati di grande interesse sulla frequentazione di questo
territorio nell'antichità.
Il complesso monumentale è situato più
in basso rispetto al moderno abitato di Pietrabbondante, che occupa
uno sperone roccioso a nord-est del monte Saraceno, a circa m. 1025
s.l.m. ad un chilometro circa, in linea d’aria, dal sito
archeologico, che ha un'estensione di circa m. 200 in direzione
nord-sud e di circa m. 150 in direzione est-ovest. Sul declivio del
colle, in posizione panoramica dominante la valle del Trigno alla
sua confluenza col Verrino, è attualmente possibile ammirare il
complesso del teatro e dei due edifici templari, quello minore (A),
più antico, situato a nord-est del teatro, e ad esso collegato
mediante un porticato con botteghe; quello maggiore (B), retrostante
il teatro stesso ed appartenente alla medesima fase edilizia. Il
dislivello del terreno fra l'estremità occidentale e quella
orientale è di circa otto metri, passando da quota 966 a quota 958
s.l.m. L’allineamento degli edifici non è casuale, ma volutamente
predisposto, con assi longitudinali paralleli e con orientamento
est-sud-est. Il complesso monumentale, così come oggi ci appare, si
è sviluppato in due distinte fasi edilizie, cronologicamente non
molto lontane fra loro.
La
costruzione del monumentale complesso teatro – tempio rappresentò
certamente l’iniziativa di maggiore impegno, che occupò gli ultimi
decenni del II secolo ed i primi del I secolo a.C. e fu il frutto di
un'unica progettazione organica. Opera di un architetto rimasto
anonimo, per la monumentalità degli edifici e per la qualità
architettonica il complesso dovette richiedere un impegno eccezionale
da parte dell’intera nazione dei Sanniti Pentri, che proseguì
gradualmente tra gli anni 120 – 90 a.C. fino a quando la guerra
sociale non interruppe qualsiasi forma di finanziamento pubblico o
privato per l’arricchimento del santuario. Lo straordinario
sviluppo di cui godette, benché tagliato fuori dalle grandi vie di
comunicazione, è dimostrato dai frequenti riferimenti alle
magistrature sannitiche menzionate nelle iscrizioni epigrafiche,
quali il meddix tuticus, il censor, il quaestor. La
presenza di questi importanti organismi amministrativi e di
un'assemblea deliberante (concilium) sono la prova dell'esistenza di
un'organizzazione statale, anche se è difficile definire il tipo di
struttura organizzativa del centro e la sua condizione giuridica.
Il complesso
teatro – tempio è un insieme di grande suggestione scenografica
che si ispira ai modelli ellenistici diffusi in area campana, sia per
lo schema del teatro, che ricorda quello di Sarno ed il
teatro piccolo di Pompei, sia per la decorazione architettonica
del tempio, il cui podio ricalca il modello del tempio
di Capua. L’edificio ripropone le caratteristiche
dell’architettura templare italica, infatti è posto su un podio,
con gradinata centrale di accesso, ed è circondato su tre lati da un
corridoio; differisce per un particolare elemento architettonico,
anziché presentare un'unica cella sacra, ove di solito era collocata
la statua della divinità oggetto di culto, ne ha tre, come nella
tradizione degli Etruschi e dei Latini, e lascia
quindi supporre che fosse dedicato a una triade, unico esempio della
cultura italica di tempio dedicato a tre divinità.
La
rocca fortificata sulla sommità del monte Saraceno, a circa m.
1212 di altitudine s.l.m. copre un’area pianeggiante ed estesa per
circa m. 300 x 150 ed è da collegarsi all'intero sistema di
strutture difensive costruite dai Sanniti nel corso del IV secolo
a.C. nel Sannio interno. Le indagini archeologiche, infatti, hanno
evidenziato la presenza di numerosi insediamenti fortificati nel
Sannio pentro, edificati sul territorio dopo il primo conflitto con i
Romani (343-341 a.C.) ed ubicati sui rilievi strategicamente più
importanti, molti dei quali attendono ancora di essere precisamente
identificati: sappiamo che erano perfettamente a vista l’uno
dell’altro, in modo da creare un'efficace rete di controllo del
territorio, e che in alcuni casi, come a Monte Vairano, la roccaforte
non fu utilizzata esclusivamente a fini militari, ma anche come
centro abitato, per giunta di dimensioni rilevanti. Anche la
roccaforte di Pietrabbondante, difesa da massicce mura in opera
poligonale, si collegava con analoghe opere difensive poste più a
valle ed ancora oggi visibili, che avevano lo scopo di controllare il
percorso che costeggia in quota il monte Saraceno, raggiungendo il
santuario in località Calcatello. Oggi sono ben visibili solo tre
brevi tratti della cinta muraria, in particolare quello sul lato
sud-ovest, che appare il meglio conservato. La prima segnalazione
dell’esistenza di queste mura sulla vetta del monte fu fatta dal
Caraba.
La fortificazione è stata realizzata
utilizzando una tecnica costruttiva piuttosto rozza, con grossi
blocchi di pietra calcarea, di diverse dimensioni e solo parzialmente
lavorati, sovrapposti a piombo l’uno sull'altro, e pietre dure
inserite negli interstizi. Il materiale calcareo è stato
probabilmente estratto dalla sommità dell’altura, in modo da
spianare il più possibile la zona destinata all'abitato. Il tratto
di mura meglio conservato è lungo circa m. 40 e presenta un’altezza
media di m. 0,90. Sul percorso è presente una
piccola postierla larga circa m. 0,90 che permette il
passaggio di una sola persona per volta. Questo tratto si congiunge
ad uno sperone roccioso sul lato sud-est che, per la sua asperità,
rende naturalmente difficile l’ascesa alla sommità della rocca. Un
secondo tratto di fortificazione, lungo circa m. 10,70 ed alto circa
m. 1,50, prosegue lungo il pendio sul versante occidentale. L’ultimo
tratto di mura visibile è anche il più piccolo, misura infatti solo
m. 4,50 di lunghezza, con un’altezza massima di m. 1,65. La
restante parte della muraglia è nascosta dalla vegetazione a macchia
spontanea, anche se è possibile intuire il probabile andamento del
muro. Su un picco roccioso alle spalle dell’abitato di
Pietrabbondante, detto Morgia dei Corvi, è stato individuato un
breve tratto di mura poligonali, analoghe a quelle presenti sul monte
Saraceno, che dominano la vallata del Verrino, probabilmente facenti
parte dello stesso sistema di fortificazione.
Allo stato
attuale è difficile accertare se la cinta muraria fosse dotata di
bastioni difensivi; nell'area interna non è visibile alcuna traccia
di costruzioni, e del resto all'interno della fortificazione non è
stato praticato alcun saggio di scavo, né vi sono stati
rinvenimenti, neppure casuali. Difficile individuare con esattezza i
punti di accesso all'interno della zona recintata, e formulare una
qualche datazione. All'epoca della costruzione della rocca era
certamente già frequentato il luogo di culto in località
Calcatello, come dimostrano alcuni resti rinvenuti nell'area sacra,
già adibita alle cerimonie legate all'attività dell’esercito
sannitico.
In base alla tecnica costruttiva, secondo la classificazione di G.
Lugli, è possibile avvicinare questa fortificazione agli
altri complessi della Marsica e del Sannio risalenti al periodo tra
il VI e la fine del IV secolo a.C. come a San Pietro
Avellana (monte Miglio), Rionero Sannitico (bosco
Pennataro), Carovilli (monte Ferrante), Agnone (località
fonte del Romito), Chiauci (monte Lupone), Sepino (località
Terravecchia), Baranello (monte Vairano), Longano (monte
Lungo), Frosolone (località Civitelle), Trivento (località
Sterpara), Montefalcone nel Sannio (monte
Rocchetta), Campochiaro (contrada
Civitella), Duronia (località Civitavecchia).
Una
piccola necropoli, a circa un km a
sud-ovest dell’area di Calcatello, è stata riportata alla luce nel
1973 e parzialmente esplorata: ubicata in località Troccola, a 1043
m. di altitudine s.l.m. tra il monte Saraceno a nord ed il monte
Lamberti ad ovest, essa ha restituito tre sepolture appartenenti ad
epoche diverse, comprese tra il V ed il III secolo a.C.
Le tre tombe, scavate nel misto di
breccia calcarea e argilla rossiccia, sono del tipo a fossa e la loro
copertura si trova a circa 40 cm. sotto il piano di campagna; le
fosse presentano coperture di tegole e di lastre di calcare, e sono
riempite con lo stesso misto del terreno circostante. Gli inumati
giacciono supini, con braccia e gambe distese, in due casi,
leggermente flesse nel terzo. I corpi appartengono a due maschi
adulti e ad un bambino. I corredi funerari sono poveri di oggetti di
ceramica (vasellame, coppette e brocche) ma ricchi di oggetti
metallici (cinturoni, pettorali, cuspidi di lancia). Nella tomba del
bambino sono presenti oggetti di bronzo.
Se ne ricava
il quadro di una comunità abbastanza fiorente, in grado di sostenere
l'importazione di oggetti metallici, e con un'organizzazione sociale
articolata al proprio interno, in cui le classi sociali più elevate
hanno buone disponibilità economiche. I dati archeologici consentono
di ipotizzare che l’attività della necropoli si estese dal V al
III secolo a.C. per tutto il periodo di vita del santuario; non
esistono invece elementi per individuare l’ubicazione dell’abitato
a servizio del quale funzionava la necropoli stessa.
A circa 400 m. dall'area del teatro,
verso sud, è stato rinvenuto, in località Padolera, lungo un
sentiero isolato che conduce a Santa Scolastica,
il
mausoleo sepolcrale della gens Socellia, risalente
alla seconda metà del I secolo a.C. Posto in maniera ben visibile su
un pendio leggermente elevato, richiamò l’attenzione degli
archeologi fin dall'avvio dei primi scavi sistematici (1857), ed è
infatti già citato nei giornali di scavo dell'epoca.
Dopo la guerra tra Gaio
Mario e Lucio Cornelio Silla, i Sanniti furono pesantemente
puniti da Silla per avere sostenuto Mario ed il complesso
tempio-teatro venne confiscato e assegnato alla famiglia
dei Socellii. La presenza del monumento funerario doveva
pertanto servire proprio a sottolineare l’avvenuto possesso delle
terre. La vita del santuario decadde precocemente, anche a causa
dell’isolamento della sua posizione, così lontana dalle grandi vie
di comunicazione. Nella zona, pertanto, cominciò a svilupparsi
un'economia di tipo agricolo - pastorale. Non è esclusa l’esistenza
di ville rustiche nelle campagne adiacenti all’area monumentale,
non ancora esplorate.
A giudicare dai 29 pezzi ritrovati, si
trattava di un grande edificio, in pietra locale, costituito da un
corpo inferiore a pianta quadrangolare che poggiava su un dado di
base, quadrato, di m. 7 di lato x m. 4 di altezza, costituito da
blocchi di calcare lavorato. Le pareti del piano inferiore erano
decorate da lesene con capitelli corinzi, con le
caratteristiche foglie di acanto, e coronato nella parte superiore da
una cornice semplicemente modanata; tra una lesena e l’altra vi
erano due iscrizioni che ricordavano il personaggio, un certo Caius
Socellius, che prese l’iniziativa di costruire il monumento
funerario per sé e per altri quattro membri defunti della propria
famiglia. La parte superiore della costruzione consisteva in un corpo
a tamburo cilindrico (m. 6 di diametro x m. 2 di altezza) che aveva
sulla parete esterna una decorazione di piccole arcate in rilievo
poggiate su esili lesene, al di sopra delle quali correva una fascia
decorata con un fregio di grappoli d’uva e tralci ondulati.
Difficile definire l’aspetto della copertura del monumento, così
come non è chiaro dove trovassero posto le sepolture all'interno
dell’edificio. Di recente è stata rinvenuta, non lontano dal
santuario, una statua femminile, di stile funerario, con una colomba
nella mano sinistra, che simboleggia l’anima libera in volo verso
il cielo.
La famiglia
dei Socellii è nota anche da altre fonti, infatti si
ritrova in un'altra iscrizione sepolcrale rinvenuta nell'ambito del
territorio del municipio romano di Terventum (Trivento),
presso il santuario della Madonna di Canneto.
È stato necessario più di un secolo per riportare alla luce il
santuario sannitico di Pietrabbondante, così come oggi lo possiamo
ammirare. Le campagne di scavo effettuate in località Calcatello si
possono considerare le prime avviate nel territorio del Molise: che
in quell'area esistessero antichi ruderi si sapeva già al tempo dei
Borbone. Il primo a darne notizia fu l’abate domenicano Raimondo
Guarini (1765 – 1852) con una memoria letta nel 1840
all'accademia Ercolanese e pubblicata sei anni dopo. Risale al 1843
la prima menzione scritta dell'esistenza del sito archeologico ad
opera dello storico Nicola Corcia (1802 – 1892). Gli
studi si intensificarono in seguito alle diverse segnalazioni
effettuate dal medico agnonese Francesco Saverio Cremonese (1827
- 1892), appassionato di archeologia. Uno dei primi a studiare
personalmente quanto veniva segnalato nel territorio fu Ambrogio
Caraba (1817 - 1875), ispettore onorario alle Antichità e Belle
Arti per la Provincia di Campobasso. Nel 1845 pubblicò tali
studi parlando dell’esistenza di una cinta muraria
edificata con grossi blocchi poligonali e del rinvenimento nell'area
di numerose iscrizioni in lingua osca, ed identificando
Pietrabbondante con la città di Aquilonia. Tali notizie richiamarono
l’attenzione di studiosi italiani e stranieri, quali Max
Friedländer e Theodor Mommsen. Quest’ultimo, dopo aver
visitato personalmente il sito nel maggio 1846, avanzò
l’ipotesi che Pietrabbondante dovesse identificarsi con
la Bovianum Vetus citata in un passo di Plinio il
Vecchio. A suo giudizio sarebbero esistite nel Sannio due
località omonime, ma ben distinte topograficamente e storicamente,
una da identificare con l'odierna Bojano e l’altra con
Pietrabbondante, entrambe sarebbero diventate colonie romane dopo la
guerra sociale. Tale ricostruzione storica, formulata anche sulla
base di alcune iscrizioni epigrafiche, è stata accettata per più di
un secolo ed è sopravvissuta fino a tempi recenti. Quando, anche
grazie all'evoluzione degli studi ed all'apporto di nuove discipline,
il quadro storico dell’antico Sannio si è arricchito di più ampie
conoscenze, è stata dimostrata l'infondatezza della tesi proposta,
sulla base di precise argomentazioni epigrafiche, glottologiche,
topografiche e storiche. Resta ancora oggi senza risposta
l’attribuzione di un antico toponimo al sito di Pietrabbondante:
Livio cita molti nomi di città sannitiche di cui non conosciamo la
corrispettiva individuazione topografica (Murgantia, Romulea,
Feritrum, Imbrinium, Cimetra, Duronia, Panna, Cominium, Aquilonia);
al tempo stesso sono stati identificati numerosi centri sannitici,
tuttora inesplorati ed anonimi.
Nell’estate del 1856, Francesco
Sforza, personaggio influente presso la corte napoletana, invitato
dalle autorità del luogo a visitare le rovine archeologiche, rimase
molto colpito dalla rilevanza dei resti e promise di interessarne Sua
Maestà Ferdinando II di Borbone. Contemporaneamente anche il
duca della vicina Pescolanciano, Giovanni Maria
d’Alessandro (1824 - 1910), veniva sollecitato in merito dai
contadini che in località Calcatello, nel corso dei loro lavori
agricoli, rinvenivano spesso resti archeologici di varia natura, che
erano puntualmente sottoposti all'esame degli esperti del Museo Reale
Borbonico di Napoli. Grazie al suo interessamento, al duca fu
conferito nel 1857 l’incarico di soprintendente regio per l’area
archeologica di Pietrabbondante. Fu così che finalmente l’area,
ormai sottoposta a tutela governativa, diventò oggetto di scavi
sistematici avviati nell'agosto 1857, sotto la direzione
dell’architetto Gaetano Genovese, direttore degli scavi di
Pompei. Gli scavi ripresero, dopo la pausa invernale, nel giugno 1858
sotto la direzione dell’architetto Ulisse Rizzi, direttore degli
scavi di Paestum. Interrotti a causa delle vicende belliche
relative all'unità d’Italia, gli interventi furono ripresi nel
settembre 1870 sotto la direzione dell’archeologo Giulio De Petra,
ma solo per breve tempo. Per un lungo periodo l’area fu quasi
completamente abbandonata, tranne brevi lavori di manutenzione
ordinaria.
Tali campagne di scavo permisero di portare alla luce interamente il
teatro ed il tempio minore (A), posto all'estremità orientale
dell'area monumentale. Di questi scavi possediamo la raccolta dei
giornali di scavo e delle relazioni effettuate
dall'archeologo Michele Ruggiero (1811 – 1900), molto
particolareggiate per quanto riguarda la descrizione del materiale
rinvenuto, ma piuttosto approssimative e confuse nelle indicazioni
topografiche. In particolare, nella spianata "distante
150 palmi" dal tempio, fu rinvenuta una notevole
quantità di armi, sia integre, sia in frammenti, che venne
conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Elmi,
schinieri, cinturoni, paragnatidi (paraguance), un accumulo di armi
databili tra la fine del V secolo e la metà del IV secolo a.C.
collocate lì come trofeo di guerra o come offerte votive. Armi
simili sono state ritrovate anche in occasione di scavi più recenti.
Se si escludono alcune indagini sporadiche effettuate da Amedeo
Maiuri nell'ottobre 1913 nell'area del tempio minore, per
lungo tempo il sito non fu oggetto di esplorazioni sistematiche.
Solo nel 1959 la Soprintendenza alle
Antichità di Chieti avviò una serie di restauri dei due monumenti
riportati alla luce circa un secolo prima, sotto la direzione
dell'architetto Italo Gismondi, e una nuova campagna di scavi, la cui
direzione venne affidata a Valerio Cianfarani (1912 –
1977), all'epoca soprintendente archeologo per l’Abruzzo ed il
Molise. Nel corso delle attività, un saggio di scavo rivelò la
presenza di un secondo tempio, molto più grande e posto alle spalle
del teatro, la cui esistenza era rimasta ignorata fino ad allora.
In seguito a
tale ritrovamento è radicalmente mutata la comprensione della natura
dell’intero complesso cultuale e si è reso necessario ricostruire
in maniera esauriente l’esatta fisionomia dei luoghi, per acquisire
una completa conoscenza dell’intero arco di vita del santuario, sia
dal punto di vista propriamente archeologico che da quello storico.
Ancora oggi lo studio del complesso teatro - tempio non può
considerarsi affatto concluso, e numerose problematiche restano
tuttora aperte.
Dopo la conclusione delle ultime guerre
contro Roma, combattute nel corso del III secolo a.C. i Sanniti
Pentri, dichiarata la propria fedeltà a Roma, possono godere di un
lungo periodo di pace, nel corso del quale riescono a potenziare le
proprie attività economiche e commerciali, ed utilizzare parte dei
guadagni per realizzare nuove iniziative edilizie ed occuparsi della
sistemazione monumentale dell’area in località Calcatello. È la
fase del cosiddetto tempio ionico, un edificio del quale non è
sopravvissuto nulla, ma di cui restano numerosi elementi
architettonici, riutilizzati come materiale di riempimento nelle
successive fasi edilizie. Fu distrutto probabilmente dall'esercito
di Annibale, che nell'inverno del 217 a.C. si era accampato in
territorio sannitico, nei pressi dell’attuale Casacalenda e
da qui si era mosso con le sue truppe per una serie di scorrerie per
tutto il territorio, indirizzando le proprie incursioni soprattutto
nei confronti dei santuari, che con la loro concentrazione di
ricchezze gli consentivano un ottimo bottino.
Le costruzioni di età sannitica
visibili nell'area appartengono a due distinte fasi edilizie, lontane
fra loro non tanto cronologicamente quanto per concezione
architettonica. Tuttavia chi progettò l’ampliamento del santuario,
con il teatro ed il tempio maggiore (B), cercò di fondere il più
possibile il nuovo complesso con la parte preesistente, per inserire
il vecchio luogo di culto in una sistemazione organica.
All'inizio del II secolo a.C. alcuni
magistrati appartenenti alla potente famiglia sannitica
degli Staii decisero di finanziare la costruzione del
tempio minore (A) su un pendio naturale del terreno. I terrazzamenti
che si prolungano a nord e a sud servono a delimitare l’area ed a
contenere il terreno, per prevenire eventuali frane. L’area su cui
sorge l’edificio è incassata nel pendio del terreno: il complesso
cultuale ha una forma stretta e allungata ed è completamente
isolato, estraneo a qualsiasi forma urbanistica e lontano dal centro
abitato del monte Saraceno. Tutto ciò non ha carattere di
eccezionalità e rientra nella normale consuetudine italica.
Nello stesso tempo è documentata,
anche in altre zone del territorio, una ripresa dell’attività
edilizia: si tratta soprattutto di santuari, poiché i Sanniti non
sono interessati all'edilizia civile, di carattere pubblico, ma solo
ai luoghi di culto, aree sacre ancora oggi di suggestiva
monumentalità. Tra la fine del III secolo e il II secolo a.C.
sorgono infatti il santuario di Campochiaro e di Vastogirardi,
dedicati ad Ercole, di San Pietro di Cantoni, dedicato alla dea
Mefite, quello di Gildone, di San Giovanni in Galdo, di Schiavi
d’Abruzzo.
A questo stesso periodo risale anche la
costruzione di un secondo
santuario dedicato ai Dioscuri,
individuato nel territorio di Pietrabbondante, in località Colle
Vernone, nella valle del Verrino. La localizzazione del complesso è
stata possibile grazie al fortuito ritrovamento di alcuni elementi
architettonici e soprattutto di una parte dell’altare, che reca
incisa una dedica in lingua osca ad uno dei Dioscuri,
divinità molto presente nella religiosità italica, in quanto legata
all'ambito militare. Anche in questo caso la costruzione era stata
intrapresa in adempimento di una delibera del senato e controllata da
un magistrato, a dimostrazione dell’interesse dello Stato verso
questi luoghi di culto.
Nello stesso
tempo sono documentati altri insediamenti, a partire dall'area
dell’abitato attuale di Pietrabbondante, la cui frequentazione in
epoca ellenistica è confermata da diversi ritrovamenti di ceramica.
Un altro insediamento abitativo di questo periodo è Arco, località
posta a sud-est di Pietrabbondante, presso il colle di S. Scolastica,
all'incrocio della strada che si congiunge a valle col tracciato del
tratturo Celano - Foggia.
Pur essendo
cronologicamente l’ultima realizzazione edilizia dell’area sacra,
il complesso teatro – tempio si sovrappone esattamente alle
strutture più antiche risalenti al IV secolo a.C. ricalcandone
alcune misure originarie, evidentemente allo scopo di conservare
inalterata nel tempo la sacralità di quel luogo. Infatti sia il
tempio che il teatro dovevano svolgere un preciso ruolo pubblico ed
essere legati da uno stretto rapporto, evidenziato anche
dall'allineamento assiale dei due monumenti. Essi formano un nucleo
omogeneo inserito in un’area sacra rettangolare (detta témenos),
larga circa m. 60 e lunga m. 86, con un asse longitudinale
perfettamente parallelo a quello del tempio minore (A) ed un
orientamento est-sud-est. Sebbene strutturalmente distinti, il Tempio
maggiore (B) ed il Teatro svolgono evidentemente un ruolo
complementare, integrandosi reciprocamente nella loro funzione
cultuale: ciascun edificio occupa esattamente m. 43 dell’intera
area, ma poiché il podio del tempio è posto ad un livello più alto
di nove metri rispetto al piano dell’orchestra del teatro, la
facciata del tempio sovrasta la parte centrale del teatro. In base a
tale disposizione prospettica, ben studiata, era possibile dall'alto
del podio del tempio osservare la rappresentazione scenica, e,
parimenti, dal piano dell’orchestra del teatro ammirare la facciata
del tempio. Inoltre si veniva a creare un particolare effetto ottico
per cui i due corpi edilizi, visti frontalmente dal basso, apparivano
fusi l’uno con l’altro e la facciata del tempio sembrava
sovrastare la cavea del teatro, annullando la distanza fra i due
edifici. La presenza abbinata di un luogo sacro e di uno spazio
destinato alle adunanze sembrerebbe riprodurre, ampliandolo, il
modello del comitium, del luogo consacrato in cui si convocavano
le assemblee per eleggere i magistrati dotati di imperium, cioè
della facoltà di essere i supremi comandanti dell’esercito. Sulla
base di tali considerazioni, qualche studioso ha ipotizzato che
l’area sacra di Pietrabbondante potesse coincidere con l’antico
toponimo di Cominium, che gli antichi autori citano come
esistente non solo tra i Pentri, ma anche presso altri popoli italici
(Marrucini, Equi, Volsci, Irpini), e che è stata
identificata con la Cominium distrutta dai Romani nel 293
a.C. nel corso della terza guerra sannitica. Lo schema architettonico
del santuario di Pietrabbondante si inserisce senza dubbio nel filone
della tradizione sorta e sviluppatasi in ambiente italico e
successivamente romano, non certamente in zone di cultura greca o
ellenistica.
La
costruzione del santuario fu certamente frutto di una volontà
politica, piuttosto che di un'esigenza religiosa, come dimostrano le
evidenti tracce di abbandono che testimoniano una precoce decadenza
del luogo, scarsamente frequentato già in epoca imperiale. In epoca
romana ormai non sussistevano più i motivi che avevano indotto le
popolazioni sannitiche a costruirlo; lo dimostra la mancanza di
qualsiasi restauro o rimaneggiamento del teatro e la conservazione
della scena di tipo ellenistico. Anche il tempio maggiore (B) non è
stato utilizzato a lungo e la tradizione del culto non si è neppure
perpetuata in forma cristiana. Tutto ciò dimostra che il carattere
sacro del centro era intimamente connesso alla volontà politica che
ne aveva motivato la creazione, e che in epoca romana si era
definitivamente esaurita. Non c’è dubbio che la concezione
architettonica del complesso teatro-tempio è assolutamente italica,
diretta espressione di quella vitalità economica e politica di cui
godette l’intero mondo italico negli anni precedenti la guerra
sociale; la concezione tradizionale fu solo in parte arricchita con
elementi decorativi e scenografici mutuati da qualche città campana
(Pompei). Il carattere sannitico del monumento è infine
sufficientemente attestato dalla documentazione epigrafica, che
esclude anche ogni ipotesi di una colonizzazione romana.
Attualmente
sono ancora diverse le problematiche insolute rispetto al ruolo ed
alla fisionomia dell’area sacra di Pietrabbondante. Se è chiara la
caratteristica eminentemente religiosa e cultuale del sito, non
possediamo testimonianze storiche circa uno sviluppo urbanistico né
prima né dopo l’assimilazione romana del Sannio. Inoltre non siamo
ancora in grado di sapere se il santuario sannitico fruisse di
un'autonoma organizzazione amministrativa oppure dipendesse
giurisdizionalmente da uno dei centri vicini.
Il teatro ed il santuario italico di
Pietrabbondante sono andati in disuso già in epoca molto antica,
pertanto non hanno subito nei secoli quei rimaneggiamenti di cui
spesso sono stati oggetto i teatri greci riutilizzati in epoca
imperiale romana. Ciò ha consentito agli archeologi, anche grazie al
discreto stato di conservazione dei monumenti, di ricostruire senza
incertezze gli aspetti strutturali e stilistici dell'intero complesso
teatrale.
Esistono nel mondo italico dell'Italia centro-meridionale altri
esempi di un’area teatrale e di un edificio di culto fra loro
strettamente collegati, secondo uno schema che prevede rigorosi
criteri di assialità e di visuale frontale. Qualcosa di simile
esiste anche sull'altura di Castelsecco, nei pressi di Arezzo, a
circa m. 424 s.l.m. dove, sul lato meridionale della collina, è
stato rinvenuto un complesso templare di età tardo-etrusca (II
secolo a.C.) abbinato ad un edificio teatrale coevo, posti su un
terrazzamento naturale, molto suggestivo, che si affaccia sulla
vallata aretina. Sappiamo che il teatro era un elemento
tradizionale nei luoghi di culto dell’antica Grecia, espressione di
un'esigenza religiosa, ma era estranea alla concezione greca la
costruzione assiale e frontale dello schema teatro-tempio, consueta,
invece, nella cultura italica, che la trasmetterà al mondo romano,
che la diffonderà ampiamente in tutta l’area del Mediterraneo.
Secondo uno schema analogo è impostato anche il complesso
teatro-tempio di Gabii, lungo la via Prenestina, dedicato
a Giunone, e realizzato intorno al 150 a. C.
Lo schema
teatro-tempio subirà nel tempo diverse evoluzioni, secondo nuove
concezioni strutturali e una diversa distribuzione planimetrica,
introdotte successivamente dai Romani: a Tivoli, ad esempio,
l’imponente complesso teatro-tempio dedicato ad Ercole,
risalente al 70-60 a.C. risulta circondato da portici e colonnati,
formando un corpo edilizio unico, anche se i due elementi principali
si presentano ancora distinti; a Palestrina, invece, il
complesso sacro dedicato alla dea Fortuna, risalente alla fine del II
secolo a.C. rappresenta il primo esempio di completa fusione
architettonica fra edificio templare e teatro, dove quest’ultimo è
ancora subordinato al primo. Nel caso del Teatro di Pompeo,
edificato a Roma tra il 61 ed il 55 a.C. compare invece per la prima
volta una concezione architettonica del tutto nuova, con l'inversione
dei ruoli nel rapporto teatro-tempio, dove l’elemento dominante
diventa il teatro, inteso come espressione di attività civile
(laica).
Tra gli edifici dell’area
monumentale, il
teatro (
nella foto a sinistra) è quello meglio conservato. L’alzato
della cavea è quasi intatto ed è perfettamente leggibile
la planimetria della scena, della quale è andato perduto l’alzato.
A differenza dei due templi, per i quali è stato utilizzato del
calcare tenero di importazione, il teatro è stato edificato usando
il calcare duro locale.
Si tratta di
un edificio medio ellenistico, la sua costruzione infatti si colloca
nella seconda metà del II secolo a.C. Pur essendo un teatro di tipo
greco, non è stato edificato su un pendio naturale del terreno, come
abitualmente avveniva, ma elevando artificialmente un terrapieno
sulla spianata erbosa, adeguatamente sostenuto da una solida
struttura di contenimento. Difatti il teatro è circoscritto
esternamente da un poderoso muro in opera poligonale (alto
m. 2,60 e spesso m. 1,70), che delimita tutto l’interro artificiale
della cavea, con un paramento esterno interamente costruito a secco,
con blocchetti di piccole dimensioni accuratamente lavorati, ed un
riempimento di pietrame, anch'esso a secco. In questo muro, in
corrispondenza dell’asse del teatro, c'è un'apertura, larga circa
m. 1,30 che, attraverso una scaletta con cinque gradini, mette in
comunicazione la parte superiore della cavea del teatro con il
camminamento posteriore e con l’accesso al tempio maggiore (B).
Originariamente la summa cavea non presentava la
tradizionale gradinata in pietra (della quale, infatti, non è stato
rinvenuto alcun resto), ma doveva essere attrezzata con strutture
mobili in legno, montate, se necessarie, all'occasione. È probabile,
infatti, che i posti disponibili nella parte inferiore della cavea,
quella con i tre ordini di gradinate, fossero sufficienti ad
accogliere il pubblico nella maggior parte delle manifestazioni.
La cavea ha un'estensione frontale di
m. 54 e la classica forma geometrica ad emiciclo, con un raggio di m.
27. E proprio le tre gradinate situate nella parte bassa della cavea
costituiscono la caratteristica architettonica di maggior pregio
dell’intero monumento: i tre ordini di sedili, senza braccioli,
presentano un piano ininterrotto, costituito di blocchi accuratamente
connessi fra loro. Le spalliere curvilinee, lavorate in un solo
blocco, presentano un'elegante sagomatura a gola rovesciata, cioè
convessa in basso e concava in alto, che conferisce ai sedili una
conformazione anatomica. La lunghezza dei singoli posti a sedere è
varia, l’altezza media è di circa cm. 82. L'ima cavea è
separata dalla summa cavea da un camminamento largo circa
m. 1,10 pavimentato con larghi blocchi irregolari ma ben connessi.
Lungo il camminamento (detto praecinctio) è presente una doppia
fila di sedili semplici, privi di spalliera, interrotti, a distanza
regolare, da cinque piccole gradinate larghe m. 1,10 che accedono
alla zona superiore della cavea, larga m. 15,30 e suddivisa in sei
settori, disposti simmetricamente, anche se di dimensioni diverse.
Alle due estremità le tre gradinate dell'ima cavea sono chiuse
da braccioli in pietra, scolpiti in forma di zampa di leone alato; il
pubblico accedeva ai posti a sedere direttamente dall'orchestra,
utilizzando, per le due gradinate superiori, quattro scalette
semicircolari, due per ciascun'estremità della cavea.
Lateralmente la cavea è sorretta
esternamente da due grossi muri di sostegno (detti analèmmata)
di forma trapezoidale, paralleli al palcoscenico, costruiti in opera
poligonale, che si uniscono al muro posteriore di contenimento del
terrapieno della cavea. Essi sono costituiti da due filari di blocchi
parallelepipedi, larghi circa cm. 80, che terminano con un elemento
sagomato e sono coperti da una sorta di parapetto obliquo. Alle due
estremità inferiori ciascun muro termina con due figure maschili
scolpite, uguali e simmetriche, rivolte verso l'orchestra: si tratta
di un Telamòne (o Atlante), alto circa un metro, che
idealmente sorregge, con le braccia sollevate dietro il capo e le
gambe leggermente piegate, il peso dell’intero teatro.
Addossati agli analèmmata due
grandi archi, a blocchi sovrapposti e conci radiali, di circa m. 3,50
di larghezza, collegano il muro di sostenimento della cavea
all'edificio scenico. Costituiscono le parodoi, cioè i corridoi
di ingresso, scoperti, paralleli alla scena, che immettono il
pubblico direttamente nell'emiciclo dell’orchestra. Quest'ultima
presenta la tradizionale forma a ferro di cavallo, come era di solito
nei teatri di tipo greco, con una raggio dell’emiciclo di circa m.
5,50 ed uno spazio rettangolare largo m. 2,70 e lungo circa m. 11.
L’orchestra non è lastricata e non vi è traccia della presenza di
altari.
Dell’edificio scenico (lungo m. 37,30
e largo m. 10,10) si conserva la struttura semplice della scena di
tipo greco, non rimaneggiata in epoca romana: un edificio
rettangolare con una facciata lineare, in cui si aprono tre porte,
una centrale e due laterali, utilizzate dagli attori per entrare ed
uscire dallo spazio scenico. Dell’alzato non è rimasto nulla,
ma la planimetria è così chiara da renderlo comprensibile in tutti
i suoi aspetti. Di esso rimangono alcuni elementi di pietra,
appartenenti alla struttura frontale, costituita da blocchi
rettangolari di diversa lunghezza disposti su tre file. Non è stato
rinvenuto alcun elemento, neppure frammentario, della decorazione
della fronte scenica: si trattava evidentemente di una parete
semplice, liscia, priva di particolari ornamenti architettonici. Il
palcoscenico doveva avere un'altezza di circa due metri o forse anche
più, e una larghezza di m. 4,15 in base all'allineamento dei
pilastri posti alle due estremità.
L’edificio scenico vero e proprio
ospitava in realtà sei ambienti chiusi, lunghi m. 5 e nascosti alla
vista degli spettatori, che avevano funzione di locali di servizio.
La parete posteriore dell’edificio scenico segna il limite esterno
dell’intero monumento. Al centro dei sei vani un corridoio (largo
m. 1,20) consente l’uscita degli attori e del personale del teatro
dalle due stanze centrali, leggermente più ampie delle altre.
Analogamente altri due corridoi sono posti alle due estremità
dell’edificio scenico, a servizio delle stanze più esterne.
Addossati alla base della parete della
scena vi sono dieci elementi di pietra quadrangolari, al centro dei
quali sono state ricavate delle cavità quadrate, gli alloggiamenti
dove venivano inserite le aste di legno che reggevano i velari,
cioè le scene mobili, dipinte su tela o su legno, che costituivano
il fondale scenico durante le rappresentazioni. Ai lati esterni
dell’edificio scenico due ampi corridoi (larghi m. 4,10), chiusi da
due cancelli, di cui ancora restano le tracce delle soglie,
consentivano l’accesso al pubblico direttamente sul fronte scena.
Riguardo alla tecnica edilizia, bisogna
dire che mentre l’intera cavea è in grandi blocchi di pietra
calcarea incastrati, senza uso di malta, ove predomina l’opera
poligonale, con grossi conci accuratamente lavorati, strutturalmente
diverso appare l’edificio scenico, dove i muri sono costruiti con
pietre irregolari di piccolo formato, legate con malta, disposte su
file orizzontali, ma senza andamento continuo. La differenza è
spiegabile in base alle diverse condizioni naturali del terreno,
laddove l’uso dell’opera poligonale era richiesto per creare una
potente muratura di contenimento della spinta dell’interro
retrostante.
Lungo l’asse
mediano del teatro, nel corso degli scavi del 1959, è stata
rinvenuta una fossa, costruita con muri a secco e coperta con
lastroni irregolari, che provvede alla raccolta delle acque piovane:
ha una profondità e una larghezza irregolari e scarica le acque
probabilmente in aperta campagna.
Proseguendo alle spalle del teatro, a
circa nove metri dal muro di contenimento della cavea, oltrepassato
il breve declivio erboso, si raggiunge il
tempio maggiore (B),
l’edificio più grande che sia mai stato costruito dai Sanniti (
nella foto a sinistra). Il
monumento ha subito numerosi saccheggi nel corso dei secoli,
probabilmente fin dall'epoca del suo abbandono, subendo cospicue
asportazioni di materiale, reimpiegato per altre costruzioni: il
podio risulta molto danneggiato sulla parte frontale ma è ben
conservato sugli altri lati.
Il visitatore è ancora oggi colpito
dalla massiccia volumetria del podio del tempio che gli si presenta
davanti e che si conserva ancora oggi, sostanzialmente, nella sua
interezza: lungo m. 35, largo m. 22, alto m. 3,55. L’edificio è
circondato su tre lati da uno stretto corridoio, largo circa m. 2, in
leggera pendenza e pavimentato di basoli. Dinanzi al podio, a
circa m. 1,80 di distanza, su un piano pavimentato con sottili lastre
di pietra grigia molto friabile, non rifinite, trovano posto due
altari, riportati alla luce nel corso degli scavi, disposti
parallelamente alla fronte dell’edificio. Essi presentano
un'analoga struttura: il corpo di quello centrale è costituito da un
parallelepipedo (m. 3,30 x m. 0,68) in blocchi di pietra, che poggia
su una base provvista di cornici a fasce sovrapposte. Un secondo
altare, identico per conformazione, ma di lunghezza inferiore (m.
1,70), è posto alla sua destra, a una distanza di circa m. 3,30.
Poiché siamo in presenza di un tempio a tre celle, è presumibile
che originariamente vi fosse un terzo altare, a sinistra,
probabilmente demolito, per essere riutilizzato come materiale di
costruzione. Della parte superiore degli altari non si è conservato
nulla in situ, anche se sono stati recuperati nell'area
elementi appartenenti alla cornice superiore, che poggiava
direttamente sul parallelepipedo. In particolare sono state rinvenute
le due terminazioni laterali degli altari, poste in corrispondenza
dei lati corti, scolpite con elementi vegetali e teste di ariete.
Il podio si eleva al di sopra di un
basamento liscio, costituito da blocchi squadrati di pietra calcarea,
e riprende le caratteristiche dello schema usuale del tempio italico,
con una parete verticale liscia, costituita da tre file di blocchi,
compresa, in alto e in basso, da due cornici, che richiamano quelle
del podio del tempio italico rinvenuto nel Fondo Patturelli di Curti,
nei pressi di Capua, famoso per le numerose terrecotte
architettoniche rappresentanti la Mater Matuta.
Gli interventi di restauro del podio
hanno richiesto poche integrazioni, poiché le condizioni del
monumento risultavano pressoché integre, ad esclusioni di alcune
parti frontali. Allo scopo di evidenziare chiaramente gli elementi
integrati attraverso il restauro, per le parti aggiunte è stato
utilizzato del travertino di Tivoli, ben distinguibile dalla pietra
calcarea originaria. Allo stesso scopo, anche per le parti mancanti
della cornice sono stati utilizzati blocchi di pietra semplicemente
martellata. Sulla parte anteriore del lato occidentale del podio è
ben visibile una lunga iscrizione in lingua osca, che si sviluppa,
con andamento sinistrorso, su un'unica linea. Ricorda il finanziatore
della costruzione, L. Statiis Klar, probabilmente un magistrato
sannita, di cui le fonti storiche antiche riportano numerose notizie.
Sappiamo che dopo aver partecipato alla guerra sociale, passò dalla
parte di Silla e riuscì ad entrare nel Senato romano, finché,
ottantenne, non venne ucciso.
Al centro del lato frontale, incassata
nel podio ed inserita nel perimetro della struttura, si apre una
scalinata (larga m. 4,60) di accesso alla parte anteriore del tempio
(pronao): dei tredici gradini solo i primi tre sono originali, gli
altri sono di restauro, anche se misurati esattamente sulle impronte
di quelli originali. Il piano di calpestio del pronao (m. 22,00 x m.
21,50) è stato quasi integralmente restaurato in lastre di
travertino, tranne brevi frammenti in cui è stato possibile
ricollocare le pochissime lastre di pietra calcarea del pavimento
originale recuperate nel corso dello scavo. Anche la pavimentazione
delle tre celle è andata quasi interamente distrutta, tranne alcune
parti che presentano una semplice decorazione a piccole tessere
bianche piuttosto regolari. Nulla ci rimane dell’elevato delle tre
celle: quella centrale (m. 7,20 x m. 11,00) è la maggiore e si
estende fino al muro di fondo del tempio. Quelle laterali (m. 4,80 x
m. 7,50) si interrompono prima del muro di fondo (m. 3,60), creando
due piccoli ambienti rettangolari di m. 4,50 x 3,00 probabilmente
adibiti a deposito.
L’antico
solaio, infatti, che costituiva il piano di calpestio originale, è
stato sfondato già in epoca antica ed il materiale completamente
saccheggiato. Pertanto ciò che è stato riportato alla luce, a
seguito degli scavi archeologici, è solo la parte interna del podio,
racchiusa tra le mura perimetrali.
È opportuno chiarire che,
contrariamente a quanto comunemente si immagina, la parte interna del
podio non è un semplice spazio vuoto riempito di detriti e di
terreno, ma presenta una fitta e complessa rete di strutture murarie,
che in parte fungevano da fondazione per le strutture soprastanti del
tempio, in parte servivano a distribuire omogeneamente il materiale
di riempimento del podio, ripartendone il peso all'interno. È facile
riscontrare come in corrispondenza dei muri in opera quadrata che si
trovano distribuiti all'interno del podio, si prolungano le diverse
parti dell’elevato del tempio soprastante; allo stesso modo in
corrispondenza delle colonne del tempio ritroviamo, nascosti dentro
il podio, veri e propri pilastri di fondazione.
La presenza di tali strutture, quasi
perfettamente conservate, ha consentito agli archeologi di
ricostruire con assoluta certezza la planimetria del tempio: una
struttura ben articolata, che si ispira nello stile della facciata al
tempio prostilo di origine greca, poiché sul fronte anteriore
presenta quattro colonne allineate, che formano un porticato,
superato il quale si accede nel pronao, cioè la parte anteriore
dell’edificio sacro, che presenta sul fondo la parete nella quale
si aprono le porte di accesso alle tre celle (naos), ove erano
custodite le immagini delle divinità alle quali era dedicato il
santuario e che rappresentavano l’abitazione del dio ed il luogo
destinato alle celebrazioni religiose. Nel caso di Pietrabbondante
quella centrale è più ampia rispetto alle celle laterali, che si
presentano più strette e più corte.
Per il riempimento dell’interno del
podio del tempio venne utilizzato certamente il materiale di risulta
delle operazioni di sbancamento del terreno che vennero
preventivamente effettuate: in esso è stato rinvenuto nel corso
degli scavi abbondante materiale archeologico di diversa provenienza;
in particolare sono stati ritrovati numerosi elementi architettonici
appartenenti al cosiddetto tempio ionico, l’edificio sacro
costruito dopo la conclusione del conflitto con Roma e che
probabilmente venne poi distrutto da Annibale l'anno precedente
la battaglia di Canne.
Il colonnato del pronao, di tipo
corinzio, è crollato insieme alle pareti dell’edificio, infatti
rocchi di colonne sono stati rinvenuti sparsi sul terreno
circostante. Il tempio presentava quattro colonne a filo della
scalinata di accesso, altre due in seconda fila sui lati e due in
terza fila, al centro, fra le ante.
Per la costruzione del tempio sono
stati utilizzati due tipi diversi di materiale, il calcare duro
locale, utilizzato per il podio e le parti lavorate, ed un calcare
morbido non locale, per le colonne e l’alzato delle pareti.
L’edificio differisce dal teatro per tecnica costruttiva: presenta
dei blocchi estremamente regolari, levigatissimi e perfettamente
aderenti.
Della
copertura del tetto possediamo soltanto, allo stato frammentario,
parti di tegole piatte e di coppi fittili di vario tipo e
dimensioni.
A destra e a sinistra del tempio
maggiore (B), a livello del filo del muro dei due corridoi laterali,
sono stati rinvenuti due
porticati, addossati direttamente al muro di
recinzione dell’area sacra (tèmenos), costituiti da una serie di
ambienti preceduti da un colonnato. Gli ambienti si presentano di
diversa grandezza, in alcuni casi si sono conservate le soglie ed in
minima parte l’alzato, costituito da pietre legate con malta.
Scarsi sono i resti della pavimentazione, a grosse tessere fittili di
forma abbastanza regolare. Davanti agli ambienti, a circa m. 3,50 di
distanza, sono visibili i resti di piccole colonne di tipo tuscanico,
che costituivano un breve porticato, delimitato all'esterno da
un lastricato in calcare.
Nello spazio
compreso tra la pavimentazione ed il colonnato sono state rinvenute,
nei recenti scavi, alcune sepolture di tipo a fossa, altre con
copertura a cappuccina, risalenti al III-IV secolo d.C. che
utilizzano le tegole del tempio. In tutti i casi accanto al defunto è
presente un corredo poverissimo, composto da materiale di modesta
fattura; la datazione delle tombe è determinata di solito dalla
presenza di monete di epoca romana, risalenti ad un periodo di poco
posteriore all'abbandono dell’area.
Chi oggi volesse visitare l’area
archeologica di Pietrabbondante seguendo un percorso ordinato e
corretto dal punto di vista storico-cronologico, dovrebbe cominciare
proprio da questo monumento, posto all'estremità orientale dell’area
archeologica, che dovette costituire il nucleo originario del grande
santuario, risalente alla prima fase edilizia di cui abbiamo
testimonianza, databile alla metà del II secolo a.C. Purtroppo i
dati di scavo, risalenti alla fine dell’Ottocento, sono molto
approssimativi e lacunosi.
Si tratta dunque del più antico dei
monumenti oggi visibili, fronteggiato da un sentiero già all’epoca
esistente, che conduce al monte Saraceno, il cui tracciato
probabilmente ne condizionò la posizione. Era una struttura di
modesta concezione architettonica, completamente isolata e lontana da
centri abitati, come rientrava nella consuetudine italica dell’epoca.
Attualmente lo stato di conservazione è abbastanza precario, anche a
causa del materiale prevalentemente utilizzato, un calcare tenero,
friabile e particolarmente sensibile ai geli invernali, proveniente
da una cava certamente ubicata nelle vicinanze, considerato il largo
uso che di esso è stato fatto anche in seguito, nella costruzione
del tempio maggiore (B). Gran parte del materiale del monumento deve
essere stato saccheggiato anticamente, forse già a partire dal IV
secolo, quando l’area fu definitivamente abbandonata: è
sopravvissuto solo il podio, molto danneggiato sul lato
anteriore, completamente asportato per tutta la lunghezza, per cui
diventa quasi impossibile ricostruirne la planimetria. Manca del
tutto l’alzato del tempio, i cui blocchi devono essere stati
asportati per essere utilizzati come materiale da costruzione;
restano poche lastre del fregio dorico frontale e vari frammenti del
cornicione di coronamento.