sabato 30 dicembre 2023

Abaceno (Sicilia)

 


Abaceno o Abacano (in latino: Abacaena o Abacaenum, in greco antico: Ἀβάκαινον o in greco antico: Ἀβάκαινα) era un'antica città della Sicilia.
La città, le cui origini sembra risalgano al periodo siculo, poi ellenizzata, sorgeva nel territorio dove Dionigi di Siracusa fondò la città di Tindari (396 a.C.), situata in prossimità dell'attuale cittadina di Tripi, comune italiano della città metropolitana di Messina, ove nel secolo XVI si scorgeva un largo campo di rovine antiche, in parte ancora esistenti.
In seguito alla progressiva colonizzazione greca della Sicilia anche Abacena si adattò alla nuova cultura ellenizzandosi. Partecipò assieme a tante altre città sicule alla sollevazione di Ducezio, ma in seguito alla sconfitta entrò nell' "Arcontato di Sicilia" di Dionisio I che aveva unificato sotto il proprio controllo, in una sorta di monarchia, tutta la Sicilia posta ad est del fiume Salso, inclusi pure molti centri abitati dai Siculi.. Durante questo periodo, ebbe una zecca con proprie emissioni monetali.
Diodoro Siculo scrive che il suo territorio venne in gran parte espropriato da Dionisio I, Tiranno di Siracusa, in seguito alla fondazione di Tyndaris avvenuta verso il 396 a.C., per lo stanziamento di soldati mercenari. In seguito a ciò la città decadde progressivamente, probabilmente a causa dell'espansione di Tindari, anche se era ancora in piedi nel II secolo d.C., dato che Claudio Tolomeo la cita nella sua opera Tetrabiblos (III, 4).
In seguito agli eventi della lotta tra Sesto Pompeo e Cesare Ottaviano (il futuro imperatore Augusto) Abaceno venne distrutta da quest'ultimo nel 36 a.C.
Testimonianze archeologiche suggeriscono che nella zona di Abaceno durante il medioevo ci fosse una qualche roccaforte montana di grande importanza strategica a causa dell'instabilità di alcuni periodi.
Esistono monete di Abacano sia in argento che in bronzo. Alcune presentano al rovescio un cinghiale e accompagnato, come simbolo da una ghianda, allusione, secondo Smith, alle foreste che circondavano la città durante la sua esistenza.


Cave del Mercadante, Capo d'Orlando (Sicilia)

 


Le "Cave del Mercadante" (o "Cava del Mercadante") – situate a Capo d'Orlando – si riferiscono ad una configurazione rocciosa che si estende per un centinaio di metri per una larghezza tra i 4-5 metri, sulla quale affiorano dischi in pietra, incisi da solchi circolari profondi una decina di centimetri, dal diametro di uno-due metri. 
Le Cave sono emerse durante gli scavi per la costruzione del porto in contrada Bagnoli, presso cui sorgono altri ritrovamenti significativi, tra cui delle terme Romane del III-IV sec. d.C.
Le prime ipotesi dell’uso del sito come una cava per la realizzazione di dischi in pietra, o “rocchi”, risalgono al 1987, in seguito alla rilevazione di indizi circa le diverse fasi di lavorazione dei manufatti: “segni circolari lavorati con scalpello, canali di scavo attorno all’anello completi ed incompleti […] vari piani di sfaldamento orizzontali tali da facilitare il distacco […] quando lo scavo del canale raggiungeva il piano di sfaldamento”. 
L’ipotesi più attendibile circa l'utilizzo dei manufatti circolari, è che potessero servire quali macine per mulini (per olio). Altre ipotesi meno accreditate suggeriscono che i dischi in pietra potessero servire come ornamenti per colonne, o ancoraggi per imbarcazioni.

Terme di Bagnoli, Capo d'Orlando (Sicilia)


Le terme di Bagnoli si trovano nell'omonima contrada nel territorio di Capo d'Orlando, nella città metropolitana di Messina.
Nel 1987 a Bagnoli diverse operazioni di scavo portarono alla luce i primi ruderi di una struttura termale, appartenente ad un'antica villa romana risalente al III-IV sec. d.C. Le terme costituite da otto vani sono state molto probabilmente danneggiate da due eventi sismici che colpirono la Sicilia tra il IV e il V sec.D.C.
Esse sono costituite da tre ambienti: frigidarium, tepidarium e il calidarium. Il frigidarium, il luogo del bagno freddo era costituito da tre stanze. Il tepidarium era l'ambiente tiepido intermedio che costituiva il passaggio dal frigidarium al calidarium. Quest'ultimo ambiente era costituito da due vani ed era utilizzato per il bagno caldo o a vapore. Gli ambienti erano resi caldi grazie a delle intercapedini ricavate sotto i pavimenti e lungo le pareti dentro cui circolava l'aria calda proveniente dal praefurnium, il locale fornace. Di notevole interesse artistico sono i mosaici policromi in tassellatum (tasselli in pietra e marmo) che decorano l'intera pavimentazione.
Gli studiosi, sulla scorta degli esiti delle operazioni di scavo, non hanno escluso la possibilità di riportare alla luce un intero centro abitato.

Villa romana di San Biagio, Terme Vigliatore (Sicilia)

 
La villa romana di San Biagio è una residenza extraurbana di epoca romana, aggregati d'edifici ubicati nella frazione omonima di Terme Vigliatore, comune italiano della città metropolitana di Messina.
La villa riportata alla luce negli anni cinquanta, è tra gli esempi più interessanti di villa di lusso suburbana rinvenuta lungo lo sviluppo dell'attuale Strada Statale 113, verosimilmente come altri insediamenti coevi, insistente a ridosso del primitivo tracciato della Consolare Valeria sulla tratta viaria Mylae - Pactae o Pactis attraverso Týndaris.
Costruita alla fine del II o inizi del I secolo a.C. in un sito abitato già dall'età ellenistica (III - II secolo a.C.), subì almeno due restauri o risistemazioni nella prima età imperiale (metà del I sec.d.C; II sec.d.C.), come indicano le modifiche apportate soprattutto al settore termale.
I reperti rinvenuti e gli studi relativi identificano specifici periodi storici databili:
Età tardo-repubblicana.
Età augustea.
Età traianea-adrianea.
In epoca bizantina la costruzione o l'espansione dell'edificio subì un'improvvisa interruzione per probabile distruzione attribuita al terremoto del 365 d.C. Le fonti storiche riconducono ad un evento sismico, tra quelli documentati in quel periodo, in particolare il terremoto di Creta descritto dallo storico romano Ammiano Marcellino, evento comune alla parziale demolizione della vicina Villa di Patti, e alla devastante frana che determinerà il collasso e conseguente sprofondamento della città di Tindari, e al tramonto della civiltà ad essa collegata.
L'espansione edilizia del centro nella prima metà del XX secolo comportò diverse segnalazioni alla locale soprintendenza, così come alcuni decenni più tardi avvenne per la Villa di Patti, quest'ultimo ritrovamento determinato dagli studi preliminari per la definizione del tracciato dell'Autostrada A20, sebbene l'esistenza dell'insediamento archeologico sia già attestata dalla realizzazione di una precedente piattaforma in calcestruzzo per traliccio destinato ad una linea di trasmissione dell'energia elettrica.
Luigi Bernabò Brea, soprintendente alle antichità della Sicilia orientale, condusse le prime indagini archeologiche per riportare alla luce gli ambienti della villa, attività e operazioni espletate agli inizi degli anni cinquanta nell'ambito del programma di conoscenza e valorizzazione dei più importanti siti archeologici della provincia di Messina.
Le ricerche dirette da Vinicio Gentili, svelarono la maggior parte del complesso con l'individuazione della residenza padronale, il complesso termale privato e le strutture di servizio. Nel 1966 fu allestito uno spazio espositivo, recentemente riaperto in forma di sala didattica, e furono realizzate le strutture protettive ancora oggi funzionali alla salvaguardia dei pavimenti musivi e dei lembi di pittura parietale.
L'edificio, a pianta quadrata, ingloba un cortile interno circondato da un portico che si sviluppa con una serie di otto colonne per lato. Le strutture comprendono tre corpi adiacenti sulla direttrice est - ovest, con prospetto a nord - ovest (NNW), col seguente ordine: ambienti di servizio ad oriente, ambienti privati al centro, impianto termale ad occidente.
Ambienti privati
Giardino porticato: Peristilium.
Sala per il banchetto: Triclinium (nella foto). Sul lato sud cortile del cortile con esposizione a tramontana si apre il tablinum, ovvero la stanza principale della domus, utilizzata come sala da ricevimento e rappresentanza, atta alla custodia e conservazione dei documenti di famiglia. L'ambiente, presenta una pavimentazione in marmi colorati tagliati ad esagono e uniti in forma di mosaico realizzato all'interno di una cornice in sagome regolari, alle pareti presenta brani, resti e tracce di pitture.
Appartamento per il dominus, stanza da letto, sale: Cubiculum, Oecus. Gli appartamenti comprendono più ambienti definiti genericamente sale, stanze, vani, corridoi di raccordo.
Appartamento per la domina, stanza da letto, sale: Cubiculum, Oecus.
Deposito, dispensa, granaio: Cella penaria.
Stanze: Cellae
Corridoio: Oecus.
Guardiole: Celle ostiarie.
Ingresso: Vestibulum.
Impianto termale

L'area dedicata alle terme è divisa in tre ambienti destinati al bagno in acqua fredda (Frigidarium), tiepida (Tepidarium) e calda (Calidarium). I locali erano riscaldati per mezzo di flussi d'aria calda o vapore immessi attraverso un doppio pavimento e lungo le pareti mediante condotte in coccio.
Spogliatoio: Apodyterion.
Sala massaggi: Unctorium.
Sala pulizia corpo: Destrictarium.
Vasca, 3 vasche: Piscina.
Ambiente freddo: Frigidarium, ambiente con mosaico in bianco e nero con scena di pesca, delfini, pescespada, opera, probabilmente di un mosaicista italico(nella foto)
Ambiente tiepido: Tepidarium.
Ambiente caldo: Calidarium.
Sauna: Laconicum.
Forno: Praefurnium.
Locali di servizio.

Scala d'accesso.
Corridoio.
Ambienti di servizio
Cortile:
Cortile porticato:
Casa, ambienti:
Magazzino:
Cisterna:
Ambiente espositivo
In un piccolo ambiente, ubicato lungo lo sterrato dell'ingresso con varco sulla strada statale, sono esposti al pubblico frammenti di sculture, stucchi e ceramiche che arredavano la ricca casa. In epoca recente ospita materiale didattico, la biglietteria i servizi accessori e il personale preposto alla cura e sorveglianza del sito.

Rocca Pizzicata (Sicilia)

 


Rocca Pizzicata è un complesso rupestre presso l'omonima rocca sito nella Valle dell'Alcantara, nel territorio tra i comuni di Roccella Valdemone, Mojo Alcantara e Randazzo.
Per quanto non esistano dei saggi di scavo archeologico appare evidente la presenza di diverse preesistenze archeologiche rupestri come delle tombe, abitazioni e persino un altare (foto sotto).
Recentemente si è sospettata la possibilità che esso sia, similmente al vicino altopiano dell'Argimusco un sito archeoastronomico, per cui siano presenti degli allineamenti legati ai cicli stagionali.
Il sito sorge su una proprietà privata ed è visitabile previa prenotazione.



Villaggio di Filo Braccio, Fiilicudi (Sicilia)

 

Il villaggio di Filo Braccio è un insediamento dell'età del bronzo antico sito presso l'isola di Filicudi in Sicilia.
Venne scoperto nel 1959 da Bernabò Brea e poi nuovamente studiato nel 2009. Il villaggio appartiene alla cultura di Capo Graziano della prima fase.
Si estendeva con capanne, stalle e depositi, con ambienti a pianta ovale creati con pietre e ciottoli di mare. Attualmente parte del villaggio sta scomparendo a causa dell'erosione della costa. Sembra che l'abitato abbia avuto due frequentazioni con diversi rifacimenti.
Le capanne misurano fino a 5 metri di lunghezza. A nord era presente un muro con funzione di contenimento del terreno. Le capanne avevano una divisione interna degli spazi mentre il pavimento era di argilla sovrapposta ad uno strato di ciottoli e frammenti ceramici che favoriva l'isolamento dal terreno.
Tra i ritrovamenti vi è del vasellame, come le olle, le ciottole e i vasi di varie dimensioni.
Gli abitanti poi si spostarono presso il villaggio di Capo Graziano dove trovarono condizioni migliori per la difesa.
Dal villaggio di Filo Braccio proviene uno dei più interessanti reperti di tutta la cultura di Capo Graziano, si tratta di una tazza con decorazioni incise, rinvenuta presso la capanna F. L'importanza di questa tazza risiede nel fatto che probabilmente è il più antico esempio di raffigurazione della preistoria italiana (Graziano I). Per quanto faccia parte della cosiddetta cultura di Capo Graziano si può dire che si discosta rispetto ai comuni reperti. Il disegno rappresenta chiaramente un uomo a braccia aperte in cui è possibile notare anche le dita e il corpo. Chiaramente l'intera rappresentazione è stilizzata, così come le onde del mare rappresentate con delle linee a zig-zag e delle barche formate da linee orizzontali con altre minori verticali. Non è chiaro chi sia rappresentato, se un uomo o una divinità, se le barche partono o arrivano, tuttavia è importante dire che è l'unico esempio di rappresentazione complessa, rispetto alle semplici linee di decorazione che troviamo nelle ceramiche anche della seconda fase.

Teatro di Monte Jato (Sicilia)

 

Il Teatro di Monte Jato è un antico teatro della Sicilia posizionato in provincia di Palermo, nel comune di San Cipirello. È inserito nel sito archeologico di Iaitas.
Venne costruito alla fine del IV secolo a.C. in un luogo già abitato dagli Elimi. Il teatro aveva probabilmente come modello il teatro di Dioniso, edificato ad Atene all'inizio del secolo precedente.
Molti elementi furono utilizzati per la costruzione di edifici attigui o sovrastanti il complesso, che sarà infatti sepolto dalla rete viaria: in età romana una casa fu addossata al portico esterno dell'edificio, mentre furono gli Arabi a costruire un rione abitativo sulla cavea.
Come consueto negli antichi teatri fra i greci, il teatro di Monte Jato aveva una caratteristica forma semicircolare: la cavea divisa in sette settori e solcata da otto scalinate era composta da 35 gradinate e sfruttava il pendio naturale fornito dal versante dell'omonimo monte, offrendo così la capienza di 4.500 posti a sedere. Anteriormente erano poste delle gradinate riservate agli ospiti d'onore, quali ambasciatori, sacerdoti, politici: solo queste presentavano lo schienale e si pensa fossero decorate. Nella struttura era presente un sistema per lo scolo dell'acqua piovana.
L'edificio scenico vero e proprio, munito di parasceni laterali, risulta essere l'elemento meglio conservato nonostante le numerose ristrutturazioni subite: la prima venne effettuata verso il 200 a.C., mentre l'ultima risale al I secolo d.C. Durante gli scavi all'interno dell'edificio scenico sono stati trovati rinvenuti numerosi pezzi di pavimento provenienti dal piano superiore e tegole rotte.


giovedì 28 dicembre 2023

Stele di Mesha - GIORDANIA/FRANCIA

 
La stele di Mesha (nota nel XIX secolo come pietra moabita) è una pietra in basalto nero, situata in Giordania, che riporta un'iscrizione effettuata nel IX secolo a.C. da re Mesha dei Moabiti.
L'iscrizione, risalente all'840 a.C., ricorda le vittorie di Mesha su "Omri re di Israele" e sul figlio, che aveva oppresso i Moabiti. È la più lunga iscrizione mai rinvenuta tra quelle che si riferiscono all'antico Israele (la "Casa di Omri"). Riporta quello che è generalmente considerato come il più antico riferimento semitico extra-biblico al nome Yahweh (YHWH), i cui beni del tempio furono saccheggiati da Mesha e consegnati al proprio dio Chemosh. Lo studioso francese André Lemaire ha ricostruito una parte della riga 31 della stele, affermando che si tratta di un riferimento alla "Casa di Davide".
La pietra è alta 124 cm e larga e profonda 71 cm, arrotondata in alto. Fu scoperta sul sito dell'antica Dibone (oggi Dhiban), nell'agosto del 1868 dal reverendo Frederick Augustus Klein (1827–1903), un missionario tedesco della Church Mission Society. Gli abitanti locali la ruppero durante un litigio riguardo alla sua proprietà, ma uno schizzo (un calco in cartapesta) era stato ottenuto da Charles Simon Clermont-Ganneau, e molti dei frammenti sono stati in seguito recuperati ed uniti dallo stesso Clermont-Ganneau. Lo schizzo (mai pubblicato) e la stele riassemblata sono ora esposte presso il Museo del Louvre.
La stele misura 124 per 71 cm. Le sue 34 righe descrivono:
Come i Moabiti furono oppressi da "Omri re di Israele", come risultato della rabbia del dio Chemosh
La vittoria di Mesha sul figlio di Omri (non citato) e sugli uomini di Gad ad Ataroth, ed a Nebo e Jehaz
I suoi progetti per gli edifici, il restauro delle fortificazioni della sua roccaforte e la costruzione di un palazzo e di una cisterna per l'acqua
Le sue guerre contro gli Horonaim.
È scritta in lingua moabita, con l'antico alfabeto fenicio, ed è "molto simile" all'ebraico biblico standard.
L'iscrizione è coerente con gli eventi storici riportati nella Bibbia. Eventi, nomi e luoghi citati nella stele di Mesha corrispondono a quelli citati nella Bibbia. Ad esempio, Mesha viene descritto come re di Moab nel secondo libro dei Re (3:4: "Mesa re di Moab era un allevatore di pecore. Egli inviava al re di Israele "centomila agnelli e la lana di centomila arieti" e Chemosh viene citato in molti passi della Bibbia come dio locale di Moab (primo libro dei re 11:33, 21:29, ecc.). Il regno di Omri, re di Israele, è descritto nel primo libro dei Re (16), e l'iscrizione cita numerosi territori (Nebo, Gad, ecc.) che appaiono anche nella Bibbia. Infine, il secondo libro dei Re (3) parla di una rivolta di Mesha nei confronti di Israele, a cui Israele rispose alleandosi con Giuda ed Edom per sedarla.
Secondo alcuni studiosi ci sarebbe un'incongruenza nei tempi della rivolta tra la stele di Mesha e la Bibbia. L'ipotesi si basa sul presupposto che la successiva frase della stele faccia riferimento al figlio di Omri, Acab.
«Omri era re di Israele, ed oppresse Moab per molti giorni, perché Chemosh era furioso con la sua terra. E suo figlio lo sostituì; ed egli disse, "Anche io opprimerò Moab"... E Omri prese possesso dell'intera terra di Madaba; e vi visse nei suoi giorni e metà dei giorni del figlio: quaranta anni: e Chemosh lo restaurò nei miei giorni»
In altre parole, secondo questi studiosi l'iscrizione afferma che la rivolta di Mesha avvenne durante il regno del figlio di Omri, Acab. Dato che la Bibbia parla di rivolta avvenuta durante il regno di Jehoram (nipote di Omri), questi studiosi affermano che i due racconti siano inconsistenti.
Altri studiosi hanno fatto notare che l'iscrizione non fa esplicito riferimento ad Acab. Nell'italiano moderno, il termine "figlio" fa riferimento ad un figlio maschio discendenza diretta dei genitori. Nell'antico vicino Oriente, però, il termine veniva utilizzato per indicare qualsiasi discendente maschio. Inoltre, "figlio di Omri" era un titolo comune per ogni discendente maschio di Omri e potrebbe anche fare riferimento a Jehoram. Supponendo che "figlio" significhi "discendente", i due racconti sarebbero consistenti. Ai tempi la definizione di "discendente di Omri" era "bît Humri", come confermato dai registri assiri.
Nel 1994, dopo aver esaminato sia la stele di Mesha che la cartapesta del Louvre, lo studioso francese André Lemaire disse che la riga 31 della stele di Mesha riportava la frase "la casa di Davide". Lemaire dovette immaginare una lettera distrutta, la prima "D" di [D]VD ("di [D]avide") per ricostruire la frase. La frase completa della riga 31 sarebbe quindi "Riguardo a Horonen, qui vi visse la casa di [D]avid", וחורננ. ישב. בה. בת[ד]וד. (le parentesi quadre [ ] racchiudono le lettere o le parole inserite dove furono distrutte e dove i frammenti sono tuttora irreperibili). Baruch Margalit ha tentato di utilizzare una lettera diversa, la "m", trasformandola in: "Ora Horoneyn fu occupata alla fin[e] del [regno del mio pre]decessore dagli [Edom]iti". Nel 2001 un altro francese, Pierre Bordreuil, scrisse che egli ed altri studiosi non potevano confermare l'ipotesi di Lemaire. Se Lemaire avesse ragione, esisterebbero due antichi riferimenti alla dinastia di Davide, uno sulla stele di Mesha (metà del IX secolo a.C.) e l'altra sulla stele di Tel Dan (metà del IX secolo a.C. - metà dell'VIII secolo a.C.).
Nel 1998 un altro studioso, Anson Rainey, tradusse una difficile coppia di parole nella riga 12 della stele di Mesha, אראל. דודה, come ulteriore riferimento a Davide. La riga in questione recita: "Io (Mesha) portai da qui (la città di Ataroth) l'ariel del suo DVD (o: il suo ariel di DVD) ed io lo trascinai davanti a Chemosh a Qeriot". Il significato di "ariel" e "DWDH" non è chiaro. "Ariel" potrebbe derivare etimologicamente da "leone d'oro" o "altare-cuore"; "DWDH" significa letteralmente "il suo amato", ma può anche significare "il suo (X) di Davide". L'oggetto preso da Mesha nella città israelita potrebbe quindi essere "l'immagine leonina del loro amato (dio)", identificando "ariel" con il culto del leone associato all'amato dio Ataroth; o, secondo la lettura di Rainey, "il suo altare-cuore davidico".
Nel 2019 gli studiosi Israel Finkelstein, Nadav Na'aman e Thomas Römer pubblicarono uno studio nel quale sostennero invece che la riga 31 non si riferisse a Davide, bensì a Balak, leggendario re di Moab menzionato nel Libro dei Numeri. Rispondendo a tale proposta, lo studioso di epigrafi Michel Langlois ha invece pubblicato un suo studio, nel quale ha sostenuto la originaria teoria di Lemaire.
Charles Montagu Doughty, nel suo studio pubblicato nel 1888, dice che gli fu detto che lo sceicco di Kerak, Mohammed Mejelly, aveva venduto la pietra ai crociati Franchi a Gerusalemme, e che il Beni Haneydy, il clan sulla cui terra si trovava Dibone, chiesero a Mejeely una quota del ricavato. Quando la richiesta fu rifiutata, i Beni Haneydy attaccarono la spedizione che stava trasportando la pietra a Gerusalemme, uccidendo cinque componenti della scorta e perdendo tre dei loro uomini. Riportarono la pietra a casa loro. A Doughty fu anche detto che i Franchi pagarono 40 sterline per la morte dei cinque uomini.
Sei anni dopo il reverendo Archibald Henry Sayce disse che il consolato francese di Gerusalemme aveva saputo della scoperta del reverendo F. Klein e che, l'anno successivo, il loro dragomanno Clemont-Ganneau inviò Selim el-Qari a fare un calco in cartapesta e ad offrire 375 sterline per la pietra. Sfortunatamente era già stato raggiunto un accordo con i Prussiani per 80 sterline. Sentendo che la pietra era aumentata di valore, il governatore di Nablus minacciò di riprenderne il possesso. Piuttosto che non avere niente, la pietra fu scaldata e poi distrutta bagnandola con acqua fredda. I vari pezzi finirono in famiglie diverse, che le nascosero nei granai per "fungere da talismani per proteggere il grano dal degrado".
Nel 1958 i resti di un'iscrizione simile furono trovati nei pressi di Al-Karak.

Ain Ghazàl - GIORDANIA

 

Ain Ghazàl (in arabo "Fonte della gazzella") è un insediamento neolitico rinvenuto nella parte nord-orientale dell'odierna Giordania, presso Amman.
Fu abitato tra il 7250 a.C. e il 5000 a.C. circa, nel neolitico preceramico B, e si estende per 15 ettari, costituendo uno dei più ampi abitati preistorici conosciuti nel Medio Oriente.
Il sito venne individuato nel 1974, durante la costruzione di una strada nella zona. Gli scavi archeologici furono condotti negli anni 1982-1985, 1988-1989 e 1993-1996 e ancora nel 1998, sotto la direzione di Gary O. Rollefson.
Ai suoi inizi, intorno al 7000 a.C., il sito si estendeva per 10-15 ettari ed era occupato da circa 3000 abitanti, da quattro a cinque volte il numero della contemporanea Gerico. Intorno al 6500 a.C., tuttavia, la popolazione decrebbe nel giro di poche generazioni a circa un sesto, a causa delle mutate condizioni ambientali provocate dal disboscamento.
Alle sue origini si trattava di un tipico villaggio del neolitico preceramico, collocato su una terrazza naturale affacciata sulla valle. Le abitazioni erano costruite con mattoni di fango di forma parallelepipeda ed erano costituite da un ambiente quadrato preceduto da una piccola anticamera. I muri erano intonacati con fango all'esterno e con intonaco a calce all'interno, rinnovato ogni pochi anni.
Era praticata l'agricoltura, con la coltivazione di cereali (orzo e specie antiche di grano) e legumi (piselli, fagioli, lenticchie e ceci) in campi fuori dal villaggio, ed erano allevati greggi di capre. Il cibo era integrato anche dalla caccia (daini, gazzelle, maiali selvatici e altri).
Gli abitanti di 'Ain Ghazal seppellivano alcuni dei loro morti al di sotto del suolo delle loro case, spesso con il cranio deposto in un profondo pozzetto separato, altri nei terreni che circondavano il villaggio. Resti umani sono stati trovati anche nei pozzetti scavati per la deposizione dei rifiuti, dimostrando che cerimonie di sepoltura erano riservate solo ad alcuni defunti, ma non è chiaro in base a quali criteri.
Nelle vicinanze di alcune strutture, che potrebbero aver avuto una funzione differenziata e rituale, sono state rinvenute seppellite ritualmente in pozzetti delle sculture che raffigurano figure umane di grandezza circa metà del naturale. Le sculture erano modellate con gesso bianco, su una struttura interna fatta con fasci di ramoscelli, ed hanno abiti e capelli dipinti e in alcuni casi tatuaggi o pittura corporea. Gli occhi erano realizzati con conchiglie di Cypraea e pupille in bitume. Sono state rinvenute 32 figure in gesso (15 a figura intera, 15 busti e 2 teste frammentarie). Tre dei busti avevano una doppia testa, ma il significato di questa raffigurazione non è chiaro.

Acquedotto Eifel - GERMANIA

 
L'acquedotto Eifel fu uno dei più lunghi acquedotti dell'impero romano.
Costruito nell'80 d.C., trasportava acqua per circa 95 km dalle colline della regione di Eifel, nell'attuale Germania, all'antica città di Colonia Claudia Ara Agrippinensium (l'odierna Colonia). Se si includono anche le sorgenti secondarie, la lunghezza complessiva raggiunge i 130 km. La costruzione era quasi interamente costruita al livello del suolo, ed il flusso dell'acqua era provocato solamente dalla forza di gravità. Pochi ponti, tra cui uno lungo 1400 metri, erano necessari per attraversare la vallata. A differenza di altri famosi acquedotti, l'Eifel venne appositamente progettato per minimizzare il tragitto sopraelevato rispetto al suolo, al fine di metterlo al riparo da danneggiamenti e dal congelamento dell'acqua.
Prima della costruzione dell'acquedotto Eifel, Colonia riceveva l'acqua dall'acquedotto Vorgebirge, la cui sorgente si trovava nella regione di Villé ad ovest della città. Con il crescere della città, l'acquedotto non fu più in grado di fornire acqua di qualità sufficiente; la sorgente conteneva tracce di limo in estate, e a volte si prosciugava completamente. Venne quindi costruito un nuovo acquedotto per portare in città l'acqua dalla sorgente dell'Eifel.
L'acquedotto Eifel venne costruito nella parte settentrionale della regione. La costruzione era fatta in calcestruzzo con pietre che formavano una copertura ad arco. Aveva una portata massima di circa 20 000 m³ di acqua al giorno. L'acquedotto era in grado di fornire acqua per fontane, bagni e case private di Colonia Claudia Ara Agrippinensium. Venne utilizzato fino al 260 circa, quando la città venne per la prima volta saccheggiata dai Germani. In seguito non venne più utilizzato, e si tornò all'uso del vecchio acquedotto Vorgebirge.
L'acquedotto inizia dalla sorgente situata nell'area di Nettersheim, nella valle del fiume Urft. Percorre tutta la valle fino a Kall, dove oltrepassa lo spartiacque che divide i bacini della Mosa e del Reno. Gli ingegneri romani decisero questo percorso per il fatto che erano in grado di superare lo spartiacque senza dover creare un tunnel o installare una pompa. L'acquedotto correva parallelo alla catena montuosa settentrionale degli Eifel, incrociando l'Erft vicino a Kreuzweingarten (nel circondario di Euskirchen) e lo Swist con un ponte ad archi. A Kottenforst, a nord-ovest di Bonn, attraversava l'altopiano di Vorgebirge. infine attraversava Brühl e Hürth prima di arrivare a Colonia. Altre sorgenti secondarie, giudicate sufficienti per quantità e qualità dagli ingegneri, vennero equipaggiate con acquedotti minori al fine di rifornire lo stesso Eifel.
Per proteggersi dal congelamento dell'acqua, buona parte dell'acquedotto scorre un metro sotto terra. Gli scavi archeologici hanno mostrato che, al livello più basso, gli ingegneri romani posero un'ampia base di pietre. Su questa base costruirono una scanalatura in calcestruzzo e pietra a forma di U per l'acqua e, sopra a questo, pietre squadrate e malta vennero usate per costruire un arco protettivo.
Per i lavori con il calcestruzzo e per l'arco gli ingegneri usarono tavole di legno per dare la forma. I segni delle nervature del legno sono ben visibili nel calcestruzzo anche dopo 2000 anni. L'acquedotto ha una larghezza interna di 70 cm ed un'altezza di 1 metro, in modo che gli operai potessero entrare in caso di necessità. L'esterno era sigillato con intonaco in modo da tenere all'esterno l'acqua sporca. In vari posti venne creato un sistema di drenaggio per tenere lontana l'acqua presente nel suolo. I corsi minori incrociano l'acquedotto attraverso dei cunicoli; molto vicino alla sorgente ne è rimasto un ben conservato.
Anche l'interno dell'acquedotto era intonacato con una sostanza rossa chiamata opus signinum. Questa pasta era composta da calce viva e da mattoni rotti. Questo materiale era resistente all'acqua ed evitava perdite. Le piccole crepe venivano sigillate con legno di frassino, particolarmente diffuso nel periodo in cui l'acquedotto venne costruito.
Molte sorgenti dell'area sono state dotate di costruzioni che permettevano di incanalare l'acqua nell'acquedotto. La prima si trovava alla sorgente, Grüner Pütz, vicino a Nettersheim. La più studiata è la "fontana Klaus" di Mechernich. Questo sito è stato archeologicamente ricostruito e conservato. Le costruzioni di varie sorgenti vennero progettate per rispettare le caratteristiche dell'area, e potrebbero rispettare anche i moderni requisiti architettonici.
Sono state riconosciute quattro principali aree sorgive:
  • Grüner Pütz (Pieno di verde) vicino a Nettersheim
  • Klausbrunnen (fontana Klaus) vicino a Mechernich
  • Un'area sorgiva a Mechernich-Urfey
  • La Hausener Benden a Mechernich-Eiserfey
L'area di Hausener Benden, anch'essa nei pressi di Mechernich, è interessante perché scoperta piuttosto tardi, e rimessa in funzione. Nel 1938, durante le ricerche di una fonte d'acqua potabile nei pressi di Mechernich, gli operai scoprirono una parte dell'acquedotto che partiva da questa zona. L'acqua che scorreva al suo interno venne semplicemente convogliata nel moderno sistema idrico. Non essendo per nulla danneggiato, non vennero svolte ricerche archeologiche per la costruzione attorno alla sorgente.
I romani preferivano acqua potabile con un alto contenuto minerale, preferendone il sapore a quello dell'acqua dolce. L'architetto romano Vitruvio descrisse il processo di analisi di una sorgente d'acqua potabile:
«Le sorgenti dovrebbero essere testate e provate nei seguenti modi. Se sono all'aperto, ispezionare ed osservare il fisico delle persone che abitano nelle vicinanze prima di iniziare a lavorare, e se le loro ossa sono forti, l'aspetto vivo, le gambe sane, e gli occhi lucidi, la sorgente merita completa approvazione. Se la sorgente è stata appena scavata, la sua acqua è eccellente se si può versare in un vaso corinzio o bronzeo senza che lasci sedimenti. Inoltre, l'eccellenza dell'acqua può essere dimostrata facendo bollire l'acqua in un calderone di bronzo, lasciandola riposare qualche tempo, e versandola senza che essa lasci sabbia o fango sul fondo
(Vitruvio, De architectura, 8,4,1)
Vitruvio insistette (8,3,28) sul fatto che "conseguentemente dobbiamo fare molta attenzione nella ricerca di sorgenti e nella loro selezione, tenendo in primo piano la salute delle persone". L'acqua proveniente dall'Eifel era considerata una delle migliori dell'impero.
Sfortunatamente l'acqua dura tende a produrre depositi di carbonato di calcio, ed infatti buona parte dell'acquedotto è oggi ricoperto da uno spesso strato di calcare, fino a 20 cm. Nonostante la riduzione dello spessore interno causato dal calcare, l'acquedotto era ancora in grado di trasportare acqua a sufficienza per soddisfare i bisogni di Colonia. Nel Medioevo lo strato di "marmo Eifel" che faceva parte dell'acquedotto venne riutilizzato come materiale da costruzione.
Per vari motivi l'Eifel è composto da pochi tratti esposti, a differenza di altri acquedotti romani quali il Ponte del Gard della Francia meridionale:
  • Il percorso dell'acquedotto venne scelto in modo da evitare di dover erigere costruzioni.
  • I tratti sotterranei erano riparati dal congelamento invernale.
  • L'acqua che raggiungeva Colonia aveva una temperatura ideale grazie all'isolamento garantito dal terreno.
  • In caso di guerre l'acquedotto avrebbe subito meno danni.
Nonostante questo, esistono punti in cui fu obbligatoria la costruzione di ponti o altro. Il più importante è un ponte ad archi che attraversa lo Swist nella valle del Reno; tale ponte è lungo 1.400 metri e raggiunge i 10 metri di altezza. Gli archeologi calcolano che il ponte originale fosse composto da 295 archi, ognuno dei quali largo 3,56 metri. Il ponte è stato però ridotto in macerie dal passare degli anni.
Un piccolo ponte ad archi attraversa la valle vicino a Mechernich-Vussem. Questo ponte era alto 10 metri e lungo 80. I resti archeologici ritrovati erano in condizioni sufficienti da permetterne una ricostruzione parziale, in modo da mostrare come dovesse essere in origine.
La costruzione dell'acquedotto mise alla prova le capacità e la conoscenza degli ingegneri romani. I romani soffrivano a volte di bassa qualità nelle grandi opere, come testimoniato da Sesto Giulio Frontino, responsabile delle risorse idriche della città di Roma che scrisse:
«Nessun'altra costruzione richiede maggiore cura di una che è destinata a contenere acqua. In ogni caso è necessario supervisionare tutti gli aspetti del progetto con grande attenzione - seguendo rigidamente le regole, che tutti conoscono, ma che pochi seguono»
Considerando la quantità di studi topografici, costruzione sotterranea, e lavori di muratura, una costruzione di queste dimensioni non si sarebbe potuta costruire in un blocco unico. Al contrario, gli ingegneri divisero l'intero tratto in lotti più piccoli. Attraverso ricerche archeologiche sono stati determinati i confini di queste zone. Ogni lotto comprendeva un tratto di 15.000 piedi romani (4.400 metri). È stato dimostrato anche che gli studi topografici vennero svolti in momenti diversi da quelli della costruzione stessa, proprio come accade per le odierne grandi opere.
Ogni metro dell'acquedotto ha comportato lo scavo di circa 3–4 m³ di terra, e la costruzione di 1,5 m³ di struttura in mattoni e calcestruzzo, oltre a 2,2 m² di intonacatura. Il costo complessivo del lavoro è stato stimato in 475 000 giorni di lavoro: considerando una media di 180 giorni di lavoro all'anno a causa delle condizioni atmosferiche, 2.500 lavoratori impegnati per 16 mesi avrebbero completato il progetto. La reale durata dei lavori sembra essere stata molto maggiore, soprattutto per il fatto che a questo calcolo va aggiunto il tempo necessario per gli studi topografici e la produzione del materiale edile.
Dopo il completamento della costruzione, i vari tratti vennero uniti, la superficie del suolo riappiattita, e venne creato un percorso di manutenzione. Questo percorso serviva anche a delimitare le aree in cui era vietata l'agricoltura. Altri acquedotti romani sono dotati delle stesse strutture. Quello di Lione in Francia venne contrassegnato dalla seguente iscrizione:
«Per volere dell'imperatore Publio Elio Traiano Adriano, a nessuno è permesso di arare, seminare o piantare all'interno del terreno predisposto alla protezione dell'acquedotto»
Dopo aver scelto una buona posizione per l'acquedotto, fu necessario garantire una pendenza costante per tutto il percorso. Usando arnesi simili alle attuali livelle gli ingegneri romani erano in grado di mantenere una pendenza che si aggirava attorno allo 0,1% (un metro di dislivello per ogni chilometro). Oltre alla pendenza, era necessario unire tratti diversi dell'acquedotto senza sbalzi.
I costruttori dell'Eifel fecero attentamente uso della pendenza naturale del terreno. Se i lavori di un segmento arrivavano troppo vicino a quello successivo, veniva creata una piscina in modo da rallentare il flusso dell'acqua.
Il calcestruzzo usato per l'Eifel era una combinazione di calcare, sabbia, pietre ed acqua. Vennero usate delle tavole per dare al forma al calcestruzzo. Le analisi moderne svolte per testare la qualità del calcestruzzo hanno dimostrato che sarebbe in grado di rispettare gli attuali standard. Questo particolare calcestruzzo veniva chiamato opus caementicium in lingua latina.
L'acquedotto venne usato per 180 anni, dall'80 al 260, richiedendo manutenzione continua, miglioramenti, pulizia e raschiatura dei depositi di calcare. I lavori di manutenzione erano facilitati da pozzi disposti a distanza regolare, attraverso i quali gli operai scendevano nell'acquedotto. Altri pozzi vennero costruiti nei punti in cui si effettuavano delle riparazioni e nei punti di confine tra diversi lotti di costruzione. C'erano anche piscine nei punti in cui varie sorgenti si univano al corso principale, in modo che i manutentori potessero tenere sott'occhio le aree problematiche.
Nei chilometri che precedevano l'antica città, l'acquedotto lasciava il terreno supportato da un ponte alto circa 10 metri. Questa costruzione permetteva all'acqua di essere consegnata anche alle zone cittadine sopraelevate tramite tubi pressurizzati. I tubi del tempo erano costruiti con lastre di piombo piegate ad anello, saldate o con flange che permettevano di unire porzioni diverse. I romani usavano arnesi in bronzo come rubinetti.
L'acqua arrivava alle varie fontane pubbliche cittadine, sempre in funzione. La rete di fontane era talmente fitta che nessun cittadino doveva fare più di 50 metri per prelevare l'acqua. Inoltre varie abitazioni e bagni pubblici, come i sanitari pubblici, erano riforniti di acqua. L'acqua persa era raccolta in una rete di canali che scorreva sotto la città portando fino al Reno. Una parte del sistema fognario è aperto ai turisti sotto via Budengasse, a Colonia.
L'acquedotto Eifel venne distrutto dalle tribù germaniche nel 260, durante un attacco a Colonia, e non venne mai più rimesso in funzione, anche se la città continuò ad esistere. Nel corso della migrazione di varie tribù attraverso la regione, la tecnologia degli acquedotti cadde in disuso. L'intero acquedotto rimase interrato per 500 anni, finché i Carolingi iniziarono una nuova costruzione nella valle del Reno. Dal momento che questa zona era particolarmente povera di pietre, l'acquedotto divenne una fonte di materiale edile. Sezioni intere dell'acquedotto vennero usate per costruire varie mura nella valle del Reno, ad esempio. Alcune di queste sezioni sono tuttora coperte dall'intonacatura che ricopriva l'acquedotto. Tutte le parti esposte dell'acquedotto, e buona parte di quelle interrate, vennero usate durante il Medioevo per altre costruzioni.
In particolare era ricercato il calcare situato all'interno. Durante gli anni in cui l'acquedotto venne usato, alcuni tratti si ricoprirono di strati di calcare spessi fino a 20 cm. Il materiale aveva una consistenza simile al marmo rosso, ed era facilmente estraibile. Dopo la lucidatura mostrava venature, e poteva essere usato per tavole di pietra una volta tagliato. Queste pietre artificiali vennero usate per tutta la valle del Reno, ed era particolarmente popolare per la costruzione di colonne, infissi ed altari. Si trovano prove dell'uso di "marmo Eifel" molto ad est, fino a Paderborn e Hildesheim, dove vennero usati nella costruzione delle cattedrali. La Cattedrale di Roskilde, in Danimarca, è il punto più settentrionale raggiunto da questo materiale, sotto forma di pietre tombali.
Secondo una leggenda medievale l'acquedotto rappresentava un passaggio sotterraneo da Treviri a Colonia. Secondo la leggenda il diavolo scommise con l'architetto del Duomo di Colonia che sarebbe riuscito a costruire questo passaggio prima del termine della sua costruzione. L'architetto accettò la scommessa e fece lavorare duramente i suoi sottoposti. Un giorno la costruzione del Duomo causò la rottura dell'acquedotto, e si vide l'acqua scorrere al suo interno. Si dice che il diavolo costrinse poi l'architetto a suicidarsi saltando dal campanile incompleto della cattedrale. Si crede che la morte dell'architetto (e non la mancanza di fondi) fu la causa di un ritardo secolare nel suo completamento.
Un po' di scritti medievali sull'acquedotto non riescono a spiegarne il motivo della costruzione. Secondo alcuni non trasportava acqua in città, ma vino; è questo il caso del Gesta Treverorum di Maternus, vescovo di Colonia (IV secolo), e del Hymn to Saint Anno dell'XI secolo.
Il Römerkanal-Wanderweg (percorso escursionistico dell'acquedotto Eifel) percorre circa 100 km lungo il percorso originario da Nettersheim a Colonia. I collegamenti del trasporto pubblico sono buoni, e permettono di fare a piedi diversi tratti. Può essere usato anche come pista ciclabile. Ci sono circa 75 stazioni informative lungo il percorso, fornendo un'ottima vista dell'acquedotto.
Ricerche archeologiche vennero svolte sull'acquedotto Eifel a partire dal XIX secolo. CA Eick fu lo scopritore della sorgente più distante da Colonia, la Grüner Pütz presso Nettersheim (nel 1867). Studi sistematici vennero svolti tra il 1940 ed il 1970 da Waldemar Haberey. Il suo libro del 1971 è ancora un'ottima guida lungo tutto il percorso. Nel 1980 l'archeologo Klaus Grewe ne completò la mappatura aggiungendola alla mappa catastale ufficiale tedesca. Il suo Atlas der römischen Wasserleitungen nach Köln (Atlante degli acquedotti romani di Colonia) è molto utilizzato dai ricercatori specializzati in architettura romana.
L'Eifel è un sito di alto valore archeologico, particolarmente per lo studio della topografia romana, della loro abilità organizzativa, e della conoscenza ingegneristica. È anche un simbolo struggente della perdita della conoscenza durante il declino della civiltà tra il Medioevo e l'era moderna, in cui il miglior uso trovato per l'acquedotto fu quello di cava di pietre. Il livello raggiunto dalla tecnologia romana in questa zona non è stato più eguagliato prima del XIX-XX secolo

(nelle foto, dall'alto in basso:
- piccola sezione dell'acquedotto conservata a Buschhoven, vicino a Bonn
- acquedotto ricostruito nei pressi di Mechernich-Vussem
- la sorgente di Grüner Pütz che contiene una piscina romana
- pozzo attraverso il quale il personale della manutenzione poteva entrare nel canale
- parte di acquedotto a Euskirchen Kreuzweingarten che mostra la formazione di carbonato di calcio sul fianco del canale  
- colonna della chiesa dei Santi Chrysanthus e Daria, a Bad Münstereifel, che venne scolpita con il calcare estratto dai depositi dell'acquedotto
)  

Museo archeologico di Brėst - BIELORUSSIA

 

Il Museo archeologico di Brėst, in Bielorussia, conserva un sito archeologico relativo a un'antica città slava orientale costruita in legno risalente al XIII secolo.
Si estende su 1800 metri quadrati a una profondità di 4-7 metri ed è stato scavato dagli archeologi dell'Accademia delle scienze bielorussa tra il 1968 e il 1981, sotto la supervisione di P. F. Lysenko.
Nel 1982, a protezione del sito è stata eretta una copertura in cemento, vetro e alluminio a forma di tetto a falde. Il museo è stato inaugurato il 2 marzo 1982.
Le esposizioni del museo hanno conservato interi quartieri residenziali e pavimentazioni stradali, 28 capanne di tronchi, una recinzione, i resti di fornaci di argilla, oltre a più di 1400 manufatti risalenti tra il X ed il XIV secolo portati alla luce durante gli scavi archeologici. Tra i pezzi più significativi, sono esposti uno stemma unico del XIII secolo con lettere in cirillico intagliate, uno scrittoio in legno cerato, fermagli per libri, pedine degli scacchi, una barca in osso e legno, icone, croci e un cucchiaio per la comunione; sono conservati articoli per la casa più comuni, tra cui vasche di legno, secchi, bilancieri e una ruota di un carro, sci, timoni e remi. Nel museo si possono anche vedere le scarpe e gli stivali originali indossati dalla gente di Brest in quei tempi lontani.

Museo archeologico regionale di Plovdiv - BULGARIA

 

Il Museo archeologico regionale di Plovdiv è una delle prime istituzioni culturali bulgare, inaugurato nel 1882. Possiede una delle più ricche collezioni di 100.000 reperti del patrimonio culturale di Plovdiv e del suo territorio. Il museo custodisce uno dei tesori traci di maggior rilievo e importanza della Bulgaria.
Composto da oggetti in oro che appartenevano a un sovrano trace sconosciuto della tribù Odrisi che regnava alla fine del IV secolo e l'inizio del III secolo a.C., prodotto a Lampsaco città dell'Asia Minore, è composto da un set di nove oggetti d'oro per riti cerimoniali con un peso complessivo di 6,100 kg. Il set comprende una phiale (un piatto) e otto rhyta (contenitori) di forme diverse: zoomorfe (a testa di cervo e ariete) e antropomorfe (a testa di amazzone). Il tesoro è stato rinvenuto nel 1949 in una tomba trace vicino alla città di Panagyurishte in provincia di Plovdiv. Inoltre il museo espone una ricca e variegata collezione di antiche opere d'arte greca, romana e bizantina.
La Collezione d'arte antica greca è costituita da ceramiche a figure nere e a figure rosse, rinvenute durante gli scavi nelle numerose tombe trace scoperte sul territorio, nonché di oggetti d'argento (kanthari, phialai e skyphoi) decorati con figure dorate e raffiguranti scene mitologiche. La collezione comprende anche diversi oggetti d'oro fra cui numerosi monili (gioielli) e accessori d'abbigliamento femminili.
La sezione dedicata all'arte romana include più di 1000 reperti provenienti da Filippopoli e dalle varie regioni della Tracia: oltre 200 statuette di bronzo di idoli, più di 100 ornamenti di bronzo di carri, mobili, vasi di bronzo vari, teste-ritratto in marmo, alcuni facenti parte di statue di personaggi della vita reale della città che decoravano l'anfiteatro e i grandi edifici di uso religioso o civile del I - IV sec., torsi di idoli adorati, lapidi, sarcofagi ed epitaffi provenienti dalle necropoli della città, fregi-architrave riccamente decorati, colonne e capitelli antichi dello stadio romano di Filippopoli, pilastri, mosaici e diversi oggetti in terracotta.

Dama di Auxerre - FRANCIA

 
La Dama di Auxerre è una scultura greca in calcare conchiglifero del VII secolo a.C. conservata nel Museo del Louvre di Parigi. La sua provenienza originaria è sconosciuta: fu acquistata nel 1895 da un impresario teatrale di Auxerre, che la cedette in seguito al locale museo. Venne ritrovata nei depositi del museo nel 1907 da Maxime Collignon, curatore del Museo del Louvre, al quale venne ceduta nel 1909.
Fu in seguito attribuita alla scuola dedalica cretese e datata tra il 650 e il 625 a.C.
La scultura rappresenta una figura femminile nella posizione dell'offerente (kore, dal greco, significa "ragazza" in italiano), è raffigurata in piedi, con i piedi uniti e con la mano destra al petto in un gesto di preghiera e la sinistra distesa lungo il fianco. Indossa il peplo, stretto in vita da un'alta cintura e con le spalle coperte da una mantellina. La veste era in origine decorata in policromia (tracce di colore rosso sono ancora presenti sul busto), sulla base di un disegno reso con sottili incisioni sulla superficie della pietra.
Secondo lo stile della scultura (scultura dedalica), segue uno schema rigidamente frontale e la struttura corporea scompare nascosta dalla pesante veste. Il volto si presenta di forma triangolare, incorniciato dai due simmetrici triangoli della capigliatura, con grandi occhi spalancati. Conserva la vita sottile delle sculture minoiche, mentre la forma della capigliatura rivela influssi della scultura egizia.
Negli anni novanta alcuni frammenti analoghi scoperti negli scavi di Eleutherna (necropoli di Orthi Petra) hanno contribuito a definirne l'originario luogo di provenienza.


(a destra, un calco con la ricostruzione dell'originaria policromia della scultura presso l'Università di Cambridge)

Antinoo Mondragone - FRANCIA

 
L'Antinoo Mondragone è la scultura (del II secolo d.C.) di una testa alta 95 cm e largo 37 costituita da un unico blocco di marmo bianco; rappresenta l'iconografia di Antinoo, il ragazzo amato dall'imperatore romano Adriano e da questi portato in apoteosi dopo la sua morte, avvenuta nel 130 d.C. per annegamento sul fiume Nilo. È conservata nel Louvre.
Il soggetto può essere facilmente identificato dalle peculiari caratteristiche di tutte le sue raffigurazioni: sopracciglia striate, labbra carnose, espressione accigliata e quasi cupa con torsione della testa in basso verso destra, il che ricorda molto la statua di Athena Lemnia; mentre la pelle liscia e fortemente elaborata e l'acconciatura dei capelli è del tutto simile alle immagini ellenistiche di Dioniso e Apollo.
Faceva originariamente parte di un'immagine di culto o idolo, oppure di un acrolito colossale, utilizzato per il culto rivolto al ragazzo-dio; 31 fori di tre differenti dimensioni servivano probabilmente per il fissaggio di un oggetto sul suo capo, forse una corona dionisiaca o un ureo di metallo, avorio o pietra colorata. Negli occhi dovevano essere inserite delle pupille di marmo e pietre dure.
I resti sono stati ritrovati a Frascati tra il 1713 e il 1729 e subito inseriti come parte della collezione Borghese a Villa Mondragone. Johann Joachim Winckelmann ne fece presto conoscere la testa al grande pubblico, lodandola nella sua "Storia dell'arte antica", definendola gloria e corona dell'arte di quest'età, di una freschezza immacolata che pare provenire direttamente dalle mani dell'artista.
«La testa colossale di Mondragone è sì intera che sembra ora uscita dalle mani dello scultore, e sì bella che io non credo di troppo dire, se la chiamo, dopo l’Apollo di Belvedere e ’l Laocoonte, il più bel monumento dell’arte che siaci rimasto. Se fosse permesso averne copia in gesso, dovrebbe l’artista studiarlo come uno de’ più sublimi modelli di beltà; poiché le forme colossali, richiedendo un grande artefice, il quale sappia per dir così oltrepassare i limiti della natura, ci danno una prova dell’abilità del disegnatore, senza tuttavia perdere ne’ grandi contorni la morbidezza e ’l dolce passaggio da una all’altra forma. Oltre la bellezza delle sembianze i capelli sono in tal maniera lavorati, che nulla v’è di simile in tutti gli avanzi dell’antichità. Ho parlato altrove degli occhi incastrativi» (Winckelmann, Storia delle Arti del Disegno presso gli Antichi)
Nel 1807 è stato acquisito dall'imperatore dei francesi Napoleone Bonaparte, assieme a gran parte delle collezioni appartenenti alla famiglia Borghese e alle altre opere oggetto di spoliazioni napoleoniche. Ne venne in seguito aggiunto provvisoriamente uno strato di cera marrone per darne una finitura opaca, assieme ad un nuovo strato di gesso attorno alla base del collo per darne l'apparenza di un busto completo; entrambi furono poi rimossi durante i lavori di restauro e pulizia.

Diana di Gabi - FRANCIA

 


La Diana di Gabi è una statua del IV secolo a.C. Alta 1,65 metri raffigurante una donna avvolta in un drappeggio; con molta probabilità rappresenta la dea Artemide, ed è tradizionalmente attribuita a Prassitele. In passato era parte della collezione Borghese ed è conservata presso il Museo del Louvre. La statua fu scoperta nel 1792 da Gavin Hamilton, nelle proprietà del principe Marcantonio IV Borghese nei pressi di Roma, dove in antichità sorgeva la città di Gabi, e fu immediatamente inserita nella collezione del principe. Nel 1807, a causa di difficoltà finanziarie, il principe Camillo II Borghese, figlio di Marcantonio, fu costretto da Napoleone a vendere alla Francia 344 opere provenienti dalla collezione Borghese. Dal 1820 la Diana di Gabi è quindi in mostra al Louvre.
La statua divenne molto popolare nel XIX secolo: un calco in gesso fu collocato al Club Athenaeum di Londra; una copia marmorea era presente tra le riproduzioni di statue antiche volte a decorare la Cour Carrée, la Corte Quadrata del Louvre, e una sua copia decorava una fontana nel comune francese di Grancey-le-Château-Neuvelle, nella Côte-d'Or. Inoltre, riproduzioni in scala ridotta venivano realizzate e poi vendute agli appassionati d'arte.
La giovane donna è rappresentata a grandezza maggiore di quella naturale. Il peso del corpo è scaricato sulla gamba destra, rinforzata con un ceppo d'albero; la gamba sinistra, invece, non contribuisce in alcun modo a sostenere la figura: il piede sinistro, infatti, ha il tallone rialzato e le dita rivolte verso l'esterno.
La statua è generalmente identificata come Artemide, dea della verginità, della caccia e delle selve, esclusivamente per via delle sue vesti. Indossa, difatti, un chitone non particolarmente lungo con ampie maniche, tipico della dea. Il chitone è legato da due cinturini, uno visibile attorno alla sua vita, l'altro invece nascosto, i quali trattengono parte del tessuto, accorciando il chitone e mostrando le ginocchia. La dea è rappresentata nell'atto di fissare con una spilla il suo mantello: la mano destra stringe una fibula e tiene sollevata una piega del vestito sulla spalla destra, mentre quella sinistra trattiene un'altra piega del vestito all'altezza del petto. Il movimento fa cadere il colletto del chitone, lasciando scoperta la spalla sinistra.
La testa è lievemente rivolta a destra, ma la dea non presa attenzione su ciò che sta facendo. Al contrario, il suo sguardo volge all'ambiente che la circonda, caratteristica tipica delle statue classiche. La sua chioma fluente è tirata indietro da una fascia legata al di sopra del collo, poi raccolti in una crocchia contenuta da un secondo nastro non visibile.
Stando a quanto scrive Pausania, Prassitele creò la statua di Artemide Brauronia per l'Acropoli di Atene. Gli inventari del tempio, datati al 347-346 a.C., fanno menzione di una "statua dedicata", descrivendola come raffigurante la dea in un chitoniskos. È anche noto che il culto di Artemide Brauronia prevedesse anche la consacrazione di capi offerte dalle fanciulle.
La statua di Prassitele è stata a lungo associata alla Diana di Gabi: la dea appare nell'atto di indossare il dono dei suoi devoti. In aggiunta, la testa ricorda molto quelle dell'Afrodite cnidia e dell'Apollo sauroctono, entrambi attribuiti a Prassitele. D'altro canto, l'identificazione della statua è stata messa in discussione per diversi aspetti. Innanzitutto, per quanto riguarda gli inventari scoperti ad Atene, è stato dimostrato si tratti di copie di quelli riguardanti il santuario principale a Braurone e non è quindi certo che il culto ad Atene includesse anche la consacrazione delle vesti. Inoltre, il chitone corto è anacronistico per il IV secolo a.C., suggerendo quindi una collocazione ellenistica. Infine, una recente ipotesi mette in relazione la statua di Artemide Brauronia con una testa presente al Museo dell'agorà antica di Atene, nota come Testa Despinis.
La Diana di Gabi è nondimeno considerata un'opera di impressionante qualità e si adegua a quello che è comunemente considerato lo stile prassitelico, portando alcuni studiosi a continuare a reputare la statua opera di Prassitele o uno dei suoi figli.

Stele della vittoria di Esarhaddon - GERMANIA

 
La Stele della vittoria di Esarhaddon (anche noto come Zenjirli o Zincirli) è una stele di dolerite che celebra il ritorno di Esarhaddon dopo la sua seconda campagna vittoriosa sul faraone Taharqa d'Egitto nel 671 a.C. Fu scoperta nel 1888 a Zincirli Höyük (Sam'al, o Yadiya) da Felix von Luschan e Robert Koldewey. Ora è nel Pergamon Museum di Berlino.
Nel 674 a.C., Taharqa d'Egitto ed Esarhaddon d'Assiria si erano affrontati una prima volta dopo l'incursione assira nel Levante: Esarhaddon era penetrato nel nord dell'Egitto ma era stato respinto dalle forze di Taharqa.
La seconda campagna assira del 671 a.C. arrise invece ad Esarhaddon che costrinse Taharqa a ritirarsi con il suo esercito a Menfi e poi a fuggire nel natio Kush. Con la vittoria di Esarhaddon: "massacrò gli abitanti del villaggio e 'eresse mucchi delle loro teste". Come scrisse in seguito Esarhaddon:
«Menfi, la sua città reale, in mezza giornata, con mine, tunnel, assalti, ho assediato, catturato, distrutto, devastato, bruciato con il fuoco. La sua regina, il suo harem, [il principe] Ushankhuru il suo erede, e il resto dei suoi figli e figlie, i suoi beni e le sue merci, i suoi cavalli, il suo bestiame, le sue pecore in innumerevoli numeri, li portai in Assiria. La radice di Kush l'ho strappata dall'Egitto»
(Stele della vittoria di Esarhaddon)
La stele mostra Esarhaddon in piedi sulla sinistra in posa onorifica. Ha una mazza da guerra nella mano sinistra, insieme a una corda che termina in un anello che passa per le labbra dei due re conquistati inginocchiati davanti a lui. La sua mano destra si rivolge agli dei. Scritti cuneiformi coprono l'intera scena del bassorilievo.
L'identità del supplicante alla destra di Esarhaddon è ancora oggetto di dibattito: potrebbe essere il re di Tiro Baal I, menzionato nel Trattato di Esarhaddon con Ba'al di Tiro, o il re di Sidone Abdi-Milkutti. La figura inginocchiata tra i due è il principe Ushankhuru di Kush con una corda legata al collo; altri ritengono potrebbe essere lo stesso Faraone Taharqa poiché indossa la tiara dell'ureo precipua del sovrano egizio.








Cultura della ceramica cardiale - EUROPA

 
La cultura della ceramica cardiale è una facies archeologica neolitica caratterizzata dallo stile della sua decorazione ceramica, ottenuta mediante l'impressione della conchiglia di un mollusco della famiglia Cardiidae (Cerastoderma edule o Cerastoderma glaucum). La sua diffusione fu prevalentemente nel bacino occidentale del Mediterraneo, dalle coste adriatiche dei Balcani a quelle del Portogallo e a sud fino al Marocco.
Nella sua evoluzione, le decorazioni impresse furono realizzate anche con altre tecniche: per questo motivo si parla anche di cultura della ceramica impressa.
I predecessori di questa cultura sono stati individuati sia in Tessaglia, prima della fioritura della cultura di Sesklo, sia in Libano presso Byblos.
Le sue tracce più antiche sono state individuate nell'Epiro e a Corfù, alla fine del VII millennio a.C., in insediamenti in grotta di genti che praticavano un'economia di caccia e raccolta e avevano acquisito della rivoluzione neolitica esclusivamente l'uso della ceramica. Nel corso del millennio venne integralmente adottato lo stile di vita neolitico, con la pratica dell'agricoltura (cereali) e dell'allevamento (capre, pecore e mucche) e la costruzione di villaggi: in questo periodo si diffuse la decorazione della ceramica cardiale vera e propria. Alla fine del millennio le tecniche ceramiche decaddero.
Nel corso del suo sviluppo questa cultura mostrò grandi capacità marinare: si trovano infatti resti di specie che possono essere pescate solo in mare aperto e l'abilità di queste genti nella navigazione si mostrò nella loro capacità di irradiarsi progressivamente sulle coste del Mediterraneo.
La prima espansione si ebbe verso la Puglia, e quindi in altre aree dell'Italia meridionale e in Sicilia, da dove la cultura della ceramica cardiale si espanse verso il Lazio, la Toscana, la Sardegna la Corsica e la Liguria, contemporaneamente genti di questa cultura colonizzarono anche via terra l'Italia settentrionale, fino a stabilire alcuni isolati insediamenti sulle coste provenzali. Nel V millennio a.C. aveva raggiunto la Francia sudorientale e la Spagna orientale. Da qui si espanse ancora verso nord lungo la valle del Rodano e verso ovest lungo la valle dell'Ebro. Ebbe influenza anche sul lento sviluppo delle prime culture neolitiche sulle coste atlantiche e alcuni monumenti megalitici dell'Europa nord-occidentale sono associati con resti archeologici che comprendono ceramica e altri manufatti di questa cultura.
Nei secoli successivi, le diverse culture mediterranee ebbero ciascuna proprie evoluzioni autonome, che nell'Europa occidentale sono generalmente etichettate come culture della ceramica epi-cardiale. Nell'Italia settentrionale si sviluppò a partire da questa la cultura del vaso a bocca quadra e nei Balcani si divisero il territorio le culture locali di Hvar, di Lisicici e di Butmir.
L'espansione avvenne attraverso spostamenti massicci di popolazioni dall'area egeica che soppiantarono o si amalgamarono con i cacciatori-raccoglitori occidentali. Le popolazioni moderne che risultano più affini alle popolazioni della ceramica cardiale sono i baschi e i sardi. È associata inoltre all'introduzione dell'agricoltura e della ceramica cardiale e lineare la presenza in Europa dell'aplogruppo G del cromosoma Y e della sua subclade G2a, in particolare in Tessaglia, nei Balcani, nella Penisola italiana, in Sardegna, in Corsica, nelle coste meridionali della Penisola iberica, nella Provenza e nell'Arco Alpino, aplogruppo correlato alle popolazioni del Caucaso occidentale, e dell'Anatolia neolitica.




Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...