sabato 14 ottobre 2023

Band-e Kaisar - IRAN

 

Il Band-e Kaisar ("Diga di Cesare") o Pol-e Kaisar ("Ponte di Cesare"), Ponte di Valeriano oppure Shadirwan è un ponte ad arco romano in rovina a Shushtar nell'Iran. Fu costruito dai prigionieri di guerra romani (circa 70.000 uomini) dopo la sconfitta subita dall'imperatore Valeriano (253-260 d.C.) da parte del sovrano sassanide Sapore I nella Battaglia di Edessa.
Questo ponte fu il primo in Iran ad essere impiegato assieme a una diga (o briglia) che serviva lo storico sistema idraulico di Shushtar il quale irrigava 150.000 ettari di landa arabile ed è anche il ponte romano più a oriente trovandosi nel bel mezzo del territorio persiano.
Dal 2009 il ponte è stato nominato dall'UNESCO decimo sito Patrimonio dell'umanità dell'Iran. Il ponte, costruito sul fiume Karun, collegava la capitale sassanide Pasargadae con Ctesifonte rimase in uso fino al XIX secolo più volte ricostruito durante il periodo islamico l'ultimo crollo risale al 1885.

Chemamull - CILE


 I Chemamull o Chemamüll (letteralmente "persone di legno", dal Mapudungun che "persona" e mamüll "legno") sono delle statue lignee realizzate dal popolo Mapuche per localizzare la tomba di un deceduto e per i riti funebri. 
I chemamull sono delle statue in legno intagliato, spesso alte più di due metri, che rappresentano un corpo umano stilizzato. Le statue possono avere delle caratteristiche fisiche maschili o femminili. Spesso le statue sono raffigurate con le braccia incrociate sul petto. I Mapuce utilizzavano tronchi interi di quercia della Patagonia (Nothofagus obliqua) o di alloro cileno (Laurelia sempervirens).
In epoca precolombiana lo scopo dei chemamull era molto simile a quello delle lapidi. Secondo le testimonianze nei libri, i chemamull aiutavano l’anima del defunto a riunirsi con i suoi antenati. Durante il funerale la statua lignea rimaneva accanto al defunto e poi veniva eretta sopra la sua tomba. L'altare utilizzato dai Mapuce per le cerimonie, dove sarebbe stato posto il chemamull, si chiamava rehue.



Le sculture riprodotte nelle immagini sono esposte nel Museo di Arteprecolombiana a Santiago del Cile

Tiddis - ALGERIA

 


Tiddis (Castellum Tidditanorum) è una città romana dell'odierna Algeria, che dipendeva da Cirta (Costantina). In epoca moderna la località aveva preso il nome di Ksantina el Kedima Si trova all'ingresso delle gole del Khreneg, formate dal uadi Rhummel, su un pianoro elevato sulle pendici meridionali della montagna, in posizione facilmente difendibile.
La sepolture più antiche della necropoli hanno restituito esemplari di ceramica con decorazione dipinta che suggeriscono una origine del centro berbera. Nel II e I secolo a.C. sono presenti ceramica di importazione e iscrizioni puniche, che testimoniano l'influenza di Cirta. Dopo la conquista romana, appartenne al territorio della confederazione della Respublica IIII coloniarum Cirtensium, che aveva uno statuto particolare nell'ambito della provincia.
La città era articolata su terrazze scavate nella roccia, collegate tra loro da vie in pendenza o da scale. La mancanza di sorgenti determinò la costruzione di numerose cisterne per garantire l'approvvigionamento idrico.
Tra i monumenti cittadini sono le mura, con una porta monumentale, terme con cisterne, costruite da Marco Cocceio Anicio Fausto alla metà del III secolo e un tempio dedicato a Saturno, nella parte più elevata della città, che ha restituito numerose stele, oggi conservate nel museo di Costantina. Erano inoltre presenti installazioni industriali per la produzione di ceramiche e un santuario mitraico del IV secolo. 
Fuori della città si conserva il mausoleo (nella foto a sinistra) costruito da Quinto Lollio Urbico, nativo di Tiddis e figlio di un proprietario terriero berbero, che era divenuto praefectus urbis nella capitale sotto Antonino Pio. Nel V secolo fu sede vescovile e due basiliche cristiane sono state identificate negli scavi.
La presenza di ceramica attesta la continuità di vita ancora nel X e XI secolo, ma in seguito la città venne abbandonata.
Gli scavi archeologici sono stati condotti tra il 1940 e il 1973 da André Berthier


Osso sacro di Tequixquiac - MESSICO

 


L'Osso sacro di Tequixquiac, è una scultura ossea del periodo preistorico. Il pezzo è stato trovato a Tequixquiac, durante lo scavo del tunnel di drenaggio profondo di Città del Messico. Tequixquiac è un comune in cui maggiori scoperte sono state fatte in termini di materiale fossile è interessato, anche se nel corso del tempo il terreno e la vegetazione sono sepolti resti di uomini e animali e, successivamente, sono stati trovati per caso, come è il caso il "Sacro di Tequixquiac" ritrovato il 4 febbraio 1870, a dodici metri di profondità, durante la costruzione del sistema fognario della città di Messico, questo fossile è considerato come un esempio di arte e ha suggerito che gli fu dato il valore scientifico per la preistoria delle Americhe.
Uno dei ritrovamenti più salienti dell'arte primitiva in America è stato trovato in questo comune, prese il nome di Sacro di Tequixquiac,, che è inutile e riflettere solo senso ideologico dell'artista che ha scolpito il pezzo di osso un Camelidae 22.000 anni a.C.. Probabilmente rappresenta il volto di un maiale o un coyote, intagliato nell'osso sacro di un animale preistorico che è attualmente estinto in questa regione.

Ninfeo di Amman - GIORDANIA

 

Il Ninfeo di Amman è una fontana pubblica romana ad Amman, in Giordania. Si trova a poca distanza dalla Piazza Ashemita, dal Teatro Romano e dall'Odeon, all'incrocio delle vie Ibn al-Atheer e Quraysh ad al-Balad. Tali fontane erano molto popolari nelle città romane, e Filadelfia, come Amman era conosciuta dagli antichi greci e romani, non facendo eccezione. Si ritiene che questo ninfeo contenesse una piscina di 600 metri quadrati profonda tre metri e continuamente riempita di acqua. Il ninfeo fu costruito nel II secolo d.C., durante lo stesso periodo del teatro e dell'odeon. Nel settembre 2015, gli studenti di archeologia dell'Università della Giordania, dell'Università di Petra e dell'Università Ashemita, nonché dei tecnici professionisti, finanziati dall'ambasciata degli Stati Uniti, hanno iniziato il restauro del sito. Il loro lavoro è consistito nel pulire la struttura pietra per pietra e nel sostituire porzioni di pietra perse a causa dell'erosione, delle fessurazioni e delle screpolature.

Piatto di Ardabur Aspar (Toscana)

 


Il piatto di Ardabur Aspar è un missorio in argento fuso, datato 434 e conservato nel Museo archeologico nazionale di Firenze (Inv. 2588).
L'opera venne rinvenuta nel 1769 presso il fosso Castione vicino al borgo medievale di Pereta nel comune di Magliano in Toscana (provincia di Grosseto). È un importante reperto, sia per qualità che per luogo di rinvenimento, che testimonia la presenza bizantina durante le guerre gotiche.
Si tratta di un missorio consolare, che celebra l'elezione a console di Ardaburio Aspare nel 434, decisa da Galla Placidia come premio per le vittorie contro Genserico in Africa.
L'iscrizione intorno al bordo (CIL XI, 2637) recita:
«Fl(avius) Ardabur Aspar vir inlustris com(es) et mag(ister) militum et consul ordinarius»
A fianco dei personaggi ci sono la dea Roma e la dea Flora stanti con in mano delle lunghe aste. Ardaburio Aspare ha in mano uno scettro ed alza la "mappa" o fazzoletto che dava il segnale di inizio dei giochi circensi, seduto sulla sella curule, simbolo dei magistrati. Accanto si trova il giovane figlio Ardaburio, indicato come Ardabur Iunior pr(a)etor, vestito come il padre. Ai loro piedi scudi e palme attestano le vittorie conseguite. Sopra i due sono collocate due imagines clipeatae raffiguranti Ardaburio (padre di Aspare) e Plinta, parente di Aspare.

Museo di Archeologia dell’Università di Pavia (Lombardia)

 


Il Museo di Archeologia dell’Università di Pavia fu istituito nel 1819 ed è, insieme a quello di Padova, uno dei più antichi d’Italia. Il museo è situato all'interno dell'antico Ospedale San Matteo di Pavia.
Nel 1818 Pier Vittorio Aldini partecipò al concorso per la prima cattedra di Archeologia presso l'Università di Pavia, la più antica in Italia, vinto l'incarico l’anno seguente prese servizio. Il Museo di Archeologia dell’Università di Pavia nasce con il nome di “Gabinetto numismatico e antiquario” per iniziativa di Pier Vittorio Aldini, come parte integrante dell’Istituto di Archeologia fondato nel 1819, uno dei più antichi, insieme a quello di Padova, in Italia. La finalità prevalentemente didattica della raccolta, alimentata inizialmente da un’oculata politica di acquisti e concepita come campo di esercitazioni pratiche di archeologia e storia dell’arte classica, dà ragione del suo carattere non specialistico, ma articolato su una grande varietà di materiali, distribuiti su un arco cronologico molto esteso (dal II millennio a.C. fino alla tarda antichità).
Alle acquisizioni di Aldini risale in gran parte la serie delle sculture in marmo, tra cui va segnalato il pezzo di maggior pregio della collezione, la splendida testa femminile (nella foto a sinistra), replica romana dell’Afrodite Sosadra di Calamide. Sempre negli stessi la collezione fu arricchita un gruppo di statue in marmo di età romana provenienti da Velleia. Di notevole qualità è un ritratto femminile privato di età imperiale assegnato alla seconda metà del II secolo d.C. Interessante per la storia della circolazione dei falsi nel commercio antiquario è la presenza di alcuni pezzi di esecuzione moderna, tra cui una copia settecentesca di un ritratto del Museo Nazionale di Napoli, a lungo ritenuto originale ellenistico.
Il nucleo originario della raccolta comprende inoltre elementi architettonici, epigrafi (tra cui due iscrizioni su lamina bronzea con prescrizioni mediche rinvenute presso la Vernavola) e oggetti appartenenti a classi diverse di manufatti (ceramica, vetri, oggetti metallici, gemme e anelli), acquisiti, anche localmente, nell’intento di offrire agli studenti un’efficace campionatura della cultura materiale dell’antichità, modernamente intesa come fonte per la storia antica. La piccola bronzistica è rappresentata da una serie di statuette di divinità provenienti da aree culturali diverse (Egitto, Magna Grecia, Etruria, mondo romano): accanto a tipi derivati dalla grande statuaria della Grecia classica, sono rappresentate figure tipicamente romane, come le statuette dei Lari, espressione del culto domestico.
Dall’acquisto, nel 1831, della collezione dello scultore milanese Giovanni Battista Comolli provengono una serie di vasi dipinti di produzione apula (IV secolo a.C.) e un piccolo gruppo di ceramiche a vernice nera assegnabile a fabbriche etrusche e sud-italiche. Nel 1845 risulta già presente una piccola raccolta di materiale egizio e orientale.
Tra i meriti dell’Aldini va ricordata l’acquisizione di una delle maggiori numismatiche formatesi a Pavia tra XVII e XVIII secolo, quella dei marchesi Bellisomi, esponenti dell’aristocrazia pavese aperti alla cultura antiquaria e illuministica. Un incremento significativo dei materiali del museo universitario si ebbe in seguito, negli anni ’30 del Novecento, con l’acquisizione di una serie di terrecotte figurate etrusche, donate da papa Pio XI. Nel 1933 il museo ricevette dalla Soprintendenza alle Antichità di Napoli un complesso di vasellame bronzeo e un piccolo gruppo di terrecotte architettoniche da Pompei. Nel 1940 Carlo Albizzati acquistò per il Museo, con altri materiali, due esempi interessanti di ceramografia della fine del IV secolo a.C.: un cratere volterrano sovraddipinto e un’idra campana a figure rosse. Una delle donazioni più recenti, negli anni ’70 del Novecento (un gruppo di esemplari di ceramica aretina), è dovuto ad Arturo Stenico. Nello spazio del museo è attualmente conservata un’importante statua marmorea del XV secolo raffigurante un santo vescovo (forse Sant’Agostino), già collocata nel cortile del Leano dell’Università, estranea per cronologia alla raccolta archeologica, ma comunque meritevole di valorizzazione.
l Museo è diviso in diverse collezioni:
Le collezioni di monete e di gemme incise
Il patrimonio numismatico conta circa 8.000 pezzi divisi tra monete greche, romane repubblicane e imperiali, celtiche, tardoantiche e bizantine. La collezione di intagli (scarabei, gemme, paste vitree incise e cammei) e di anelli digitali annovera in tutto 66 esemplari di provenienza non nota. Un primo nucleo però fu acquisito dallo stesso fondatore del Museo, Pier Vittorio Aldini, mentre altri giunsero tramite donazioni, ricordiamo in particolare quella del rettore Arcangelo Spedalieri (1779- 1823) che volle lasciare nel 1820 al neonato “Gabinetto numismatico e antiquario” la sua piccola (29 monete d’oro, 300 d’argento e solo 76 di bronzo) ma ricca collezione di monete greche, romane, bizantine, medievali e moderne, quasi tutte di provenienza siciliana. Il collezionismo numismatico settecentesco a Pavia è rappresentato bene dalla raccolta di monete formata lungo tutto il Settecento da tre generazioni di rappresentanti della famiglia Bellisomi e infine donato all’Università nel 1821, essa è costituita prevalentemente da monete romane, sia repubblicane sia imperiali. Sempre tramite donazione giunse ad arricchire il patrimonio del museo anche la collezione del Marchese Stefano Bernardo Majnoni, originario di Intignano e probabilmente il più attivo e colto collezionista della prima metà dell’Ottocento in Lombardia. In particolare il Majnoni studiò e raccolse monete cufiche, sassanidi e delle zecche greche d’oriente e lasciò all’università un nucleo di monete arcaiche di Sibari, delle città greche d’Asia e romane provinciali.
Collezione di reperti preistorici
Si tratta di reperti provenienti da vari insediamenti lombardi: strumenti in pietra e osso, selci scheggiate e levigate, lame-raschiatoi, punte di freccia. La ceramica protostorica è di impasto grossolano e lavorata a mano. Sono poi conservati anche una punta di lancia e fibule, bracciali e anelli in bronzo, alcuni decorati a globetti. Questi reperti rappresentano il substrato di culture indigene dell'Italia settentrionale, poi soggette al processo di romanizzazione.
Collezione egizia e orientale
La collezione egizia, iniziata intorno al 1845, è formata da due mummie (una femminile integra e una maschile di cui si possiede solo la testa) e oggetti provenienti da contesti funerari: ushabti, un papiro dell'Amduat, che racconta il viaggio notturno del Sole e figure in legno dipinto ricomposte in fase di restauro in una mummy board lavorata a intaglio, quasi un unicum nelle collezioni egittologiche italiane. Estranea al mondo egizio è la figurina fittile, di provenienza siriana, databile tra il 2000 e il 1800 a.C.
Collezione di ceramica magnogreca, etrusca e romana
La collezione è formata da un gruppo di vasi apuli, di probabile provenienza funeraria, appartenuti allo scultore milanese Giovanni Battista Comolli e acquisiti nel 1831 e da due hydriai campane, giunte tra il 1929 e il 1948 grazie a Carlo Albizzati, docente di Archeologia nell’Ateneo pavese. Ma si conservano anche ceramica a vernice nera etrusco-italica e un grande cratere volterrano, senza dimenticare la produzione romana, testimoniata da ceramica da mensa, terra sigillata e anfore.
Collezione di ex-voto fittili etruschi
La civiltà dell'Italia peninsulare prima della conquista romana è testimoniata in Museo oltre che dalla ceramica, da un prezioso bronzetto umbro di guerriero (metà del V sec. a.C.) e dalla straordinaria serie di terrecotte votive, donata di papa Pio XI nel 1934 all’Università di Pavia, in forma di teste e parti anatomiche, databili in età ellenistica, provenienti da Caere, odierna Cerveteri. Tali reperti, originariamente depositati nei Musei Vaticani, giunsero a Pavia grazie all’impegno di Carlo Albizzati.
Gipsoteca
Appartiene al Museo Archeologico anche la Gipsoteca (una trentina di pezzi circa) che conserva calchi in gesso in scala 1:1 di opere famose della scultura classica, dall’età arcaica fino all’ellenismo, come il Discobolo, l’Apollo Sauroktònos, la Nike di Samotracia o l’Afrodite di Milo. I calchi, recentemente restaurati, furono acquistati nella prima metà del Novecento in Francia e presso il laboratorio milanese di Carlo Campi, che operò al servizio dell’Accademia di Brera.

(le foto sono di Davide Barbieri)

Mausoleo dei Plauzi (Lazio)

 
Il Mausoleo dei Plauzi (o Mausoleo dei Plautii), nei pressi di Tivoli, è una tomba monumentale databile ai primissimi anni del I sec. d. C. destinata ad ospitare i membri della ricca e influente famiglia romana dei Plauzi. L’iscrizione più antica ricorda infatti Marco Plauzio Silvano, console nel 2 a. C. con l’imperatore Augusto.
 A conferma dell'importanza della famiglia, la prima moglie dell'imperatore Claudio fu Plautia Urgulanilla. Conservatosi grazie al fatto di essere stato utilizzato anche dai discendenti dei primi Plauzi, il mausoleo era costituito in origine da un alto cilindro, sormontato da una cupola e poggiante su una base quadrata, tutto rivestito in travertino, con una struttura simile alla tomba di Cecilia Metella. Oggi ha oggi un aspetto profondamente mutato rispetto all’antichità per il fatto di essere stato svuotato all'interno e trasformato nel Quattrocento in una torre merlata, a protezione del passaggio sul vicino Ponte Lucano sull’Aniene.
Dopo un periodo di abbandono e successivi grandi lavori di restauro il mausoleo è ora nella disponibilità dell’Istituto Villa Adriana e Villa d’Este (MiBAC).
Accanto al mausoleo sono visibili due grosse lastre in marmo recanti due iscrizioni. Una terza iscrizione, più piccola, si trova incastonata nella parte alta del mausoleo, mentre una quarta è andata oggi perduta, ma ci è stata tramandata dagli scritti di Grutero, Poggioli, Nibby, Viola, che a sua volta afferma essere citata da Pichio, Redi, Antonio Agostino, Scaligero, Mazzocchi, Cudio e Desanctis. Alcune di queste fonti citano ripetutamente Grutero come fonte della trascrizione dell'iscrizione mancante.

Dolmen di Carapito I - PORTOGALLO

 


Il dolmen di Carapito I è un monumento archeologico che si trova nel territorio della freguesia di Carapito, nel comune di Aguiar da Beira nel Distretto di Guarda della Regione Beira Alta, in Portogallo. 
La costruzione del dolmen risale al periodo megalitico, attorno al XXIX secolo a.C.. Dopo le prime esplorazioni in epoche recenti, si registrarono crolli all'inizio del XX secolo. L'archeologa Irisalva Moita visitò il sito nel 1955 e lo descrisse come in stato di rovina.
L'antichissimo manufatto si trova in ambiente campestre, ad occidente rispetto a Carapito. In origine faceva parte di un complesso che comprendeva altri due dolmen. Il Carapito I ha una struttura semplice e racchiude la camera centrale che ha una base poligonale con apertura che si rivolge a nord ovest. Le grandi lastre di pietra sono alte circa 3,5 metri. Nella seconda metà del XX secolo è stato oggetto di attenzione e di lavori di restauro.
Il dolmen Carapito I, conosciuto anche come Casa da Moura, è stato classificato monumento nazionale del Portogallo il 21 dicembre 1974.
Il sito di arte paleolitica nella Valle del Côa è uno dei più grandi siti all'aperto di arte paleolitica.
Alla fine degli anni ottanta vennero scoperte incisioni a Vila Nova de Foz Côa, nel Duero (Portogallo nord-orientale) e parzialmente a Pinhel (Beira Interna Nord, distretto di Guarda). Questo luogo si trova nella valle del Côa, e comprende migliaia di incisioni raffiguranti cavalli, bovini ed altri animali, uomini e figure astratte, databili tra i 20 000 e i 10 000 anni fa. A partire dal 1995 una squadra di archeologi sta catalogando e studiando questo complesso preistorico, ed è stato istituito un parco al fine di ricevere turisti in determinate aree.

Dopo la scoperta del complesso, che si estende per molti chilometri lungo il fiume, nacque una polemica circa la costruzione di una centrale idroelettrica.
Se venisse costruita, la centrale alzerebbe il livello del fiume coprendo buona parte delle pitture rupestri. Questo fato era noto alla compagnia energetica portoghese (la EDP) ed all'IPPAR prima che la comunità scientifica ne scoprisse l'importanza.
L'archeologo Nélson Rabada, studiando il sito grazie ad un accordo tra EDP ed IPPAR, decise di parlarne alla stampa ed alle alte autorità in materia, come l'UNESCO. Questa scoperta provocò scandalo nell'opinione pubblica portoghese ed internazionale, ed il caso venne denunciato da The Sunday Times, The New York Times ed International Herald Tribune.
I documenti prodotti dall'UNESCO non furono unanimi riguardo alla costruzione o meno della centrale, con Jean Clottes, capo del dipartimento preistorico, che sosteneva che l'innalzamento dell'acqua avrebbe potuto difendere i graffiti dai vandalismi ma confermando anche che "è il sito di arte paleolitica all'aperto più grande dell'Europa, se non del mondo".
Questa soluzione non piacque agli archeologi ed all'opinione pubblica, ed un forte movimento di opinione pubblica portoghese si oppose alla sua costruzione. Nel 1995 il parlamento ed il governo portoghese, sotto la guida del Primo ministro António Guterres, decise di sospendere i lavori creando un parco da dedicare agli studi archeologici ed alle visite turistiche.
Le incisioni trovate raffigurano principalmente animali quali cavalli, bovini (uri) e caprini. Sono presenti anche figure umane o astratte.
Le immagini sono quasi esclusivamente su superfici verticali di roccia lungo la vallata del fiume, e sono state fatte usando la tecnica ad incisione. La dimensione spazia da 15 a 180 centimetri, ma la maggior parte è di 40-50 centimetri che spesso formano mosaici o composizioni. Lo stile usa soprattutto linee spesse. È stato calcolato che queste incisioni risalgono a 20 000 anni fa (studio del 1995).
L'importanza del sito dipende dalla rarità di questo genere, e dalla sua incredibile estensione; esistono numerosi siti con graffiti nelle grotte, ma quelli all'aperto sono rarissimi, come quello di Mazouco (Messico), quello di Fornols-Haut (Francia), o quelli di Domingo García e Siega Verde (entrambi in Spagna), ma nessuno di loro può competere con Côa per dimensioni.

Ulpiana - KOSOVO


Ulpiana fu un'antica città romana nei Balcani, e capitale della regione storica della Dardania. Nei Balcani ci si riferisce a questa città anche col nome Moesia.
Ulpiana è compresa nella municipalità di Gračanica, in Kosovo. La cittadina Lipljan, nella cui municipalità si trovava fino al 2009, prende il nome dall'antica Ulpiana. Fu fondata nel II secolo durante l'impero di Traiano e rinnovata nel VI secolo durante l'impero di Giustiniano, a seguito del quale fu rinominata Iustiniana Secunda.
Resti della città, distrutta e ricostruita più volte, con la basilica, mosaici e tombe, sono stati trovati a ovest di Gračanica. Durante il periodo cristiano Ulpiana fu un importante centro episcopale. Ad Ulpiana sono stati ritrovati molti reperti come monete, ceramiche, armi, gioielli, ecc.
I resti della città, solo parzialmente portati alla luce, si trovano circa a 1,3 km a ovest di Gračanica, immediatamente a nord della strada che la connette a Laplje Selo.
Ulpiana è anche il nome antico dell'attuale Pristina.

venerdì 13 ottobre 2023

San Pawl Milqi - MALTA

 


San Pawl Milqi ("San Paolo Naufrago") è un sito archeologico di Malta.
È una villa agricola romana, la più estesa mai scoperta a Malta. La tradizione vuole che l'edificio appartenesse a Publio di Malta, governatore e primo vescovo dell'isola, che accolse Paolo di Tarso durante il suo naufragio nel 60 d.C.: tuttavia non vi sono evidenze archeologiche che facciano pensare ad un'ipotesi del genere. Le uniche tracce di culto cristiano permettono solo di datare la costruzione della prima cappella al XIV secolo.
Il sito è gestito da Heritage Malta e non è aperto al pubblico a causa di alcuni lavori conservativi, ma il pubblico può accedervi durante l'open day annuale, che solitamente cade in Febbraio.
Il sito è stato impiegato già in età preistorica: un paio di tombe sono state datata alle fasi Zebbug e Borġ in-Nadur, corrispondenti all'età del bronzo maltese. Il primo edificio del sito fu costruito probabilmente nel periodo fenicio-punico, quando venne usato a periodi alterni per scopi agricoli. Di questa fase resta un numero esiguo di costruzioni, con una sepoltura ed un'iscrizione neopunica.
Nel periodo romano la posizione del sito sulle pendici di una valle fertile e la vicinanza al porto di Salina rendevano il luogo un posto ideale per la produzione di olio d'oliva. La villa fu ampliata, e l'originaria corte centrale fu trasformata in un'area di produzione. Il trapetum (un mulino rotante utilizzato per separare i semi dai frutti d'oliva), i punti di ancoraggio e almeno due presse sono ancora visibili, insieme ad una serie di vasce di filtraggio per la purificazione dell'olio.
Nonostante fosse grande abbastanza per essere appartenuta ad un ricco aristocratico, la villa non contiene alcun quartiere residenziale di alcun particolare rilievo. Le quattro stanze sono state riconosciute come camere di servizio, tanto da essere state decorate solo con intonaci dipinti e pavimenti in comune cocciopesto. Non esistono testimonianze di pavimenti mosaicati come nelle altre domus maltesi, come a Rabat.
Il sito venne ridotto nelle sue dimensioni e fu circondato da un piccolo muro di recinzione, probabilmente durante il periodo del dominio arabo a Malta. Le mura fortificate, l'apporto costante di acqua e la buona posizione lasciano pensare che la struttura fu utilizzata per controllare il porto vicino e la valle.
Una chiesa fu costruita su un lato del sito nel XIV secolo, ma dopo poco più di un secolo cadde in disuso, e nel 1616 venne sostituita da una chiesa dedicata all'accoglienza di san Paolo. La chiesa, ancora oggi esistente, è tra le più antiche testimonianze connesse al luogo della tradizione.
Nonostante i resti della villa fossero ben noti da tempo, le prime indagini scientifiche non sono iniziate prima del 1963 da parte della Missione Archeologica Italiana a Malta, diretta da Sabatino Moscati. I risultati finali sono in corso di pubblicazione.

Menhir di Peyrefitte - FRANCIA

 
Il menhir di Peyrefitte (chiamato anche Pierrefitte o Pierre Fitte ) è un menhir situato a Saint-Sulpice-de-Faleyrens nel dipartimento francese della Gironda .
Il menhir è noto da molto tempo. È menzionato in una sentenza di Edoardo I pronunciata per la prima volta contro J. Grailly datata 27 maggio 1289. È designato come Petra-fixed , un nome trovato nel 1290 in un testo legale che pone limiti alla giurisdizione dei sindaci e delle giurie di Saint -Émilion .
Questo monumento è stato classificato come monumento storico dal 1889 . Le pratiche culturali legate a questo monumento sono incluse nell'inventario del patrimonio culturale immateriale della Francia .
Le sue dimensioni sono imponenti (5,20  m di altezza per 3  m di larghezza e 1,50  m di spessore). Il peso del megalite è stimato in 50 tonnellate, tenendo conto della parte interrata. È il menhir più imponente del sud-ovest della Francia.
Il menhir è costituito da un blocco monolitico di sezione quadrangolare e leggermente inclinato scolpito in una pietra calcarea con asterie. Probabilmente è stato estratto da affioramenti di questo tipo di roccia, situati a circa 2,5  km dal sito di Saint-Émilion.
Presenta una costrizione nella sua parte inferiore, che può essere il risultato di chi l'ha eretta o di un lavoro più recente dei cavatori. Su una delle sue facce, a 0,70  m sopra il terreno attuale, è presente una "buca per le offerte" circolare scavata nel Medioevo .
Come per tutti i menhir, in assenza di materiale litico o ceramiche trovate nelle vicinanze, la datazione è difficile. Il menhir è probabilmente contemporaneo ai numerosi vicoli coperti visibili nella regione che tradizionalmente datiamo al tardo neolitico (-3.500 / -2.800 a.C.).
Nel xix °  secolo , una tomba merovingia è stato scoperto nelle vicinanze conteneva ossa e due chiavi di ferro.
Secondo la tradizione popolare, il menhir sarebbe stato abbandonato in loco dalla Beata Vergine recatasi presso l' Abbazia di La Sauve-Majeure , la pietra originariamente destinata al completamento di uno dei due campanili. Un'altra tradizione è che il menhir segni la posizione di un vitello d'oro e l'ingresso a un passaggio sotterraneo. Nel 1806, lo storico JB Souffrain sostenne che sarebbe stato eretto dagli abitanti della regione intorno al 1451 per commemorare la partenza degli inglesi. Arriva addirittura a suggerire che il nome del megalite sia una deformazione di “Pierre de Fuite” (quello degli inglesi!).
Il megalite avrebbe il dono di curare i reumatismi, in particolare di quelli che zoppicano. Per diversi secoli, il menhir è stato un luogo di culto dove la gente veniva a pregare, ma la rivoluzione del 1789 ne pose fine. Ancora oggi la festa di San Giovanni (24 giugno) dà luogo a manifestazioni popolari. Il menhir è decorato per l'occasione. Il pubblico vi si reca in processione, tenendo in mano una candela accesa, fa due volte il giro del menhir ed esprime un desiderio. Infine, affida la sua candela alla corrente della vicina Dordogna. Alcuni scrivono il loro desiderio su un foglio di carta trasformato in una piccola barca e posto sull'acqua del fiume. I fuochi d'artificio rafforzano il significato solstiziale della festa.

Idolo di Pomos - CIPRO

 

L'idolo di Pomos (Ειδώλιο του Πωμού), è una scultura cruciforme preistorica del periodo Calcolitico (XXX secolo a.C. circa) che è stata trovata vicino al villaggio cipriota di Pomos.
Oggi è esposta al Museo nazionale cipriota di Nicosia.
La scultura rappresenta una donna con le braccia aperte. Probabilmente era un simbolo di fertilità. Un grande numero di figure simili sono state ritrovate a Cipro. Quelle di dimensioni più piccole erano indossate attorno al collo come amuleti.
Come esempio dell'arte preistorica di Cipro, è stato scelto per le monete cipriote da 1 e 2 Euro.

Guerreros galaicos - PORTOGALLO

Guerreros galaicos (traducibile lett. dallo spagnolo in "Guerrieri galiziani"), anche noti come Guerreros galaico-lusitanos o Guerreros de la Cultura castreña, sono statue in pietra di guerrieri della Penisola iberica pre-romana. Le figure, a grandezza naturale, sono state trovate nella parte occidental-settentrionale della Penisola, principalmente in Galizia (Spagna) e nel nord di Portogallo. Lo studioso Thomas G. Schattner le ha interpretata come divinità guerriere protettrici vestite come guerrieri del popolo celtico dei Galleci.
La datazione dei Guerreros, così chiamati dallo studioso Emil Hübner, continua ad essere oggetto di discussione. La statua-stele di São João di Vedere, nella quale è chiaramente scolpita solo la testa, è considerata un predecessore. Si ritiene che le prime forme di scultura locali siano databili al V-IV secolo a.C. e le opere più mature al III secolo a.C.
Gli ornamenti (fond. i torque) e le armi (daghe) delle statue sono coerenti con i reperti dell'età del ferro iberica e confermano l'origine pre-romana. La presenza di iscrizioni in lingua latina conferma però che le opere erano ancora in uso durante il periodo romano, complicando la datazione certa. Le statue sono state trovate presso le fortezze collinari (es. castros) della c.d. Castrocultura (es. Cultura castreña) e sono stata interpretata come raffigurazioni di guerrieri o dèi. La funzione di nume tutelari dell'accampamento, posti in prossimità della cinta difensiva, richiama quanto osservato nel sito archeologico tedesco di Glauberg, ove sono state ritrovate statue celtiche simili. Un altro corrispettivo dei Guerreros nell'Europa Centrale può essere trovato nel c.d. "guerriero di Hirschlanden" ritrovato in un altro sito archeologico tedesco.
Esiste una buona collezione di Guerreros nel Museo Nazionale d'Archeologia di Lisbona e nei musei locali di Guimarães, Sanfins e Viana do Castelo, ove si trova la c.d. "Guerriera di São Paio di Meixedo", o "Statua di Viana", uno dei tre pezzi descritti da Emil Hübner nel 1861.

Calderone di Gundestrup - DANIMARCA

 


Il calderone di Gundestrup è un manufatto celtico datato tradizionalmente al III secolo a.C., nella tarda Età del ferro, anche se la recente datazione al radiocarbonio di residui di cera sul calderone e del metallo di cui è costituito ne sposterebbe in avanti l’origine fino al III secolo d.C.. Fu ritrovato il 28 maggio 1891 in una torbiera dell'Himmerland, nello Jutland, nel nord della Danimarca. È costituito da un insieme di 13 pannelli d'argento - di cui 5 rettangolari interni, 7 quadrati esterni (è andato perduto un ottavo pannello) e uno circolare che costituisce il fondo – di 42 cm di altezza, un diametro di 69 cm e un peso di 9 chilogrammi. Conservato presso il Museo Nazionale Danese di Copenaghen, le raffigurazioni presenti nelle tredici placche lo rendono un importante e discusso oggetto protostorico.
Non è un prodotto locale e si pensa che sia stato portato in Danimarca, come trofeo e offerta rituale, forse dai Cimbri, i quali nel 101 a.C. subirono una sconfitta da parte dei Romani e una parte di loro ritornò nella terra d'origine a nord, nell'Himmerland, proprio la zona del ritrovamento del calderone; ma il luogo di fabbricazione viene ipotizzato – scartata ormai una precedente attribuzione alla Gallia centrale - prevalentemente nella regione del basso Danubio, corrispondente all'incirca all'attuale Bulgaria. Se infatti lo stile e la tecnica della lavorazione – altorilievo di argento parzialmente dorato - sono riconosciute come traci, i motivi delle rappresentazioni sono soprattutto celtici; la spiegazione di questa mescolanza di motivi può essere data dalla coesistenza, in quella regione, di tribù celtiche - gli Scordisci – e della Tracia – i Triballoi. I più recenti studi radiometrici, che sposterebbero la datazione possibile fino al III secolo d.C., complicano le cose perché indicherebbero la sopravvivenza di usanze antiche in ambito pienamente romano.
Il calderone era un oggetto di comune uso domestico presso i Celti, ma la decorazione preziosa del calderone di Gundestrup rivela il suo utilizzo rituale. Nella piastra del fondo è raffigurato un sacrificio mentre quelle del contorno interno sviluppano il mito della nascita di un dio e in quelle esterne i sacrifici che propiziano i raccolti e le nascite.
In un pannello è rappresentato il dio Cernunnos, dalle corna di cervo, signore degli animali e delle forze della natura, mentre con una mano tiene il serpente dalla testa di ariete, simbolo della fertilità e con l'altra offre in dono il torquis, un collare, ornamento tipico dei nobili Celti. Accanto al dio, a sinistra, ancora un cervo e un toro, gli animali sacrificali, alla sua destra è la lupa, mangiatrice d'uomini, e poi un uomo che cavalca un delfino e animali reali e fantastici, come grifoni alati, elefanti e felini, soggetti poco frequentati dall'arte celtica e diffusi invece nell'area del mar Nero.
In un'altra placca è rappresentato Taranis, il dio della ruota, che tiene in mano il suo simbolo ed ha al fianco un guerriero con un elmo munito di corna, identificato in modo incerto con l'eroe celta Cú Chulainn, e ancora animali fantastici.
In un altro pannello ancora è raffigurato un sacrificio umano al dio Teutates, nel quale la vittima viene annegata in una botte. Un'altra interpretazione vuole vedervi invece un rito religioso di altra natura, una specie di battesimo o la rinascita di guerrieri morti mediante l'immersione nel calderone «magico»: secondo le leggende celtiche, in un calderone si può ottenere la moltiplicazione dei raccolti, come nel calderone dell'abbondanza di Dagda, o si può ottenere una conoscenza universale gustandone il contenuto. Tali virtù sono del resto da avvicinare a quelle delle sorgenti benefiche e anche il Graal della leggenda di re Artù non è che la rappresentazione cristianizzata del calderone dell'abbondanza e della conoscenza. Questo oggetto è un recipiente cultuale che rappresenta quindi il substrato celtico della leggenda medievale del Graal nonché, con le sue scene, quello che Georges Dumézil ha definito "il festino dell'immortalità".
Gli artefici del calderone, sorprendentemente, evidenziano contatti culturali che si estendevano per 6000 chilometri, dai Balcani fino all'India settentrionale e quindi alcune divinità raffigurate si possono definire panculturali; questo fatto spiega la presenza della raffigurazione di una dea accompagnata da elefanti al bagno rituale (divinità indiana Lakshmi).
Le placchette sono state sagomate partendo da un foglio metallico, grazie a temprature, e quindi i rilievi sono stati decorati con vari strumenti, tra i quali i punzoni.

Vaso di Bronocice - POLONIA

 


Il vaso di Bronocice, scoperto presso Działoszyce, nel Voivodato della Santacroce, nei pressi del fiume Nidzica, in Polonia, è un vaso di ceramica in cui è incisa la prima immagine conosciuta di quello che potrebbe essere un veicolo a ruote. Viene datato con il metodo del radiocarbonio al 3635-3370 a.C., o al 3470-3210 a.C., ed è attribuito alla cultura del bicchiere imbutiforme. È attualmente esposto nel Museo archeologico di Cracovia (Muzeum Archeologiczne w Krakowie).
Il vaso è stato scoperto nel 1974-1976 durante lo scavo archeologico di un grande insediamento neolitico presso Bronocice, a circa 50 km a nord-est di Cracovia. Gli scavi furono effettuati tra il 1974 e il 1980 dall'Istituto di Archeologia ed Etnologia, Accademia polacca delle scienze e della State University of New York a Buffalo (Stati Uniti).
Sarunas Milisauskas, uno dei numerosi archeologi che ha lavorato al progetto di scavo di Bronocice ha scritto:
"La stagione di scavo del 1974 è andata oltre le nostre aspettative. Un motivo inciso rappresentante un carro è stato trovato in un vaso rinvenuto dentro un pozzo. Un osso animale associato con il vaso nel pozzo è stato datato con il metodo del radiocarbonio, intorno al 3400 a.C. (Bakker et al., 1999). Il vaso rappresenta uno dei primi elementi di prova per la presenza di carri a ruote in Europa" Milisauskas, insieme a Janusz Kruk, lo hanno attribuito alla cultura di Lublino-Volhynian (tra il 3100 e il 2200 a.C.), "contemporaneo alla fase più recente dello sviluppo del ciclo culturale di Tiszapolgar nel bacino del fiume Cisa ... la cultura è certamente più antica del periodo decadente della cultura del bicchiere imbutiforme nella Piccola Polonia".
L'immagine sul vaso raffigura simbolicamente degli elementi chiave dell'ambiente umano preistorico. La componente più importante della decorazione sono le cinque rappresentazioni rudimentali di quello che sembra essere un carro. Rappresentano un veicolo a quattro ruote a trazione animale. Le linee che le collegano probabilmente rappresentano degli assi. Il cerchio al centro potrebbe simboleggiare un contenitore per la raccolta. Altre immagini sulla ceramica comprendono un albero, un fiume e quelle che potrebbero essere dei campi intersecati da strade/fossati o il layout di un villaggio.
Le incisione sul Vaso di Bronocice possono rappresentare una sorta di sistema simbolico di "pre-scrittura", suggerito da Marija Gimbutas nel suo modello della "vecchia" lingua europea, simile a quello della cultura di Vinča (5700-4500 a.C.) noto come scrittura Vinča.
Secondo il linguista Stuart Harris, il significato della scritta è una composizione a rebus.
L'immagine sul vaso è la più antica rappresentazione ben datata di un veicolo a 4 ruote in tutto il mondo, che suggerisce l'esistenza di carri in Europa centrale già nel IV millennio a.C.. Questi carri erano presumibilmente trainati da bovidi, i cui resti sono stati ritrovati con il vaso. Le loro corna erano consumate, come se fossero state legate ad una corda, probabilmente a causa dell'utilizzo di una sorta di giogo.
Diversi ricercatori come Asko Parpola e Christian Carpelan, hanno sottolineato che "le lingue indoeuropee possiedono un vocabolario sul trasporto su ruote", fornendo così nuove informazioni di ricerca sull'origine della lingua indoeuropea; "I veicoli a ruote sono stati inventati intorno alla metà del IV millennio a.C." Altri ricercatori (David W. Anthony) suggeriscono che "l'evidenza dei vocaboli di lana e carro/ruota stabiliscono che il Proto-Indo-europeo è stato parlato dal 4000-3500 a.C. circa, probabilmente dopo 3500 a.C.".
Il sito è stato occupato durante la fase della ceramica imbutiforme, uno dei gruppi del complesso di culture che succedettero la cultura LBK nel nord Europa, nel V e IV millennio a.C. Le ossa del pozzo in cui il vaso è stato trovato sono state datate al radiocarbonio al 3635-3.370 a.C., che, come gli scavatori hanno sottolineato, è antecedente ai pittogrammi sumeri di ruote del periodo di Uruk.

Museo archeologico di Coo - GRECIA

 

Il Museo archeologico di Coo è situato a Coo, capoluogo della omonima isola dell'arcipelago del Dodecaneso, è uno dei musei della Grecia. Il 23 aprile 1933, durante il periodo di occupazione italiana dell'isola, si verificò un terremoto che provocò ingenti danni ma fu l'occasione anche per realizzare un vasto programma di scavi archeologici e costruire nuovi edifici pubblici. Per questo motivo su progetto di Rodolfo Petracco del 1934 , fu costruito nel 1936 l'edificio del museo in stile razionalista, in un luogo dove sono presenti anche i resti di un muro ellenistico che si possono vedere nel seminterrato. 
Dopo un recente progetto di ristrutturazione e ri esposizione durante il quale Il museo è rimasto chiuso per diversi anni, è stato riaperto nel 2016, ma un altro terremoto avvenuto il 21 luglio 2017 ha causato danni ad alcuni dei pezzi scultorei in mostra. Questo museo contiene una collezione di oggetti provenienti dagli scavi sull'isola, oltre a vecchi edifici pubblici. Tra le sculture ed i mosaici che ospita, c'è una testa di Hera del II secolo a.C., una stele funeraria con rappresentazione di leoni, un'altra stele funeraria dove è rappresentata una scena di un simposio, una statua di un atleta del III secolo a.C., una testa di Alessandro Magno, un torso maschile, una grande statua che potrebbe rappresentare Ippocrate, le statue di Demetra (nella foto a  sinistra), Persefone e Atena di epoca ellenistica da un santuario, diverse statue di divinità di epoca romana, un mosaico con la rappresentazione dell'arrivo di Asclepio sull'isola (nella foto in alto) e un altro mosaico dove è rappresentato il fondo del mare.
Sono conservati anche pezzi di ceramica che coprono periodi dal Neolitico all'epoca romana, compresi pezzi minoici, micenei e altri pezzi del sito dell'età del bronzo del Serraglio. Altri reperti archeologici presenti nel museo sono oggetti di vita quotidiana - utensili da cucina, utensili per la pulizia, vestiti, decorazioni, giocattoli e altri che illustrano le usanze funebri. Uniche sono alcune palline di pigmento "Blu egiziano" che sono state trovate nell'agorà.

Calama - ALGERIA


Calama era un'antica città romana della provincia dell'Africa proconsolare. Corrisponde all'odierna città di Guelma (Algeria nord-orientale). Si trovava a circa 74 km a sud-sud-ovest di Ippona (Hippo Regius), ai piedi del massiccio montuoso del Mahouna, in posizione dominante sulla valle del fiume Seybouse.
La città era forse di origine punica e sotto Traiano fu municipio, inscritta nella tribù Papiria. Più tardi, è citata nelle iscrizioni come colonia romana. Nel 401 era vescovo di Calama Possidio, amico di Agostino d'Ippona, ma ne fu cacciato nel 437 in seguito alla conquista da parte dei Vandali di Genserico. Nel VI secolo, il patrizio bizantino Solomone ne ricostruì le mura. L'ultima menzione risale al XII secolo.
Con la conquista francese presso i resti antichi si insediò un campo militare permanente.
I monumenti più importanti sono il teatro romano (nella foto in alto) e un edificio termale del II secolo (foto a sinistra), di cui resta una grande aula rettangolare di 22 x 14 m, identificata come tepidario.
Le mura bizantine, che dovevano probabilmente essere state costruite su più antiche mura difensive, avevano 13 torri e misuravano 278 x 219 m.
Un'iscrizione attesta l'esistenza di un foro e sono stati rivenuti i resti di un sacello dedicato a Nettuno, di cisterne e di una chiesa cristiana extraurbana.
Nel 1953 vi fu rinvenuto un tesoro di 7499 monete dalla zecca di Roma, la più recente delle quali era dell'anno 257: il tesoro fu probabilmente seppellito durante locali disordini.

Samarra - IRAQ

 


Samarra è un'antica città dell'Iraq di circa 70 000 ab. del governatorato di Baghdad. È situata sulla riva estdel Tigri, a 100 km circa dalla capitale. Il sito è antichissimo: gli scavi archeologici, condotti dall'architetto francese Henri Viollet, fra il 1907 e il 1909, e da Ernst Herzfeld in due fasi, nel 1911 e nel 1913, hanno attestato fin dal 5500 a.C. la produzione di ceramiche con coppe larghe ed aperte con decorazioni molto eleganti e la comparsa delle prime conoscenze metallurgiche (rame). Nel 690 a.C. il re assiro Sennacherib vi costruì una fortezza; la città era chiamata Sur-marrati, un nome di origine aramaica.
Nell'835, nel corso del califfato abbaside il califfo al-Muʿtaṣim decise di renderla sua capitale. Vi si trasferì con le sue nuove truppe "turche" abbandonando la vecchia capitale di Baghdād, dove i suoi soldati avevano creato gravi problemi alla popolazione. La costruzione della nuova capitale coinvolse migliaia di artigiani e i costi delle pure strutture palaziali e degli ornamenti esterni assommarono, a dire di Yāqūt, a circa 204 milioni di dīnār: una cifra sbalorditiva anche per le ricche casse dello Stato abbaside.
Sāmarrāʾ rimase capitale califfale fino all'892, quando il califfo al-Muʿtaḍid decise di tornare a Baghdād. In seguito fu devastata dai Mongoli, perse metà dei suoi abitanti, e sopravvisse solo grazie ai pellegrini sciiti.
La città fu una delle più sontuose metropoli dell'intero emisfero boreale e ospitò la più vasta moschea che il mondo islamico abbia mai conosciuto, chiamata la Grande Moschea del Venerdì. Ricoperta da maioliche smaltate, fiancheggiata da 44 torri, era circondata da mura larghe 260 metri per 160. Di essa rimangono oggi le sole mura esterne che hanno uno spessore di circa 3 metri e il gigantesco minareto, detto Malwiyya ovvero la spirale, splendida metafora architettonica per indicare la forma a spirale ispirata alla ziggurat mesopotamica. Il diametro alla base è di 33 metri e si restringe a mano a mano che si sale verso i 52 metri di altezza. La tradizione vuole che, quando fu ultimata, il Califfo al-Muʿtasim salì sulla sommità in groppa ad un asino bianco. Al minareto di Sāmarrāʾ è ispirato quello della moschea di Ibn Ṭūlūn al Cairo. In prossimità del corso del fiume Tigri, sorgeva il palazzo del Jawsaq al-Khāqānī (il Palazzo di Khāqān),: residenza del califfo, di cui rimangono solo tre grandi porte.
A Samarra si trova anche la moschea al-'Askari uno dei siti più sacri per gli sciiti, dove sono custodite le tombe di due dei 12 Imam più venerati dagli sciiti duodecimani, ʿAli al-Hādī e il figlio di questi Hasan al-ʿAskarī, detto "l'integerrimo", morto nell'873. Per visitare il luogo in cui riposano le loro spoglie, i fedeli vi si recano in pellegrinaggio, da tutto il mondo.
La cupola del santuario, ricoperta da 62 lastre d'oro, è stata gravemente danneggiata da un attentato il 22 febbraio 2006 mentre i due minareti, già fortemente compromessi, sono crollati nel giugno del 2007.

Museo dei Mosaici di Zeugma - TURCHIA

 


Il Museo dei Mosaici di Zeugma, nella città di Gaziantep, in Turchia, è il più grande museo del mosaico del mondo, contenente 1700 m² di mosaici, superando il Museo Nazionale del Bardo a Tunisi nella categoria del più grande museo del mondo dedicato al mosaico.
I mosaici del museo sono incentrati su Zeugma, che si dice sia stata fondata come Seleucia da Seleuco I Nicatore, un generale dell'esercito di Alessandro Magno. I tesori, inclusi i mosaici, rimasero relativamente sconosciuti fino al 2000, quando i manufatti apparvero nei musei e quando i piani per nuove dighe sull'Eufrate avrebbero significato che gran parte di Zeugma sarebbe stata allagata. Molti dei mosaici rimangono coperti e squadre di ricercatori continuano a lavorare al progetto.
Nel corso della pianificazione del Progetto dell'Anatolia Sud-Orientale, iniziato nel 1980 e destinato a fornire acqua ed energia al sud-est della Turchia, è stata decisa anche la costruzione della diga di Birecik, iniziata nel 1996. Dopo lunghi, spesso infruttuosi sforzi da parte di varie parti per avviare misure per salvare le preziose antichità di Zeugma, gli scavi di salvataggio sono finalmente iniziati nel 1995 con la collaborazione del Museo Archeologico di Gaziantep e di varie organizzazioni internazionali. Sono stati riportati alla luce numerosi manufatti, tra cui un gran numero di mosaici e dipinti murali notevoli e ben conservati. Inizialmente furono raccolti al Museo di Gaziantep, che presto si rivelò troppo piccolo. Nel 2005 è stato aperto un ampliamento accanto al vecchio museo, ma ben presto non è stato più in grado di far fronte all'abbondanza di materiale rinvenuto. Nel 2008 è iniziata la costruzione di un museo per i reperti di Zeugma, che è stato aperto ai visitatori il 27 maggio 2011. L'inaugurazione ufficiale del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan e del ministro della Cultura Ertuğrul Günay ha avuto luogo il 9 settembre 2011.
La superficie totale dell'edificio del museo è di 30000 m², la mostra occupa circa un terzo di quella su tre piani. Al momento dell'apertura, il museo ospitava mosaici con una superficie totale di 1450 m² e ulteriori 1000 m² ancora in fase di restauro. Il museo ha così superato il più grande museo del mosaico di Tunisi fino ad oggi e ha la più grande collezione di mosaici del mondo.
Ci sono anche 140 m² di affreschi, statue, quattro fontane romane, colonne, steli e sarcofagi, nonché una statua in bronzo del dio della guerra Marte. Quest'ultimo è alto 1,45 m è posto su una colonna alta sei metri in modo che possa essere visto da quasi ogni punto dell'edificio. È stato ritrovato nella casa di Poseidone e presenta lievi tracce di incendio. Si ritiene che sia stato nascosto lì per proteggersi dall'attacco sasanide nel 252 d.C. Tra le steli vanno ricordati due rilievi di dexiosis, posti vicino all'ingresso. Mostrano il commageno re Antioco I che stringe la mano ad Apollo / Mitra ed Eracle. I mosaici e le pitture murali sono parzialmente presentati nel loro contesto originale con colonne, fontane e altri elementi architettonici.
La mostra comprende anche grandi schermi interattivi che forniscono informazioni sulla storia e l'esplorazione della città di Zeugma, nonché gli scavi e le operazioni di soccorso. Un documentario viene proiettato in una stanza attigua, con varie tavole e tavoli con grandi touchscreen e proiezioni laser sensibili al movimento distribuite sui tre piani, con cui bambini e adulti possono imparare giocosamente di più sulla struttura e le caratteristiche dei mosaici, ad esempio sotto forma di puzzle.
Alcuni mosaici eccezionali sono descritti di seguito come esempi.
Ritratto di una ragazza

Il mosaico più famoso della collezione è il cosiddetto "Ragazza zingara". È l'emblema del museo ed è raffigurato sui manifesti e nella città di Gaziantep per la sua pubblicità. Il frammento mostra una giovane ragazza i cui capelli sono tenuti sotto un berretto. Parte dei capelli appare sopra la fronte, sotto il berretto, lunghi riccioli pendono liberamente lungo i lati. I resti di un fiore o di un nastro sulla destra possono appartenere a un tirso che lei o una persona in piedi accanto ad esso tiene in mano. Viene interpretato come un riferimento a una scena dionisiaca, con la ragazza che rappresenta una menade. Tracce di foglie di vite si vedono a sinistra sopra la testa, a conferma di questa interpretazione. Il mosaico è datato al II secolo d.C. È esposto in una stanza separata e buia al piano superiore.
Oceano e Teti
Il mosaico mostra il dio del mare Oceano con sua moglie Teti, circondato da creature marine e quattro figure di Eros che cavalcano delfini. Il dio è mostrato con due chele di granchio come corna, un remo in una mano. Teti ha due ali sulla fronte. Il mosaico è stato ritrovato sul fondo di una piscina. La vista dall'alto è il motivo per cui due delle raffigurazioni di Eros sono capovolte. Tali immagini dell'oceano con creature marine erano motivi popolari per mosaici o dipinti nei bagni.
Metioco e Partenope

La cornice dell'immagine è formata da una fila di piramidi a gradini, all'interno di una fascia guilloché e da una fascia larga bianca e una stretta nera dritta. Vengono rappresentati Metioco e Partenope, identificabili tramite etichette. Metioco e Partenope sono i protagonisti di un antico racconto. Partenope era probabilmente una figlia del tiranno Policrate di Samo, il mosaico descrive l'incontro dei due. Secondo la storia, si sono già incontrati e innamorati, ma Partenope è una sacerdotessa di Artemide e ha fatto voto di castità. Sono seduti sui cuscini di un lettino simile ad un divano, le cui gambe sono sagomate con forme simili a dischi. I corpi delle figure sono leggermente voltati l'uno dall'altro, mentre le teste sono rivolte l'una verso l'altra. Partenope indossa una tunica senza spalline che espone la spalla sinistra e un Himation caduto sulle ginocchia. Braccia e polsi sono adornati con bracciali, un diadema adorna la testa e un orecchino di perle pende dall'orecchio destro visibile. Metioco indossa una tunica con due strisce verticali, il suo mantello che pende sulle spalle è piegato in grembo. Il mosaico del III secolo era già stato gravemente distrutto e saccheggiato quando fu ritrovato nel 1993, alcune parti mancanti potrebbero essere identificate nella Menil Collection di Houston (Texas) e furono restituite a Gaziantep.
Amore e Psiche

Il mosaico è inquadrato da due file di blocchi prospettici, inclinati verso il centro del lato. Tra le due file c'è un'ampia fascia riempita da una doppia fascia d'acanto. Le due fasce hanno origine al centro della parte superiore e inferiore di un volto maschile barbuto e si incontrano al centro del lato destro e sinistro in grandi foglie d'acanto. Le circonvoluzioni della pianta sono piene di frutta, tra cui uva, mele, pere, prugne, melograni e fichi, con piccoli fiori e viticci in mezzo.
Le figure di Eros e Psiche siedono su un lettino imbottito con i piedi su un ampio poggiapiedi. Eros è scalzo, i piedi di Psiche sono coperti dal suo mantello. Si siedono anche con i corpi leggermente distanziati l'uno dall'altro mentre le loro teste si girano l'una verso l'altra. Eros è raffigurato come un bel giovane con un torso nudo, con una corona di foglie in testa. Le sue ali hanno sfumature multicolori. Il suo braccio sinistro è avvolto intorno alla spalla della sua compagna e nella mano destra tiene in grembo un mazzo di fiori. Psiche è vestita con una tunica con maniche, il suo mantello è realizzato in tessuto traslucido. È adornata con una corona di foglie e un velo sul capo. Sullo sfondo a sinistra della scena c'è un lucido cratere metallico. L'opera è stata rinvenuta nella casa di Poseidone e risale alla seconda metà del III secolo.
Trionfo di Dioniso

L'illustrazione del II secolo, insieme a quella di Pasifae e Dedalo, formava un mosaico pavimentale a forma di T nella casa di Poseidone. Il bordo esterno, che in alto fa anche da confine al secondo mosaico, è costituito da un nastro a meandro mostrato in prospettiva, che mostra alternanza di svastiche e rettangoli contenenti un nodo di Salomone (due ovali intrecciati). La fascia è circondata su entrambi i lati da un motivo a onde rosse e bianche, una fascia con foglie di alloro funge da cornice interna.
I personaggi che possono essere identificate dalle loro iscrizioni sono Dioniso, Nike e una baccante (menade). Dioniso è in piedi su un carro con ruote a otto razze trainate da due pantere. Un alone brilla intorno alla sua testa inghirlandata. Nella mano destra tiene un tirso con una punta di lancia, che è decorata in tre punti con nastri e foglie. È vestito nello stile tipico di un trionfo dionisiaco, indossa una lunga tunica con nastri d'oro intorno alla vita, al braccio e al polso. Un mantello pende sulla spalla sinistra e cade intorno al braccio sinistro e sulla schiena. Accanto a lui sul carro c'è Nike, che tiene le redini delle pantere. Sulla destra c'è una bacante danzante con Cimbalini a dita, che indossa una lunga tunica e una stola. Gli abiti enfatizzano il loro movimento rotatorio della danza.
L'ala sinistra, occidentale del complesso a forma di U è occupata dallo spazio espositivo, mentre le ali centrale e orientale contengono laboratori, tra cui stanze di restauro che possono essere viste attraverso pareti di vetro, sale amministrative, una caffetteria, un negozio del museo e un centro congressi. Ci sono colonne e una statua nel cortile centrale coperto.


Museo delle Tombe Reali di Sipán - PERU'

 


Il Museo delle Tombe Reali di Sipán (in spagnolo: Museo Tumbas Reales de Sipán) è un museo archeologico peruviano inaugurato nell'anno 2002; è ubicato nella città di Lambayeque, localizzata nella regione omonima. Il suo progetto architettonico si è ispirato alle antiche piramidi tronche della cultura mochica preincaica (dal I al VII secolo d.C.). Il museo concentra più di duemila pezzi d'oro.
Lo scopo del museo è di mostrare la tomba del Signore di Sipán, che fu rinvenuta nel 1987 dagli archeologi peruviani Walter Alva Alva e Luis Chero Zurita. Tra i suoi pezzi si trovano gioielli, ceramiche e corredi funerari.
Il ritrovamento delle Tombe Reali del Signore di Sipán segnò un'importante tappa nell'archeologia del continente sudamericano, perché per la prima volta si rivelò la magnificenza e la maestosità dell'unico governante dell'antico Perù trovato fino ad allora.
La struttura, in un'area coperta di 3.156,45 m², ha tre piani. L'accesso è attraverso una rampa di 74,21 metri di lunghezza, così come si accedeva agli antichi templi moche. Questa pendenza conduce al terzo piano. La visita si realizza dall'alto verso il basso rivivendo l'esperienza dello scopritore del Signore di Sipán. Dal secondo piano, si osserva la replica esatta della camera funeraria di questo antico dignitario moche, che consente di conoscere, tra gli altri aspetti, la sua cultura, le sue conquiste tecnologiche e il suo pensiero sulla morte.
Da una struttura con reminiscenze preispaniche, la discesa sarà accompagnata permanentemente da oggetti museografici che permettono di immergersi nel contesto dell'epoca attraverso pannelli, vetrine e proiezioni, osservando i preziosi prezzi in esposizione.
Il centro del museo contiene la Sala Reale Mochica dove si trova il Signore di Sipán con il suo abbigliamento da guerriero, il pettorale d'oro e altri gioielli dello stesso materiale; la camera funeraria dell'antico governante, insieme a otto scheletri di suoi accompagnatori; altri dignatari scoperti, come il sacerdote e il Vecchio Signore di Sipán, della stessa investitura del governatore moche, tutti con i loro rispettivi indumenti originali. In questa Sala Reale Mochica, ci sono 35 manichini che rappresentano il suo ambiente politico, dieci dei quali sono stati articolati, per cui sono in movimento durante le visite. Questa ricostruzione di quella che fu tutta la magnificenza della corte reale del guerriero moche rappresenta fedelmente i cortei mochica.
Si possono vedere anche gli ornamenti recuperati dal sepolcro, come è il caso della protezione iliaca d'oro, tra altri importanti oggetti. Si aggiunge infine un messaggio che ricorda quanto si salvò dal saccheggio e l'importanza della protezione dell'eredità culturale del Perù.
Gli oltre 600 gioielli del governatore moche sono conservati in vetrine blindate. Per la loro conservazione, l'ambiente è buio e c'è sola la luce diretta. Tra i pezzi del dignatario mochica si distinguono stendardi di rame dorato su tela, una corona di rame dorato con simboli reali, pettorali di conchiglie, orecchini d'oro e turchesi, spondylus, sonagli d'oro, un'acconciatura di cotone e ornamenti di piume.
In uno dei piani sono esposti altri pezzi d'oro, rame e tessuti sobri, tra i quali si distinguono orecchini d'oro e turchese, un'immagine felina completa, un pettorale d'oro confezionato con conchiglie, collane d'oro con rappresentazioni di arachidi, vari stendardi, un sonaglio d'oro con la figura di un'averla e un pettorale di rame.
Ci sono importanti progetti di sviluppo per il polo museale. Nello spazio restante del terreno ci sarà un padiglione che rappresenta tutte le culture del nord del Perù, cioè il grande circuito da Piura fino a La Libertad passando per Amazonas e Cajamarca. Più avanti si intende creare un centro culturale in cui edificare una biblioteca, un giardino botanico con il contributo dei mochica con le loro colture alimentari, industriali e medicinali, un piccolo giardino zoologico con fauna tipica dell'epoca e infine una specie di museo vivente, in cui si ricostruirà una piramide moche e i suoi quartieri artigiani, affinché qualunque visitatore senta di potersi trasportare nell'epoca dei moche ed entrare nel mondo del passato. In conclusione, ciò che si otterrà è un museo pianificato per i prossimi 100 anni. Per l'archeologo Walter Alva questo monumento culturale è il Museo del XXI secolo. Il museo può ricevere 300 visitatori l'ora. È aperto dieci ore al giorno, da martedì a domenica.

Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...