sabato 3 febbraio 2024

Arazzo di Sampul - CINA

 
L'arazzo di Sampul è un manufatto archeologico tessile che è stato ritrovato in Cina, a Sampul, nel bacino del Tarim, all'interno di una tomba del III-II secolo a.C. Il reperto è esposto presso il Museo dello Xinjiang, a Ürümqi. L'arazzo, intessuto in lana, rappresenta un soldato di fattezze caucasoidi e dagli occhi azzurri, probabilmente greco, e un centauro. Si tratta, con ogni probabilità, di un'opera di arte ellenistica proveniente dall'Asia centrale (Regno greco-battriano), creato utilizzando oltre 24 fili di colore diverso intessuti con una tecnica tipicamente occidentale.
Il soldato indossa una tunica con motivi a rosette. Il suo copricapo potrebbe essere un diadema, simbolo di regalità nel mondo greco, seguendo raffigurazioni attestate su monete macedoni o greche. La presenza di un centauro come ornamento, di elementi tipici della mitologia greca, motivi floreali, e la tecnica realistica, rafforzano l'idea che si tratti di un soldato greco. L'arazzo era curiosamente modellato come un paio di pantaloni, il che lo fa ritenere destinato all'uso come trofeo decorativo.
L'esistenza di questo arazzo fa pensare alla presenza di contatti avvenuti attorno al III secolo a.C. tra i regni ellenistici, l'Asia centrale, e il bacino del Tarim, al confine con il mondo cinese.

Tempio di Giove Dolicheno - UKRAINA

 

Il tempio di Giove Dolicheno, situato nel distretto di Balaklava (Sebastopoli), è uno dei più famosi 19 templi dedicati a Giove Dolicheno. Il santuario è, inoltre, una delle prime strutture conosciute collegata alla venerazione della divinità praticata dall'esercito romano. Il tempio venne scoperto a Balaklava nel 1966, nel territorio della Kadikovka, dove prima era situata l'antica Kadi-koij. Nel tempio venivano condotte le cerimonie di culto dell'esercito romano, le cui basi militari erano situate presso la baia stessa. Tali basi, nel momento in cui venne costruito il santuario, ospitavano la prima legione italica.
La costruzione del tempio, risalente al periodo dei regni di Antonino Pio e Marco Aurelio, viene datata tra il 139 ed il 161 d.C.
Esso venne coinvolto in un incendio, per poi essere ricostruito sotto ordine di Marco Aurelio. La distruzione definitiva del tempio si riconduce orientativamente al 233 d.C., anno dopo il quale perse la sua funzione.
Gli scavi archeologici a cui si riconduce la scoperta del tempio iniziarono intorno agli anni 1996-1997, quando in via Kommunarov furono trovate le fondamenta di una costruzione templare, mentre in via 40-letiya Oktyabrya furono rinvenuti i resti di circa altri dieci monumenti. Durante gli scavi furono riportate alla luce monete in rame e argento provenienti da Cherson e Bospor, coppe con inscrizioni dedicate a Giove Dolicheno, immagini di aquile, tori e lune, satiri, candelabri, statuine di Kore-Persefone, panche, tavoli, utensili da cucina in ceramica e capitelli di ordine ionico.
Nel tempio sono state scoperte una statua con piedistallo dedicata a Ercole (nella foto), un altare associato al culto di Vulcano, le parti inferiori di due colonne in calcare, una delle quali decorata con dell'edera rampicante, e una moltitudine di reperti minori (statuette, monete, etc.). L'inscrizione sul piedistallo dedicato ad Ercole cita: «Grazie agli imperatori Augusto, Marco Aurelio e Cesare. Antonino Valente, tribuno militare della prima legione italica, con l'aiuto di Ulpiano
L'altare fu dedicato a Vulcano in voto dal centurione della Legio XI Claudia Antonio Proclo.
Si stima che la costruzione dell'altare risalga all'anno 174 d.C.
Inoltre, all'interno del tempio è stato ritrovato un altro altare, dedicato a Nemesi. «Tito Flavio Celsino, protettore dei legati, ha dedicato a Nemesi Guardiana l'altare, in ringraziamento della salute sua e dei suoi figli
Nel tempio di Giove Dolicheno di Balaklava, è stato anche trovato un altare dedicato a Mitra e dei frammenti di una raffigurazione della dea Minerva.
Tra tutte le scoperte rinvenute all'interno del luogo di culto, degno di nota è sicuramente il busto scolpito in pietra calcarea locale di Balaklava, dedicato ad Apollo, realizzato in stile classico dei primi secoli dopo Cristo.


Grotte e l'arte dell'era glaciale nel Giura svevo - GERMANIA

 

Le Grotte e l'arte dell'era glaciale nel Giura svevo sono una raccolta di sei caverne nel sud della Germania che furono usate dagli umani dell'Era Glaciale per ripararsi da 33.000 a 43.000 anni fa. Le grotte si trovano nelle valli Lone e Ach. All'interno delle caverne sono state scoperte una statuetta di forma femminile, figurine intagliate di animali (tra cui leoni delle caverne, mammut, cavalli e bovini), strumenti musicali e oggetti di ornamento personale. Alcune delle figure raffigurano creature che sono metà animali e metà umane.


Nelle foto:
figura di animale in avorio di mammut (dalla grotta Vogelherd)
figura di uomo-leone scolpita in avorio di mammut (dalla grotta Hohlenstein-Stadel)

La Venta - MESSICO

 

La Venta è un sito archeologico pre-colombiano della civiltà degli Olmechi, situato nello stato messicano del Tabasco.
Le prime visite e ispezioni presso il sito archeologico vennero svolte da Frans Blom e Oliver La Farge, che compilarono una prima accurata descrizione del sito durante la loro visita nel 1925, finanziata dalla Università Tulane. Matthew Stirling fece iniziare gli scavi a La Venta tra il 1941 e il 1943, con diverse altre visite e scavi successivi negli anni sessanta. Rebecca Gonzalez-Lauck condusse una squadra della INAH (Instituto Nacional de Antropología y Historia) per effettuare degli scavi negli anni ottanta.
Non più tardi del 1200 a.C., San Lorenzo Tenochtitlán si era affermata come il centro più importante della cultura degli Olmechi. La Venta, pur essendo già popolata, non raggiunse il proprio apice di importanza fino al 900 a.C., quando San Lorenzo cominciò a perdere il proprio prestigio. Dopo 500 anni La Venta venne abbandonata quasi completamente all'inizio del 400 a.C.
Situata su una isola in una palude presso la riva dell'allora fluente Río Palma, La Venta estendeva la propria influenza nelle regioni comprese tra i fiumi Mezcalapa e Coatzacoalcos. La maggior parte del sito è un complesso costruito in argilla. La zona urbana copriva probabilmente un'area pari a 2 km². A differenza delle città delle civiltà Maya o Azteche, La Venta venne costruita con l'uso dell'argilla poiché nella zona non era presente la quantità di pietre necessaria alla costruzione di abitazioni e templi. Le pietre di basalto venivano importate dalla Sierra de los Tuxtlas, e venivano utilizzate quasi esclusivamente per la costruzione di monumenti, teste colossali, "altari" (troni), e stele. Per esempio le colonne di basalto che circondano il Complesso A vennero costruite con la pietra estratta da Punta Roca Partida, a nord del vulcano San Andres presso la costa del golfo del Messico.
Ad oggi il limite meridionale del sito è coperto da una raffineria di petrolio ed è stato in gran parte distrutto, rendendo difficili i lavori di scavo. Molti dei monumenti del sito sono stati messi in mostra nel museo locale e nel parco della città di Villahermosa.e plaza. La Venta possiede una serie di tombe e sculture monumentali. Questi monumenti, stele e "altari" sono stati distribuiti equamente tra i monticelli e le piattaforme. I monticelli e le piattaforme sono state costruite con la sabbia e la l'argilla. Si pensa che molte delle piattaforme fossero sormontate da strutture in legno, erose con il passare del tempo.
Grande Piramide

La Grande Piramide, una delle più antiche piramidi costruite in mesoamerica, è alta 33 metri e contiene una quantità di terra riempitiva pari a 100.000 metri cubi. La forma conica della piramide fece pensare in passato che il monumento fosse ispirato ai vulcani circostanti, ma Rebecca Gonzalez-Lauck ha in seguito dimostrato che la conicità della piramide è dovuta all'erosione progressiva avvenuta in 2500 anni. La piramide stessa non è mai stata riportata alla luce, ma tramite un magnetometro è stata scoperta una anomalia nel lato sud della costruzione nel 1967.
Complesso A
Il Complesso A (nella foto di apertuta in alto) è formato da un gruppo di monticelli e plaza situati a nord della Grande Piramide. Circondato da una serie di colonne di basalto fu eretto in quattro fasi in oltre quattro secoli. Sotto i monticelli e le piazzette sono stati rinvenuti molti oggetti costruiti in giada, specchi in ferro grezzo, e "grandi offerte" in blocchi di serpentino. La "grande offerta" numero 3 contiene circa 50 tonnellate di blocchi di serpentino accuratamente rifiniti, coperti da 4000 tonnellate di argilla riempitiva.
Sono stati rinvenuti 3 mosaici rettangolari (conosciuti come "Marciapiedi"), ognuno di essi delle dimensioni di 4,5 metri × 6 metri e costituiti da circa 485 blocchi di serpentino. Questi blocchi erano stati sistemati orizzontalmente per formare un motivo interpretato come il Dragone Olmeco, una maschera di giaguaro, un cosmogramma, o una mappa simbolica di La Venta e zone circostanti. Poco dopo la rifinitura questi "marciapiedi" vennero coperti con argilla colorata e molta terra, in quanto non dovevano essere esposti alla vista.
Nel Complesso A sono state rinvenute cinque tombe, una provvista di sarcofago che mostra un intaglio rappresentante un mostro della terra. Diehl spiega che queste tombe "sono talmente complesse e integrate nell'architettura che sembra chiaro che il Complesso A era una zona mortuaria dedicata agli spiriti dei governatori defunti". Il Monumento 19 rappresenta il primo manufatto esistente in mesoamerica che rappresenta il serpente piumato.
Complesso B
A sud della Grande Piramide si trova il Complesso B. Mentre il Complesso A era adibito e ristretto ai nobili, la piazza del complesso B venne costruita appositamente per raduni pubblici. Nel complesso si trova anche l'acropoli di Stirling. La piazza è lunga oltre 400 metri e larga oltre 100, e presenta una piccola piattaforma al suo centro.
Questa disposizione ha condotto diversi ricercatori a pensare che le piattaforme che circondano la piazza svolgevano il compito di palcoscenico dove si portavano a termine commedie rituali. Questi rituali erano probabilmente collegati agli "altari", monumenti e le steli che circondano la piazza.
Teste colossali

Nei territori olmechi sono state ritrovate 17 teste di pietra, e quattro di esse erano situate a La Venta. Ufficialmente, le quattro teste sono state chiamate Monumento 1 (nella foto), 2, 3 e 4.
Tre delle teste — i Monumenti 2, 3 e 4 — sono state trovate a 150 metri di distanza verso nord dal Complesso A. Le teste erano originalmente disposte in una riga leggermente irregolare, e si affacciavano verso nord. Il Monumento 1 si trovava a pochi metri verso sud della Grande Piramide.
Le teste di La Venta vennero create intorno al 700 a.C., o possibilmente anche prima, nell'850 a.C., mentre le teste rinvenute a San Lorenzo Tenochtitlán vennero costruite in un periodo precedente. Le teste sono alte fino a quasi tre metri e pesano alcune tonnellate. La fonte di basalto da cui gli olmechi ricavarono il materiale per la costruzione delle teste si trovava a Cerro Cintepec, nelle montagne di Tuxtla a 80 km di distanza.
Altari

Diversi "altari" di basalto sono stati rinvenuti nel sito, i più importanti dei quali sono l'Altare 4 e l'Altare 5. Questi altari, alti due metri ciascuno e larghi quattro, mostrano una elaborata figura scolpita al loro centro. La figura dell'Altare 4 è seduta in quel che sembra essere una cava o la bocca di una creatura fantastica, che tiene una corda avvolta attorno alla base dell'altare alla sua destra e sinistra. Sul lato sinistro, la corda è collegata a una figura in bassorilievo. Il lato destro è stato eroso.
Tra i ricercatori vi è il consenso sul fatto che gli "altari" fossero troni su cui i governatori olmechi si sedevano durante i rituali e le cerimonie. Molti archeologi pensano che la figura al centro rappresenti un governatore che sta contattando i suoi antenati (le figure sul lato destro e sinistro). Alcuni pensano che entrambe le figure a lato siano dei prigionieri.
L'Altare 5 si affaccia all'Altare 4 attraverso la Struttura D-8 (uno dei monticelli di La Venta, ciò che rimane delle piattaforme). L'Altare 5 è simile all'Altare 4, e la figura centrale rappresenta un bambino-giaguaro. Il lato sinistro mostra dei bassorilievi rappresentanti degli umani che tengono in braccio dei bambini-giaguari. Il lato destro è stato eroso o distrutto come nell'Altare 4. Gli Altari 2 e 3 sono simili ai precedenti, seppur più rozzi e meno sofisticati.
Si conosce poco riguardo alla struttura sociale di La Venta. Si crede che principalmente il sito fosse popolato da una classe nobile di persone, una classe di artigiani, e un gran numero di lavoratori e contadini. Secondo alcune stime, La Venta poteva ospitare almeno 18.000 persone durante il suo periodo più florido.

Tempio di Artemide, Sardi - TURCHIA

 


Il tempio di Artemide è un tempio ionico di origine ellenistica e poi romano della città di Sardi, antica capitale del regno di Lidia in Asia Minore. Alla fine del V secolo a.C. era stato eretto in onore di Artemide un altare monumentale in calcare, probabilmente citato da Senofonte come luogo in cui avvenne una delle riconciliazioni tra Ciro il giovane e Oronta.
Di fronte all'altare, dopo la conquista della città da parte di Alessandro Magno, intorno al 300 a.C. venne costruito il primo tempio, non completato nella peristasi.
Un primo ampliamento venne realizzato nel secondo quarto del II secolo a.C., con la realizzazione di una facciata di tipo prostilo esastilo (a sei colonne) sul lato orientale.
La terza fase, nella seconda metà del II secolo d.C. fu legata alla dedicazione del tempio anche a Faustina maggiore, moglie dell'imperatore Antonino Pio, divinizzata dopo la sua morte nel 141. Vennero erette le colonne della facciata est e dei lati lunghi di un tempio pseudodiptero (con peristasi a una sola fila di colonne, ma della stessa ampiezza di uno schema diptero).
Nel IV secolo venne eretta all'angolo sud-est del tempio una piccola chiesa.
L'altare originario, tuttora conservato, era di dimensioni monumentali (21 x 11 m) e realizzato in calcare locale.
Nella prima fase del 300 a.C. circa, il tempio aveva la facciata principale sul lato ovest ed era dotato di una cella a tre navate, preceduta da un pronao con due file di tre colonne tra le ante e con un opistodomo a due colonne sul retro. L'edificio aveva una pianta particolarmente allungata (23 x 67,52 m) ed era forse previsto con pianta a schema diptero.
A differenza del'Artemision di Efeso e del Didymaion presso Mileto, da cui il modello era stato ripreso, la cella si presentava coperta e non scoperta.
Si conservano due delle colonne, pertinenti all'originario opistodomo, ora spostate al centro della seconda fila di colonne sul lato est: i fusti avevano un diametro pari ad un decimo della loro altezza complessiva (15,56 m), una proporzione ripresa dal tempio di Atena a Priene, dell'architetto Pytheos. Le colonne avevano un alto basamento che forse era in origine destinato a ricevere dei bassorilievi, tuttavia non realizzati. Appartengono a questa fase un capitello ionico oggi conservato nel Metropolitan Museum di New York, mentre altri due giacciono nei resti del tempio.
Nella seconda fase, nel secondo quarto del II secolo a.C. fu progettato di dotare il tempio di una peristasi pseudodiptera (con una sola fila di colonne, ma lasciando lo spazio per una fila di colonne intermedia come nel tempio diptero), con facciata decastila (a dieci colonne). Vennero realizzate le fondazioni della facciata orientale e delle prime due colonne dei lati lunghi, ma il colonnato non venne mai eretto.
Il progetto venne ridotto e si realizzò invece sullo stesso lato una facciata di tipo prostilo esastilo (a sei colonne), nella quale furono spostate le due colonne dell'opistodomo originario. Una simile facciata prostila venne probabilmente prevista anche sul lato ovest, dove tuttavia vennero solo spostate in avanti le due colonne più esterne delle file che si trovavano nel pronao originario.
Uno dei capitelli della facciata prostila venne in seguito utilizzato nella terza fase ed è stato datato al secondo quarto del II secolo a.C.. Come il capitello anche l'intercolunnio centrale della facciata non realizzata, più largo degli altri, mostra un influsso delle realizzazioni dell'architetto Ermogene, autore del tempio di Artemide Leucofriene di Magnesia al Meandro.
Le colonne per le quali erano state realizzate le fondazioni nella seconda fase vennero erette nella terza, datata nella seconda metà del II secolo d.C.. A queste si aggiunsero tutte le colonne dei lati lunghi della peristasi e una colonna della facciata occidentale. Si conserva attualmente uno dei capitelli di queste nuove colonne, sulla facciata orientale.
Per accogliere il nuovo culto della diva Faustina, venne abolito l'antico pronao e lo spazio corrispondente in origine alla cella e al pronao venne diviso in due parti da un muro trasversale: nella cella occidentale venne inoltre realizzato il basamento per una nuova statua di culto.
La testa di una grande statua di Faustina maggiore è stata rinvenuta nella cella orientale (nella foto), oggi al Britih Museum di Londra.

Paestum, Basilica (Campania)


La Basilica (detta anche tempio di Hera) si trova nel sito archeologico di Poseidonia, città della Magna Grecia ribattezzata dai Romani Paestum. È ubicato nel santuario meridionale della città, dove si erge, parallelamente e pressoché allineato sul lato orientale, a breve distanza dal posteriore tempio di Nettuno.
Sebbene siano andate completamente distrutte le parti superiori della trabeazione, nonché le strutture murarie del naos (la cella) ed ampissime porzioni della pavimentazione, lo stato di conservazione è da considerarsi eccellente. La Basilica di Paestum è infatti l'unico tempio greco di epoca arcaica in cui la peristasi, qui composta da 50 colonne, è conservata integralmente.
Il tempio fu edificato a partire dalla metà del VI secolo a.C., ma la sua costruzione dovette terminare solamente nell'ultimo decennio. Come lasciano ipotizzare i materiali votivi con dedica alla dea ritrovati nei suoi dintorni, il tempio era probabilmente dedicato ad Era, sposa di Zeus e principale divinità venerata a Poseidonia, l'importanza della quale è attestata dall'Heraion alla foce del Sele, il grande santuario extraurbano interamente dedicato alla dea, la cui costruzione fu avviata simultaneamente alla fondazione della città.
La denominazione "Basilica", con la quale il tempio è più noto, gli venne attribuita nella seconda metà del XVIII secolo, quando la cultura architettonica neoclassica cominciò ad interessarsi a Paestum. La totale sparizione dei timpani e di gran parte della trabeazione, assieme all'anomalo numero dispari delle colonne sulla fronte, rese incerta l'identificazione funzionale, come tempio, dell'edificio; questo, interpretato come "porticato" oppure come "ginnasio o collegio", venne chiamato basilica, nel significato, proprio del termine romano, di struttura porticata adibita a sede di tribunale ed alle assemblee dei cittadini.
È un tempio periptero enneastilo (cioè con nove colonne sulla facciata e sul retro) con diciotto colonne sui lati lunghi. ll rettangolo dello stilobate misura 24,50 x 54,24 m. L'edificio è orientato verso est come il vicino tempio di Nettuno, assieme al quale determina il grandioso aspetto monumentale del santuario meridionale di Poseidonia. Un grande altare, riportato alla luce durante gli scavi condotti da Vittorio Spinazzola agli inizi del secolo scorso, fronteggia ad est il tempio, a 29,50 m di distanza, in posizione perfettamente parallela alla fronte templare e simmetrica rispetto all'asse dell'antistante edificio.
Il semplice rapporto proporzionale 1:2 si esprime dunque non nelle dimensioni lineari del rettangolo del tempio ma nel numero delle colonne (9 x 18). Queste sono intervallate da interassi di misura differente tra le fronti (interasse di ca. 2,86 m) e i fianchi (interasse di ca. 3,10 m). Dall'assenza di contrazione degli interassi angolari per la soluzione del conflitto angolare si deduce che le metope angolari erano allungate rispetto a quelle "normali".
La Basilica ha la particolarità di avere un numero dispari (9) di colonne sulla fronte, come conseguenza della disposizione, lungo l'asse dell'edificio, di un unico colonnato centrale all'interno della cella. La presenza di un colonnato interno in posizione assiale, certamente in funzione di supporto del colmo centrale della copertura a doppio spiovente, rappresenta un sicuro indicatore architettonico dell'arcaicità del tempio. Tale soluzione planimetrica fu poi rifiutata dall'architettura greca del periodo classico (e da ogni stile classicista, nei vari secoli successivi), perché impediva l'accesso e la vista assiale verso il naos, negando un rapporto diretto con la sacralità del tempio.
La cella (naos), profonda 9 interassi, era preceduta da un pronao, di 2 interassi di profondità, con tre colonne disposte tra due ante, dalle quali si originano i muri che la chiudevano lungo i lati. Coerentemente con la disposizione di una colonna esterna centrale in posizione assiale, la cella è bipartita da un colonnato interno centrale, formato da 7 colonne, di cui sono conservate le prime tre.
Dietro la cella è ricavato l'adyton, un ambiente chiuso e anch'esso profondo 2 interassi, introdotto in sostituzione dell'opistodomo (il corrispondente simmetrico del pronao sul retro) al termine di ripensamenti progettuali in corso d'opera, rilevati grazie ad indagini sulle fondazioni; queste hanno permesso di accertare tre fasi di progettazione, a conclusione delle quali, oltre alla sostituzione dell'opistodomo con un adyton, il colonnato centrale della cella venne ridotto da otto a sette elementi; è ipotizzabile che la motivazione di questi ripensamenti progettuali risieda in sopraggiunte modifiche alle pratiche di culto, che implicarono l'introduzione di rituali con processioni richiedenti una nuova configurazione degli spazi interni. Il vano dell'adyton, caratteristico dei templi greco-occidentali (Magna Grecia e Sicilia) nel periodo arcaico, era accessibile, attraverso porte che lo collegavano al naos, solo agli addetti al culto. Esso era probabilmente la sede del tesoro del tempio e del simulacro della divinità.
Le colonne sono di tipo dorico e sono alte circa 6,48 m, hanno un fusto percorso dalle canoniche 20 scanalature e fortemente rastremato, con un diametro inferiore di circa 1,45 m ed uno superiore di circa 0,98 m. L'aspetto delle colonne è determinato innanzitutto dal caratteristico rigonfiamento nella zona mediana dovuto ad un'entasi assai evidente, con una "freccia" di circa 4,8 cm. L'echino del capitello, come si addice a colonnati di età arcaica, è molto schiacciato ed espanso, e l'abaco molto largo.
Lo stile dorico in cui sono realizzate le colonne della Basilica presenta potenti tendenze decorative, che lo ricollegano a quello diffuso, in epoca arcaica, in altre colonie di fondazione achea; si tratta di uno stile che, sottoposto ad una razionalizzazione formale, ispirerà anche la realizzazione del successivo tempio di Athena, e di cui il tempio di Nettuno, costruito in uno stile dorico oramai "canonico", segnerà a Poseidonia il definito abbandono.
Tre sono i fenomeni decorativi che interessano la Basilica. (1) I collarini di ciascuna colonna sono decorati con foglie baccellate di numero variabile.(2) Su alcune colonne della fronte occidentale le decorazioni interessano addirittura la parte inferiore dell'echino, immediatamente al di sopra degli anuli, sulla quale è scolpita in rilievo una fascia decorativa floreale differente in ciascuna colonna; tra queste spicca, per lo stato di conservazione e la sua bellezza, la decorazione realizzata sul capitello della colonna in posizione centrale, composta da un'alternanza di rosette e fiori di loto. (3) Questo stile decorativo raggiunge il suo culmine con l'ornamento floreale a rilievo (sequenze di fiori di loto e palmette), di cui non esistono altri esempi, che percorre l'intero corpo dell'echino delle sei colonne con capitello in arenaria disposte all'interno (le tre del pronaos e le prime due del colonnato centrale assiale) e all'angolo sud-est della peristasi; vivaci policromie, di cui rimangono tracce (rosso e blu), rivestivano queste decorazioni floreali.
Della trabeazione rimangono gli architravi e pochi altri elementi, che però, assieme ad importanti resti della copertura fittile del tetto, ne hanno consentito una ricostruzione quasi completa, il tetto e la trabeazione erano decorati con materiale litico di travertino locale e di marmo importato dall'Egeo.
L'ordine delle strutture superiori del tempio, al di sopra degli architravi, si discosta profondamente da quello dorico "canonico" ed è da ricollegare alla tradizione architettonica seguita nelle colonie achee durante il periodo arcaico. Invece del sistema di taenia e regulae sovrastante gli architravi, gli architetti della Basilica disposero una modanatura realizzata in arenaria, della quale rimangono ancora elementi. Questa struttura fungeva da base per il fregio, che nell'ordine dorico "canonico" è invece direttamente collegato al sottostante colonnato. Grazie alle tracce di posizionamento presenti ed al loro andamento è stato infatti possibile arguire l'esistenza di un fregio dorico, costituito dall'usuale alternanza di triglifi, coordinati con gli assi delle colonne ed i centri degli architravi, e metope; è possibile che queste ultime, come quelle provenienti dall'Heraion di Foce Sele, fossero scolpite.
L'alzato era privo di un geison orizzontale. Il suo coronamento non era in pietra ma composto da un rivestimento in terracotta policroma, con finte grondaie a testa di leone, delle quali riemersero numerosi frammenti (alcuni esposti al Museo Archeologico Nazionale di Paestum) durante gli scavi del 1912. I bordi della copertura terminavano con antefisse che, come è stato possibile comprendere grazie ai ritrovamenti, alternavano la forma di palmetta a quella di fiore di loto.


Ostia, Case a giardino (Lazio)

 


Le Case a giardino sono le rovine e resti di un complesso residenziale (giardini, appartamenti e taberne (botteghe), della città romana di Ostia, databile intorno all'anno 128 d.C., ai tempi di Adriano.
Le abitazioni, destinate alla classe media, sono costituite da appartamenti a medianum, articolati cioè intorno ad una stanza su cui si aprivano finestre e la porta di ingresso. In questo caso gli appartamenti si aprono al piano terra su un giardino interno privato e sono riccamente affrescati.
Il complesso residenziale delle Case a giardino doveva essere abitato da mercanti agiati, ed era situato vicino alla costa ma lontano dal porto e dalle sue attività.
Il complesso era costituito da una serie di blocchi perimetrali intorno ad un ampio spazio rettangolare a giardino, che ospitavano una decina di appartamenti e domus, oltre a numerose taberne. Altre abitazioni ai piani superiori erano raggiungibili tramite scale che si aprivano direttamente dallo spazio interno. Al centro dello spazio interno erano presenti due edifici centrali a quattro piani, con otto appartamenti al piano terra, ognuno costituito da varie stanze e articolato su due piani; sono presenti ambienti di rappresentanza più ampi e illuminati da finestre e piccole camere da letto prive di finestre, che prendevano luce dalla stanza centrale, definita medianum. Ai due lati del cortile vi erano sei fontane per l'approvvigionamento idrico.
Il complesso poteva ospitare un numero variabile da cinquanta a cento appartamenti, quindi un numero di abitanti oscillante fra quattrocento e settecento.


Agrigento, rupe Atenea (Sicilia)

 


La rupe Atenea è il punto più alto dell'antica città di Akragas, l'attuale Agrigento, comune italiano capoluogo di provincia in Sicilia.
Sulla rupe Atenea sono stati rinvenuti resti di un frantoio ellenistico, e sulle sue pendici sud-ovest è conservato uno dei numerosi templi delle divinità ctonie, incorporato nella chiesetta medievale di San Biagio. Il tempio, di medie dimensioni (m 30,20x13,30) era dorico in antis. Se ne conservano il basamento, col caratteristico vespaio costituito da un graticcio di blocchi, ed una parte cospicua delle strutture isodome dei lati e del fondo della cella, mentre l'abside della chiesa viene ad occupare la porta del tempio, conservando libera parte delle ante. Dallo scavo provengono resti del geison e della sima a protomi leonine (al Museo nazionale).
Sul lato a valle, la terrazza su cui è sistemato il santuario è delimitata da un muro di témenos, con un accesso attraverso due strade scavate nella roccia. Lungo il lato nord del tempio, all'altezza della cella, sono due altari circolari, di cui quello ad est presenta un anello di blocchi che borda il piano dei sacrifici tagliato nella roccia e arrossato dal fuoco delle offerte, mentre quello ovest, realizzato pure a grandi conci, reca al centro un foro ed una cavità per le offerte infere. Il ritrovamento all'interno dell'altare di kernoi (vasi rituali) e, nell'area, di statuette e busti fittili caratteristici del culto di Demetra e Kore, insieme alla tipica forma circolare degli altari, consentono d'attribuire il santuario alla coppia di divinità tanto popolari a Gela, e poi nella sua colonia, da far affermare a Pindaro che Agrigento era un vero e proprio Persephònas hédos ("sede di Persefone").
Attraverso un sentiero ed una scaletta intagliata nella roccia (ambedue moderni) si valica a sud-ovest la linea delle mura e si raggiungono il santuario rupestre di Demetra e la chiesa di San Biagio. Il santuario è incentrato su due profonde cavità naturali, sistemate tuttavia artificialmente, che s'addentrano nella rupe recando un flusso d'acque all'esterno, e su di un profondo tunnel a nord delle cavità, evidente sostituto delle originali condutture, costituite dalle cavità. La fronte delle grotte è guarnita da un edificio rettangolare diviso in due vani nel senso della larghezza.
L'edificio è realizzato con poderosi muri a blocchi e fortemente rastremato sulla fronte, ed era coronato da una semplice cornice e forse da una grotta a teste leonine. Questa struttura veniva a costituire una sorta di cisterna a due livelli, di cui quello inferiore riceveva il flusso d'acqua incanalato in tubature di cotto dalla grotta di destra, e quello superiore presentava due porte d'accesso alle cavità e tre finestre in facciata (una minore al centro e due maggiori ai lati). Ai piedi della cisterna si trovano delle vasche intercomunicanti a vari livelli, mentre tutta l'area è delimitata da mura formanti un peribolo trapezoidale (aggiunto successivamente), la cui fronte reca aperture a pilastri per dar luce al peribolo stesso, e all'estremità nord-est due vasche costruite a blocchi. La struttura della cisterna, col peribolo aggiunto, risponde perfettamente alla tipologia delle fontane arcaiche e classiche, ben nota in tutto il mondo greco.
Il ritrovamento di busti fittili e di ceramiche del VI e V secolo a.C. ha fatto lungamente discutere sulla natura cultuale del complesso, dimenticando che fino ad epoca ellenistica avanzata non è possibile nel mondo greco dissociare funzioni sacrali e attività utilitarie in apprestamenti idraulici del genere, soprattutto se nati in età arcaica e classica. L'uso della fonte è iniziato infatti già in età protostorica, come mostrano ceramiche indigene anteriori alla fondazione d'Agrigento: anche questo ha fatto parlare di sincretismo religioso, laddove siamo in presenza di una pura e semplice continuità d'uso (anche ovviamente gl'indigeni frequentatori della fonte avranno attribuito a loro volta caratteri sacrali al luogo) tra fase pre-greca e fase coloniale. La cronologia del complesso monumentale è assai controversa, giacché la datazione pre-greca del Marconi non ha alcun fondamento, mentre ricerche recenti (de Waele) tendono a buon diritto a collocare la struttura della fontana e il tunnel all'iniziale V secolo a.C., collegandoli all'intensa attività idraulica progettata da Feace, con restauri ed aggiunte che si prolungano nel tempo almeno fino all'età ellenistica.
Sotto la punta sud-orientale della rupe Atenea, si trova la Porta I, che si apriva, alle pendici della rupe, su una strada tracciata nel vallone e diretta verso est. La porta, conservata per sei assise nel battente di destra, si apre al centro di un poderoso baluardo a tenaglia, uno dei rari esempi di particolari apprestamenti difensivi dell'intera cinta, in un punto di relativa debolezza del tracciato. Una prima torre difendeva il battente di sinistra della porta ed una seconda l'angolo sud-ovest del bastione.
Ritornati sulla SS 118 ci si può avvicinare alla Porta II, detta anche di Gela, profondamente incassata nella roccia, e, sulle pareti del taglio roccioso, ad un piccolo santuario rupestre con incassi per pinakes (alcuni semplicemente stuccati e perciò in origine soltanto, e non riportati), ai piedi dei quali erano piccole fosse con oggetti votivi databili da età classica ad età romana.

venerdì 2 febbraio 2024

Antiquarium di Canne (Puglia)

 
L'Antiquarium di Canne è sito in località Canne della Battaglia nei pressi della cittadella omonima lungo la SP 142, nel territorio della città di Barletta, a pochi metri dalla stazione di Canne della Battaglia.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali lo gestisce tramite il Polo museale della Puglia, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
L'Antiquarium precede la visita della cittadella medioevale, alla sommità della collina sotto la quale avvenne lo scontro tra i Cartaginesi e i Romani. Inaugurato il 21 aprile 1958, alla presenza dal Ministro della Pubblica Istruzione Aldo Moro e del sindaco Giuseppe Palmitessa, il museo documenta gli insediamenti umani nel territorio di epoca preistorica, classica, apulo-greca e medievale. Presenta inoltre una ricca collezione di vasi dauno-peucezi dipinti con disegni geometrici risalenti al IV-III secolo a.C., provenienti dai sepolcreti di Canne. 
Ospita ornamenti in bronzo e ambre, corredi tombali, ceramiche, antefisse, iscrizioni, monete di epoca bizantina. Tra gli altri anche una protome antropomorfa rinvenuta dagli scavi effettuati in località La Boccuta, risalente al 3000 a.C.. Sotto la tutela della Soprintendenza Archeologica della Puglia, propone tutta una serie di reperti che testimoniano gli insediamenti presso le rive dell'Ofanto a partire dall'età neolitica. I resti conservati testimoniano le fasi storiche della popolazione cannese che durante l'età del bronzo, affronta un periodo piuttosto raffinato e che sfocia nell'età repubblicana in una dipendenza dalla città di Canosa.
Infatti Canne dal 1500 al 1850 apparteneva al comune di Canosa di Puglia.

Area archeologica di Notarchirico (Basilicata)

 

L'area archeologica di Notarchirico è un sito archeologico preistorico, situato presso la città di Venosa, in provincia di Potenza.
Dal dicembre 2014 il Ministero per i beni e le attività culturali la gestisce tramite il Polo museale della Basilicata, nel dicembre 2019 divenuto Direzione regionale Musei.
Il sito, scoperto nel 1979, successivamente è stato indagato dal 1980 al 1985. Dal 2016 gli scavi eseguiti da un team itnernazionale di ricercatori, sono condotti dal Museo nazionale di storia naturale di Parigi. 
L'area comprende un antico insediamento paleolitico. L'attività umana nella zona è testimoniata da diversi livelli stratificati, comprendenti un periodo da 600 000 a 300 000 anni fa (acheuleano medio), ma scavi più recenti potrebbero aver dimostrato che il sito fosse frequentato già da 700.000 anni fa da ominidi heidelbergensis.
Il sito è caratterizzato dalla presenza di numerosi utensili in pietra e dai resti di grossi animali come elefanti (nella foto in alto, elementi fossili di un elefante), bisonti, buoi e rinoceronti appartenenti a specie estinte,  depositati in sito dalle acque o da cacciatori.
È stato inoltre rinvenuto nella zona un frammento di femore di un individuo di sesso femminile di Homo erectus, chiamata Marpi, databile a circa 300 000 anni fa, il più antico resto umano dell'Italia meridionale.
La maggior parte dei reperti sono esposti al Museo archeologico nazionale di Venosa.

Santuario italico di Pietrabbondante (Molise)

 

Il santuario italico di Pietrabbondante è una vasta area archeologica del Molise, sita a 966 m s.l.m. di altitudine in un ripido declivio che si affaccia sulla valle del Trigno, a circa un chilometro di distanza in linea d'aria dalla vetta del monte Saraceno. La zona non è attraversata da alcun tracciato stradale di grande comunicazione; sono individuabili tracce di un antico sentiero esistente tra il moderno abitato di Pietrabbondante ed il vicino monte Saraceno, già praticato in antico, una direttrice stradale che ancora oggi segue l'andamento del ripido pendio e, costeggiando il lato orientale del monte, rappresenta l’unica via di accesso all'area fortificata posta in vetta.
L’area sacra rappresenta, per le sue caratteristiche architettoniche e per la sua monumentalità, la testimonianza archeologica di maggior rilievo della cultura della popolazione italica dei Samnites Pentri, e la sua esplorazione sistematica ha consentito di ricostruire le vicende storiche del territorio attraverso i secoli ed ha fornito una quantità rilevante di dati sul più importante luogo di culto dello stato sannitico.
Le informazioni storiche e le rilevanze archeologiche, soprattutto epigrafiche, dimostrano che il santuario di Pietrabbondante è totalmente diverso da ogni altro conosciuto nel territorio dei Sanniti (San Giovanni in Galdo, Vastogirardi, Campochiaro, Schiavi d’Abruzzo); infatti non veniva utilizzato esclusivamente per ludi scenici, come gli altri, ma era sede di concilia, cioè delle adunanze del senato indette in particolari occasioni. Questo suo carattere “nazionale” è documentato ampiamente dai numerosi riferimenti epigrafici (risalenti al II secolo a.C.) alle attività svolte dai magistrati supremi dello stato (iniziative edilizie, dediche di edifici o di oggetti votivi).
Nel 2016 il sito archeologico ha fatto registrare 14 774 visitatori.


Senza dubbio il complesso monumentale di Pietrabbondante è stato edificato per una funzione esclusivamente religiosa, e tale carattere dovette conservare preminentemente fino al suo definitivo abbandono. Tutti gli edifici mostrano con evidenza la loro destinazione cultuale, compreso il teatro, intimamente connesso con la zona templare retrostante. Purtroppo un solo documento, una lamina bronzea trovata nelle vicinanze del tempio maggiore, testimonia uno dei culti praticati: si tratta di una dedica votiva alla dea Vittoria. Si conosce la diffusione del suo culto in Campania e nel Lazio, e si ha un'ampia documentazione sia letteraria che archeologica già a partire dal IV – III secolo a.C. confermata anche da una ricca documentazione numismatica. Alquanto controversa è l’origine del culto secondo la tradizione letteraria latina. La divulgazione di questa forma religiosa nell'Italia centro-meridionale è da attribuirsi ad influsso greco: il culto per la dea Vittoria sarebbe quindi un'interpretazione ellenizzante di una divinità locale, già esistente in epoca più antica, come, ad esempio, la dea sabina Vacuna. Per il resto nulla sappiamo degli altri culti praticati nel santuario, neppure dalle numerose iscrizioni rinvenute nel sito.
Costruito per volontà politica del governo centrale, con l’appoggio ed il sostegno di eminenti famiglie, l’area sacra svolgeva inoltre anche un preciso ruolo in rapporto alle imprese belliche condotte dai Sanniti: la grande maggioranza di oggetti rinvenuti nei livelli più antichi esplorati è costituita da armi, certamente bottino predato ai nemici dopo una vittoria, che proprio qui venivano consacrate come trofeo alla dea Vittoria. Questo particolare giustifica così la mancanza quasi assoluta di ritrovamenti di armi in altri luoghi, anche dove potrebbe essere legittimo attenderseli.
Più di ogni altra località del Sannio, il territorio di Pietrabbondante rivela, attraverso la distribuzione delle strutture insediative, le caratteristiche tipiche di una comunità non urbanizzata. Il santuario però non rappresenta una presenza isolata nell'area, anzi rispecchia un'attività federale e non più soltanto municipale, il risultato di una grande azione collettiva che va oltre il tradizionale particolarismo delle singole realtà locali. Il complesso teatro-tempio, per il grande impegno economico richiesto, costituisce un episodio di massima rilevanza politica, che va al di là della modesta fortificazione presente sul monte Saraceno. Infatti i risultati delle ricognizioni territoriali, sebbene parziali, hanno offerto dati di grande interesse sulla frequentazione di questo territorio nell'antichità.
Il complesso monumentale è situato più in basso rispetto al moderno abitato di Pietrabbondante, che occupa uno sperone roccioso a nord-est del monte Saraceno, a circa m. 1025 s.l.m. ad un chilometro circa, in linea d’aria, dal sito archeologico, che ha un'estensione di circa m. 200 in direzione nord-sud e di circa m. 150 in direzione est-ovest. Sul declivio del colle, in posizione panoramica dominante la valle del Trigno alla sua confluenza col Verrino, è attualmente possibile ammirare il complesso del teatro e dei due edifici templari, quello minore (A), più antico, situato a nord-est del teatro, e ad esso collegato mediante un porticato con botteghe; quello maggiore (B), retrostante il teatro stesso ed appartenente alla medesima fase edilizia. Il dislivello del terreno fra l'estremità occidentale e quella orientale è di circa otto metri, passando da quota 966 a quota 958 s.l.m. L’allineamento degli edifici non è casuale, ma volutamente predisposto, con assi longitudinali paralleli e con orientamento est-sud-est. Il complesso monumentale, così come oggi ci appare, si è sviluppato in due distinte fasi edilizie, cronologicamente non molto lontane fra loro.
La costruzione del monumentale complesso teatro – tempio rappresentò certamente l’iniziativa di maggiore impegno, che occupò gli ultimi decenni del II secolo ed i primi del I secolo a.C. e fu il frutto di un'unica progettazione organica. Opera di un architetto rimasto anonimo, per la monumentalità degli edifici e per la qualità architettonica il complesso dovette richiedere un impegno eccezionale da parte dell’intera nazione dei Sanniti Pentri, che proseguì gradualmente tra gli anni 120 – 90 a.C. fino a quando la guerra sociale non interruppe qualsiasi forma di finanziamento pubblico o privato per l’arricchimento del santuario. Lo straordinario sviluppo di cui godette, benché tagliato fuori dalle grandi vie di comunicazione, è dimostrato dai frequenti riferimenti alle magistrature sannitiche menzionate nelle iscrizioni epigrafiche, quali il meddix tuticus, il censor, il quaestor. La presenza di questi importanti organismi amministrativi e di un'assemblea deliberante (concilium) sono la prova dell'esistenza di un'organizzazione statale, anche se è difficile definire il tipo di struttura organizzativa del centro e la sua condizione giuridica.
Il complesso teatro – tempio è un insieme di grande suggestione scenografica che si ispira ai modelli ellenistici diffusi in area campana, sia per lo schema del teatro, che ricorda quello di Sarno ed il teatro piccolo di Pompei, sia per la decorazione architettonica del tempio, il cui podio ricalca il modello del tempio di Capua. L’edificio ripropone le caratteristiche dell’architettura templare italica, infatti è posto su un podio, con gradinata centrale di accesso, ed è circondato su tre lati da un corridoio; differisce per un particolare elemento architettonico, anziché presentare un'unica cella sacra, ove di solito era collocata la statua della divinità oggetto di culto, ne ha tre, come nella tradizione degli Etruschi e dei Latini, e lascia quindi supporre che fosse dedicato a una triade, unico esempio della cultura italica di tempio dedicato a tre divinità.
La rocca fortificata sulla sommità del monte Saraceno, a circa m. 1212 di altitudine s.l.m. copre un’area pianeggiante ed estesa per circa m. 300 x 150 ed è da collegarsi all'intero sistema di strutture difensive costruite dai Sanniti nel corso del IV secolo a.C. nel Sannio interno. Le indagini archeologiche, infatti, hanno evidenziato la presenza di numerosi insediamenti fortificati nel Sannio pentro, edificati sul territorio dopo il primo conflitto con i Romani (343-341 a.C.) ed ubicati sui rilievi strategicamente più importanti, molti dei quali attendono ancora di essere precisamente identificati: sappiamo che erano perfettamente a vista l’uno dell’altro, in modo da creare un'efficace rete di controllo del territorio, e che in alcuni casi, come a Monte Vairano, la roccaforte non fu utilizzata esclusivamente a fini militari, ma anche come centro abitato, per giunta di dimensioni rilevanti. Anche la roccaforte di Pietrabbondante, difesa da massicce mura in opera poligonale, si collegava con analoghe opere difensive poste più a valle ed ancora oggi visibili, che avevano lo scopo di controllare il percorso che costeggia in quota il monte Saraceno, raggiungendo il santuario in località Calcatello. Oggi sono ben visibili solo tre brevi tratti della cinta muraria, in particolare quello sul lato sud-ovest, che appare il meglio conservato. La prima segnalazione dell’esistenza di queste mura sulla vetta del monte fu fatta dal Caraba.
La fortificazione è stata realizzata utilizzando una tecnica costruttiva piuttosto rozza, con grossi blocchi di pietra calcarea, di diverse dimensioni e solo parzialmente lavorati, sovrapposti a piombo l’uno sull'altro, e pietre dure inserite negli interstizi. Il materiale calcareo è stato probabilmente estratto dalla sommità dell’altura, in modo da spianare il più possibile la zona destinata all'abitato. Il tratto di mura meglio conservato è lungo circa m. 40 e presenta un’altezza media di m. 0,90. Sul percorso è presente una piccola postierla larga circa m. 0,90 che permette il passaggio di una sola persona per volta. Questo tratto si congiunge ad uno sperone roccioso sul lato sud-est che, per la sua asperità, rende naturalmente difficile l’ascesa alla sommità della rocca. Un secondo tratto di fortificazione, lungo circa m. 10,70 ed alto circa m. 1,50, prosegue lungo il pendio sul versante occidentale. L’ultimo tratto di mura visibile è anche il più piccolo, misura infatti solo m. 4,50 di lunghezza, con un’altezza massima di m. 1,65. La restante parte della muraglia è nascosta dalla vegetazione a macchia spontanea, anche se è possibile intuire il probabile andamento del muro. Su un picco roccioso alle spalle dell’abitato di Pietrabbondante, detto Morgia dei Corvi, è stato individuato un breve tratto di mura poligonali, analoghe a quelle presenti sul monte Saraceno, che dominano la vallata del Verrino, probabilmente facenti parte dello stesso sistema di fortificazione.
Allo stato attuale è difficile accertare se la cinta muraria fosse dotata di bastioni difensivi; nell'area interna non è visibile alcuna traccia di costruzioni, e del resto all'interno della fortificazione non è stato praticato alcun saggio di scavo, né vi sono stati rinvenimenti, neppure casuali. Difficile individuare con esattezza i punti di accesso all'interno della zona recintata, e formulare una qualche datazione. All'epoca della costruzione della rocca era certamente già frequentato il luogo di culto in località Calcatello, come dimostrano alcuni resti rinvenuti nell'area sacra, già adibita alle cerimonie legate all'attività dell’esercito sannitico.
In base alla tecnica costruttiva, secondo la classificazione di G. Lugli, è possibile avvicinare questa fortificazione agli altri complessi della Marsica e del Sannio risalenti al periodo tra il VI e la fine del IV secolo a.C. come a San Pietro Avellana (monte Miglio), Rionero Sannitico (bosco Pennataro), Carovilli (monte Ferrante), Agnone (località fonte del Romito), Chiauci (monte Lupone), Sepino (località Terravecchia), Baranello (monte Vairano), Longano (monte Lungo), Frosolone (località Civitelle), Trivento (località Sterpara), Montefalcone nel Sannio (monte Rocchetta), Campochiaro (contrada Civitella), Duronia (località Civitavecchia).
Una piccola necropoli, a circa un km a sud-ovest dell’area di Calcatello, è stata riportata alla luce nel 1973 e parzialmente esplorata: ubicata in località Troccola, a 1043 m. di altitudine s.l.m. tra il monte Saraceno a nord ed il monte Lamberti ad ovest, essa ha restituito tre sepolture appartenenti ad epoche diverse, comprese tra il V ed il III secolo a.C.
Le tre tombe, scavate nel misto di breccia calcarea e argilla rossiccia, sono del tipo a fossa e la loro copertura si trova a circa 40 cm. sotto il piano di campagna; le fosse presentano coperture di tegole e di lastre di calcare, e sono riempite con lo stesso misto del terreno circostante. Gli inumati giacciono supini, con braccia e gambe distese, in due casi, leggermente flesse nel terzo. I corpi appartengono a due maschi adulti e ad un bambino. I corredi funerari sono poveri di oggetti di ceramica (vasellame, coppette e brocche) ma ricchi di oggetti metallici (cinturoni, pettorali, cuspidi di lancia). Nella tomba del bambino sono presenti oggetti di bronzo.
Se ne ricava il quadro di una comunità abbastanza fiorente, in grado di sostenere l'importazione di oggetti metallici, e con un'organizzazione sociale articolata al proprio interno, in cui le classi sociali più elevate hanno buone disponibilità economiche. I dati archeologici consentono di ipotizzare che l’attività della necropoli si estese dal V al III secolo a.C. per tutto il periodo di vita del santuario; non esistono invece elementi per individuare l’ubicazione dell’abitato a servizio del quale funzionava la necropoli stessa.
A circa 400 m. dall'area del teatro, verso sud, è stato rinvenuto, in località Padolera, lungo un sentiero isolato che conduce a Santa Scolastica, il mausoleo sepolcrale della gens Socellia, risalente alla seconda metà del I secolo a.C. Posto in maniera ben visibile su un pendio leggermente elevato, richiamò l’attenzione degli archeologi fin dall'avvio dei primi scavi sistematici (1857), ed è infatti già citato nei giornali di scavo dell'epoca.
Dopo la guerra tra Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla, i Sanniti furono pesantemente puniti da Silla per avere sostenuto Mario ed il complesso tempio-teatro venne confiscato e assegnato alla famiglia dei Socellii. La presenza del monumento funerario doveva pertanto servire proprio a sottolineare l’avvenuto possesso delle terre. La vita del santuario decadde precocemente, anche a causa dell’isolamento della sua posizione, così lontana dalle grandi vie di comunicazione. Nella zona, pertanto, cominciò a svilupparsi un'economia di tipo agricolo - pastorale. Non è esclusa l’esistenza di ville rustiche nelle campagne adiacenti all’area monumentale, non ancora esplorate.
A giudicare dai 29 pezzi ritrovati, si trattava di un grande edificio, in pietra locale, costituito da un corpo inferiore a pianta quadrangolare che poggiava su un dado di base, quadrato, di m. 7 di lato x m. 4 di altezza, costituito da blocchi di calcare lavorato. Le pareti del piano inferiore erano decorate da lesene con capitelli corinzi, con le caratteristiche foglie di acanto, e coronato nella parte superiore da una cornice semplicemente modanata; tra una lesena e l’altra vi erano due iscrizioni che ricordavano il personaggio, un certo Caius Socellius, che prese l’iniziativa di costruire il monumento funerario per sé e per altri quattro membri defunti della propria famiglia. La parte superiore della costruzione consisteva in un corpo a tamburo cilindrico (m. 6 di diametro x m. 2 di altezza) che aveva sulla parete esterna una decorazione di piccole arcate in rilievo poggiate su esili lesene, al di sopra delle quali correva una fascia decorata con un fregio di grappoli d’uva e tralci ondulati. Difficile definire l’aspetto della copertura del monumento, così come non è chiaro dove trovassero posto le sepolture all'interno dell’edificio. Di recente è stata rinvenuta, non lontano dal santuario, una statua femminile, di stile funerario, con una colomba nella mano sinistra, che simboleggia l’anima libera in volo verso il cielo.
La famiglia dei Socellii è nota anche da altre fonti, infatti si ritrova in un'altra iscrizione sepolcrale rinvenuta nell'ambito del territorio del municipio romano di Terventum (Trivento), presso il santuario della Madonna di Canneto.
È stato necessario più di un secolo per riportare alla luce il santuario sannitico di Pietrabbondante, così come oggi lo possiamo ammirare. Le campagne di scavo effettuate in località Calcatello si possono considerare le prime avviate nel territorio del Molise: che in quell'area esistessero antichi ruderi si sapeva già al tempo dei Borbone. Il primo a darne notizia fu l’abate domenicano Raimondo Guarini (1765 – 1852) con una memoria letta nel 1840 all'accademia Ercolanese e pubblicata sei anni dopo. Risale al 1843 la prima menzione scritta dell'esistenza del sito archeologico ad opera dello storico Nicola Corcia (1802 – 1892). Gli studi si intensificarono in seguito alle diverse segnalazioni effettuate dal medico agnonese Francesco Saverio Cremonese (1827 - 1892), appassionato di archeologia. Uno dei primi a studiare personalmente quanto veniva segnalato nel territorio fu Ambrogio Caraba (1817 - 1875), ispettore onorario alle Antichità e Belle Arti per la Provincia di Campobasso. Nel 1845 pubblicò tali studi parlando dell’esistenza di una cinta muraria edificata con grossi blocchi poligonali e del rinvenimento nell'area di numerose iscrizioni in lingua osca, ed identificando Pietrabbondante con la città di Aquilonia. Tali notizie richiamarono l’attenzione di studiosi italiani e stranieri, quali Max Friedländer e Theodor Mommsen. Quest’ultimo, dopo aver visitato personalmente il sito nel maggio 1846, avanzò l’ipotesi che Pietrabbondante dovesse identificarsi con la Bovianum Vetus citata in un passo di Plinio il Vecchio. A suo giudizio sarebbero esistite nel Sannio due località omonime, ma ben distinte topograficamente e storicamente, una da identificare con l'odierna Bojano e l’altra con Pietrabbondante, entrambe sarebbero diventate colonie romane dopo la guerra sociale. Tale ricostruzione storica, formulata anche sulla base di alcune iscrizioni epigrafiche, è stata accettata per più di un secolo ed è sopravvissuta fino a tempi recenti. Quando, anche grazie all'evoluzione degli studi ed all'apporto di nuove discipline, il quadro storico dell’antico Sannio si è arricchito di più ampie conoscenze, è stata dimostrata l'infondatezza della tesi proposta, sulla base di precise argomentazioni epigrafiche, glottologiche, topografiche e storiche. Resta ancora oggi senza risposta l’attribuzione di un antico toponimo al sito di Pietrabbondante: Livio cita molti nomi di città sannitiche di cui non conosciamo la corrispettiva individuazione topografica (Murgantia, Romulea, Feritrum, Imbrinium, Cimetra, Duronia, Panna, Cominium, Aquilonia); al tempo stesso sono stati identificati numerosi centri sannitici, tuttora inesplorati ed anonimi.
Nell’estate del 1856, Francesco Sforza, personaggio influente presso la corte napoletana, invitato dalle autorità del luogo a visitare le rovine archeologiche, rimase molto colpito dalla rilevanza dei resti e promise di interessarne Sua Maestà Ferdinando II di Borbone. Contemporaneamente anche il duca della vicina Pescolanciano, Giovanni Maria d’Alessandro (1824 - 1910), veniva sollecitato in merito dai contadini che in località Calcatello, nel corso dei loro lavori agricoli, rinvenivano spesso resti archeologici di varia natura, che erano puntualmente sottoposti all'esame degli esperti del Museo Reale Borbonico di Napoli. Grazie al suo interessamento, al duca fu conferito nel 1857 l’incarico di soprintendente regio per l’area archeologica di Pietrabbondante. Fu così che finalmente l’area, ormai sottoposta a tutela governativa, diventò oggetto di scavi sistematici avviati nell'agosto 1857, sotto la direzione dell’architetto Gaetano Genovese, direttore degli scavi di Pompei. Gli scavi ripresero, dopo la pausa invernale, nel giugno 1858 sotto la direzione dell’architetto Ulisse Rizzi, direttore degli scavi di Paestum. Interrotti a causa delle vicende belliche relative all'unità d’Italia, gli interventi furono ripresi nel settembre 1870 sotto la direzione dell’archeologo Giulio De Petra, ma solo per breve tempo. Per un lungo periodo l’area fu quasi completamente abbandonata, tranne brevi lavori di manutenzione ordinaria.
Tali campagne di scavo permisero di portare alla luce interamente il teatro ed il tempio minore (A), posto all'estremità orientale dell'area monumentale. Di questi scavi possediamo la raccolta dei giornali di scavo e delle relazioni effettuate dall'archeologo Michele Ruggiero (1811 – 1900), molto particolareggiate per quanto riguarda la descrizione del materiale rinvenuto, ma piuttosto approssimative e confuse nelle indicazioni topografiche. In particolare, nella spianata "distante 150 palmi" dal tempio, fu rinvenuta una notevole quantità di armi, sia integre, sia in frammenti, che venne conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Elmi, schinieri, cinturoni, paragnatidi (paraguance), un accumulo di armi databili tra la fine del V secolo e la metà del IV secolo a.C. collocate lì come trofeo di guerra o come offerte votive. Armi simili sono state ritrovate anche in occasione di scavi più recenti. Se si escludono alcune indagini sporadiche effettuate da Amedeo Maiuri nell'ottobre 1913 nell'area del tempio minore, per lungo tempo il sito non fu oggetto di esplorazioni sistematiche.
Solo nel 1959 la Soprintendenza alle Antichità di Chieti avviò una serie di restauri dei due monumenti riportati alla luce circa un secolo prima, sotto la direzione dell'architetto Italo Gismondi, e una nuova campagna di scavi, la cui direzione venne affidata a Valerio Cianfarani (1912 – 1977), all'epoca soprintendente archeologo per l’Abruzzo ed il Molise. Nel corso delle attività, un saggio di scavo rivelò la presenza di un secondo tempio, molto più grande e posto alle spalle del teatro, la cui esistenza era rimasta ignorata fino ad allora.
In seguito a tale ritrovamento è radicalmente mutata la comprensione della natura dell’intero complesso cultuale e si è reso necessario ricostruire in maniera esauriente l’esatta fisionomia dei luoghi, per acquisire una completa conoscenza dell’intero arco di vita del santuario, sia dal punto di vista propriamente archeologico che da quello storico. Ancora oggi lo studio del complesso teatro - tempio non può considerarsi affatto concluso, e numerose problematiche restano tuttora aperte.
Dopo la conclusione delle ultime guerre contro Roma, combattute nel corso del III secolo a.C. i Sanniti Pentri, dichiarata la propria fedeltà a Roma, possono godere di un lungo periodo di pace, nel corso del quale riescono a potenziare le proprie attività economiche e commerciali, ed utilizzare parte dei guadagni per realizzare nuove iniziative edilizie ed occuparsi della sistemazione monumentale dell’area in località Calcatello. È la fase del cosiddetto tempio ionico, un edificio del quale non è sopravvissuto nulla, ma di cui restano numerosi elementi architettonici, riutilizzati come materiale di riempimento nelle successive fasi edilizie. Fu distrutto probabilmente dall'esercito di Annibale, che nell'inverno del 217 a.C. si era accampato in territorio sannitico, nei pressi dell’attuale Casacalenda e da qui si era mosso con le sue truppe per una serie di scorrerie per tutto il territorio, indirizzando le proprie incursioni soprattutto nei confronti dei santuari, che con la loro concentrazione di ricchezze gli consentivano un ottimo bottino.
Le costruzioni di età sannitica visibili nell'area appartengono a due distinte fasi edilizie, lontane fra loro non tanto cronologicamente quanto per concezione architettonica. Tuttavia chi progettò l’ampliamento del santuario, con il teatro ed il tempio maggiore (B), cercò di fondere il più possibile il nuovo complesso con la parte preesistente, per inserire il vecchio luogo di culto in una sistemazione organica.
All'inizio del II secolo a.C. alcuni magistrati appartenenti alla potente famiglia sannitica degli Staii decisero di finanziare la costruzione del tempio minore (A) su un pendio naturale del terreno. I terrazzamenti che si prolungano a nord e a sud servono a delimitare l’area ed a contenere il terreno, per prevenire eventuali frane. L’area su cui sorge l’edificio è incassata nel pendio del terreno: il complesso cultuale ha una forma stretta e allungata ed è completamente isolato, estraneo a qualsiasi forma urbanistica e lontano dal centro abitato del monte Saraceno. Tutto ciò non ha carattere di eccezionalità e rientra nella normale consuetudine italica.
Nello stesso tempo è documentata, anche in altre zone del territorio, una ripresa dell’attività edilizia: si tratta soprattutto di santuari, poiché i Sanniti non sono interessati all'edilizia civile, di carattere pubblico, ma solo ai luoghi di culto, aree sacre ancora oggi di suggestiva monumentalità. Tra la fine del III secolo e il II secolo a.C. sorgono infatti il santuario di Campochiaro e di Vastogirardi, dedicati ad Ercole, di San Pietro di Cantoni, dedicato alla dea Mefite, quello di Gildone, di San Giovanni in Galdo, di Schiavi d’Abruzzo.
A questo stesso periodo risale anche la costruzione di un secondo santuario dedicato ai Dioscuri, individuato nel territorio di Pietrabbondante, in località Colle Vernone, nella valle del Verrino. La localizzazione del complesso è stata possibile grazie al fortuito ritrovamento di alcuni elementi architettonici e soprattutto di una parte dell’altare, che reca incisa una dedica in lingua osca ad uno dei Dioscuri, divinità molto presente nella religiosità italica, in quanto legata all'ambito militare. Anche in questo caso la costruzione era stata intrapresa in adempimento di una delibera del senato e controllata da un magistrato, a dimostrazione dell’interesse dello Stato verso questi luoghi di culto.
Nello stesso tempo sono documentati altri insediamenti, a partire dall'area dell’abitato attuale di Pietrabbondante, la cui frequentazione in epoca ellenistica è confermata da diversi ritrovamenti di ceramica. Un altro insediamento abitativo di questo periodo è Arco, località posta a sud-est di Pietrabbondante, presso il colle di S. Scolastica, all'incrocio della strada che si congiunge a valle col tracciato del tratturo Celano - Foggia.
Pur essendo cronologicamente l’ultima realizzazione edilizia dell’area sacra, il complesso teatro – tempio si sovrappone esattamente alle strutture più antiche risalenti al IV secolo a.C. ricalcandone alcune misure originarie, evidentemente allo scopo di conservare inalterata nel tempo la sacralità di quel luogo. Infatti sia il tempio che il teatro dovevano svolgere un preciso ruolo pubblico ed essere legati da uno stretto rapporto, evidenziato anche dall'allineamento assiale dei due monumenti. Essi formano un nucleo omogeneo inserito in un’area sacra rettangolare (detta témenos), larga circa m. 60 e lunga m. 86, con un asse longitudinale perfettamente parallelo a quello del tempio minore (A) ed un orientamento est-sud-est. Sebbene strutturalmente distinti, il Tempio maggiore (B) ed il Teatro svolgono evidentemente un ruolo complementare, integrandosi reciprocamente nella loro funzione cultuale: ciascun edificio occupa esattamente m. 43 dell’intera area, ma poiché il podio del tempio è posto ad un livello più alto di nove metri rispetto al piano dell’orchestra del teatro, la facciata del tempio sovrasta la parte centrale del teatro. In base a tale disposizione prospettica, ben studiata, era possibile dall'alto del podio del tempio osservare la rappresentazione scenica, e, parimenti, dal piano dell’orchestra del teatro ammirare la facciata del tempio. Inoltre si veniva a creare un particolare effetto ottico per cui i due corpi edilizi, visti frontalmente dal basso, apparivano fusi l’uno con l’altro e la facciata del tempio sembrava sovrastare la cavea del teatro, annullando la distanza fra i due edifici. La presenza abbinata di un luogo sacro e di uno spazio destinato alle adunanze sembrerebbe riprodurre, ampliandolo, il modello del comitium, del luogo consacrato in cui si convocavano le assemblee per eleggere i magistrati dotati di imperium, cioè della facoltà di essere i supremi comandanti dell’esercito. Sulla base di tali considerazioni, qualche studioso ha ipotizzato che l’area sacra di Pietrabbondante potesse coincidere con l’antico toponimo di Cominium, che gli antichi autori citano come esistente non solo tra i Pentri, ma anche presso altri popoli italici (Marrucini, Equi, Volsci, Irpini), e che è stata identificata con la Cominium distrutta dai Romani nel 293 a.C. nel corso della terza guerra sannitica. Lo schema architettonico del santuario di Pietrabbondante si inserisce senza dubbio nel filone della tradizione sorta e sviluppatasi in ambiente italico e successivamente romano, non certamente in zone di cultura greca o ellenistica.
La costruzione del santuario fu certamente frutto di una volontà politica, piuttosto che di un'esigenza religiosa, come dimostrano le evidenti tracce di abbandono che testimoniano una precoce decadenza del luogo, scarsamente frequentato già in epoca imperiale. In epoca romana ormai non sussistevano più i motivi che avevano indotto le popolazioni sannitiche a costruirlo; lo dimostra la mancanza di qualsiasi restauro o rimaneggiamento del teatro e la conservazione della scena di tipo ellenistico. Anche il tempio maggiore (B) non è stato utilizzato a lungo e la tradizione del culto non si è neppure perpetuata in forma cristiana. Tutto ciò dimostra che il carattere sacro del centro era intimamente connesso alla volontà politica che ne aveva motivato la creazione, e che in epoca romana si era definitivamente esaurita. Non c’è dubbio che la concezione architettonica del complesso teatro-tempio è assolutamente italica, diretta espressione di quella vitalità economica e politica di cui godette l’intero mondo italico negli anni precedenti la guerra sociale; la concezione tradizionale fu solo in parte arricchita con elementi decorativi e scenografici mutuati da qualche città campana (Pompei). Il carattere sannitico del monumento è infine sufficientemente attestato dalla documentazione epigrafica, che esclude anche ogni ipotesi di una colonizzazione romana.
Attualmente sono ancora diverse le problematiche insolute rispetto al ruolo ed alla fisionomia dell’area sacra di Pietrabbondante. Se è chiara la caratteristica eminentemente religiosa e cultuale del sito, non possediamo testimonianze storiche circa uno sviluppo urbanistico né prima né dopo l’assimilazione romana del Sannio. Inoltre non siamo ancora in grado di sapere se il santuario sannitico fruisse di un'autonoma organizzazione amministrativa oppure dipendesse giurisdizionalmente da uno dei centri vicini.

Il teatro ed il santuario italico di Pietrabbondante sono andati in disuso già in epoca molto antica, pertanto non hanno subito nei secoli quei rimaneggiamenti di cui spesso sono stati oggetto i teatri greci riutilizzati in epoca imperiale romana. Ciò ha consentito agli archeologi, anche grazie al discreto stato di conservazione dei monumenti, di ricostruire senza incertezze gli aspetti strutturali e stilistici dell'intero complesso teatrale.
Esistono nel mondo italico dell'Italia centro-meridionale altri esempi di un’area teatrale e di un edificio di culto fra loro strettamente collegati, secondo uno schema che prevede rigorosi criteri di assialità e di visuale frontale. Qualcosa di simile esiste anche sull'altura di Castelsecco, nei pressi di Arezzo, a circa m. 424 s.l.m. dove, sul lato meridionale della collina, è stato rinvenuto un complesso templare di età tardo-etrusca (II secolo a.C.) abbinato ad un edificio teatrale coevo, posti su un terrazzamento naturale, molto suggestivo, che si affaccia sulla vallata aretina. Sappiamo che il teatro era un elemento tradizionale nei luoghi di culto dell’antica Grecia, espressione di un'esigenza religiosa, ma era estranea alla concezione greca la costruzione assiale e frontale dello schema teatro-tempio, consueta, invece, nella cultura italica, che la trasmetterà al mondo romano, che la diffonderà ampiamente in tutta l’area del Mediterraneo. Secondo uno schema analogo è impostato anche il complesso teatro-tempio di Gabii, lungo la via Prenestina, dedicato a Giunone, e realizzato intorno al 150 a. C.
Lo schema teatro-tempio subirà nel tempo diverse evoluzioni, secondo nuove concezioni strutturali e una diversa distribuzione planimetrica, introdotte successivamente dai Romani: a Tivoli, ad esempio, l’imponente complesso teatro-tempio dedicato ad Ercole, risalente al 70-60 a.C. risulta circondato da portici e colonnati, formando un corpo edilizio unico, anche se i due elementi principali si presentano ancora distinti; a Palestrina, invece, il complesso sacro dedicato alla dea Fortuna, risalente alla fine del II secolo a.C. rappresenta il primo esempio di completa fusione architettonica fra edificio templare e teatro, dove quest’ultimo è ancora subordinato al primo. Nel caso del Teatro di Pompeo, edificato a Roma tra il 61 ed il 55 a.C. compare invece per la prima volta una concezione architettonica del tutto nuova, con l'inversione dei ruoli nel rapporto teatro-tempio, dove l’elemento dominante diventa il teatro, inteso come espressione di attività civile (laica).
Tra gli edifici dell’area monumentale, il teatro (nella foto a sinistra) è quello meglio conservato. L’alzato della cavea è quasi intatto ed è perfettamente leggibile la planimetria della scena, della quale è andato perduto l’alzato. A differenza dei due templi, per i quali è stato utilizzato del calcare tenero di importazione, il teatro è stato edificato usando il calcare duro locale.
Si tratta di un edificio medio ellenistico, la sua costruzione infatti si colloca nella seconda metà del II secolo a.C. Pur essendo un teatro di tipo greco, non è stato edificato su un pendio naturale del terreno, come abitualmente avveniva, ma elevando artificialmente un terrapieno sulla spianata erbosa, adeguatamente sostenuto da una solida struttura di contenimento. Difatti il teatro è circoscritto esternamente da un poderoso muro in opera poligonale (alto m. 2,60 e spesso m. 1,70), che delimita tutto l’interro artificiale della cavea, con un paramento esterno interamente costruito a secco, con blocchetti di piccole dimensioni accuratamente lavorati, ed un riempimento di pietrame, anch'esso a secco. In questo muro, in corrispondenza dell’asse del teatro, c'è un'apertura, larga circa m. 1,30 che, attraverso una scaletta con cinque gradini, mette in comunicazione la parte superiore della cavea del teatro con il camminamento posteriore e con l’accesso al tempio maggiore (B). Originariamente la summa cavea non presentava la tradizionale gradinata in pietra (della quale, infatti, non è stato rinvenuto alcun resto), ma doveva essere attrezzata con strutture mobili in legno, montate, se necessarie, all'occasione. È probabile, infatti, che i posti disponibili nella parte inferiore della cavea, quella con i tre ordini di gradinate, fossero sufficienti ad accogliere il pubblico nella maggior parte delle manifestazioni.
La cavea ha un'estensione frontale di m. 54 e la classica forma geometrica ad emiciclo, con un raggio di m. 27. E proprio le tre gradinate situate nella parte bassa della cavea costituiscono la caratteristica architettonica di maggior pregio dell’intero monumento: i tre ordini di sedili, senza braccioli, presentano un piano ininterrotto, costituito di blocchi accuratamente connessi fra loro. Le spalliere curvilinee, lavorate in un solo blocco, presentano un'elegante sagomatura a gola rovesciata, cioè convessa in basso e concava in alto, che conferisce ai sedili una conformazione anatomica. La lunghezza dei singoli posti a sedere è varia, l’altezza media è di circa cm. 82. L'ima cavea è separata dalla summa cavea da un camminamento largo circa m. 1,10 pavimentato con larghi blocchi irregolari ma ben connessi. Lungo il camminamento (detto praecinctio) è presente una doppia fila di sedili semplici, privi di spalliera, interrotti, a distanza regolare, da cinque piccole gradinate larghe m. 1,10 che accedono alla zona superiore della cavea, larga m. 15,30 e suddivisa in sei settori, disposti simmetricamente, anche se di dimensioni diverse. Alle due estremità le tre gradinate dell'ima cavea sono chiuse da braccioli in pietra, scolpiti in forma di zampa di leone alato; il pubblico accedeva ai posti a sedere direttamente dall'orchestra, utilizzando, per le due gradinate superiori, quattro scalette semicircolari, due per ciascun'estremità della cavea.
Lateralmente la cavea è sorretta esternamente da due grossi muri di sostegno (detti analèmmata) di forma trapezoidale, paralleli al palcoscenico, costruiti in opera poligonale, che si uniscono al muro posteriore di contenimento del terrapieno della cavea. Essi sono costituiti da due filari di blocchi parallelepipedi, larghi circa cm. 80, che terminano con un elemento sagomato e sono coperti da una sorta di parapetto obliquo. Alle due estremità inferiori ciascun muro termina con due figure maschili scolpite, uguali e simmetriche, rivolte verso l'orchestra: si tratta di un Telamòne (o Atlante), alto circa un metro, che idealmente sorregge, con le braccia sollevate dietro il capo e le gambe leggermente piegate, il peso dell’intero teatro.
Addossati agli analèmmata due grandi archi, a blocchi sovrapposti e conci radiali, di circa m. 3,50 di larghezza, collegano il muro di sostenimento della cavea all'edificio scenico. Costituiscono le parodoi, cioè i corridoi di ingresso, scoperti, paralleli alla scena, che immettono il pubblico direttamente nell'emiciclo dell’orchestra. Quest'ultima presenta la tradizionale forma a ferro di cavallo, come era di solito nei teatri di tipo greco, con una raggio dell’emiciclo di circa m. 5,50 ed uno spazio rettangolare largo m. 2,70 e lungo circa m. 11. L’orchestra non è lastricata e non vi è traccia della presenza di altari.
Dell’edificio scenico (lungo m. 37,30 e largo m. 10,10) si conserva la struttura semplice della scena di tipo greco, non rimaneggiata in epoca romana: un edificio rettangolare con una facciata lineare, in cui si aprono tre porte, una centrale e due laterali, utilizzate dagli attori per entrare ed uscire dallo spazio scenico. Dell’alzato non è rimasto nulla, ma la planimetria è così chiara da renderlo comprensibile in tutti i suoi aspetti. Di esso rimangono alcuni elementi di pietra, appartenenti alla struttura frontale, costituita da blocchi rettangolari di diversa lunghezza disposti su tre file. Non è stato rinvenuto alcun elemento, neppure frammentario, della decorazione della fronte scenica: si trattava evidentemente di una parete semplice, liscia, priva di particolari ornamenti architettonici. Il palcoscenico doveva avere un'altezza di circa due metri o forse anche più, e una larghezza di m. 4,15 in base all'allineamento dei pilastri posti alle due estremità.
L’edificio scenico vero e proprio ospitava in realtà sei ambienti chiusi, lunghi m. 5 e nascosti alla vista degli spettatori, che avevano funzione di locali di servizio. La parete posteriore dell’edificio scenico segna il limite esterno dell’intero monumento. Al centro dei sei vani un corridoio (largo m. 1,20) consente l’uscita degli attori e del personale del teatro dalle due stanze centrali, leggermente più ampie delle altre. Analogamente altri due corridoi sono posti alle due estremità dell’edificio scenico, a servizio delle stanze più esterne.
Addossati alla base della parete della scena vi sono dieci elementi di pietra quadrangolari, al centro dei quali sono state ricavate delle cavità quadrate, gli alloggiamenti dove venivano inserite le aste di legno che reggevano i velari, cioè le scene mobili, dipinte su tela o su legno, che costituivano il fondale scenico durante le rappresentazioni. Ai lati esterni dell’edificio scenico due ampi corridoi (larghi m. 4,10), chiusi da due cancelli, di cui ancora restano le tracce delle soglie, consentivano l’accesso al pubblico direttamente sul fronte scena.
Riguardo alla tecnica edilizia, bisogna dire che mentre l’intera cavea è in grandi blocchi di pietra calcarea incastrati, senza uso di malta, ove predomina l’opera poligonale, con grossi conci accuratamente lavorati, strutturalmente diverso appare l’edificio scenico, dove i muri sono costruiti con pietre irregolari di piccolo formato, legate con malta, disposte su file orizzontali, ma senza andamento continuo. La differenza è spiegabile in base alle diverse condizioni naturali del terreno, laddove l’uso dell’opera poligonale era richiesto per creare una potente muratura di contenimento della spinta dell’interro retrostante.
Lungo l’asse mediano del teatro, nel corso degli scavi del 1959, è stata rinvenuta una fossa, costruita con muri a secco e coperta con lastroni irregolari, che provvede alla raccolta delle acque piovane: ha una profondità e una larghezza irregolari e scarica le acque probabilmente in aperta campagna.

Proseguendo alle spalle del teatro, a circa nove metri dal muro di contenimento della cavea, oltrepassato il breve declivio erboso, si raggiunge il tempio maggiore (B), l’edificio più grande che sia mai stato costruito dai Sanniti (nella foto a sinistra). Il monumento ha subito numerosi saccheggi nel corso dei secoli, probabilmente fin dall'epoca del suo abbandono, subendo cospicue asportazioni di materiale, reimpiegato per altre costruzioni: il podio risulta molto danneggiato sulla parte frontale ma è ben conservato sugli altri lati.
Il visitatore è ancora oggi colpito dalla massiccia volumetria del podio del tempio che gli si presenta davanti e che si conserva ancora oggi, sostanzialmente, nella sua interezza: lungo m. 35, largo m. 22, alto m. 3,55. L’edificio è circondato su tre lati da uno stretto corridoio, largo circa m. 2, in leggera pendenza e pavimentato di basoli. Dinanzi al podio, a circa m. 1,80 di distanza, su un piano pavimentato con sottili lastre di pietra grigia molto friabile, non rifinite, trovano posto due altari, riportati alla luce nel corso degli scavi, disposti parallelamente alla fronte dell’edificio. Essi presentano un'analoga struttura: il corpo di quello centrale è costituito da un parallelepipedo (m. 3,30 x m. 0,68) in blocchi di pietra, che poggia su una base provvista di cornici a fasce sovrapposte. Un secondo altare, identico per conformazione, ma di lunghezza inferiore (m. 1,70), è posto alla sua destra, a una distanza di circa m. 3,30. Poiché siamo in presenza di un tempio a tre celle, è presumibile che originariamente vi fosse un terzo altare, a sinistra, probabilmente demolito, per essere riutilizzato come materiale di costruzione. Della parte superiore degli altari non si è conservato nulla in situ, anche se sono stati recuperati nell'area elementi appartenenti alla cornice superiore, che poggiava direttamente sul parallelepipedo. In particolare sono state rinvenute le due terminazioni laterali degli altari, poste in corrispondenza dei lati corti, scolpite con elementi vegetali e teste di ariete.
Il podio si eleva al di sopra di un basamento liscio, costituito da blocchi squadrati di pietra calcarea, e riprende le caratteristiche dello schema usuale del tempio italico, con una parete verticale liscia, costituita da tre file di blocchi, compresa, in alto e in basso, da due cornici, che richiamano quelle del podio del tempio italico rinvenuto nel Fondo Patturelli di Curti, nei pressi di Capua, famoso per le numerose terrecotte architettoniche rappresentanti la Mater Matuta.
Gli interventi di restauro del podio hanno richiesto poche integrazioni, poiché le condizioni del monumento risultavano pressoché integre, ad esclusioni di alcune parti frontali. Allo scopo di evidenziare chiaramente gli elementi integrati attraverso il restauro, per le parti aggiunte è stato utilizzato del travertino di Tivoli, ben distinguibile dalla pietra calcarea originaria. Allo stesso scopo, anche per le parti mancanti della cornice sono stati utilizzati blocchi di pietra semplicemente martellata. Sulla parte anteriore del lato occidentale del podio è ben visibile una lunga iscrizione in lingua osca, che si sviluppa, con andamento sinistrorso, su un'unica linea. Ricorda il finanziatore della costruzione, L. Statiis Klar, probabilmente un magistrato sannita, di cui le fonti storiche antiche riportano numerose notizie. Sappiamo che dopo aver partecipato alla guerra sociale, passò dalla parte di Silla e riuscì ad entrare nel Senato romano, finché, ottantenne, non venne ucciso.
Al centro del lato frontale, incassata nel podio ed inserita nel perimetro della struttura, si apre una scalinata (larga m. 4,60) di accesso alla parte anteriore del tempio (pronao): dei tredici gradini solo i primi tre sono originali, gli altri sono di restauro, anche se misurati esattamente sulle impronte di quelli originali. Il piano di calpestio del pronao (m. 22,00 x m. 21,50) è stato quasi integralmente restaurato in lastre di travertino, tranne brevi frammenti in cui è stato possibile ricollocare le pochissime lastre di pietra calcarea del pavimento originale recuperate nel corso dello scavo. Anche la pavimentazione delle tre celle è andata quasi interamente distrutta, tranne alcune parti che presentano una semplice decorazione a piccole tessere bianche piuttosto regolari. Nulla ci rimane dell’elevato delle tre celle: quella centrale (m. 7,20 x m. 11,00) è la maggiore e si estende fino al muro di fondo del tempio. Quelle laterali (m. 4,80 x m. 7,50) si interrompono prima del muro di fondo (m. 3,60), creando due piccoli ambienti rettangolari di m. 4,50 x 3,00 probabilmente adibiti a deposito.
L’antico solaio, infatti, che costituiva il piano di calpestio originale, è stato sfondato già in epoca antica ed il materiale completamente saccheggiato. Pertanto ciò che è stato riportato alla luce, a seguito degli scavi archeologici, è solo la parte interna del podio, racchiusa tra le mura perimetrali.
È opportuno chiarire che, contrariamente a quanto comunemente si immagina, la parte interna del podio non è un semplice spazio vuoto riempito di detriti e di terreno, ma presenta una fitta e complessa rete di strutture murarie, che in parte fungevano da fondazione per le strutture soprastanti del tempio, in parte servivano a distribuire omogeneamente il materiale di riempimento del podio, ripartendone il peso all'interno. È facile riscontrare come in corrispondenza dei muri in opera quadrata che si trovano distribuiti all'interno del podio, si prolungano le diverse parti dell’elevato del tempio soprastante; allo stesso modo in corrispondenza delle colonne del tempio ritroviamo, nascosti dentro il podio, veri e propri pilastri di fondazione.
La presenza di tali strutture, quasi perfettamente conservate, ha consentito agli archeologi di ricostruire con assoluta certezza la planimetria del tempio: una struttura ben articolata, che si ispira nello stile della facciata al tempio prostilo di origine greca, poiché sul fronte anteriore presenta quattro colonne allineate, che formano un porticato, superato il quale si accede nel pronao, cioè la parte anteriore dell’edificio sacro, che presenta sul fondo la parete nella quale si aprono le porte di accesso alle tre celle (naos), ove erano custodite le immagini delle divinità alle quali era dedicato il santuario e che rappresentavano l’abitazione del dio ed il luogo destinato alle celebrazioni religiose. Nel caso di Pietrabbondante quella centrale è più ampia rispetto alle celle laterali, che si presentano più strette e più corte.
Per il riempimento dell’interno del podio del tempio venne utilizzato certamente il materiale di risulta delle operazioni di sbancamento del terreno che vennero preventivamente effettuate: in esso è stato rinvenuto nel corso degli scavi abbondante materiale archeologico di diversa provenienza; in particolare sono stati ritrovati numerosi elementi architettonici appartenenti al cosiddetto tempio ionico, l’edificio sacro costruito dopo la conclusione del conflitto con Roma e che probabilmente venne poi distrutto da Annibale l'anno precedente la battaglia di Canne.
Il colonnato del pronao, di tipo corinzio, è crollato insieme alle pareti dell’edificio, infatti rocchi di colonne sono stati rinvenuti sparsi sul terreno circostante. Il tempio presentava quattro colonne a filo della scalinata di accesso, altre due in seconda fila sui lati e due in terza fila, al centro, fra le ante.
Per la costruzione del tempio sono stati utilizzati due tipi diversi di materiale, il calcare duro locale, utilizzato per il podio e le parti lavorate, ed un calcare morbido non locale, per le colonne e l’alzato delle pareti. L’edificio differisce dal teatro per tecnica costruttiva: presenta dei blocchi estremamente regolari, levigatissimi e perfettamente aderenti.
Della copertura del tetto possediamo soltanto, allo stato frammentario, parti di tegole piatte e di coppi fittili di vario tipo e dimensioni.
A destra e a sinistra del tempio maggiore (B), a livello del filo del muro dei due corridoi laterali, sono stati rinvenuti due porticati, addossati direttamente al muro di recinzione dell’area sacra (tèmenos), costituiti da una serie di ambienti preceduti da un colonnato. Gli ambienti si presentano di diversa grandezza, in alcuni casi si sono conservate le soglie ed in minima parte l’alzato, costituito da pietre legate con malta. Scarsi sono i resti della pavimentazione, a grosse tessere fittili di forma abbastanza regolare. Davanti agli ambienti, a circa m. 3,50 di distanza, sono visibili i resti di piccole colonne di tipo tuscanico, che costituivano un breve porticato, delimitato all'esterno da un lastricato in calcare.
Nello spazio compreso tra la pavimentazione ed il colonnato sono state rinvenute, nei recenti scavi, alcune sepolture di tipo a fossa, altre con copertura a cappuccina, risalenti al III-IV secolo d.C. che utilizzano le tegole del tempio. In tutti i casi accanto al defunto è presente un corredo poverissimo, composto da materiale di modesta fattura; la datazione delle tombe è determinata di solito dalla presenza di monete di epoca romana, risalenti ad un periodo di poco posteriore all'abbandono dell’area.
Chi oggi volesse visitare l’area archeologica di Pietrabbondante seguendo un percorso ordinato e corretto dal punto di vista storico-cronologico, dovrebbe cominciare proprio da questo monumento, posto all'estremità orientale dell’area archeologica, che dovette costituire il nucleo originario del grande santuario, risalente alla prima fase edilizia di cui abbiamo testimonianza, databile alla metà del II secolo a.C. Purtroppo i dati di scavo, risalenti alla fine dell’Ottocento, sono molto approssimativi e lacunosi.
Si tratta dunque del più antico dei monumenti oggi visibili, fronteggiato da un sentiero già all’epoca esistente, che conduce al monte Saraceno, il cui tracciato probabilmente ne condizionò la posizione. Era una struttura di modesta concezione architettonica, completamente isolata e lontana da centri abitati, come rientrava nella consuetudine italica dell’epoca. Attualmente lo stato di conservazione è abbastanza precario, anche a causa del materiale prevalentemente utilizzato, un calcare tenero, friabile e particolarmente sensibile ai geli invernali, proveniente da una cava certamente ubicata nelle vicinanze, considerato il largo uso che di esso è stato fatto anche in seguito, nella costruzione del tempio maggiore (B). Gran parte del materiale del monumento deve essere stato saccheggiato anticamente, forse già a partire dal IV secolo, quando l’area fu definitivamente abbandonata: è sopravvissuto solo il podio, molto danneggiato sul lato anteriore, completamente asportato per tutta la lunghezza, per cui diventa quasi impossibile ricostruirne la planimetria. Manca del tutto l’alzato del tempio, i cui blocchi devono essere stati asportati per essere utilizzati come materiale da costruzione; restano poche lastre del fregio dorico frontale e vari frammenti del cornicione di coronamento.

Il piccolo tempio fu edificato per volontà di alcuni magistrati appartenenti alla potente famiglia degli Staii in una fase in cui in tutto il territorio si assiste a una ripresa dell’attività edilizia, soprattutto nei santuari. Il centro rappresenta quindi l’espressione di quella vitalità economico-politica di cui godette tutto il mondo italico negli anni precedenti la guerra sociale. Non poco dovette influire il periodo di pace che finalmente si stabilì nel Sannio nella seconda metà del II secolo a.C. grazie alla fine delle guerre, ed il conseguente risveglio economico e commerciale, che consentì alle famiglie più facoltose di finanziare nuove iniziative edilizie.
Lo spazio necessario per la costruzione del tempio è stato ricavato nel declivio del terreno, scavando un'ampia area quasi rettangolare (lunga m. 27,50 e larga m. 17,50), circoscritta su tre lati da muri di terrazzamento che delimitano l’area sacra, lasciando libero un passaggio di circa m. 10 solo sul lato sinistro (meridionale) dell’edificio, sia per consentire l’accesso al piano di calpestio del tempio, che quindi non doveva avvenire frontalmente ma lateralmente, sia per creare un collegamento tra il tempio ed il porticato posto a sinistra, che si prolunga per circa m. 17 fino al muro di cinta del teatro. Sia la parte posteriore dell’edificio, sia buona parte del lato settentrionale sono riparati dal terrapieno retrostante da due muri paralleli, distanti fra loro circa tre metri, che si sono quasi integralmente conservati; si tratta di due grossi muri in opera poligonale, costruiti con blocchi di calcare duro e compatto, alti fino ad un massimo di m. 4, in grado di resistere alla spinta del terrapieno retrostante.
Di fronte al tempio, è possibile individuare un’area di rispetto, ben definita ed un tempo completamente lastricata, un basamento lungo m. 16 circa ed alto m. 1,25 che abbellisce il prospetto dell’edificio, al centro del quale si conserva traccia di una piattaforma di modeste dimensioni (m. 3,30 x m. 3,00), sulla quale poggiava forse l’altare, oggi scomparso, presso il quale si svolgevano abitualmente le cerimonie di culto.
Il podio è di forma rettangolare (m. 17,70 x m. 12,20), con il lato anteriore orientato a est-sud-est, costituito da due filari di blocchi squadrati, in calcare tenero, con le pietre ben connesse, frutto di una lavorazione accurata; solo i blocchi d’angolo sono in calcare duro. I blocchi sono compresi tra una cornice di base e una di coronamento, per un’altezza complessiva di m. 1,65 dal piano di terra. Purtroppo solo il lato posteriore e quello settentrionale risultano conservati meglio.
Nonostante quasi nulla è sopravvissuto della parte alzata del monumento, è stato possibile accertare che si trattava di un tempio a cella unica, la cui superficie occupava la metà posteriore del podio. Dalle poche tracce della pavimentazione della cella, costituita da lastre di pietra calcarea, sappiamo che aveva una forma rettangolare di m. 11,50 x m. 9,00. Sono inoltre visibili le tracce della soglia, al centro della parete centrale, con un'apertura di circa due metri, ed i segni del fissaggio di un cancello metallico.
A causa dei gravi danneggiamenti subiti dall’edificio nella metà anteriore del podio, è destinata invece a rimanere ipotetica la sua ricostruzione planimetrica. Verosimilmente si può ipotizzare che, secondo uno schema ampiamente diffuso nell'architettura italica del periodo medio - ellenistico, l’accesso alla cella avvenisse attraverso una scalinata, ormai andata perduta, posta al centro dell'ingresso. Considerato lo spazio disponibile nella prima metà del pronao, è ipotizzabile inoltre l'esistenza di un numero massimo di otto colonne.
Nell’area rettangolare (lunga circa m. 48 e larga circa m. 33) compresa fra il tempio minore (A) ed il teatro, delimitata posteriormente da un grosso muro di terrazzamento in opera poligonale, è possibile riconoscere una serie di ambienti di diverse dimensioni, riportati alla luce già nel corso degli scavi ottocenteschi, genericamente indicati come “botteghe”, che si aprono su un porticato del quale restano soltanto le parti inferiori delle colonnine in mattoni. Vi si possono individuare strutture appartenenti a una prima fase edilizia più antica, coeva alla costruzione del tempio, le quali, in un secondo momento, forse in età imperiale, vennero ampliate in avanti: difficile definire a quale funzione fosse adibita questa area. Si tratta forse di strutture abitative, con caratteristiche diverse, che a volte presentano una complessa articolazione planimetrica, a volte lasciano presumere l'esistenza di corridoi ed ambienti che si inoltrano nell'area non ancora esplorata. Difficile stabilire, per i troppi rimaneggiamenti, se si tratti di botteghe artigiane o di locali a servizio del santuario, magari per accogliere i fedeli. Sotto le strutture crollate è stato rinvenuto un gran numero di monete risalenti alla fine del III secolo – inizio IV secolo d.C. che costituiscono l’ultima documentazione di vita antica esistente nell’area del santuario.
Nel corso degli scavi di epoca borbonica nell'area antistante il tempio minore, effettuati in epoca borbonica, vennero effettuati consistenti ritrovamenti di materiale archeologico. Si tratta di numerose iscrizioni in lingua osca, su pietra calcarea, attualmente conservate presso il Museo archeologico di Napoli, come buona parte del materiale relativo a questi scavi. Sono prevalentemente testi di carattere ufficiale, che riguardano gli aspetti burocratici degli interventi di costruzione e sistemazione del monumento, autorizzati dall'autorità centrale e collaudati dai magistrati del posto. Ben più famoso il nucleo di armi rinvenute in quella stessa circostanza, delle quali si è già detto.
In tutta l’area del santuario, del resto, sono stati rinvenuti, sparsi, frammenti di materiale, la cui ricostruzione non è molto sicura, probabilmente facenti parte della decorazione del frontone del tempio, ma anche terrecotte architettoniche, resti di tegole e coppi, lastre di rivestimento. Si tratta di pezzi sporadici che compaiono un po’ ovunque, intorno al teatro, nei porticati ed anche intorno al tempio minore.
Inoltre costituiscono un'importante documentazione relativa alla frequentazione del santuario durante le sue fasi di vita, le numerose monete, rinvenute in luoghi diversi, che coprono un arco cronologico di alcuni secoli. Tali testimonianze numismatiche si sono rivelate molto importanti ed essenziali ai fini della determinazione dei singoli momenti di vita dell’intero complesso monumentale, risultando quantitativamente rilevanti in considerazione della limitata estensione dell’area interessata. Particolarmente interessante si è rivelato il materiale numismatico proveniente da Pietrabbondante, costituito da 256 monete in bronzo, acquistato nel 1900 dal Museo Nazionale di Napoli e successivamente pubblicato da Ettore Gabrici (1868-1962), il quale lo dice proveniente genericamente da Bovianum Vetus, senza altra indicazione specifica. Altrettanto generiche, purtroppo, risultano le indicazioni fornite dai giornali di scavo del tempio minore e del teatro, risalenti alla fine dell’Ottocento, carenti di ogni dato stratigrafico preciso.

Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...