sabato 13 gennaio 2024

Statua di Coatlicue - MESSICO


La statua di Coatlicue è una statua alta 2,7 metri fabbricata in andesite, e raffigurante la dea azteca dea Coatlicue ("donna-serpente"). Attualmente si trova esposta presso il Museo nazionale di antropologia di Città del Messico.
Sulla parte inferiore della statua, non normalmente visibile, si trova un'incisione di Tlaltecuhtli ("signore della terra").
La statua venne scoperta nella piazza principale di Città del Messico il 13 agosto 1790. Poco lontano, il 17 dicembre fu rinvenuto anche la Piedra del Sol (noto solitamente come "calendario di pietra azteco").
Il primo studioso ad esaminare la statua fu Antonio de León y Gama, che sbagliò ritenendola una raffigurazione di "Teoyamiqui" (ovvero Teoyaomiqui). Creoli ed europei ritenevano orribile la statua, un mostro deformato. D'altra parte gli indiani messicani iniziarono ad adorarla, facendo pellegrinaggi con candele ed ornandola con fiori. Per evitarlo, la statua fu sepolta nel patio dell'Università del Messico, dove sarebbe rimasta nascosta.
La statua fu disseppellita nel 1803, in modo che Alexander von Humboldt potesse disegnarla al fine di forgiarne una copia, dopodiché sarebbe stata sepolta di nuovo. Fu riportata alla luce per la seconda volta nel 1823, quando anche William Bullock volle copiarla, ed esporre la sua opera nella Sala Egizia di Piccadilly, Londra, nel corso della mostra che organizzò intitolandola Ancient Mexico.
Un'altra statua, chiamata Yolotlicue ("gonna-cuore"), fu scoperta nel 1933. Nonostante fosse seriamente danneggiata, era identica a quella di Coatlicue tranne che per il fatto di avere una gonna fatta di cuori invece che di serpenti. Esistono anche due frammenti di una statua simile, il che fa ipotizzare che queste opere facessero parte di un gruppo più nutrito.




Atleta di Fano - STATI UNITI

 


L'Atleta di Fano, Atleta vittorioso, Atleta che si incorona o Lisippo di Fano, conosciuto negli Stati Uniti anche come Victorious Youth (Giovane vittorioso), è una scultura bronzea, datata tra il IV e il II secolo a.C., attribuita, su base esclusivamente stilistica, allo scultore greco Lisippo o a un suo allievo.
Il bronzo fu ripescato casualmente al largo di Fano, il 14 agosto 1964, da un peschereccio italiano e fu acquistato dal Getty Museum di Malibù nel 1977. La storia critica ebbe inizio nel 1978 con la pubblicazione di Jiri Frel che attribuì l'opera a Lisippo, attribuzione contestata a partire dal 1983 da Frédéric Louis Bastet e nel 1993 da Luigi Todisco i quali preferirono assegnare il bronzo ad ambito lisippeo piuttosto che al maestro stesso.
Le dimensioni della statua sono in altezza (misurata dal capo al polpaccio, dato che i piedi non sono presenti) 151,5 cm, in larghezza 70,0 cm e in profondità 28,0 cm. Quindi le dimensioni erano proporzionate al vero.
Il giovane atleta è rappresentato in nudità eroica. La statua si presenta con la base mancante sino all'altezza delle caviglie, forse i piedi si sono staccati nel momento in cui la statua si è impigliata nella rete del peschereccio che ne ha effettuato il recupero, ma non è escluso che la rottura sia da ricondurre in età antica al momento del naufragio della nave che trasportava l'opera verso occidente. Gli occhi, mancanti, furono probabilmente realizzati separatamente in pietra colorata o pasta vitrea e inseriti a fusione ultimata, mentre i capezzoli sono in rame.
Anche se la parte inferiore ai polpacci è mancante, dalla postura della statua si deduce che il piede ponderale, quello su cui la statua scarica il peso, è il destro. Mentre la gamba destra è diritta, la gamba sinistra è leggermente piegata in avanti e sembra che il piede sinistro poggiasse in punta. L'asse del tronco ha una conformazione a S, il collo ripiega verso destra con la testa che, in opposizione, ricade verso sinistra, ossia verso il lato a riposo, come è tipico nella costruzione antitetica delle figure lisippee. Lo sguardo, con espressione fiera ma composta, sembra rivolgersi diritto avanti a sé ad altezza d'uomo.
Mentre il braccio sinistro si distende lungo il fianco, il braccio destro è alzato, con il gomito all'altezza della spalla e la mano all'altezza della fronte. Questo gesto è stato interpretato come l'atto, appena compiuto, di incoronarsi con la corona del vincitore, apparentemente quella in olivo selvatico usata per i vincitori a Olimpia. Indice e medio sono infatti appena scostati e in opposizione del pollice, mentre anulare e mignolo sono ripiegati su sé stessi. I capelli corti sono raggruppati in ciocche fluenti e ondulate che si dipartono uniformemente verso destra e sinistra a partire dall'altezza dell'occhio sinistro.
La struttura rigorosamente geometrica dell'opera, riscontrabile nell'anatomia del corpo e del viso, rimanda ad ambiente peloponnesiaco e sicionio in particolare. L'impostazione antitetica delle due metà del corpo conduce a Lisippo e alla sua scuola. Si rileva, da parte degli studiosi che attribuiscono l'opera a un allievo, la non corrispondenza delle proporzioni dell'atleta con le più frequenti proporzioni riscontrabili nelle opere di Lisippo. Gli studiosi che datano invece la statua a una fase di elaborazione nella carriera di Lisippo, intorno al 340 a.C., immediatamente precedente l'Agias, ritengono di poter desumere l'attribuzione, con una qualche certezza, dal pentimento in corso d'opera visibile all'altezza del collo, che ne ha allungato la misura, segno del lavoro di un maestro tendente a modificare e rinnovare canoni preesistenti, e non di un discepolo.
La scultura avrebbe potuto far parte di un gruppo scultoreo-celebrativo di alcuni atleti vittoriosi, posto in un santuario greco-panellenico come a Delfi o Olimpia. A questo proposito è interessante notare che le analisi delle fibre trovate internamente alla statua hanno rivelato la presenza di lino; dal geografo Pausania il Periegeta ci è noto che nel II secolo d.C. l'unico luogo in cui cresceva il lino in Grecia era attorno ad Olimpia.
L'ipotesi dell'appartenenza della statua a un gruppo è stata avanzata anche da Antonietta Viacava che, evidenziando la minore elaborazione del lato sinistro della statua, ha immaginato la presenza di una seconda figura: un giudice, che avrebbe incoronato il giovane secondo un'iconografia diffusa, mentre quest'ultimo con la mano destra avrebbe potuto semplicemente indicare la corona o accingersi a sistemarla. Riproposizioni più tarde del tipo (su monete del II secolo a.C. e soprattutto nella Stele di Plauzio, proveniente dal Pireo e ora al Musée archéologique de Nice-Cimiez) mostrano anche la presenza del ramo di palma nella mano sinistra dell'atleta, attributo del quale resta traccia nell'incavo interno del braccio. Ancora a Viacava si deve l'ipotesi dell'identificazione del giovane con Seleuco Nicatore, ipotesi che concorda con una datazione al 340 a.C. e con la forte caratterizzazione del volto.
La statua è stata realizzata con la tecnica della fusione a cera persa, cioè con un modello positivo cavo in cera a perdere, su cui veniva appoggiata la terra da fonderia che creava il negativo, all'atto della colata la cera evapora per l'alta temperatura del metallo e lascia spazio a questo. Questa tecnica permetteva un'ottima modellabilità e la possibilità di rifinire minuziosamente i particolari, oltre che di ottenere superfici accuratamente levigate. Con questa tecnica non si poteva ottenere la statua in un'unica colata ma le varie parti, come tronco, testa, braccia e gambe, venivano realizzate separatamente e solo successivamente unite per saldatura.
La lega metallica utilizzata è un bronzo con la seguente composizione: rame 89%, stagno 10,7% e piccole percentuali di piombo, arsenico e cobalto.
Tracce della terra da fonderia a volte permangono all'interno del fuso e le analisi chimiche permettono di conoscere la composizione della terra e quindi ipotizzare con buona approssimazione il luogo in cui la statua è stata formata e colata. A volte, nella terra da fonderia rimangono incluse anche piccole parti organiche come ossi o, come successo in questo caso, gusci di nocciole e noccioli di olive, che hanno permesso l'analisi e la datazione con il metodo del carbonio-14. Allo stato attuale delle conoscenze è comunemente accettata la datazione tra la fine del IV secolo a.C. e il II secolo a.C. ricavata con questo metodo. Non si può restringere ulteriormente questo intervallo temporale a causa dell'incertezza di misura intrinseca del metodo.
Questo elemento cronologico e soprattutto considerazioni di tipo stilistico hanno portato la statua ad essere forse attribuibile allo scultore greco Lisippo. Già nella sua prima ispezione Bernard Ashmole e altri studiosi l'attribuirono a Lisippo, grande nome della storia dell'arte greca. Il metodo attuale considera meno importante l'attribuzione tradizionale dell'opera rispetto al contesto sociale in cui è stata concepita: il luogo dove è stata modellata, per quale scopo e chi doveva rappresentare.
L'ipotesi più accreditata è che in antichità la statua sia naufragata nel medio Adriatico insieme alla nave che la stava trasportando dalla Grecia verso la penisola italiana, probabilmente puntava al porto di Ancona. Essa fu rinvenuta nell'estate del 1964 nel mare Adriatico al largo di Fano catturata dalle reti del peschereccio italiano "Ferruccio Ferri".
Il luogo del ritrovamento del bronzo, a sentire le testimonianze dei pescatori, è una zona del mar Adriatico chiamata "Scogli di Pedaso", ma di questo non c'è stata certezza per molti anni: in particolare, si è molto discusso se l'oggetto fosse stato ritrovato in acque italiane o internazionali.
Comunque sia l'esportazione è stata illegale secondo le leggi dell'epoca, in particolare la legge 1089/39, che stabilisce che i beni archeologici ritrovati sono di proprietà dello Stato italiano. Infatti, nel primo caso il reperto apparterrebbe allo Stato italiano, nel secondo caso essendo l'Atleta issato su un'imbarcazione battente bandiera italiana  e successivamente sbarcato a Fano, in Italia, sarebbe dovuto ricadere sotto la legislazione italiana che impedisce l'esportazione di opere archeologiche e avrebbe dovuto essere soggetto all'obbligo di notifica al ministero competente (in questo caso il Ministero della cultura).
Sul motopesca italiano si trovavano il capobarca Romeo Pirani, i tre marinai Derno Ferri (motorista), Athos Rosato (murea) e Durante Romagnoli (marò), inoltre Valentino Caprara, Nello Ragaini e Benito Burasca. L'armatrice era la signora Valentina Magi.
Athos Rosato ha confermato quanto sempre sostenuto dal capobarca Pirani, cioè che la statua è stata ritrovata a «circa 43 miglia a levante del monte Conero e circa 27 miglia dalla costa croata, un punto di mare chiamato "Scogli di Pedaso"» «In quel tratto, secondo il mozzo, la profondità del mare era circa di 43-44 braccia», cioè a circa 75 metri di profondità.
La rete si è impigliata nelle braccia della statua, che è stata sollevata dal fondo del mare; probabilmente i piedi, verosimilmente incastrati o insabbiati, si sono staccati in quest'occasione per lo strattone ricevuto.
Successivamente, la statua è stata trasportata su un carretto e riposta in un sottoscala nella casa della proprietaria della barca Valentina Magi, nei giorni successivi molte persone poterono vederla. Così i pescatori, preoccupati che la voce si spargesse e di un'eventuale ispezione della Guardia di Finanza, chiesero e ottennero di nascondere la statua, sotterrandola in un campo coltivato a cavoli di proprietà di Dario Felici, un loro amico.
Lo stesso Berardi racconta che, al momento del dissotterramento della statua dal campo di cavoli, si staccò una concrezione che fu regalata a Elio Celesti, professionista e politico fanese, il quale, su segnalazione di Berardi, la consegnò al procuratore della Repubblica di Pesaro Savoldelli Pedrocchi. Le analisi di questa concrezione hanno dimostrato che è stata a contatto con una lega metallica di stagno e rame, cioè bronzo.
La notizia del ritrovamento di un'antica statua arrivò a Pietro Barbetti, un industriale di Gubbio, che l'acquistò per 3.500.000 lire. In seguito, la statua fu portata da Pietro Barbetti e da Fabio Barbetti nella canonica di don Giovanni Nargni e qui custodita per diverso tempo. Questa circostanza, confermata poi dal sacerdote stesso, è stata notata dalla perpetua di don Nargni, che denunciò anonimamente il fatto ai Carabinieri, quali intervennero. Si arrivò a un processo, con l'accusa di acquisto e occultamento di un'antica opera d'arte a danno dello Stato italiano. Accusati furono Pietro Barbetti, con i parenti Fabio e Giacomo Barbetti, e il prete Giovanni Nargni. In primo grado furono assolti per insufficienza di prove, in secondo grado la Corte di Appello condannò i Barbetti a 4 mesi di reclusione e don Nargni a 2 mesi. Poi la Cassazione rimise i 4 nuovamente al giudizio della Corte d'Appello, che li assolse con formula piena.
La statua nel frattempo era già stata venduta da Giacomo Barbetti, cugino di Pietro, a un antiquario milanese di cui non si conosce il nome. Secondo altre ipotesi, da confermare, la statua fu invece esportata in una cassa di medicinali verso una missione religiosa in Brasile, in cui operava un conoscente dei Barbetti.
La statua nel 1971 fu acquistata da Heinz Herzer, un commerciante di Monaco di Baviera aderente all'Artemis Group, e venne sottoposta alle prime analisi e a restauri. Nel 1974 l'esame del radiocarbonio datò la statua approssimativamente al IV secolo a.C. e fu attribuita per la prima volta a Lisippo.
Dopo alcune trattative e tentativi di offerta al mercato nero e una forte competizione contro il Metropolitan Museum of Art, fu acquistata nel 1977 dal Getty Museum per 3,98 milioni di dollari.
La statua è attualmente esposta alla Getty Villa di Malibù, California.

Grotte di Ajanta del Maharashtra - INDIA


Le grotte di Ajanta del Maharashtra, India, sono monumenti scavati nella roccia databili al II secolo a.C. che contengono dipinti e sculture considerati pietre angolari dell'arte religiosa buddhista e dell'arte pittorica monumentale. Le grotte si trovano subito fuori dal villaggio di Ajinṭhā nel distretto di Aurangabad (Maharashtra). Dal 1983 le grotte di Ajanta sono un patrimonio dell'umanità dell'UNESCO.
Secondo il National Geographic "la fede è il motivo per cui per secoli quasi tutti i templi buddhisti, compresi quelli di Ajanta, vennero costruiti sotto il comando ed il patrocinio dei re Hindu".
Le grotte si trovano in una scarpata a forma di zoccolo di cavallo, coperta da alberi e cespugli a circa 3,5 km dal villaggio di Ajanta. Si trova nel distretto di Aurangābād nello Stato di Maharashtra (106 chilometri dalla città di Aurangabad). Le città più vicine sono Jalgaon (60 km) e Bhusawal (70 km). In fondo alla scarpata scorre il Waghur, un ruscello di montagna. Ci sono 29 grotte (numerate in maniera ufficiale dall'Archaeological Survey of India), scavate sul versante meridionale del burrone. Sono scavate ad un'altezza variabile tra i 12 ed i 33 metri rispetto al fiume.
Il complesso monastico di Ajanta è composto da molti vihara (appartamenti monastici) e chaitya (stupa) scavati in due fasi. La prima fase viene chiamata Hīnayāna (riferendosi al Buddhismo Hinayana, dove il Buddha veniva pregato). Ad Ajanta le grotte 9, 10, 12, 13 e 15A (quest'ultima scoperta nel 1956 e non ancora ufficialmente numerata) vennero scavate durante questa fase. Gli scavi hanno venerato il Buddha sotto forma di stupa, o collinette.
La seconda fase degli scavi iniziò dopo una pausa di tre secoli. Questa fase viene solitamente chiamata, erroneamente, Mahayana (riferito alla scuola buddhista meno severa che incoraggia le rappresentazioni del Buddha attraverso dipinti e sculture). Alcuni preferiscono chiamare questa fase Vakataka, dal nome della dinastia regnante in quel periodo. La datazione di questa seconda fase è abbastanza controversa, ed è tuttora oggetto di discussione tra gli studiosi. Negli ultimi anni sembra essersi formato consenso sul V secolo. Secondo Walter M. Spink, uno dei maggiori studiosi di questa zona, gli scavi della fase Mahayana sarebbero stati fatti tra il 462 ed il 480 d.C. Le grotte create nella fase Mahayana sono quelle numerate come 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 11, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28 e 29. La 8 è stata ritenuta per molto tempo una grotta Hinayāna, ma recentemente è stata dimostrata la sua appartenenza alla Mahayana.
Esistono due chaitya-grihas risalenti alla fase Hinayana, le grotte 9 e 10. Le 12, 13 e 15A sono vihāras. Ci sono tre chaitya-grihas delle fasi Vakataka o Mahayana; 19, 26 e 29. L'ultima cava venne abbandonata poco dopo l'inizio della sua creazione. Il resto delle grotte sono viharas: 1-3, 5-8, 11, 14-18, 20-25 e 27-28.
Le viharas sono di diversa dimensione, fino ai 17 metri. Di solito sono di forma quadrata. Il loro stile è molto vario, alcune con semplici facciate, altre ornate; alcune mostrano una veranda. La sala è un elemento solitamente in stile viharas. Durante la fase i primi viharas non avrebbero dovuto contenere un reliquiario, visto che erano semplici camere residenziali. In seguito i reliquiari vennero introdotti con muri neri, che poi divennero una consuetudine. Nei reliquiari si trovava l'oggetto del culto, che spesso era l'immagine del Buddha spesso seduto nel dharmachakrapravartana mudra (il gesto di insegnare). Nelle grotte più recenti si trovano reliquiari sussidiari aggiunti sulle mura laterali, in veranda o sulla facciata. Le facciate di molti vihāras sono decorate con sculture, mentre muri e soffitti sono dipinti.
Le modifiche introdotte nel buddhismo durante il I secolo a.C. permisero la rappresentazione del Buddha, rendendo le sue icone un popolare oggetto di culto e favorendo l'arrivo del Mahāyāna.
In passato gli studiosi dividevano le grotte in tre gruppi, ma questo metodo è ora in disuso dopo le ultime scoperte. Secondo questa tecnica di datazione il più antico gruppo di grotte risalirebbe dal II secolo a.C. al III secolo d.C., il secondo gruppo avrebbe raggiunto il VI secolo, ed il terzo il VII secolo.
L'espressione Templi delle Grotte usata dagli anglo-indiani per identificare i viharas senza reliquiari è impreciso. Ajanta era un tipo di college monastico. Xuánzàng ci dice che Dinnaga, famoso filosofo buddhista e autore di rinomati libri sulla logica, visse qui. All'inizio i vihāras avrebbero dovuto fornire un tetto a centinaia di maestri e discepoli. È un puro caso che nessuna delle grotte della fase Vakataka sia stata completata. Il motivo è che la dinastia regnante dei Vakataka perse il potere lasciando il proprio dominio in crisi, il che obbligò ad interrompere tutte le attività in corso ad Ajanta durante l'ultimo anno. Questa idea espressa all'inizio da Walter M. Spink sta guadagnando consensi in base alle ultime prove recuperate.
Molti dei soggetti sono stati identificati dall'Ajantologista tedesco Dieter Schlingloff.


GROTTA UNO
È la prima che si incontra, ed il suo nome non ha relazioni con la cronistoria del luogo. È la più orientale della scarpata. Secondo Spink è una delle più recenti e venne quasi completata durante la fase Vākāţaka. Nonostante non esistano prove epigrafiche è stato supposto che il re Vākāţaka Harisena possa essere stato il suo costruttore. Un motivo per questa ipotesi è che Harisena non era inizialmente coinvolto nella costruzione di Ajanta, ma il parco si è notevolmente sviluppato sotto il suo regno, ed i laici buddhisti sarebbero stati conquistati nel vedere un re Hindu che partecipa alla costruzione. Inoltre molti dei dipinti sono regali.
Questa grotta ha una delle migliori sculture sulla sua facciata, con figure in rilievo. Le immagini mostrano scene della vita del Buddha oltre ad altri motivi. Un portico a due pilastri, visibile nelle foto del XIX secolo, è ormai scomparso. La grotta dispone di un cortile con celle fronteggiate da vestiboli su ogni lato. Hanno alti piedistalli. È anche presente una veranda con celle alle estremità. L'assenza di vestiboli a queste estremità suggerisce che la sua costruzione non risalga al tardo periodo, quando i vestiboli erano la norma. Buona parte della veranda era coperta da murales, di cui restano ancora dei frammenti. Vi sono tre porte, una centrale e due laterali. Due finestre quadrate aperte tra le porte per illuminare l'interno.
Ogni muro interno misura circa 13 metri in lunghezza e 7 in altezza. Dodici pilastri formano un colonnato quadrato che sostiene il soffitto, creando navate spaziose lungo le mura.

GROTTA DUE
La grotta numero 2, adiacente alla prima, è nota per i dipinti ben conservati sulle sue mura, il soffitto e le colonne. Somiglia molto alla prima grotta ma è in un migliore stato di conservazione.
La facciata
La seconda grotta ha una veranda leggermente differente dalla prima. Anche le sculture sulla facciata sembrano diverse. La grotta è sorretta da robusti pilastri ornati con disegni. Dimensione e pianta sono molto simili a quelli della prima grotta.
La veranda
La veranda è composta da celle sorrette da vestiboli colonnati ad entrambe le estremità. Le celle erano necessarie per sopperire alla grande richiesta di abitazioni degli anni seguenti. Le celle divennero uno standard del tardo periodo Vakataka. Quelle singole alle estremità vennero convertite in stanze.
I dipinti sui muri e sui soffitti sono stati spesso fotografati. Mostrano le storie di Jātaka, ovvero racconti della vita del Buddha in precedenti vite, come Bodhisattva. Il muro di fondo della veranda contiene al centro una porta, che permette di accedere alla sala. Su entrambi i lati della porta si trovano finestre quadrate.
La sala
La sala ha quattro colonnati che sorreggono il soffitto e che circondano un quadrato al centro della sala. Ogni ala o colonnato del quadrato è parallelo al rispettivo muro, il che forma dei corridoi esterni. I colonnati hanno delle travi in pietra nella parte superiore. I capitelli sono scolpiti e dipinti con motivi umani, animali, vegetali e con scene semi-divine.
I dipinti
Si trovano dipinti in tutta la grotta, eccetto sul pavimento. In molti posti le opere sono state erose dal tempo o dall'intervento umano. Molti dipinti sono ormai frammentati. Le storie di Jātaka si trovano solo sulle mura. Sono di natura didattica, nel tentativo di informare la comunità degli insegnamenti del Buddha e delle sue vite attraverso le varie reincarnazioni. Il fatto che si trovino solo sulle mura obbliga i fedeli a camminare nei corridoi esterni leggendo le storie. Per evitare vandalismi l'ingresso nella grotta è limitato dalle autorità. Gli episodi raccontati sono raffigurati in un ordine non lineare. La loro identificazione è stata un punto chiave delle ricerche fin dalla riscoperta avvenuta nel 1819, e quest'opera è portata avanti soprattutto da Deiter Schlingloff.
Per qualche tempo i dipinti sono stati definiti erroneamente affreschi. Ora sappiamo che il termine esatto per questo genere di opere è murales. Ad Ajanta la tecnica usata per la pittura è diversa da qualsiasi altra trovata in altre civiltà. Questi murales sono unici anche all'interno dell'arte del Sud-est asiatico.
I processi di pittura richiedono varie fasi. Il primo passo consisteva nel cesellare la superficie rocciosa, al fine di renderla abbastanza ruvida da sostenere l'intonaco. L'intonaco era composto da argilla, fieno, escrementi e calce. Qualità e proporzioni dei componenti varia da grotta a grotta. Mentre l'intonaco era ancora umido venivano fatti i disegni ed applicato il colore. L'intonaco umido ha la caratteristica di inzupparsi di colore rendendolo parte della superficie, e rallentando il processo di decadimento. I colori venivano definiti "colori della terra" o "colori vegetali". I vari pigmenti venivano creati con diverse pietre, minerali e piante. Le sculture erano spesso coperte con stucco per renderle brillanti. Lo stucco era formato da calce e sabbia. Infine venivano levigati per renderli brillanti e lisci. Alla fine sono talmente lisci da somigliare a vetro. I pennelli usati erano fatti di crini di animali e ramoscelli.










Tempio di Giove a Cosa (Toscana)


Il Tempio di Giove della colonia latina di Cosa si trovava sull'acropoli della città ed era probabilmente il più antico dell'insediamento fondato nel 273 a.C.. Sorgeva sul promontorio roccioso dell’attuale Ansedonia.
Il tempio andò quasi completamente distrutto quando venne poi trasformato in capitolium agli inizi del II secolo a.C. Nonostante ciò si sono salvate fino ai tempi nostri una gran quantità di terrecotte architettoniche, che hanno permesso una ricostruzione della decorazione fittile del complesso coronamento, tra le più complete e attendibili di un tempio italico-etrusco.
Sopra le colonne tuscaniche era poggiata l'architrave, sopra la quale a sua volta erano appoggiate le travi longitudinali, le cui estremità sporgevano nella parte anteriore. Gli spioventi avevano a loro volta le travi inclinate del tetto che sporgevano lateralmente e reggevano i travicelli ortogonali e le assi di coperture sulle quali erano inchiodati le tegole vere e proprie: queste erano con alette congiunte e coperte da embrici. Non esisteva il frontone, il cui spazio triangolare era stato lasciato vuoto.
Quasi tutti gli elementi lignei erano rivestiti da elementi decorativi e lastre in terracotta: così era l'architrave (con elementi vegetali), i lati delle travi longitudinali, le estremità delle medesime (con figurette antropomorfe ai lati e antefisse circolari), le estremità delle travi spioventi (con elementi simili a quelli delle travi longitudinali) e infine il profilo superiore del fontone, il più elaborato, con lastre che coprivano il sistema delle travicelle soprastanti, le terminazioni delle tegole incastrate a "L" e, sulla sommità, una cornice traforata a giorno fissata col piombo. Questa cornice aveva lungo il bordo superiore dei mensici con triplice punta metallica, usati per evitare che vi si posassero i volatili.
La decorazione delle terrecotte era a rilievo, spesso con motivi vegetali o geometrici, ravvivata dalla policromia, con qualche elemento reso dalla sola pittura soprattutto sulla fascia intermedia. Il frontone, come già detto, era vuoto (come fu tipico fino al tardo ellenismo) e vi erano ammesse come decorazione solo le figure o le scene ad alto rilievo che decoravano la terminazione della trave di colmo centrale (columen) o delle due travi in angolo ai lati (mutuli).
Gli acroteri angolari erano a disco e ad antemio, con gorgoni o motivi vegetali; inoltre sono state rinvenute vere e proprie sculture a tutto tondo, poste come acroterio centrale e/o angolare, oppure al centro del tetto, sul grande embrice di colmo. Decorazioni in terracotta a motivi vegetali erano infine presenti probabilmente sulle porte.
Lo stile delle decorazioni si rifà ai modelli tardo-arcaici, della cosiddetta "terza fase" etrusco-italica nella decorazione templare (IV-I secolo a.C.), che differisce dalla "seconda fase" (fine VI-V secolo a.C.) per alcuni dettagli (mancanza della cortina pendula regolare, delle basse lastrine pendenti a mo' di gocciolatoi) e dalla "prima fase" (fine VII- fine VI secolo a.C.) per la mancanza di fregi figurativi e la presenza dei nimbi sulle antefisse, secondo l'influenza greco-occidentale.

Piedra del Sol - MESSICO

 


La Piedra del Sol ("Pietra del sole"), è un monolite azteco conservato al Museo nazionale di antropologia di Città del Messico. Detta anche "pietra di Tenochtitlan", ha forma circolare, misura circa 3,60 metri di diametro e pesa 25 tonnellate. Fu ritrovata il 17 dicembre 1790 presso il lato sud nella piazza principale di Città del Messico (Zocalo), vicino al Palazzo Nazionale. Precedentemente, il 13 luglio dello stesso anno, era stata portato alla luce un altro monolito, la Coatlicue Maxima, dedicata alla divinità della Terra. Il 27 giugno 1964 la Piedra del Sol è stata trasferita definitivamente nella Sala Mexica del Museo Nazionale di antropologia.
Scolpito in un blocco di basalto olivino, il monolito secondo la cronaca scritta da Hernando Alvarado Tezozomoc, proviene dalla Sierra di Cuyuacan ed è stato trasportato da migliaia di indios a turno con l'utilizzo di grosse funi, carrelli e chiatte per farlo scivolare sia sul terreno che sull'acqua. Gli Aztechi infatti non conoscevano l'uso della ruota. La Piedra del Sol fu scolpita utilizzando esclusivamente attrezzi di selce molto affilati da un artista chiamato Técpatl durante il regno di Axayacatl (1469-1481).
In origine era probabilmente dipinta, con colori fortemente simbolici tratti da elementi naturali, soprattutto il giallo ocra ed il rosso, simbolo del sangue. Alcune parti però rimasero grezze per consentire alle componenti cristalline della pietra stessa di brillare sotto i raggi del sole, in sintonia con il volto centrale del dio.
È opinione comune tra gli storici che si trattasse di un calendario, ma non è certo il luogo esatto in cui fu collocata. È molto probabile, vista la sua funzione, che si trovasse nella Plaza Mayor di Tenochtitlán, posta sul tempio doppio, il principale, dedicato a due divinità: Tlaloc, dio della pioggia e Huitzilopochtli, dio della guerra e personificazione del Sole. Gli studiosi hanno anche discusso se la sua posizione fosse orizzontale o verticale e propendono per la prima ipotesi. Da essa venivano fatti dipendere il destino dei singoli e della comunità, i sacrifici umani e le fasi della vita quotidiana.

La Piedra del Sol è costituita da una serie di cerchi concentrici che rappresentano vari elementi della cosmologia e della teologia azteca.
Al centro è scolpita la testa di una divinità che gli studiosi ritengono essere il Quinto Sole, Tonatiuh: circondata da una doppia linea, la figura presenta capelli ben pettinati e la bocca aperta per mettere in evidenza il coltello sacrificale di ossidiana, usato per i sacrifici. Il collo e le orecchie sono ornati rispettivamente da una collana di perle di giada, 3 rotonde e 4 oblunghe, e da orecchini di giada. È il simbolo della vitalità del movimento immobile.
Il primo cerchio (Ollin o movimento)
Vi sono rappresentati i 4 soli generatori del mondo, periodi in cui il genere umano si estinse tragicamente. Leggendo da destra a sinistra abbiamo nella parte superiore il giaguaro (nahui ocelot) o Primo Sole, il vento (nahui ehecatl) o Secondo Sole; nella parte inferiore la pioggia di fuoco (nahui quiàhuitl) o Terzo Sole e l'acqua (nahui atl) o Quarto Sole. Il Quinto Sole è la figura centrale di Tonatiuh. Ai lati di queste figure si vedono artigli d'aquila che trattengono un cuore. Appaiono qui i bracci della croce nota come quincunce.
I 20 giorni
Il calendario e le relative conoscenze furono trasmesse agli uomini dal dio Quetzalcoatl, il dio serpente piumato, insieme all'agricoltura, alla tecnica, alle scienze. Sono due i sistemi calendarici che scandiscono il tempo presso gli Aztechi: il calendario divinatorio o tonalpohualli e il calendario solare, civile ed agricolo o xiuhpohualli. Secondo quest'ultimo un anno aveva 18 mesi di 20 giorni ciascuno, più 5 giorni chiamati memotemi, vale a dire giorni del nulla. Il totale dei giorni era 365 (366 nell'anno bisestile). La perfetta coincidenza tra i due calendari si verificava ogni 52 anni. Ogni giorno corrispondeva ad una divinità: partendo dall'alto e leggendoli in senso antiorario abbiamo: coccodrillo (cipactli), vento (ehécatl), casa (calli), lucertola (cuetzpallin), serpente (còatl), morte (miquiztli), cervo (màzatl), coniglio (tochtli), acqua (atl), cane (itzcuintli), scimmia (ozomatli), erba divina (malinalli), canna (àcatl), giaguaro (océlotl), aquila (cuauhtl), avvoltoio (cozcacuauhtli), movimento (ollin), coltello di selce (técpatl), pioggia (quiahuitl), fiore (xochitl).
Terzo e quarto cerchio
Compaiono qui 4 grandi raggi solari a forma di angolo sovrapposti ad una fascia in cui sono presenti molti elementi che simbolizzano l'universo, il calore del sole, gocce di sangue, piume di aquila e spine, che a volte venivano usate nei sacrifici per procurarsi lesioni ed offrire così il proprio sangue.
Quinto cerchio ( i due Xiuhcoatl o Serpenti di Fuoco)
Due enormi serpenti circondano e delimitano il disco solare; dalle loro fauci aperte emergono i volti di due divinità con aspetto umano, che corrispondono alle armi di Huitzilopochtli, dio del Sole e della Guerra: a destra Xiuhtecutili, dio del fuoco, e Tonatiuh, dio del Sole a sinistra, rispettivamente cielo notturno e cielo diurno. Le loro spire sono costituite da elementi simili a fiamme inserite in riquadri. L'alto, nel punto in cui le spire si incontrano, è inserita una data: matlactli omey acatl, tredici canna, che è quella in cui si terminò questa grande opera scultorea e che corrisponde all'anno 1479 del calendario gregoriano; il 13 canna è anche la data di nascita del quinto Sole, sotto il regno di Axayacatl. Il bordo esterno è decorato con una miriade di punti, che rappresentano le stelle.
Funzione e significato della Piedra del Sol
È un monumento dal significato molto complesso e fortemente simbolico che ruota attorno alla figura del Sole, come centro del monolito e centro dell'Universo, mediatore tra gli uomini e il cielo. Da qui si diparte l'energia che si diffonde sulla Terra e che viene messa in relazione con tutti gli altri pianeti, soprattutto Venere. La Piedra del Sol è quindi:
  1. un calendario solare che definisce i ritmi stagionali e la vita quotidiana;
  2. un compendio della cosmologia e cosmogonia del popolo azteco;
  3. la somma di complicate osservazioni astronomiche;
  4. la sintesi delle credenze, delle conoscenze più profonde e degli usi del popolo azteco, una perfetta unione di arte, religione e scienza;
  5. una pietra sacrificale: i sacrifici umani non erano una semplice offerta, ma il sistema per nutrire il Sole, che solo mediante il sangue umano poteva rinascere ogni giorno;
  6. la manifestazione di una vera e propria filosofia degli opposti: vita e morte, giorno e notte, interno ed esterno, movimento e stasi, dinamismo e conservazione;
  7. infine una vera e propria esaltazione della guerra come elemento creatore ed innovatore; non si deve intendere solo la guerra tra uomini, ma anche i conflitti delle divinità che sono sempre sul punto di rompere l'equilibrio dell'ordine universale. A questo si può rimediare attribuendo a ogni divinità il proprio posto e la propria funzione e collocandola appunto nel calendario.
Le conoscenze legate ai calendari, ai misteri del cielo e la capacità di interpretare il destino degli uomini e dell'intero universo erano riservate ai sacerdoti e trasmesse attraverso l'insegnamento della scuola sacra o calmecac, che poteva essere frequentata solo dai membri di alcuni clan che, soli, potevano fornire i capi e i grandi sacerdoti.

Gruppo di sant'Ildefonso - SPAGNA

 
Il Gruppo di sant'Ildefonso (o L'offerta di Oreste e Pilade o ancora Castore e Polluce) è un antico gruppo scultoreo romano risalente al I secolo d. C. Il nome originale gli deriva da Ildefonso di Toledo: posizionato al Palazzo Reale della Granja de San Ildefonso a Segovia fino al 1839 accanto ad un grande dipinto del santo (da qui la denominazione), si trova attualmente al museo del Prado a Madrid.
Attingendo dalle opere della scultura greca del V e IV secolo a.C. e seguendo la tradizione della scuola di Prassitele, come ad esempio l'Apollo sauroctono, ma anche l'Efebo Westmacott di Policleto, senza copiare pedissequamente bensì dando un tocco d'originalità ai singoli particolari, la scultura mostra due adolescenti maschi nudi in forma idealizzata che indossano entrambi la corona di alloro.
I giovinetti mostrati a grandezza naturali si appoggiano e sorreggono l'uno contro l'altro, uno con la mano sinistra sulla spalla sinistra del compagno, l'altro con la spalla ed l'intero braccio destro a sfiorare il petto dell'amico; a terra sul davanti sta un altare e dietro una piccola figura femminile, presumibilmente la statua di una qualche divinità protettrice. Quest'ultima, in mano e stretta al petto ha una sfera, variamente interpretata come un uovo (alimento) o un frutto di melagrana.
Il gruppo, alto 161 cm. è ormai accettato come essere la raffigurazione dei Dioscuri, i due eroi-fratelli Castore e Polluce.
Il momento esatto e il luogo del ritrovamento originario rimane sconosciuto, ma si sa che nel 1623 faceva già parte della collezione Ludovisi a Villa Ludovisi a Roma: in quell'anno viene restaurata da Ippolito Buzzi il quale vi aggiunge la testa mancante. Nicolas Poussin deve averla veduta in quel periodo o in un momento immediatamente successivo quando si trovava già in possesso di Camillo Massimo; lo schizzo che in quell'occasione il pittore francese fece non era inteso essere una rappresentazione fedele, piuttosto uno spunto d'ispirazione da conservare come parte del suo repertorio visivo dell'antichità classica.
Ispirazione questa che ha fatto sentire ampiamente la propria presenza nella maggior parte dei dipinti dell'artista d'oltralpe. Nel suo disegno Poussin a apportato lievi modifiche alle posture della coppia di ragazzi, ma il cambiamento più grande è stato quello i trasformare gli adolescenti in agili eroi più simili ad atleti muscolosi.
La sua fama si diffuse ben presto nella maggioranza delle corti europee e poco dopo il 1664 la regina Cristina di Svezia riesce ad acquisirla e così riunirla all'ampia collezione d'arte che aveva finito col creare durante il periodo della propria permanenza a Roma. Le antiche sculture della raccolta sono state in seguito trasferite nella proprietà degli Odescalchi come eredità e lì rimasero fino al 1724 quando vennero offerte a Filippo V di Spagna.
La seconda moglie di Filippo era Elisabetta Farnese, della famiglia Farnese di Parma la quale ha avuto parte nella storia della costituzione della collezione scultorea al museo archeologico nazionale di Napoli; acquistata ad alto prezzo venne inviata al Palazzo Reale della Granja de San Ildefonso a Segovia. Da lì poi giunse a quella che è la sua attuale collocazione, il museo del Prado a Madrid.
La figura di sinistra era, al momento del ritrovamento, priva della testa, che è stata pertanto restaurata solamente nel corso del XVII secolo, il periodo di massimo splendore per quanto riguarda i "restauri interpretativi", da Ippolito Buzzi; questo durante il periodo in cui la scultura faceva parte della collezione privata del cardinale Ludovico Ludovisi: l'artista italiano si è ispirato ed ha preso spunto (il capo chinato volto leggermente verso destra è difatti estremamente indicativo) da un busto di tipo Antinoo-Apollo già appartenente alla stessa collezione (vedi foto) nonché uno degli alti esempio di arte adrianea.
L'identificazione da dare alle due figure è stata ricercata nelle molte narrazioni riguardanti coppie di sesso maschile presenti all'interno della mitologia greca; nel corso dell'800 divenne per un certo periodo di tempo noto anche come "genii tutelari dell'imperatore Adriano e di Antinoo", tralasciando pertanto il fatto che le due statue sono entrambe rappresentazioni di due ragazzi giovanissimi, mentre una caratteristica importante del rapporto storico vigente tra l'imperatore romano del II secolo e il bellissimo Antinoo era invece la differenza d'età, come nello stile della pederastia greca con un erastès più anziano ed un eromenos notevolmente più giovane.
In alternativa è stato anche suggerito il momento del sacrificio di Antinoo al demone (daimon), in riferimento all'ipotesi che il giovane potesse essersi suicidato all'interno di un rituale sacrificale volto ad allungare la vita al suo amato imperatore; infine anche semplicemente come la raffigurazione di Adriano ed Antinoo che si promettono reciproca fedeltà.
Altre identificazioni alternative nel corso de secoli hanno incluso:
- Hypnos e Thanatos, personificazioni del sonno e della morte, dall'interpretazione data alla sfera come melograno, per l'appunto un simbolo di morte.
- Coridone e Alexis, i due giovanissimi amanti omosessuali descritti nelle Bucoliche di Publio Virgilio Marone
Il critico e storico dell'arte tedesco Johann Joachim Winckelmann suggerì inoltre nel 1767 potesse trattarsi di Oreste e del compagno Pilade mentre offrono un sacrificio in onore della dea Artemide di cui desideravano attirarsi la benevolenza oppure di fronte alla tomba del padre assassinato di Oreste, Agamennone. Winklemann è stato il primo a pubblicare un'immagine e descrizione della scultura, nel suo "Monumenti Antichi Inediti" del 1767, (pag.XXI-XXII).
Oreste, perseguito dalle Erinni che lo affliggono per aver ucciso sua madre Clitennestra (atto compiuto per vendicare a sua volta l'omicidio del padre), marcia con il carissimo amico Pilade in Tauride (episodio che appare in Ifigenia in Tauride di Euripide), cercano la statua di Artemide che Apollo ha ordinato loro di riportare ad Atene come una forma di purificazione. In Tauride si verifica per l'appunto l'episodio in cui entrambi offrono un sacrificio; l'atmosfera i fratellanza in cui esso si svolge viene preso come esempio di amicizia. Al suo ritorno ad Atene, portando la statua di Artemide, offre infine un sacrificio alla dea.
Tutta questa serie di identificazioni si pensa oggi siano errate e semplicemente dovute al restauro della testa mancante con le sembianze di Antinoo; è oramai accettato trattarsi di Castore e Polluce mentre offrono un sacrificio a Persefone. Una tale identificazione è principalmente basata sulla figura a destra, che doveva tenere in principio nelle mani due torce, quella sulla mano destra che accende l'altare posto ai loro piedi e un'altra sulla mano sinistra rivolta dietro la schiena, e sull'identificazione della sfera tra le mani della figurina femminile posta dietro di loro come un uovo (quello da cui gli stessi Dioscuri sono nati). Quest'ultima interpretazione è stata sostenuta tra gli altri anche dal poeta e drammaturgo tedesco Johann Wolfgang von Goethe il quale possedeva una copia del gruppo scultoreo.
Il lavoro nel suo insieme è un eccellente esempio di eclettismo e neoatticismo, molto frequente verso la fine della repubblica romana e durante i primi decenni dell'impero romano, intorno quindi all'età augustea, in una combinazione di due diversi flussi estetici: mentre il giovane di destra segue lo stile della scuola di Policleto, quello di sinistra porta invece il marchio inconfondibile delle figure morbide, sensuali e vagamente da effeminato di Prassitele.
L'iniziale identificazione errata con Antinoo, l'amante adolescente di Publio Elio Traiano Adriano, ha generato un grande interesse per la scultura, a seguito del quale finirono con l'esser prodotte un gran numero di copie, in gran parte realizzate in Italia e nel Nord Europa e poi, sulla base di calchi fatti in Spagna e basati sull'originale lì conservato. Questi inevitabilmente ne hanno ulteriormente alimentato l'interesse, oscurando il fatto che in realtà la testa di Antinoo era opera di un restauro.
Negli anni '60 del XVII secolo Antoine Coysevox ne ha scolpito una copia in marmo per essere inserita nei giardini di Versailles all'interno della reggia di Versailles.

Ritratto di Adriano, Roma (Lazio)

 
Il ritratto di Adriano del Museo Nazionale Romano di Roma è, secondo lo storico dell'arte Ranuccio Bianchi Bandinelli, una delle più belle e fresche repliche del ritratto ufficiale dell'imperatore, eseguito dopo la sua presa di potere del 117 d.C.
L'effigie, della quale si conoscono numerose copie e riadattamenti anche postumi, faceva parte di un busto ufficiale. L'esempio del Museo Nazionale romano ha perduto le spalle, tranne una parte di quella destra dove si vede il paludamentum, mentre il volto presenta una scheggiatura sul naso, ma per il resto è quasi intatto.
Adriano fu il primo imperatore romano a portare la barba, alla maniera dei filosofi greci, e in quest'opera ha il capo leggermente reclinato a sinistra, con una lieve torsione verso l'alto, che conferisce un tono di decisione e fermezza.
Le superfici sono trattate con grande cura, levigate e uniformi per le guance e la fronte, con passaggi senza rottore alle delicate infossature degli occhi. Anche la barba e i capelli sono trattati con ciocche mosse e striate con finezza, mentre le sopracciglia sono accennate con piccoli tratti.
Vi si possono rintracciare due influenze:
- una dall'arte traianea, riguardo all'essenzialità dei tratti che superano il mero verismo e danno un tono fermo e pacato, indice di dignità e autorevolezza del leader; inoltre il ritratto è privo del pathos teatrale tipicamente ellenistico, in favore di un aspetto umano e reale.
- una dal classicismo, secondo le inclinazioni filoellene del nuovo imperatore, nella levigatezza delle superfici e nell'assenza di profondi passaggi di luce nel volto.

Triade Capitolina dell'Inviolata (Lazio)

 

La Triade Capitolina dell'Inviolata è un gruppo scultoreo in marmo lunense ritraente la triade divina romana composta da Giove, Giunone e Minerva.
L'opera, pressoché intatta, si ritiene essere una riproduzione in scala delle sculture originali del tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio e risulta essere l'unica scultura ritraente la Triade Capitolina sopravvissuta.
La statua fu ritrovata nel criptoportico di una villa romana del parco naturale-archeologico dell'Inviolata, da cui prese il nome, nel 1992 durante uno scavo clandestino. I tombaroli vendettero il pezzo ad un antiquario svizzero, intenzionato a rivenderlo ad un collezionista straniero, ma esso fu ritrovato due anni dopo dai carabinieri del Comando per la tutela del patrimonio culturale e recuperato presso il passo dello Stelvio nell'ambito dell'"Operazione Giunone". I militari erano infatti entrati in possesso di un frammento della statua, una parte dell'avambraccio destro di Giunone, spezzato probabilmente durante gli scavi, che ne testimoniava la provenienza dall'Italia.
Inizialmente collocata presso il Museo archeologico nazionale di Palestrina, la statua è stata poi restituita nel 2012 al comune di Guidonia Montecelio ed esposta presso il Museo civico archeologico Rodolfo Lanciani.
Il gruppo scultoreo rappresenta la Triade Capitolina, ossia le tre divinità protettrici della Roma pagana, assise su un trono comune cerimoniale. Le divinità sono ritratte con i loro attributi: l'aquila ai piedi di Giove, che al centro della scultura stringeva in una mano lo scettro e nell'altra la folgore, alla sua sinistra Giunone velata, ai cui piedi è rappresentato un pavone, e alla sua destra Minerva e la sua civetta.
Sia Minerva che Giunone hanno perso le braccia che nel primo caso reggevano un'asta e probabilmente reggevano l'elmo corinzio sul capo della dea, mentre nel secondo caso stringevano probabilmente una patera e uno scettro. Sono perdute anche le statue delle piccole Vittorie che porgevano una corona trionfale sul capo delle divinità, di cui restano le parti inferiori.
Nel racconto Gli Dei dell'Impero dello scrittore e archeologo italiano Valerio Massimo Manfredi viene raccontato il ritrovamento e trafugamento del gruppo marmoreo, sventato dal colonnello Aurelio Reggiani.


Ares Ludovisi, Roma (Lazio)

 

L'Ares Ludovisi è una scultura romana di epoca antonina, raffigurante Marte. La statua è una copia marmorea del II secolo d.C., di un originale greco del IV secolo a.C. attribuibile a Skopas o Lisippo. Per tale motivo, il dio romano è stato rinominato con il suo corrispondente greco, Ares.
Ares/Marte è ritratto giovane, senza barba e seduto sulle armi deposte, mentre Eros gioca ai suoi piedi, focalizzando l'attenzione sul fatto che, in un momento di riposo, il dio della guerra è presentato come oggetto di amore. Nel XVIII secolo l'archeologo e storico dell'arte Johann Joachim Winckelmann, teorico della nobile semplicità e quieta grandezza, quando si stava occupando della collezione Ludovisi ritenne che l'Ares Ludovisi fosse la miglior rappresentazione di Marte dell'antichità.
Riscoperta nel 1622, la scultura era, con molta probabilità, originariamente parte del tempio di Marte (eretto nel 132 a.C. nella parte meridionale del Campo Marzio), del quale non restano che poche tracce; a tal proposito, la statua fu riscoperta nei pressi della chiesa di San Salvatore in Campo. Pietro Santi Bartoli scrisse che l'opera fu trovata nei pressi del Palazzo Santacroce mentre si stava scavando uno scarico. L'Ares Ludovisi entrò a far parte della collezione del cardinale Ludovico Ludovisi (1595-1632), nipote di Papa Gregorio XV; la collezione era conservata nella magnifica villa Ludovisi che il cardinale fece costruire nei pressi di Porta Pinciana, nello stesso luogo dove Giulio Cesare e il suo successore Ottaviano Augusto, avevano la loro villa. La scultura fu restaurata da un giovane Gian Lorenzo Bernini, che ne rifinì la superficie e realizzò con discrezione il piede destro; Bernini fu, con grande probabilità, responsabile del cupido ai piedi dell'Ares, che gli storici dell'arte Francis Haskell e Nicholas Penny notarono omesso dalla copia della statua in bronzo, realizzata da Giovanni Francesco Susini, così come dalle stampe di Scipione Maffei.
Il ritrovamento della statua fu una scoperta eccezionale. Una copia bronzea in scala ridotta fu realizzata da Giovanni Francesco Susini, successore e assistente dello zio Antonio Susini, quando visitò Roma negli anni trenta del XVII secolo, copiando diversi marmi dalla collezione Ludovisi; una replica in bronzo è conservata all'Ashmolean Museum di Oxford. In seguito, l'Ares Ludovisi fu considerata una delle opere di punta, da ammirare necessariamente nel percorso del Grand Tour. Ad esempio, Pompeo Batoni, nel suo ritratto di John Talbot, raffigura quest'ultimo accanto alla statua, con l'intento di esaltarne la cultura e la familiarità con tali opere d'arte. Un'ulteriore rappresentazione può riscontrarsi nell'incisione del 1783 di Villa Ludovisi ad opera di Francesco Piranesi, figlio del noto Giovanni Battista Piranesi. Calchi dell'Ares Ludovisi si diffusero nelle prime collezioni museali, come la Gliptoteca di Copenaghen e la statua è stata in grado di influenzare intere generazioni di studenti e di artisti neoclassici.
Nel 1901, il principe Boncompagni-Ludovisi decise di mettere all'asta le antichità della collezione Ludovisi. Lo Stato italiano acquistò 96 pezzi d'arte, mentre gli altri si dispersero nei musei in Europa e negli Stati Uniti. L'Ares è conservato presso il Palazzo Altemps, sede del Museo nazionale romano.
Una rappresentazione della statua è utilizzata come emblema del club sportivo greco Aris Thessaloniki.

Ritratto di Gordiano III, Roma (Lazio)

 
Il ritratto di Gordiano III, conservato al Museo nazionale romano, sezione terme di Diocleziano, è un ritratto-chiave della produzione ufficiale del III secolo. Tra i molti ritratti del principe, questi risale alla fine del suo regno, verso il 244, a giudicare dal confronto con le emissioni monetali.
In questa opera si nota un abbandono del plasticismo ellenistico in favore di una forma semplificata, stereometrica, con particolari quali i capelli e la barba inseriti con l'incisione (quasi a bulino, come nel ritratto di Alessandro Severo).
Evidenti sono le caratteristiche adolescenziali del ritratto, con un ovale carnoso del volto, col mento appuntito e con fossetta, gli occhi grandi e sporgenti, il naso robusto (oggi danneggiato), le labbra piccole, la calotta dei capelli cortissimi che proseguono nella peluria sulle guance, trattata come le folte sopracciglia e i baffi che spuntano. Il ritratto è caratterizzato da un rendimento metallico, con tagli netti e incisivi (soprattutto negli occhi e nell'insolito disegno delle labbra), come se derivasse da un originale bronzeo.
Notevole è l'attenzione al dettaglio minuto che inizia a lasciare il campo all'armonia dell'insieme, creando una figura idealizzata, dallo sguardo laconico (evidenziato dai grandi occhi), dove premeva esprimere il concetto della santità del potere, inteso come emanazione divina (come evidenzia anche lo sguardo assorto che guarda al cielo).

Statua di Traiano da Minturno, Napoli (Campania)

 
La statua di Traiano da Minturno, in marmo grechetto, è opera della fine del I secolo d.C. Fu trovata nei pressi del fiume Liri-Garigliano a Minturno, l'antica Minturnae nella Regio I Latium et Campania. Appartiene alle collezioni del Museo archeologico nazionale di Napoli.
La statua rappresenta Traiano in un momento di vita militare, ossia mentre alza la mano destra per parlare ai suoi soldati, ma nello stesso tempo ricorda la sua attività di legislatore, evocata dal papiro che stringe con la mano sinistra.
La statua ha un'importanza particolare perché, nel XX secolo, è stata ripetutamente scelta come modello per ricavarne repliche, poste in varie città italiane ed estere.
La statua va inquadrata nel contesto dei ritratti di Traiano, che presentano l'imperatore in modo semplice e obiettivo, coi tratti fermi e pacati, dai quali emergono comunque la suprema autorità e la dignità del comando. Gli attributi prettamente militari (in questo caso la corazza) sono presenti, ma non sono preponderanti, perché affiancati ad elementi che richiamano l'attività di governo (in questo caso quella di legislatore). Le sculture che raffigurano Traiano sono contraddistinte inoltre da un certo realismo tipico della tradizione romana augustea e dall'abbandono delle tendenze ellenistiche del periodo di Domiziano.
In quest'opera, l'imperatore è vestito di lorica, la corazza militare decorata a rilievo con scene mitologiche e simboli epici o divini. In questo caso si tratta di lorica musculata, cioè del tipo che riproduce la muscolatura del tronco. La figura presenta la classica disposizione della ponderatio, con appoggio sulla gamba sinistra e con la destra arretrata.
L'imperatore reca una clamide avvolta sul braccio sinistro, mentre quello destro è alzato nella posa dell'adlocutio, ossia mentre parla ai suoi soldati. La mano sinistra stringe un papiro, per richiamare l'attività di legislatore di Traiano, per la quale è particolarmente ricordato. Il parazonio pende a tracolla e la tunica è corta.
La corazza è a due ordini, con squame istoriate. Sul petto è rappresentata Minerva attorniata da due figure danzanti. Queste hanno l'iconografia della Nike e brandiscono gli scudi compiendo una danza sacra per onorare la dea. L'identificazione con Minerva è data dalla presenza di una civetta. Sono presenti però anche altre immagini, non solitamente accostate alla Dea, ma che richiamano divinità in qualche modo collegate ad essa: un serpente, attributo tipico della Dea Madre, e una testa di lupa, che rimanda alla Dea Roma ed è posta sul capo di Minerva, secondo l'usanza dei velites, ossia dei soldati romani armati alla leggera del periodo repubblicano.
Nella parte più alta della corazza è presente un gorgoneion, elemento non raro in corazze dello stesso tipo, ma che qui è da collegare alla rappresentazione di Minerva, che sull'egida aveva proprio la testa della Gorgone.
La statua presenta diversi elementi ricostruiti nel restauro, prendendo come modello altri ritratti scultorei di Traiano. Le parti integrate sono: la testa da sotto al naso fino alla parte superiore del capo (comprendendo naso, occhi, fronte e orecchie), il braccio destro, la mano sinistra, la parte sinistra della corazza, l'impugnatura del parazonio, il lembo del manto cadente a sinistra dal ginocchio in giù, oltre a numerosi tasselli qua e là.

Nonostante l'esistenza di altre statue che rappresentano Traiano, come quella agli Uffizi, proprio questa è stata scelta come modello per ricavare varie repliche, spesso in bronzo, da collocare in contesti in cui fu ritenuto necessario ricordare l'opera di colui che gli stessi contemporanei chiamavano l'ottimo imperatore. Le copie sono collocate in varie città italiane ed estere; si segnalano le seguenti (elencate in ordine cronologico di realizzazione).
Un calco in gesso è presente a Roma, all'interno del Museo della civiltà romana, nella sala XII, dedicata appunto a Traiano e Adriano.
L'opera risale almeno al 1937, quando il museo attuale non esisteva ancora e molte opere che esso ora conserva, tra cui il calco della statua di Traiano da Minturno, erano esposte alla "Mostra Augustea della Romanità". In questa mostra erano presenti sia copie appositamente realizzate, sia quelle provenienti dal "Museo della Romanità", inaugurato nel 1927 per opera dell'archeologo Giulio Giglioli; la copia in questione potrebbe quindi risalire anche al 1927, ma le fonti disponibili non precisano né l'epoca di realizzazione del calco, né la data di ritrovamento dell'originale.
A loro volta, le opere raccolte nel Museo della Romanità erano state in parte realizzate nel 1911, per la mostra archeologica allestita alle Terme di Diocleziano, parte dell'esposizione nazionale per il cinquantenario dell'Unità d'Italia; il curatore era Rodolfo Lanciani. La mostra alle Terme di Diocleziano costituì quindi il primo nucleo dell'attuale Museo della civiltà romana. Il calco ora esposto al Museo della civiltà romana potrebbe di conseguenza risalire anche al 1911.
A Roma, nel 1933, fu collocata una replica bronzea della statua lungo via dei Fori Imperiali, di fronte all'area dei Mercati traianei (costruiti tra il 100 e il 110 d.C.) e del Foro di Traiano (107-112). Nel ventennio fascista, la via era detta "via dell'Impero".
Nello stesso anno, oltre che quella di Traiano, in via dei Fori Imperiali furono collocate anche le statue di Cesare, di Augusto e di Nerva, ciascuna in corrispondenza del foro rispettivo. L'idea della collocazione delle statue, con intento sia decorativo, sia didattico, fu dell'architetto Armando Brasini, che a proposito di questa scelta aveva dichiarato: …Le statue dei maggiori imperatori romani, oltre a costituire un motivo altamente decorativo, ricorderebbero al popolo, che non sempre visita i musei, … i nomi e le effigi dei creatori di quella potenza di Roma, che nei secoli continuerà nel mondo.
Sul basamento della statua è presente la seguente iscrizione:
«SPQR
IMP CAESARI NERVAE F
TRAIANO
OPTIMO PRINCIPI
»
Ad Ancona, nel 1934, fu collocata una replica bronzea della statua in via XXIX Settembre, strada che si affaccia sulle banchine del porto, in epoca antica ampliato proprio da Traiano.[14] La statua era stata donata dal governo ed inaugurata solennemente domenica 16 settembre 1934, in un nuovo spazio urbano, denominato "Largo Traiano", originatosi dalla demolizione di alcuni edifici situati sul fronte del porto.
Nella città c'era stato un dibattito a proposito del luogo in cui porre la statua: un'associazione cittadina di artisti aveva sostenuto che sarebbe stato più opportuno collocarla nella zona prossima all'arco di Traiano, che si erge proprio sul molo fatto costruire dall'Imperatore, ma alla fine prevalse la scelta di un sito più centrale. Questo dibattito sull'opportunità di collocare la copia della statua nei pressi dell'arco romano oppure in una zona più neutra dal punto di vista storico è analogo a quello che si visse anche a Benevento, descritto nel seguente paragrafo; analoga fu anche la decisione adottata nelle due città.
Il legame tra Traiano ed Ancona è dato da tre circostanze: anzitutto dal fatto che l'ottimo imperatore decise l'ampliamento del porto (100), al fine di renderlo accessum Italiae, ossia "ingresso d'Italia" per chi vi giungeva dall'oriente, poi dalla presenza nel porto della città di un arco in onore di Traiano eretto per decisione del Senato romano (contemporaneo all'intervento sul porto), e infine dal fatto che, nel 105, l'imperatore scelse Ancona come porto di imbarco dell'esercito in occasione della Seconda guerra dacica; la scena è rappresentata sulla Colonna Traiana (scena 58 di Cichorius).
Sul basamento della statua è presente la seguente iscrizione:
«IMP CAESARI NERVAE F
TRAIANO
OPTIMO PRINCIPI
»
A Benevento, su sollecito dell'amministrazione cittadina, fu donata dal governo nel 1934 una replica bronzea della statua. Il fatto va inserito nella volontà dell'amministrazione di dare una nuova sistemazione all'area circostante l'Arco di Traiano, nell'intento di renderla più monumentale. Nel 1935 vennero infatti presentati due progetti in cui si prevedeva la costruzione, di fronte all'Arco, di una cortina muraria con un varco di accesso alla città, in asse con il fornice; ai due lati di quest'ingresso sarebbero dovute essere collocate la statua di Traiano arrivata l'anno precedente ed una di Benito Mussolini (mai realizzata).
Questa soluzione fu bocciata dal dicastero allora competente, ovvero il Ministero dell'educazione nazionale, ritenendo gravemente pregiudizievole all'augusta e sacra maestà dell'Arco Traiano lo sviluppo di un qualsiasi partito architettonico di un portico o di un colonnato all'intorno. Il progetto venne così modificato: al posto del muro fu prevista una semplice esedra a tre gradini delimitata da un parapetto lungo il quale realizzare un lungo sedile continuo. Nel 1936 iniziarono i lavori, durante i quali vennero alla luce le due statue di Traiano e Plotina ora conservate nel Museo del Sannio. Al termine dei lavori, la statua di Traiano non venne posta nelle vicinanze dell'arco, come prevedevano i primi progetti, ma nella zona centrale della città, nel giardino della Rocca dei Rettori.
La volontà del comune di Benevento di accogliere una statua di Traiano fu dettata da due motivi: innanzitutto perché l'imperatore ordinò l'apertura di una strada di collegamento tra Benevento e Brindisi che sostituì, in quanto più breve ed agevole, un tratto della via Appia Antica; la variante fu realizzata tra il 108 e il 110 ed ebbe il nome di via Traiana o anche via Appia Traiana; inoltre perché a Benevento sorge il noto arco dedicato a Traiano (costruito nel 114-117).
Sul basamento della statua è presente la seguente iscrizione:
«SPQB
IMP CAESARI NERVAE F
TRAIANO
OPTIMO PRINCIPI
»
Una replica bronzea, realizzata dalla Fonderia artistica Chiurazzi, è collocata nei pressi di Tower Hill a Londra, all'esterno di un tratto della cinta di mura romane. La statua ha una storia molto particolare: fu infatti scoperta in un deposito di rottami dal reverendo Philip "Tubby" Clayton, rettore dal 1922 al 1962 della vicina parrocchia "All Hallows-by-the-Tower" (a volte detta anche "All Hallows Barking"), e installata nei pressi delle mura romane della città nel 1980, come suo lascito, come risulta dalla targa apposta sul monumento:
«STATUE BELIEVED TO BE OF THE ROMAN EMPEROR TRAJAN
A.D. 98–117
IMPERATOR CAESAR NERVA TRAJANUS AUGUSTUS
PRESENTED BY THE TOWER HILL IMPROVEMENT TRUST AT THE
REQUEST OF THE REVEREND P. B. CLAYTON, CH, MC, DD,
FOUNDER PADRE OF TOC H.
»


Statua del Generale da Tivoli, Roma (Lazio)

 


La statua del Generale da Tivoli è una scultura romana in marmo (h. 118 cm) datata tra il 90 ed il 70 a.C., oggi conservata al Museo nazionale romano di palazzo Massimo di Roma. La statua fu rinvenuta nel 1925 tra le rovine del Tempio di Ercole a Tivoli. Mancano la parte superiore della testa, la spalla e il braccio destro, oltre alla gamba destra del ginocchio in giù.
Questa statua appartiene al filone realista italico di epoca repubblicana, dove viene rappresentata l'immagine di un uomo maturo, sul cui volto appaiono profonde rughe, in nudità eroica.
Qui è rappresentato un generale dell'esercito romano, avvolto nel suo mantello che scende dalla spalla sinistra fino a cingere i fianchi. La statua è sorretta da una corazza, posta ai suoi piedi, con un bel Gorgoneion al centro. È probabile che la statua fosse appoggiata ad una lancia, tenuta nella destra, secondo uno schema tipologico ellenistico.
La testa risulta leggermente inclinata verso la spalla destra, le rughe profonde sulla fronte, gli occhi piccoli e infossati, la bocca dischiusa, danno idea di un carattere estremamente forte e volitivo. Questi tratti sono però in contrasto con la poderosa muscolatura del corpo, in uno schema tipicamente ellenistico di figura eroizzata. In questa scultura si fondono pertanto la corrente verista italica e quella tardo-ellenistica.


Niobide degli Horti Sallustiani, Roma (Lazio)

 

La Niobide degli Horti Sallustiani, è una scultura romana in marmo (h. 149 cm) datata al V secolo a.C., oggi conservata al Museo nazionale romano di palazzo Massimo di Roma.
La statua fu rinvenuta negli Horti Sallustiani durante gli scavi del 1906, in un cubicolo a ben 11 metri sotto il livello del suolo, forse nascosta per proteggerla dalla furia distruttrice dei barbari durante le invasioni del V secolo d.C..
Raffigura una delle figlie di Niobe nell'atto di cadere a terra, dopo essere stata ferita da una freccia conficcata tra le scapole, e che la stessa cerca invano di estrarre. Il mito racconta che Apollo o Artemide avevano scoccato la freccia per vendicare la propria madre, Leto. Costei era irata per l'offesa ricevuta da Niobe che, superba, l'aveva derisa perché aveva soltanto due figli, vantandosi della propria prolificità. Per ordine di Leto tutti i Niobidi vennero uccisi da Apollo e Artemide.
L'opera è originale e ascrivibile al V secolo a.C., in quanto è ritenuta appartenente o comunque analoga alle figure del frontone del tempio di Apollo a Eretria, trasferite a Roma per volere di Augusto da cui, quasi sicuramente, provengono anche il Niobide morente e la Niobide che corre della Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen.
Non è invece assimilabile alla Niobe degli Uffizi, copia di originale ellenistico ritrovata a Roma nel 1582 nel giardino di Villa Medici e da lì portata agli Uffizi.
La Niobide degli Horti Sallustiani sarebbe dunque una delle numerosissime opere portate a Roma dalla Grecia come bottino di guerra, che tanta parte ebbero nell'evoluzione del gusto e dello stile della produzione artistica romana.

Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...