sabato 16 dicembre 2023

Museo archeologico di Almyros - GRECIA

 

Il Museo archeologico di Almyros (Αρχαιολογικό Μουσείο Αλμυρού) è un museo archeologico di Almyros, in Grecia. Fu costruito all'inizio del XX secolo da Othrys, Filarchaeos Etaireia Almyrou, un'organizzazione locale senza fini di lucro, che è stata proprietaria del museo fino agli anni 1950. 
Attualmente è di proprietà del Ministero della Cultura e dello Sport della Grecia.
Il museo espone manufatti locali e reperti del Neolitico, del periodo miceneo, geometrico, classico ed ellenistico, fino alla tarda età romana. Il Museo e il ginnasio che è di fronte sono gli edifici più antichi della zona e hanno patito ingenti danni dal terremoto del 1980.


Arco dei Sergi, Pola - CROAZIA

 

L'arco dei Sergi è un arco trionfale romano della città di Pola, in Croazia. L'arco venne eretto a proprie spese da Salvia Postuma, per commemorare il marito Lucio Sergio Lepido, che aveva partecipato alla battaglia di Azio ed era stato tribuno della legione XXIX, in seguito soppressa nel 27 a.C. e insieme a lui il padre, omonimo, e il fratello Gaio.
La datazione della costruzione è attribuita agli anni 25-10 a.C..
La famiglia dei Sergi era e rimase anche in seguito una delle più importanti della colonia. L'arco venne realizzato addossato all'interno di una porta delle mura cittadine, che prese in seguito il nome di "Porta aurea". Per questo motivo si presenta decorato sul lato verso la città, mentre il lato esterno, visibile solo con la demolizione della porta nel 1829 non era stato rifinito.
L'arco è di piccole dimensioni, con un unico fornice di 8 m di altezza e 4,5 m di larghezza. Il passaggio è fiancheggiato da coppie di colonne corinzie, addossate alla muratura, ma sporgenti per oltre tre quarti della circonferenza. La trabeazione principale sporge al di sopra delle coppie di colonne rispetto alla parte centrale, dove si trova sul fregio l'iscrizione di dedica, tra due bighe raffrontate, con i cavalli al galoppo. Al di sopra della trabeazione l'attico è articolato in tre basamenti, che dovevano sorreggere le statue dei membri della famiglia onorati: al centro quella del tribuno e sui lati quelle dei suoi parenti.
La decorazione è arricchita dai rilievi con Vittorie alate nei pennacchi degli archi, dal fregio con Amorini, ghirlande e bucrani al di sopra delle coppie di colonne, da lesene decorate con intrecci vegetali sul lato interno del passaggio. All'interno dell'arco, decorato con motivi floreali, vi è un riquadro con la raffigurazione di un'aquila che uccide un serpente.
L'arco ispirò molti artisti, tra cui Michelangelo.

Tempio di Adriano, Efeso - TURCHIA

 
Il tempio di Adriano è un piccolo tempio romano di Efeso situato sulla via dei Cureti, nella parte occidentale dell'attuale Turchia, dedicato all'imperatore Adriano nel 138 da Publio Quintilio.
Il tempio è del tipo prostilo, con un pronao tetrastilo (a quattro sostegni) riccamente decorato che precede una piccola cella spoglia. I quattro sostegni della facciata sono costituiti da due colonne centrali e da due pilastri laterali, di ordine corinzio. La trabeazione al di sopra dello spazio centrale tra le due colonne si incurva a formare un ampio arco, decorato al centro da un busto della dea Tyche, che occupa lo spazio del soprastante frontone triangolare, oggi mancante. Sui lati la trabeazione si appoggia a due pilastri laterali addossati alla facciata della cella e non continua sulle pareti di essa.
La facciata della cella, dietro le colonne del pronao è invece riccamente decorata: sopra l'ampia porta, una lunetta reca una figura femminile emergente da una ricca decorazione vegetale, identificata con Medusa.
Ai lati della porta e sulle pareti interne del pronao si trova un fregio scolpito (gli originali sono nel Museo, mentre sul tempio ne sono state collocate delle copie). Ne sono conservati quattro blocchi: nei primi tre blocchi a partire da sinistra vi si trovano una serie di divinità, Androclo, mitico fondatore della città, mentre caccia il cinghiale e Dioniso con le Amazzoni. Il quarto blocco si riferisce probabilmente ad un restauro successivo e raffigura immagini di divinità e personaggi della famiglia imperiale dell'imperatore Teodosio I.
Davanti alle colonne della facciata sono presenti dei piedistalli per statue, aggiunti successivamente, con dediche agli imperatori della Tetrarchia.


venerdì 15 dicembre 2023

Pozzo di Ḫattuša - TURCHIA

 

Nell'antica capitale ittita Ḫattuša, presso l'attuale cittadina di Boğazkale (già Boğazköy) in Turchia, si trovano numerose opere idrauliche di adduzione e scarico delle acque, ivi incluse vasche di accumulo e un pozzo con camera sotterranea. La forma ricorda i pozzi sacri nuragici, con un vestibolo privo di sedili e una scalinata che conduce alla sorgente sotterranea contenuta in una camera sotterranea. Tuttavia la forma della camera è quadrata; essa non trova riscontro nei templi a pozzo sardi che hanno sempre camere circolari e sub circolari, ma alcune fonti sacre nuragiche hanno camere di forma quasi quadrata. Il portale di accesso alla camera, forma trapezoidale, è sormontato da uno spesso architrave. I primi cinque gradini della scala sono esterni al portale.
Il pozzo si trova nella città bassa sul lato sudoccidentale del tempio. L'architrave è decorato con un rilievo che rappresenta una figura umana con cappello rotondo, orecchini e la mano alzata davanti alla testa in un gesto di preghiera. Questa figura è probabilmente il Gran Re: di fronte a lui sono ancora visibili i resti di un altro personaggio che potrebbe essere interpretato come un dio di fronte al quale il Gran Re sta compiendo un gesto di adorazione.
Nei culti ittiti l'acqua aveva carattere sacro ed era considerata elemento di purificazione ed usata per riti lustrali. I testi ittiti rivelano il carattere sacro delle acque tramite culti attribuiti a sorgenti e fiumi. I luoghi dell'acqua sacra venivano anche usati per la divinazione. L'ordalia, prevista dalla legge ittita, veniva indicata dall'espressione "andare al fiume".


Arco di Traiano, Maktar - TUNISIA

 

L'arco di Traiano è un arco romano degli inizi del II secolo situato nell'antica città di Mactaris, oggi Maktar, in Tunisia. L'arco fu dedicato nel 116 d.C. all'imperatore Traiano, come riporta l'iscrizione dedicatoria ancora visibile, per celebrare la concessione della cittadinanza romana alle élite cittadine e la costruzione di un nuovo quartiere. Venne eretto come ingresso al nuovo foro, della stessa epoca. L'arco presenta un unico fornice, inquadrato su entrambe le facciate da due semicolonne con capitelli corinzi, che sorreggono una trabeazione con frontone. Sul fregio era presente l'iscrizione dedicatoria dell'arco. Al centro delle facce dei piloni due semicolonne più grandi sostengono una cornice con mensole di coronamento (non una vera e propria trabeazione, in quanto mancano fregio e architrave)

Museo archeologico di Sparta - GRECIA


Il Museo archeologico di Sparta (in greco Αρχαιολογικό Μουσείο Σπάρτης) è un centro museale della Grecia.
Ospita migliaia di reperti provenienti dall'antica acropoli di Sparta, conosciuta come Lakedaemonia, ma anche dal resto della municipalità della Laconia. I pezzi della collezione risalgono al periodo neolitico fino al tardo periodo romano. Ci sono sette sale con una superficie di circa 500 metri quadrati, in cui è esposta solo una piccola parte della collezione. Amministrativamente appartiene al V Eforato delle antichità preistoriche e classiche.
Nel museo sono ospitati reperti provenienti da scavi intorno alla prefettura di Lakonia, a condizione che non siano esposti nelle collezioni del museo archeologico Giteo o Neapolis.
Sala I: stele di epoca romana.
Sala II: reperti del santuario di Artemide Orthia.
Sala III: sculture monumentali e ritratti di epoca romana.
Sala IV: reperti preistorici della Laconia.
Sala V: lacerti di mosaico romano.
Sala VI: parti architettoniche del tempio di Apollo a Amyclae, che costituiscono anche il più importante dipartimento di raccolta.
Sala VII: reperti di scultura laconiana.





Ascia votiva da San Sosti - REGNO UNITO


L'ascia votiva da San Sosti è un'ascia particolare di bronzo, da un'estremità ascia, dall'altra martello, rinvenuta nel 1846 nei pressi del Santuario della Madonna del Pettoruto di San Sosti, Calabria, provincia di Cosenza. Tra il 1857 e il 1860 fu acquistata dal collezionista e orafo romano Alessandro Castellani, da cui passò nel 1884 al British Museum di Londra, dove è esposta tuttora.
Si tratta di una testa d'ascia cerimoniale in bronzo con foro d'ascia incisa con una dedica religiosa; lama a cuneo con lati ricurvi; fusto elaborato decorato con una figura in fusione di una creatura alata raffigurata frontalmente, probabilmente una sfinge, dettagli delle ali e dei capelli resi come profonde incisioni; bordi a perlina e linguetta sopra e sotto la figura; sono decorati anche i bordi dei fori dell'albero; il terminale della testa dell'ascia comprende una sporgenza rettangolare terminante con una testa a bulbo, con transizione a gradini tra i due elementi; l'iscrizione è incisa sulla lama con sette righe di caratteri dell'alfabeto greco acheo. Questa dedica importantissima, in dialetto acheo scritto in alfabeto dorico,fa risalire il reperto al VI secolo a.C.



Cultura del vaso campaniforme in Sardegna

 

La cultura del vaso campaniforme in Sardegna apparve nel 2100 a.C. circa (o nel 2300 a.C. o prima), durante l'ultima fase del calcolitico, sostituendosi o amalgamandosi alla precedente cultura di Monte Claro, e si sviluppò fino all'antica età del bronzo nel 1900-1800 a.C. circa, fino a sfociare nella cultura di Bonnanaro, considerata il primo stadio della civiltà nuragica.
Il vaso campaniforme, che dà il nome alla cultura, comparve per la prima volta nei contesti calcolitici del Portogallo centrale presso i siti di Zambujal e di Vila Nova de São Pedro, agli inizi del III millennio a.C. (2900 a.C. circa). I dati in possesso degli archeologi sembrerebbero indicare che una prima espansione del vaso campaniforme partì dalla costa atlantica portoghese (estuario del Tago) verso il nord raggiungendo il delta del Reno e l'Europa centrale, da qui successivamente il campaniforme si fuse con la cultura della ceramica cordata (che si estendeva a gran parte della Scandinavia e dell'Europa centrale e orientale fino alla Russia) e ripartì in un movimento migratorio detto di "riflusso" (Ruckstorm in tedesco) verso il nord-ovest (Isole britanniche) e verso il sud-ovest raggiungendo nuovamente la penisola iberica dalla quale, in questa seconda ondata, si diffuse anche in Sardegna.
Tramite la Sardegna il bicchiere campaniforme fece poi la sua comparsa nella Sicilia occidentale dove si registra inoltre l'introduzione di forme architettoniche megalitiche.
«Tra la fine del III e l'inizio del II millennio a.C. la Sicilia fu invasa da un gruppo di genti forse provenienti dalla Sardegna. Queste furono le persone che introdussero nell'isola la cultura del vaso campaniforme» (Sebastiano Tusa, Sicilia terra di frontiera tra la fine del III e gli inizi del II millennio a.C., 2020)

La cultura del vaso campaniforme in Sardegna è caratterizzata dal classico bicchiere a forma di campana. Lo stile e la decorazione delle ceramiche (inizialmente a decorazione impressa a pettine, successivamente ad incisione ed infine inornate) consentono di suddividere il campaniforme sardo in tre fasi cronologiche principali:
A1 o Facies del campaniforme marittimo-internazionale (2100-2000 a.C.)
A2 o Facies italiana-sulcitana (2000-1900 a.C.)
B o Facies del campaniforme inornato / Padre Jossu (1900-1800 a.C.)
Le varie fasi del campaniforme sardo mostrano l'avvicendarsi di due componenti: la prima "franco-iberica" e la seconda "centro-europea":
«I primi bicchieri del Campaniforme sardo, come quelli di Marinaru presso Sassari, mostrano decorazioni di tipo internazionale e sono accompagnati da forme ceramiche mediate dall’area iberica e francese quali basse ciotole, motivi decorativi ad incisione semplice, triangoli campiti da trattini ottenuti con un pettine, motivi a denti di lupo, zig-zag,rombi lisci ottenuti da bande contrapposte di triangoli campiti a pettine. Compaiono, inoltre, forse successivamente, anse su bicchieri, ciotole e vasi tripodi o tetrapodi su vasca emisferica e con piedi cilindrici, di derivazione centroeuropea. Nella fase più tarda domina la componente dell’Europa centrale: si intensificano i contatti lungo le direttrici che dal centro Europa arrivano in Sardegna passando dall’Italia settentrionale, tramite le coste della Toscana»
(Ceramiche. Storia, linguaggio e prospettive in Sardegna, Maria Rosaria Manunza, p.26)

Quasi tutti i reperti campaniformi provengono da sepolture (generalmente domus de janas esistenti dal neolitico e riutilizzate, ma è documentata anche l'inumazione individuale entro cista litica a Santa Vittoria-Nuraxinieddu) che hanno restituito corredi funerari tra i quali figurano i caratteristici brassard (generalmente in pietra) per la protezione degli avambracci degli arcieri e vari oggetti ornamentali tra cui le collane di conchiglie o zanne di animali e i bottoni con perforazione a V.
Fra gli oggetti in metallo si segnalano i pugnali a lama triangolare e gli spilloni ma compaiono anche per la prima volta sull'isola manufatti in oro (collier dalla tomba di Bingia 'e Monti di Gonnostramatza). In selce venivano realizzate invece le punte delle frecce.
In totale sono circa settanta i siti interessati dal campaniforme in Sardegna, concentrati perlopiù lungo tutta la costa occidentale, dalla Nurra al Sulcis-Iglesiente, e nel Campidano, con qualche stanziamento ad est, nel Dorgalese e nel Sarrabus.
Spariscono quasi del tutto gli antichi villaggi all'aperto delle genti Monte Claro che vengono abbandonati dopo secoli di occupazione (forse a causa di cambiamenti climatici o scontri tribali con i nuovi arrivati) mentre sono noti solo tre insediamenti attribuibili specificatamente a questa cultura (Monte Ossoni di Castelsardo, Monte Ollàdiri di Monastir e Palaggiu di Samassi), ciò ha fatto pensare che i suoi portatori fossero genti nomadi probabilmente dimoranti in tende o grotte.
«...È evidente che in Sardegna c’è una vistosissima riduzione delle aree abitative rispetto a quelle note nella facies di Monte Claro e il mutamento del quadro culturale appare repentino [...] Ci si trova di fronte non a invasioni di massa ma all’immigrazione di gruppi minoritari che impongono la loro cultura (campaniforme), almeno in apparenza inferiore, attraverso la loro superiore forza militare e aggressività, come si evince dal complesso delle armi che accompagnano con frequenza le inumazioni: il pugnale, le cuspidi di freccia e il brassard per l’arco» (Giovanni Ugas in La Sardegna preistorica. Storia, materiali, monumenti. Carlo Delfino editore p.229)

Secondo Gary e Maud Webster a seguito di incursioni dei campaniformi furono abbandonati anche l'altare di Monte d'Accoddi e la fortificazione di Monte Baranta, nel nord-ovest. Entità portatrici del bicchiere campaniforme potrebbero aver indotto la migrazione forzata della cultura Monte Claro in insediamenti di rifugio come Sa Sedda de Biriai (Oliena).
Un unicum in Sardegna è rappresentato dal sito di Guardiole, nell'isola di Caprera. Il complesso, costituito da un grande recinto megalitico rettangolare e da altre costruzioni, mostra evidenti similitudini con l'insediamento campaniforme di Ferrandell Olleza, nell'isola di Maiorca.
Sconosciuti i luoghi di culto in cui le popolazioni del vaso campaniforme esplicavano le loro funzioni religiose; i resti di animali dell'ipogeo di Padru Jossu fanno pensare a sacrifici in onore di una divinità.
«...si deve pensare che l'introduzione della Cultura del vaso campaniforme sia dovuta all'arrivo di un nuovo gruppo etnico che, sia pure numericamente minoritario, determinò profondi mutamenti nella realtà politica, economica e religiosa dell'isola. I nuovi uomini venuti dal mare sono legati ad esperienze pastorali, si trascinano appresso un culto lunare e cercano di imporre, in parte riuscendovi, la loro concezione patriarcale e ad un tempo gerarchica della società» (Giovanni Ugas, Facies campaniformi dell'ipogeo di Padru Jossu (1998))

Le genti campaniformi per il loro sostentamento dipendevano principalmente dalla cerealicoltura (grano) e dell'allevamento di ovini e caprini.
Le genti del vaso campaniforme, a differenza di quelle indigene caratterizzate dalla dolicomorfia (cranio allungato), erano perlopiù brachimorfe (cranio corto), forma cranica quasi inesistente in Sardegna nelle epoche precedenti che aumenta numericamente nel periodo campaniforme (15% circa) ed in particolar modo durante l'epicampaniforme (cultura di Bonnanaro), rimanendo tuttavia in minoranza e venendo rapidamente riassorbita geneticamente.
La lingua parlata da queste popolazioni è sconosciuta, tuttavia alcuni studiosi hanno teorizzato che si trattasse di un qualche dialetto indoeuropeo di tipo centum possibilmente protoceltico.
È stato ipotizzato che queste genti, migrate dall'area franco-iberica in Sardegna tra III e II millennio a.C., fossero in qualche modo antenate, almeno in parte, dei Balari, antica etnia che occupava in epoca nuragica gran parte della Sardegna settentrionale per poi ritirarsi all'interno durante l'occupazione punica-romana.
Gli individui protosardi di cultura campaniforme finora analizzati si differenziano da quelli dell'Europa continentale per la quasi totale assenza di geni legati ai pastori delle steppe occidentali dalle steppe pontico-caspiche, mentre non si escludono apporti dai primi campaniformi della penisola iberica (pre-2000 a.C.), anch'essi privi della componente steppica.
«Sebbene non possiamo escludere influssi da parte di popolazioni geneticamente simili (es. i primi campaniformi iberici), l'assenza della componente steppica suggerisce un isolamento genetico da molte popolazioni continentali dell'età del bronzo - inclusi i tardi campaniformi iberici.»
(Marcus, Joseph H.; et al. (Febbraio 24, 2020). "Genetic history from the Middle Neolithic to present on the Mediterranean island of Sardinia")
Secondo uno studio del 2022 di Rémi Tournebize et al., l'apparizione del campaniforme coincide con un effetto del fondatore sull'isola (4114 ± 366 anni fa).
Un altro studio del 2022 di Manjusha Chintalapati et al., ha rilevato in alcuni individui protosardi una moderata ascendenza steppica che sarebbe giunta sull'isola nel 2600 a.C. circa.

(le foto, dall'alto:
- vaso tetrapode dalla Necropoli di Santu Pedru di Alghero;
- vaso della prima facies Padre Jossu
- vasi della facies Marinarus
- collier in oro dalla tomba di Bingia 'e Monti
- brassard di Is Loccis Santus, Museo Archeologico di Cagliari
- collana dal Museo di Villa Abbas, Sardara)


Museo archeologico di Salonicco - GRECIA

  

Il museo archeologico di Salonicco (in greco Αρχαιολογικό Μουσείο Θεσσαλονίκης), situato nel capoluogo della Macedonia Centrale in Grecia, raccoglie materiali risalenti ad epoche comprese tra la Preistoria e l’età romana e provenienti dalla città stessa o da altri siti della regione macedone. Venne fondato nel 1912, quando i Greci conquistarono la città agli Ottomani. Fino al 1925 i reperti archeologici vennero conservati presso il Konak e nell’Università Aristotele. In quell’anno furono trasferiti nella Nuova moschea. Durante la seconda guerra mondiale molti beni furono sepolti in modo da nasconderli alle forze tedesche occupanti. Il museo riaprì soltanto nel 1953.
La collezione è ospitata in un edificio progettato da Patroklos Karantinos e completato nel 1962, quando avvenne l’inaugurazione. Una nuova ala fu aggiunta nel 1980 per ospitare i reperti di Verghina.
Il museo fu profondamente rinnovato e riorganizzato nel 2001 e nel 2004.
Attualmente nella sezione centrale si trova la ricca collezione di statue che spaziano dall’epoca arcaica all’età tardoromana e che provengono da tutta la Macedonia. Fra gli altri reperti vi sono elementi architettonici di un tempio ionico del VI secolo a.C., resti del palazzo che Galerio fece costruire nel centro di Salonicco e una ricostruzione (con elementi originali) della facciata di una tomba di Agia Paraskevi.
Nell’ala più recente del museo oggi sono ospitati oggetti rinvenuti durante i numerosi scavi nella Macedonia Centrale. Fra di essi spiccano le opere in oro, soprattutto i gioielli, che vengono prese come tema centrale per narrare la storia della regione dal VI secolo a.C. al 148 a.C. Nelle sale vicine ha sede la mostra permanente dei materiali preistorici.

Arco romano detto di Traiano, Timgad - TUNISIA


L'arco romano di Timgad (detto impropriamente arco di Traiano) è un arco romano costruito tra la seconda metà del II secolo e gli inizi del III, situato nella colonia romana di Timgad (antica Thamugadi), presso la città di Batna in Algeria.
L'arco, a tre fornici, fungeva da porta occidentale della città, all'inizio del decumano massimo, che proseguiva la via proveniente da Lambaesis.
L'iscrizione sull'attico ricorda la fondazione della colonia da parte di Traiano nell'anno 100, ma la struttura decorativa del monumento e inoltre la ricca ornamentazione degli elementi architettonici hanno fatto supporre una sua datazione più tarda: ai lati dei fornici laterali sono presenti colonne distaccate da parete, collegate da un frontone curvilineo, che creano due edicole laterali sporgenti e fortemente chiaroscurate, quasi indipendenti.
L'arco, insieme all'intero sito archeologico di Timgad, è stato inserito dal 1982 nella lista dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO
L'arco raggiunge un'altezza di 12 m, con il fornice centrale alto 6 m che permetteva il passaggio dei veicoli, le cui ruote hanno lasciato profondi solchi sul basolato della via. I fornici laterali, alti 3,75 m, erano riservati ai pedoni.
Sulle due facciate sopra i fornici laterali sono presenti profonde nicchie rettangolari, inquadrate da edicole con colonnine corinzie con fusti lisci in marmo colorato, sorrette da mensole. Le nicchie erano destinate ad ospitare statue oggi scomparse. L'insieme di ciascun fornice laterale e della nicchia soprastante era inquadrato da due colonne corinzie rudentate, distaccate da parete e innalzate su piedistalli. La trabeazione che corre sulla parete sopra i fornici laterali, sporge sopra le colonne e su di essa poggia a sua volta un frontone curvilineo. L'attico doveva essere sormontato da un gruppo statuario monumentale.
Altre sculture furono aggiunte all'arco successivamente: tra queste una statua di Marte e una della Concordia furono erette sotto l'imperatore Settimio Severo da Lucio Licinio Optaziano, in occasione della sua elezione a flamine perpetuo della colonia.

Cerchio di Brodgar - REGNO UNITO

 

Il Cerchio di Brodgar (o Brogar) è un cerchio di pietre neolitico situato a Stenness sulle isole Orcadi, in Scozia. Il cerchio si trova su di un piccolo istmo tra i laghi di Stenness e Harray. Il centro del cerchio non è mai stato scavato dagli archeologi né è stato scientificamente datato, ma si crede che sia stato costruito intorno al 2500 a.C. e quindi quasi contemporaneo del più famoso cerchio di Stonehenge e di molti altri sparsi per l'arcipelago britannico ed in generale per l'Europa.
Il cerchio ha un diametro di 104 metri, il che lo rende il terzo più grande del Regno Unito. Originariamente era composto da 60 pietre, di cui ne sono rimaste solo 27 alla fine del ventesimo secolo. Le pietre sono poste all'interno di un fossato circolare profondo fino a 3 metri e largo 9 scavato nella roccia dagli antichi abitanti dell'isola.
L'area circostante è costellata di pietre erette e da tombe preistoriche, il che lo rende un interessante luogo funerario. Nonostante non si conosca il suo uso preciso, la vicinanza con le pietre erette di Stenness e con Maeshowe lo rende particolarmente importante.
Scavi operati dall'Orkney College vicino al sito di Brodgar hanno portato alla luce molti edifici, sia rituali che residenziali e si crede che ne restino altri da scoprire nelle vicinanze. In tali scavi sono stati scoperti ceramiche, ossa ed utensili in pietra. La scoperta più importante resta una grossa pietra muraria lunga circa 100 metri ed alta 6 metri. Sembra attraversare tutta la penisola su cui sorge il sito e potrebbe rappresentare una barriera simbolica tra la zona religiosa del Cerchio e quella mondana.

giovedì 14 dicembre 2023

Locri Epizefiri (Calabria)

 


Locri Epizefiri (in greco antico: Λοκροὶ Επιζεφύριοι, Lokroi Epizephyrioi) fu una città della Magna Grecia, fondata sul mar Ionio, nel VII secolo a.C., da greci provenienti dalla Locride.
Locri Epizefiri fu l'ultima delle colonie greche fondate sul territorio dell'attuale Calabria. I coloni, giunti all'inizio del VII secolo a.C., si stabilirono inizialmente presso lo Zephyrion Acra (Capo Zefirio), oggi Capo Bruzzano, e solo più tardi si insediarono pochi chilometri a nord della città storica conservando però l'appellativo di Epizephyrioi, che significa appunto "attorno a Zephyrio".
La zona archeologica dell'antica Locri Epizefiri si trova nel comune di Portigliola, circa 3 km a sud dell'attuale centro abitato del comune di Locri, si estende nel territorio pianeggiante compreso tra la fiumara Portigliola, la fiumara Gerace, le basse colline di Castellace, Abbadessa e Manella, e il mare. Il fatto che tale area si trovi a distanza dagli odierni centri abitati ha preservato quasi integralmente la città antica: tuttavia, nel corso dei secoli, sono state usate pietre prelevate nell'area per edificare nuove case nei dintorni.
Gli scavi archeologici portati avanti da Paolo Orsi (tra il 1908 ed il 1912), da Paolo Enrico Arias (tra il 1940 ed il 1941) e da Giulio Jacopi (nel 1951), hanno rivelato che l'abitato, organizzato con un impianto urbanistico regolare, è attraversato da una grande arteria che ancora oggi conserva il nome greco di "dromo".
La città antica, che era difesa da una cinta muraria di 7 km, in molti tratti ancora visibile. All'esterno delle mura si estendono le necropoli, mentre la maggior parte delle aree sacre sono disposte in prossimità della cinta. I santuari all'interno delle mura sono dotati di edifici templari monumentali e risalgono al periodo arcaico, mentre quelli situati immediatamente all'esterno presentano un aspetto meno monumentale, pur essendovi state rinvenute abbondanti offerte votive.
Tra i monumenti ancora oggi visibili c'è il teatro, risalente al IV secolo a.C. con rifacimenti in età romana: è l'unico edificio pubblico non sacro riportato alla luce a Locri. Si tratta di una costruzione realizzata sfruttando una conca naturale situata ai piedi dell'altura di Casa Marafioti. Rimangono, oltre alle fondazioni dell'edificio scenico, parte dei gradoni in arenaria della cavea, che potevano accogliere circa 4 500 spettatori. In età romana imperiale l'edificio fu trasformato eliminando le file più basse delle gradinate e costruendo un alto muro semicircolare in blocchi di calcare, in modo da proteggere gli spettatori durante le lotte tra gladiatori o tra uomini e animali.
Per quel che concerne il periodo arcaico va menzionato il santuario di Zeus che nel corso del tempo ebbe un'articolazione sempre più ricca. In base alla scoperta a metà altezza della collina della Mannella di un deposito di iscrizioni, così importante per la più tarda amministrazione della città, si è congetturata la presenza dell'agorà ai suoi piedi.
E sempre all'interno della cinta di mura sulla collina della Mannella fu apprestato, con ogni probabilità nel VI secolo a.C., un luogo di culto per un'altra divinità olimpica, Atena. Altri luoghi di culto, sorti a mano a mano fuori dalla cinta muraria, come il santuario delle ninfe in Contrada Caruso o quello di Demetra in Contrada Paparezza (cf. infra), oltre a diverse installazioni domestiche vanno a completare e arricchire il quadro di una colonia, dove dalla molteplicità di costumanze religiose ben trapela anche la differenziazione della cultura cittadina.
L'area sacra di Afrodite si trova nei pressi dell'abitato di Centocamere, situato vicino alla costa, ed è un complesso formato da un tempietto, da una serie di ambienti con portico a "U" e da un cortile centrale; la sua costruzione, avvenuta in due tempi, è da collocarsi tra la fine del VII e la metà del VI secolo a.C., mentre il suo utilizzo si è protratto fino alla metà del IV secolo a.C. In località Marasà sud, immediatamente all'esterno delle mura, e a contatto con l'area delimitata dalla stoa ad U sorgono un sacello tardo arcaico (databile tra il 500 e il 480 a.C.) dedicato senza dubbio ad Afrodite e la cosiddetta casa dei leoni, dove avevano luogo celebrazioni private delle Adonie, improntate allo "stile" di culto ateniese, tenute da tiasi femminili.
La necropoli locrese più nota è quella di Lucifero, dove sono state rinvenute circa 1 700 tombe databili tra il VII e il II secolo a.C. e spesso segnalate da vasi di grandi dimensioni, di buona fattura e pregio, opera di ceramografi ateniesi di fama, oppure da "arule", piccoli altari in terracotta decorati con immagini del mondo dell'oltretomba.
Uno dei templi interni alla cinta muraria è il Tempio ionico di Marasà, una costruzione databile attorno al VI-V secolo a.C.
Tra i maggiori rinvenimenti statuari vi è il gruppo marmoreo dei Dioscuri a cavallo, esposto nel Museo nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria. Si tratta di una imponente scultura raffigurante un Dioscuro che scende da un cavallo impennato sorretto da un tritone con la barba, il busto umano coperto da un panno e il resto del corpo con sembianze di pesce. Nello stesso Museo, oltre ai numerosi reperti provenienti dagli scavi effettuati nella zona dell'antica colonia greca, sono esposte alcune antefisse a testa di sileno, che forse coronavano a scopo decorativo la scena del Teatro. Nella cella tesauraria del santuario della Mannella dedicato a Kore-Persefone sono state trovate numerose tavolette fittili (Pinakes), scolpite con la tecnica del bassorilievo e diverse decorazione in mosaico, raffiguranti scene mitologiche, risalenti per la maggior parte alla prima metà del V secolo a.C. Alcune fanno riferimento alla pratica della prostituzione sacra delle vergini, in uso presso la società locrese. Questo tempio era inoltre di piccole dimensioni, per questo si pensava che fosse un luogo di culto privato. Nonostante le sue limitate dimensioni erano presenti anche scuole e biblioteche, per l’apprendimento dei giovani. Un particolare che differenzia questo tempio dagli altri, dedicati a Persefone, era che per gli abitanti di questa città la dea simboleggiava saggezza e conoscenza, il tempio era luogo dove i devoti potevano cercare la sua guida.
Secondo molti studiosi, il celebre Trono Ludovisi proviene proprio dal tempio ionico di Afrodite di contrada Marasà dell'antica polis. Del resto un frammento di pínax, quadretto votivo in terracotta del 470-60 a. C.circa rinvenuto nel tempio di Persefone in contrada Mannella presso Locri e attualmente nel Museo della Magna Grecia a Reggio Calabria, mostra parte di una figura femminile pressoché identica a una delle due donne rappresentate sui lati del Trono Ludovisi.
Secondo l'archeologa Margherita Guarducci, il Trono costituiva il parapetto del bothros; ipotesi avvalorata dal fatto che le dimensioni della scultura combaciano al centimetro con i tre lastroni di pietra superstiti, del rivestimento del bothros, ancora visibili nell'area archeologica del Tempio di contrada Marasà.
All'esterno della città vi sono diverse necropoli, presso le contrade Monaci, Russo, Faraone, Lucifero, dove sono state ritrovate oltre 1 700 tombe.
La Necropoli di contrada Lucifero, in uso dall'VIII secolo a.C. al III secolo a.C. comprende tombe di tre tipi: tomba a fossa, tomba alla cappuccina e tomba a semibotte.
Vi sono stati trovati oggetti di valore e pregiati, importati dalla Grecia o dalla Magna Grecia (IV secolo a.C.), tra cui vasi, specchi, ornamenti di bronzo e monili in metallo prezioso.
Gli oggetti da toletta per donna erano per la cosmesi personale (pissidi e lekànai, dal greco λεκάνη, vassoio).
Nella necropoli di Lucifero sono stati trovati specchi in bronzo (prodotti da artigiani locali), e fibule (spille di bronzo per abiti, prodotti locali del VI e V secolo a.C.).
In tutte le tombe sono state trovate delle lekythoi, al sing. lekythos, ovvero vasi per contenere oli profumati per toeletta, usati anche dagli atleti prima degli esercizi sportivi e per i rituali funebri.
Gli specchi, produzione tipica locrese, esportati in Magna Grecia ed in Sicilia, erano fabbricati in bronzo con manici a figura maschile o femminile.
La Necropoli di contrada Parapezza, a sud-ovest di Lucifero, comprende oltre 200 tombe. Fu usata intensamente in età arcaica (VI secolo a.C.) e in età ellenistica (III e II secolo a.C.).
In una tomba ad inumazione sono stati trovati piccoli contenitori importati da Corinto, dall'oriente greco (Asia Minore) e dall'Attica.
Nel VI secolo a.C. erano usati grandi contenitori di ceramica (anfore per il trasporto del vino e dell'olio), molte delle quali erano state importate da Corinto o da Atene. Vi sono inoltre delle anfore importate dalla Laconia; questo tipo di ceramiche fu prodotto nel VII e VI secolo a.C. La ceramica laconica, diffusa in tutto il Mediterraneo, veniva fabbricata usando un'argilla rosata, coperta da ingubbiatura giallina, sulla quale si dipingevano figure in nero.
Sono state ritrovate delle hydriai, vasi a tre anse per attingere e trasportare acqua. I vasi più grossi venivano usati per contenere i corpi senza vita di piccoli bambini. Altri vasi venivano usati per le ceneri dei defunti.
I giardini di Adone (IV secolo a.C.) erano realizzati nelle anfore da trasporto, opportunamente spezzate e capovolte. Venivano coltivati finocchi e lattughe, innaffiati con acqua calda per accelerarne la crescita.
La Necropoli di contrada Faraone è posizionata nel nord-est dell'area urbana. Durante gli scavi è stato trovato un piccolo frontone in calcare con fregi dorici (frontone del naiskos), datato tra il IV e III secolo a.C.
Il celebre Santuario di Persefone situato a mezza costa del colle della Mannella è stato definito da Diodoro Siculo come "il più famoso tra i santuari dell'Italia meridionale" (ma escludeva la Sicilia). Non è ancora stato compreso quale culto si praticasse in questo santuario, ma sembra si tratti delle divinità dell'oltretomba, principalmente Persefone. Le ricchezze del Persephoneion locrese furono depredate da Dionisio II (360 a.C.), Pirro (276 a.C.) e dal comandante romano Pleminio luogotenente di Scipione dopo la cacciata da Locri Epizefiri durante la seconda guerra punica (205 a.C.). Gli oggetti votivi rinvenuti nel complesso architettonico (terrecotte figurate, frammenti di vasi, arule, pinakes, specchi e iscrizioni con dedica alla dea) si datano tra il VII e il II secolo a.C.
Riguardo al Tempio Ionico in contrada Marasà si sa che nella prima metà del V secolo a.C. i locresi abbatterono il tempio arcaico e lo sostituirono con uno più grande in stile ionico in calcare. Orsi pensa che il tempio sia stato importato da Siracusa.
Il tempio di Marasà fu realizzato da architetti e maestranze siracusane operanti a Locri Epizefiri nel 470 a.C. su iniziativa del tiranno Ierone di Siracusa (alleato e protettore dei locresi). Il nuovo tempio ha la stessa ubicazione ma è orientato diversamente.
Il tempio è stato distrutto nel XIX secolo ed i ruderi mostrano oggi un solo rostro di colonna.
La dimensione del tempio era di 45,5 m per 19,8 m. La cella, libera da sostegni sull'asse centrale, era preceduta da un pronaos (vestibolo) con due colonne fra le ante, che si ripetevano anche fra le ante dell'opistodomo, il vano retrostante la cella, non comunicante con questo. Nello spessore dei muri tra pronaos e cella erano inserite le scale di servizio, per accedere al tetto, come in alcuni templi agrigentini.
Al centro della cella tre grandi lastre di calcare, infisse verticalmente nel terreno, rivestivano un bothros (fossa sotto il livello del pavimento), che doveva essere di notevole importanza per il culto.
Il tempio aveva 17 colonne ioniche sui lati lunghi, e 6 colonne sulla fronte. Le colonne dovevano essere di circa 12 m di altezza, con base a capitello ionico a volute. L'epistilio (blocchi sulle colonne) con architrave a tre fasce e dentelli in sostituzione del fregio, non era molto sviluppato in altezza, così come i frontoni dall'inclinazione assai poco accentuata.
Questo tempio era molto più alto dei templi dorici (rapporto altezza e larghezza 1:1), ed è uno dei pochi templi ionici della Magna Grecia.
Da un esame preliminare risulta che a Locri Epizefiri vi fosse un Tesmophorion, un Iatreion di Demetra (Grotta Caruso), e un Persephoneion che apparentemente veniva adibito a Telesterion per i Misteri "Eleusini".
La connessione di Locri con il culto occidentale di Afrodite e Adone è stata evidenziata dall'analisi di Torelli che ha identificato il bothos del tempio di Marasà con la cassa-tomba del giovane dio. Si tenga conto che nella stoà ad U sono stati rinvenuti 356 bothroi con resti di pasti, evidentemente destinati alla celebrazione di banchetti sacri. La casa dei leoni che sorge in zona limitrofa a questo complesso è un luogo destinato all'omaggio rituale privato nei confronti di Adone. Di questo culto locrese ci dà notizia anche la poetessa Nosside, che forse faceva parte di uno dei thiasi femminili che onoravano il dio.
Identificato nel XX secolo da P. E. Arias, il teatro greco di contrada Pirettina sfrutta una concavità naturale ai piedi del pianoro Cusemi ed è stato scavato tagliando i gradini nell'arenaria tenerissima. La prima fase del teatro risale alla metà del IV secolo a.C.
L'edificio conteneva fino a 4 500 spettatori. Dalla cavea (koilon) costituita da gradoni tagliati in parte nella roccia ed in parte sistemati con lastre della stessa arenaria, si godeva un notevole panorama della città e del mare.
La gradinata era divisa in sette cunei (kerkìs, in greco κερκίς) mediante 6 scalette (climax, in greco κλῖμαξ). Una partizione orizzontale (diazoma) separava le gradinate da altre (epitheatron) oggi rovinate. Si pensa che il teatro servisse anche per riunioni politiche.

Relitto della nave punica di Marsala (Sicilia)


Il relitto della nave punica di Marsala custodito nel Museo Archeologico Baglio Anselmi di Marsala è al 2007 l'unico esemplare di nave punica esistente. 
Per quanto riguarda la fabbricazione di navi, i punici erano famosi in tutto il mar Mediterraneo per l'abilità e la velocità con cui le costruivano. Questi infatti usavano una tecnica molto particolare che consisteva nel costruire pezzi singoli di nave, dei “prefabbricati”, che venivano segnati con lettere e segni particolari, creando una sorta di puzzle, che permetteva in modo semplice e veloce il riassemblaggio in un oggetto unico.
Nel 1969, durante i lavori di scavo da parte di una draga vennero scoperti dei vasi antichi e altri reperti nella zona di Punta Scario, al largo dell'Isola Grande, presso l'imboccatura nord della laguna dello Stagnone. Nel 1971 il movimento di un banco di sabbia fece emergere la poppa della nave a pochi metri sotto il livello del mare, nei pressi del canale artificiale punico (“fretum intraboream”) che oggi è andato perduto. Lo scavo iniziò immediatamente, affidato all'archeologa Honor Frost. Il recupero della nave è avvenuto tra gli anni 1971 e 1974.
Terminati gli scavi, i legni della nave vennero conservati in acqua dolce e successivamente montati e conservati in questo baglio, adibito per l'occasione a museo. Della nave punica di Marsala, purtroppo, si conservano solo alcune parti, che vengono comunque ammirate da molti studiosi e turisti di tutto il mondo.
Al momento della scoperta furono trovati, tra i resti dello scafo, anche altri oggetti che facevano comunque parte dell'imbarcazione o che appartenevano ai membri dell'equipaggio:
  • sassi usati per zavorra che, con molta probabilità, provenivano dalle coste laziali
  • ossa di animali tagliate a pezzi
  • noccioli d'oliva e gusci di noce (forse la nave affondò in un periodo autunnale o invernale, data l'assenza di resti di frutta fresca)
  • foglie di cannabis sativa (forse utilizzata per alleviare le fatiche dei marinai)
  • scopa in sparto (fibra vegetale utilizzata ancora oggi per fare i panieri)
  • corde “piombate”, ossia intrecciate e rinforzate grazie a uno strumento in legno terminante a punta e che ancora oggi viene utilizzato (la caviglia)
  • boccali, piatti, ciotole, un mortaio, tappi di sughero
  • un pugnale
Questi ed altri reperti sono stati analizzati con il carbonio 14 e concordano nel datare la nave alla metà del III secolo a.C..
A Marsala in un primo momento vennero esposti solo i pezzi di legno disassemblati, mentre la nave intera fu assemblata solo dopo che alcuni tecnici locali, i fratelli Bonanno, costruttori di barche e navi, riuscirono a ricostruire l'imbarcazione sotto la guida di Austin P. Farrar, un ingegnere navale della missione di scavo inglese, grazie alle lettere e ai segni presenti sul materiale recuperato.
Naturalmente va detto che non furono rinvenuti tutti i pezzi originari. Fu trovata solamente una parte di questi, ovvero la poppa e la fiancata di babordo, mentre altri pezzi sono stati montati su supporti appositi, visibili ad occhio nudo a causa del differente colore del legname. Dopo il rinvenimento, i legni vennero dapprima messi in vasche d'acqua dolce e, successivamente la nave venne reimmersa in una vasca con cera sintetica (polietelene glycol – PEG 4000 ad alta percentuale) dissolta in acqua a diverse concentrazioni e temperature.
La nave punica venne poi esposta nel museo nel 1978, ma per 21 anni rimase sotto un telone in quanto le condizioni architettoniche del museo non erano idonee per la sua corretta esposizione; infatti la si poteva ammirare soltanto tramite alcune finestrelle di plastica trasparente poste lungo le fiancate della copertura.
Nel maggio del 1999, ultimati i lavori che permisero la creazione di un clima adatto ad una conservazione ottimale, attraverso l'installazione di impianti di climatizzazione per mantenere umidità e temperatura costanti, venne tolto il telone e la nave fu esposta al pubblico.

La nave rappresenta un'importante testimonianza della Prima guerra punica, quindi è antecedente al 241 a.C.. Della nave punica si è conservata la parte poppiera e la fiancata di babordo, per circa 10 metri di lunghezza e 3 di larghezza. Rossella Giglio ipotizza che: «[...] ipoteticamente la lunghezza era di m. 35, la larghezza di 4,80, la stazza di tonnellate 120, con un possibile equipaggio di 68 vogatori, 34 per lato, che azionavano i 17 remi di ogni fiancata.».
La nave punica era costruita secondo la tecnica detta «a guscio portante», basata sulla realizzazione prima del fasciame e poi della struttura interna. La parte esterna era rivestita da lamiere di piombo, fissate con chiodi di bronzo, mentre un tessuto impermeabilizzante stava in mezzo tra il fasciame ed il rivestimento metallico. La parte interna, invece, era costituita da madieri e ordinate, rispettivamente costruite in quercia e acero le prime, e in pino e acero le seconde, mentre il fasciame era realizzato in pino silvestre e marittimo. I segni geometrici che si trovano sulla nave costituivano le linee-guida per la costruzione della stessa e costituiscono, già da soli, una testimonianza di grande importanza.Aveva un'àncora,una chiglia e un rostro.
Sono numerose le questioni ancora aperte sulla nave punica di Marsala. Prima di tutto ci si chiede ancora se fosse una nave da guerra o una nave oneraria (da carico) anche se addirittura c'è chi mette in dubbio che fosse effettivamente una nave punica.
Caratteristica importante di questo tipo d'imbarcazione era il rostro, elemento tipico delle navi puniche da guerra, una punta di bronzo o lignea posta sulla prua sotto il livello del mare, che serviva a speronare le navi nemiche e che dopo lo scontro si staccava dalla chiglia facendo affondare la nave speronata. Anche se della nave di Marsala si conserva solo una parte della poppa, gli studiosi suppongono che a prua ci potesse essere un rostro, proprio come quello che si è trovato nel 2004 a Trapani in quanto intorno ai legni ricurvi del lato di prua sono state rinvenute tracce di tessuto imbevuto di resina e un frammento di lamina di piombo.
Ciò fa pensare che probabilmente questa nave fosse una nave da guerra, teoria sostenuta dall'archeologa Honor Frost, dalla Giglio e da molti altri studiosi
A favore di questa tesi, ci sarebbe anche la questione della datazione, che il test del carbonio 14 fissa alla metà del III secolo a.C. Sulla scorta di questi dati la Giglio sostiene che la nave «con tutta probabilità affondò il 10 marzo del 241 a.C., nel corso della battaglia navale combattuta nel mare delle Egadi che concluse la prima guerra punica».
Maurizio Vento, docente di latino nei licei e autore di un testo sull'argomento, sostiene che si tratta di una nave da trasporto, in quanto le misure e la forma coincidono con quelle delle classiche navi puniche onerarie. Egli inoltre sottolinea che l'identificazione fatta dalla Frost fosse più legata al fatto che all'epoca del rinvenimento, il ritrovamento di una nave punica da guerra costituiva un vero e proprio sogno per gli archeologi. Come scrive infatti la Frost alla vigilia del rinvenimento: «[…] Ancora una volta non si può dire niente fin quando uno scavo sarà stato realizzato, eccetto che la scoperta di una nave da guerra antica è da un secolo il vecchio sogno degli archeologi navali. Nessun relitto di questo genere è stato mai scoperto […]». Sono affermazioni che svelano, secondo Maurizio Vento che «prima ancora che fossero visitati scientificamente i reperti» esisteva il proposito «di voler materializzare quel sogno, non tenendo conto di molti fattori che, pur messi in luce da tempo, vengono generalmente trascurati».
I dubbi di Vento vengono alimentati ulteriormente anche dal fatto che in questa nave si sia trovato « il vasellame (ciotole, macine per granaglia, poche anfore per l'acqua potabile, per il vino e per la salsa di pesci), i rifiuti degli alimenti (come resti ossei di animali da cacciagione o come resti vegetali quali noccioli di frutta secca, di olive in salamoia), numerosi oggetti (come legna da ardere, tappi di anfore, cordami, canapa per spaghi e stoppa, pece, punteruoli per funi, attrezzi da pesca) che fanno tutti parte del normale corredo delle navi onerarie e sono presenti pure a bordo della nave punica di Marsala» – e, invece, non si sono trovati – «i moltissimi remi (che permettevano le rapide mosse strategiche per colpire il fianco della nave nemica), le catene dei numerosi rematori e i banconi dove sedevano» – ma soprattutto – «il rostro bronzeo tricuspidato, le varie armi (scudi, corazze, spade, pugnali ecc.), e poi materiali di ricambio, argani, carrucole, arnesi vari, e tutto ciò che è facile immaginare fosse il consueto corredo di una nave bellica».
Un'altra considerazione importante viene fatta da Piero Bartoloni citato da Maurizio Vento, e cioè che «le navi onerarie di Cartagine erano lunghe tra i 20 e i 30 metri, con una larghezza compresa tra i 5 e i 7 metri, e avevano un tirante d'acqua di circa un metro e mezzo, analogo all'altezza dell'opera morta» - e ancora - «tra la carena ed il pagliolo era situata la zavorra, costituita da pietrame in schegge ed eventualmente sostituita con sabbia se il carico era costituito da anfore; per attutire gli urti delle pietre contro i corsi, veniva disposta una coltre di fogliame. Lo stesso carico costituiva parte necessaria della zavorra, come è dimostrato indirettamente da una delle navi puniche di Punta Scario, all'interno della quale è stata rinvenuta una certa quantità di pietrame che, a quanto risulta dalle analisi effettuate, proveniva probabilmente dalla costa settentrionale del Lazio». E conclude dicendo che «questo rinvenimento […], secondo il nostro avviso, dimostra che la nave in questione era giunta carica nel porto etrusco e che, una volta scaricati i prodotti importati e non essendovi nulla da caricare per il viaggio di ritorno, la sua zavorra era stata sostituita con del pietrame locale». Maurizio Vento conclude dicendo che «la nave oneraria […] sarebbe dunque naufragata per un errore del nocchiere, dovuto o ad imperizia o più probabilmente a cause naturali (come, ad esempio, una tempesta), al momento di virare nei pressi del Borrone, lungo l'unica rotta praticabile che consentisse di approdare in quella che un tempo era stata la Cartagine siciliana».

Museo archeologico di Saintes - FRANCIA

 

Il Museo archeologico di Saintes è un museo pubblico nel dipartimento della Charente-Maritime, in Francia. Il museo nacque nel 1815 per iniziativa del barone Alexandre Chaudruc de Crazannes, raccogliendo un'importante collezione lapidaria proveniente dalle campagne di scavo archeologico e dai lavori di terrazzamento condotti nel corso del XIX secolo.
Nel 1931 fu spostato nell'edificio del l'ex-macello municipale, i cui locali furono sistemati in base alle indicazioni dell'archeologo ed erudito Charles Dangibeaud, nominato conservatore dei musei della città. Le aperture furono chiuse da griglie e una corte interna precede la sala principale. Il museo si affaccia sul piazzale André Malraux e ospita un colonnato proveniente da un monumento antico, distrutto alla fine del III secolo per la costruzione delle mura urbane.
Gran parte delle collezioni provengono dallo scavo delle antiche mura cittadine, edificate nel periodo di instabilità del III secolo con grande rapidità: per questo motivo una parte degli edifici pubblici fu demolita e i blocchi furono reimpiegati nelle mura. Le mura furono in seguito più volte rinforzate nel corso del Medioevo e si conservano fino al XVIII secolo. Le fondazioni sono tuttora in parte visibili presso la piazza des Récollets e furono inserite nel registro dei monumenti storici francesi nel 1977.
La sala principale del museo ospita la ricostruzione approssimativa della trabeazione di un importante monumento pubblico, civile o religioso, della città antica, edificato nel I secolo d.C. (foto in alto)
Tra gli oggetti esposti figura inoltre una ricca collezione di sculture, ornamentali, religiose e funerarie, tra cui diverse dee-madri e un rilievo che potrebbe raffigurare il fiume Charente. Una statua senza testa di epoca augustea raffigura una dea che tiene un giovane cervo, simbolo di prosperità e del legame con il mondo dei defunti.
Numerosi frammenti di colonne, di stele funerarie, o di capitelli, e resti di mosaici rappresentano la parte più consistente della collezione. Tra questi una statua acefala in marmo lunense e degli elementi di un carro romano del I secolo, unico in Europa occidentale.


Museo archeologico di Tebe - GRECIA


Il Museo archeologico di Tebe si trova alla fine dell'Odos Pindarou nel nord di Tebe (Thiva) in Grecia. Il primo edificio venne costruito in più fasi dal 1905 al 1912. Nel 1962 il vecchio edificio venne sostituito da uno nuovo, più grande. Nel 2007 è stato aperto l'odierno museo, nel quale è integrato il secondo edificio. L'area è stata notevolmente ampliata e l'allestimento è stato rivisto. Nel 2015 sono stati completati i lavori della sistemazione dell'esposizione nel suo stato attuale. Ora è uno dei più importanti musei della Grecia.
Il museo è composto da quattro grandi sale espositive. Le collezioni vanno dalla preistoria all'epoca bizantina. Di particolare interesse sono tre kouroi trovati nel santuario di Apollo a Ptoion, stele tombali dipinte provenienti da Tebe e Tanagra, nonché reperti degli ultimi scavi del palazzo, tra cui tavolette lineari B e 42 sigilli cilindrici, per lo più mesopotamici e ciprioti del XV -XIII secolo a.C., la maggior parte dei quali realizzati con lapislazzuli.
Nel cortile del museo si trova una torre medievale, probabilmente parte del palazzo dei Franchi costruito da Nicola II di Saint-Omer nel XIII secolo, sovrano di Tebe alla metà del secolo.



mercoledì 13 dicembre 2023

Museo archeologico di Giannina - GRECIA

 

Il Museo archeologico di Giannina (Αρχαιολογικό Μουσείο Ιωαννίνων) è un museo con sede nel parco Litharitsa nel centro di Giannina, in Grecia.
Il museo contiene molti manufatti rinvenuti nelle vicinanze come utensili del Paleolitico provenienti da Kokkinopilos, da Asprochaliko e da Kastritsa, dalle rovine di Dodoni e da necropoli come quella di Vitsa e dell'Oracolo di Acheron. Il museo custodisce anche molte iscrizioni, lapidi e una raccolta di monete.
L'edificio è stato progettato dall'architetto greco Aris Konstantinidis (1913-1993).

Pyla-Kokkinokremnos - CIPRO

 

Pyla-Kokkinokremnos
 è un insediamento risalente alla tarda età del bronzo (XIII secolo a.C. circa) situato nella parte sud-orientale dell'isola di Cipro. Venne abbandonato dopo un breve periodo di occupazione. Secondo Vassos Karageorghis, tra i popolatori dell'insediamento vi erano genti provenienti da Creta e dal mediterraneo occidentale. Il sito di Pyla-Kokkinokremos è situato su un altopiano roccioso a circa 10 km ad est di Larnaca, Kition, e a circa 20 km a sud-ovest di Enkomi, due grandi centri dell'età del bronzo nel XIII-XII secolo a.C., periodo noto come tardo-cipriota IIC e IIIA. Il sito è stato scavato da P. Dikaios nel 1952, V. Karageorghis nel 1981-1982 e, più recentemente, per il periodo 2010-2013, da V. Karageorghis e A. Kanta. Dal 2014, lo scavo è portato avanti da J. Bretschneider (Università di Gand), J. Driessen (Université catholique de Louvain) e A. Kanta (Società Archeologica del Mediterraneo).
In base alle campagne di scavo, si può presumere che l'intero altopiano di ca. 7 ettari era densamente occupato. Il più significativo è lo scavo di una parte di un insediamento nel settore orientale e nord-occidentale, il cui perimetro esterno murato si presume abbia circondato l'intero altopiano. La ripetizione di unità abitative all'interno dei settori scavati suggeriscono che la fondazione fu pianificata. Inoltre la scoperta di diversi ripostigli di metalli preziosi, sembrano indicare un abbandono organizzato dell'insediamento. Scavi precedenti hanno restituito due tavolette scritte in sillabario cipriota-minoico e hanno confermato il carattere internazionale della cultura materiale, che include, ad esempio ceramiche minoiche, cananee, micenee, sarde (resti di ceramiche di origine nuragica sono stati rinvenuti nel corso degli scavi del 2010), ittite e cipriote.
Pyla-Kokkinokremos fu fondato in un momento in cui la crisi dell'età del bronzo nel mediterraneo orientale aveva raggiunto il suo apice, e venne abbandonato solo pochi decenni dopo.

Anfiteatro romano di El Jem - TUNISIA

 

L'anfiteatro romano di El Jem è un anfiteatro nella moderna città di El Jem, in Tunisia (antica Thysdrus), spesso chiamato erroneamente colosseo poiché era in grado di ospitare 35 000 spettatori seduti. Solo il Colosseo di Roma, con più di 50 000 posti a sedere, e l'Anfiteatro campano di Capua erano più capienti. L'anfiteatro di El Jem venne costruito dai romani sotto il proconsole Gordiano I, il quale venne acclamato imperatore a Thysdrus intorno al 238. Fu probabilmente usato per spettacoli di gladiatori e corse dei carri. È possibile che la costruzione dell'edificio non sia mai stata completata.
Fino al diciassettesimo secolo rimase praticamente intatto. A partire da quel momento le sue pietre vennero usate per la costruzione del villaggio limitrofo di El Jem e della Grande moschea di Qayrawan e, durante un conflitto con gli Ottomani, i Turchi usarono l'artiglieria per stanare i ribelli nascosti al suo interno. I ruderi sono stati dichiarati patrimonio dell'umanità nel 1979.

Porta di Adriano - TURCHIA


La porta di Adriano (in turco Hadrian Kapısı), nota anche come le Tre porte (in turco Üçkapılar), è un arco trionfale di epoca romana della città turca di Adalia (Antalya), realizzata intorno al 130 d.C. in onore dell'imperatore Adriano.
La porta venne eretta intorno al 130 d.C. in ricordo della visita dell'imperatore romano Adriano ad Adalia. La struttura venne successivamente incorporata nelle mura cittadine di epoca selgiuchide.
Di epoca romana è anche la torre meridionale nei pressi della porta (realizzata dopo quest'ultima), mentre sembrano essere di epoca successiva le due torri situate ai lati della struttura. Pare che in origine, nella porta fossero state erette delle statue raffiguranti l'imperatore Adriano e la sua famiglia, che però sono andate perdute.
In seguito, nella prima metà del XIII secolo, sotto il sultano Alaeddin Keykubat I, venne ricostruita la torre settentrionale.
I Paesi occidentali vennero a conoscenza dell'esistenza della porta di Adriano nel 1817 grazie a Francis Beaufort, che ne parlò nel suo diario di viaggio. In seguito, la porta di Adriano di Adalia venne descritta alla fine del XIX secolo dall'esploratore polacco Karol Lanckoroński.
La struttura venne però riportata completamente alla luce e restaurata negli anni cinquanta del XX secolo.
La porta di Adriano si trova lungo la Atatürk Caddesi rappresenta l'ingresso a Kaleiçi, la parte vecchia della città di Adalia. Si trova nelle vicinanze di altri monumenti quali la torre dell'orologio, il minareto scanalato e il minareto tronco.
La struttura è formata da tre porte ad arco sorrette da quattro colonne corinzie. Complessivamente, la struttura, compresa la pavimentazione, si erge fino a circa 8 metri di altezza; i tre archi che formano la porta hanno un'altezza di 6,18 metri e una larghezza di 4,15 metri. 
Nella torre settentrionale, ricostruita nel XIII secolo, si trova un'iscrizione in turco antico, redatta in alfabeto arabo.
Secondo una leggenda la porta di Adriano sarebbe stata attravesata da Makeda, regina di Saba durante la sua sosta ad Aspendos (antica città nei pressi dell'attuale Adalia) nel corso del suo viaggio effettuato per raggiungere re Salomone.

Kam"jana Mohyla - UCRAINA

 


Kam"jana Mohyla (in ucraino Кам'яна Могила; in russo Каменная Могила, Kamennaja Mogila; lett. "Tomba di Pietra") è un sito archeologico che si trova nella valle del fiume Molochna, a circa un chilometro e mezzo dal villaggio di Terpinnja, nell'oblast di Zaporižžja, Ucraina.
Il sito è costituito da un isolato gruppo di blocchi di arenaria, alti fino a dodici metri, sparsi per un'area di circa 3.000 metri quadrati. Una leggenda Noghai racconta che essi sono il risultato di un tafferuglio tra due Bogatyr, i quali iniziarono a scagliarsi delle pietre a vicenda. In realtà i blocchi iniziarono a formarsi in un banco di sabbia dell'oceano Tetide. Il sito fu per molto tempo un'isola del fiume Molochna, ma attualmente rimane più a ovest del corso d'acqua. Si pensa che sia l'unico affioramento di arenaria della zona.
La forma di questa collina di sabbia ricorda molto i kurgan. Nel 1889, l'archeologo russo Nikolay Veselovsky fu chiamato a esplorare l'enigmatico sito e gli scavi iniziarono l'anno successivo. Appena si cuncluse che il complesso era un tumulo funerario, gli scavi vennero chiusi e fino al primo terzo del XX secolo non furono eseguite più ricerche in situ.
Nel 1930 il sito è stato oggetto di indagine da parte di un team di studiosi provenienti da Melitopol sotto la guida di Valentin Danylenko (1913-82). Il giovane archeologo affermò di aver scoperto trenta grotte con petroglifi e iscrizioni che datò dal XX secolo a.C. al XVII secolo d.C. Danylenko riprese il suo lavoro sul sito dopo la seconda guerra mondiale e affermò di aver scoperto ulteriori tredici grotte con petroglifi.
Anche se le sue dichiarazioni suscitarono qualche dubbio, il sito fu inserito tra i luoghi di interesse storico nel 1954, questo per evitare che la zona fosse distrutta dalla costruzione di una riserva idrica. Nel corso dei decenni successivi, la condizione di petroglifi è visibilmente peggiorata.
Il resoconto del lavoro di Danylenko fu pubblicato postumo, ma il tutto fu ripreso da Anatoly Kifishin nel 2001 per attirare maggiore attenzione su Kam"jana Mohyla. In questo controverso lavoro, Kifishin compara i petroglifi di Kamenna Mohyla a quelli di Çatal Hüyük e conclude che entrambi sono legati alla scrittura cuneiforme sumera. Poco prima della sua morte, Igor Diakonov, si scagliò pesantemente contro questa ipotesi, tuttavia venne ripresa con enfasi dai media locali e portata all'attenzione dell'opinione pubblica.
I petroglifi vennero rinvenuti solo dentro le grotte presenti nel sito, molte delle quali sono ancora ripiene di sabbia. Le incisioni non sono state finora riparate dagli elementi o vandali, alcune sono ricoperte da una patina di tinta rossa. Siccome non sono stati rinvenuti resti di insediamenti umani nelle vicinanze, molti studiosi ritengono che la collina fu un santuario isolato, remoto. Non è ancora chiaro se il sito risalga al paleolitico o al neolitico; in realtà sembra più probabile una datazione più prossima a noi, anche se una presunta raffigurazione di mammut sposterebbe la datazione indietro nel tempo.
Nel 2006 il governo ucraino ha nominato il sito per l'inserimento nel Patrimonio dell'umanità dell'UNESCO. Nel complesso, le immagini ritrovate in situ rappresentano tracce di esercizi religiosi dei cacciatori e allevatori di bovini della steppa dal XX secolo a.C. al XVII secolo d.C. Alcune grotte sono di origine artificiale; i vari strati con resti rinvenuti risalgono dal neolitico fino al medio evo e questo rende il sito di Kam"jana Mohyla uno dei più antichi templi megalitici del mondo che è rimasto in funzione per molte migliaia di anni.

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