domenica 15 ottobre 2023

Bronzi della Meloria (Toscana)

 
Bronzi della Meloria sono un gruppo di quattro teste bronzee ritrovate al largo di Livorno nel 1722. Sono oggi conservate nel Museo archeologico nazionale di Firenze.
Inizialmente vennero credute opere antiche, ma gli studi hanno poi dimostrato che si tratta di opere rinascimentali, forse anche seicentesche, modellate su copie romane di originali greci. Le teste raffigurano Omero, Sofocle, Eschilo e un quarto personaggio ignoto.
La datazione è stata resa possibile grazie allo studio di materiali coevi, evidenziando come lo scultore avesse preso a modello alcune teste (in parte ai Musei Capitolini copiando fedelmente anche alcuni dettagli frutto di reintegri moderni, in particolare nelle capigliature).



(nelle foto, dall'alto in basso, Sofocle, Omero, Eschilo)




















Renaggio, Corsica - FRANCIA

 

Renaggio (in corso U Rinaghju) è un sito archeologico in territorio del comune di Sartene in Corsica, dove si trova un allineamento di numerosi betili (60 pietre piccole e 70 grandi).
Non molto distante da questo sito, sempre all'interno del parco archeologico di Cauria si trova un'altra area con betili allineati chiamata I Stantari (parola corsa con la quale si indicano i betili) e il dolmen di Funtanaccia. Questo allineamento di pietre conficate nel terreno per la prima volta è stato censito da Prosper Mérimée Notes d'un voyage en Corse del 1840 e nei suoi Appunti di viaggio (1835-1840) pubblicati nel 1840.

Mariana, Corsica - FRANCIA


La città romana di Mariana (Colonia Mariana a Caio Mario deducta, in greco Μαριανή Marianí) nell'antichità era una colonia romana di primo piano fondata in Corsica da Gaio Mario nel 93 a.C. Era parte della provincia romana Sardegna e Corsica.
Oggi, si trova nel comune di Lucciana a 1 km dall'aeroporto di Bastia-Poretta. Dipendeva da Aleria (fondata come Alalia dai greci di Focea).
Mariana poi venne cristianizzata e nel 300 circa, venne fondata la diocesi di Mariana che fu delle prime della Corsica (nella foto a sinistra, il battistero), immediatamente soggetta alla Santa Sede, nel 1092 divenne suffraganea dell'arcidiocesi di Pisa e nel 1130 suffraganea dell'arcidiocesi di Genova, poi a causa della malaria fu abbandonata nel '300.
Inoltre nel 302 a Mariana fu martirizzata santa Devota, santa patrona della Corsica e del Principato di Monaco.
I resti della città furono scoperti negli anni sessanta da Geneviève Moracchini-Mazel e venne riportato alla luce un complesso paleocristiano del IV secolo. Alla fine degli anni novanta una squadra di archeologi diretti da Philippe Pergola ha ripreso gli studi sul sito.
La cattedrale di Santa Maria Assunta detta La Canonica (nella foto a destra) fu costruita nell'anno 1119. Questo edificio presenta diverse analogie con un gruppo di chiese della Lucchesia, comprendenti fra le altre San Pietro di Valdottavo, Santa Maria Assunta a Piazza a Brancoli e due chiese del nord della Sardegna: San Nicola di Silanis di Sedini (ante 1122) e San Giovanni di Viddalba.
La chiesa di San Parteo (XII secolo) anch'essa con gli stessi caratteri delle chiese succitate.

Parco Archeologico del Forcello (Lombardia)

 


Il Parco Archeologico del Forcello è un'area archeologica situata nei pressi di Bagnolo San Vito, in provincia di Mantova.
A partire dal 1981, in località Forcello, nelle vicinanze della frazione di San Biagio, furono effettuati degli scavi archeologici che riportarono alla luce reperti risalenti a epoca preromana. I reperti confermarono l'esistenza di un importante abitato del VI-IV secolo a.C. facente parte di quella colonizzazione etrusca, rappresentandone l'unico insediamento a nord del fiume Po. Dopo la distruzione subita a opera del Galli, sorse e si sviluppò la città di Mantova in luogo più facilmente difendibile.
Allo scopo di valorizzare e divulgare i risultati scientifici conseguiti dagli scavi, il comune di Bagnolo San Vito e l'Università degli Studi di Milano promossero l'istituzione del Parco Archeologico del Forcello.


Museo Archeologico e Sala Longobarda, Pavia (Lombardia)

 


I Musei Civici di Pavia, detti anche Musei del Castello visconteo, sono un'istituizione che raggruppa i vari musei comunali della città di Paviaː la sezione archeologica e altomedievale con reperti romani, goti e longobardi, la sezione Romanica e Rinascimentale, la Pinacoteca Malaspina, con la Sala del Modello ligneo del Duomo e la sezione del '600-'700, il Museo del Risorgimento, la Gipsoteca, la Quadreria dell'Ottocento, la Civica Scuola di pittura, la Collezione Morone, la sezione del Novecento. I Musei Civici sono ospitati all'interno del Castello visconteo.

Museo Archeologico e Sala Longobarda
La collezione archeologica comprende materiali rinvenuti fortuitamente durante lavori agrari o edilizi; al museo sono pervenuti soprattutto dal collezionismo privato (raccolta Giuletti, Reale ecc.). I portici del piano terra del castello ospitano il Lapidarium costituito da stele, sarcofagi, are funerarie e votive, epigrafi, capitelli, colonne e miliari di età romana.
La prima sala è dedicata al territorio di Ticinum (questo era l’antico nome di Pavia) in età romana e, tra gli altri reperti, in essa è esposta una area sepolcrale, formata da tombe a cremazione in mattoni e un cippo sepolcrale, del I d.C. rinvenuta a Casteggio. La sala ospita anche i reperti provenienti dalla necropoli celtica rinvenuta nel 1957 a Santa Cristina e Bissone, i cui corredi, datati al II secolo a.C. si caratterizzano per la presenza di oggetti stilisticamente di tradizione gallica (come i vasi cinerari) abbinati a prodotti tipicamente romani, quali le ceramiche a vernice nera. Non diversamente, il corredo esposto della tomba del I secolo a.C. rinvenuta nel contesto urbano di Pavia è contemporaneamente celtica (nelle ceramiche e nelle fibule) e romana (negli elementi laterizi della cassetta e nel balsamario fittile). Si tratta di testimonianze delle progressiva penetrazione delle cultura romana nel mondo celtico cisalpino. Sempre al medesimo periodo risale un pezzo di grande interesse: una ciotola in argento che sull'orlo reca incisa una iscrizione formata da un nome ligure seguito da una indicazione di misure ponderali romane rinvenuta presso Zerbo in un gruppo di tombe "gallo-romane" ad incinerazione e datata al II secolo a.C.
Nella II° sala è esposta la collezione egizia, donata dal marchese Malaspina di Sannazzaro (che l’acquistò da Giuseppe Nizzoli cancelliere del consolato austriaco ad Alessandria d’Egitto tra il 1818 e il 1828), formata da circa 150 reperti tra papiri, vasi canopi, amuleti e bronzetti. La collezione egizia non è l’unica sezione del museo contenente materiali non provenienti dal territorio pavese: ricordiamo solo la collezione di ceramiche fenicio-puniche (nella foto a sinistra, raramente presenti nei musei italiani al di fuori della Sardegna) lasciate da Francesco Reale nel 1892 o la raccolta di vasi italioti (tra cui un grande cratere a campana attribuibile al Pittore di Iris) proveniente dai “vecchi fondi” del museo.
Sempre nella stessa sala è conservata anche la raccolta di vetri di età romana, probabilmente la più importante del nord Italia, all’interno della quale si trovano pezzi di grandissima qualità e rarità, come il kantharos in vetro blu scuro proveniente da Frascarolo e la coppa di Ennion. I vetri romani del museo si segnalano per qualità e varietà tipologica. Nella raccolta, ascrivibile nella maggioranza dei pezzi al I e al II secolo d.C., sono infatti testimoniate le più diverse tecniche di lavorazione (vetro fuso entro stampo, soffiato entro stampo, a pareti lisce e con decorazioni in rilievo, soffiato a mano libera, naturale e colorato) e una ampia gamma di forme (bottiglie, coppe, olpi e balsamari). La frequenza dei rinvenimenti in città e nel suo territorio ha consentito di ipotizzare la presenza di officine vetrarie nella zona nel I secolo d.C.
Accanto ai vetri, si trovano alcune sculture di età romana rinvenute in città e nel suo territorio, tra le quali spicca un busto in marmo greco raffigurante Artemide Soteira di Cefisodoto il Vecchio (nella foto a sinistra), copia romana del I- II secolo d.C. Le sale III° e IV° espongono reperti di età romana rinvenuti localmente: ceramica comune (tra cui anche dei vasi "antropoprosopi, cioè che riproducono sul corpo le fattezze umane, molto diffusi nella prima età imperiale nel nord Italia e nelle regioni transalpine), bronzi, terra sigillata, ceramiche fini da mensa, altri vetri romani e grandi reperti architettonici e scultorei, tra cui la statua di togato, nota con il nome di Muto dall’accia al collo, risalente al I- II secolo d.C. e proveniente dalla porta occidentale della città (porta Marenga). Tra le sculture di età romana vi è anche un ritratto femminile, in marmo greco, pertinente ad una statua funeraria, che rappresenta una donna in età matura con occhi profondamente incavati e cappelli raccolti sulla nuca e quindi riportati in avanti con una "stuoia" di treccioline, testimonianza della plastica "colta" di Pavia sul finire del III secolo. Sempre da un monumento sepolcrale proviene anche un cippo in marmo con l'immagine di Attis, risalente al I secolo d.C. Vi sono reperti celtici del periodo di La Tène e ceramica invetriata (con riferimento al rivestimento in pasta di vetro fluido con cui è ricoperta l'argilla) di I secolo d.C., anche a forma di uccello.
Sempre legata alle vicende di Pavia e del suo territorio è la Sala Longobarda, dove sono esposti argenti paleocristiani (tra cui un cucchiaio liturgico, una ciotola ed un nodo di calice ritrovati fra il presbiterio e la navata laterale della basilica di San Michele Maggiore nel 1968), oreficerie tardo romane e gote (tra le quali alcune notevoli fibule a staffa) e reperti di età longobarda (tra cui un raro bronzetto di età longobarda raffigurante un guerriero), testimonianza del importanza e splendore di Pavia, allora capitale del regno (nella foto di copertina si può osservare una fibbia ostrogota da Torre del Mangano). Molti sono i reperti di grande interesse (anche storico) conservati: la fronte di un sarcofago del II secolo d.C. contiene un'epigrafe che commemora i lavori del re goto Atalarico all’anfiteatro di Pavia tra il 528 e il 529. Alla stessa epoca risalgono anche un'epigrafe funeraria in marmo e scritta in greco di una famiglia siriaca, proveniente dalla chiesa di San Giovanni in Borgo e alcuni frammenti di tegoloni con il bollo del vescovo Crispino II (521- 541), prova della presenza di fornaci in città anche dopo la fine del mondo romano. 
La sala ospita anche la grande lastra tombale marmorea, rinvenuta a Villaregio nell’Ottocento, del filosofo Severino Boezio (480 circa - 524 o 526, nella foto a sinistra), e le lastre tombali di re Cuniperto, della figlia Cuniperga, della regina Ragintruda e del duca Audoald. Testimoni della rinascenza liutprandea sono i noti plutei di San Maria Teodote, che raffigurano l’albero della vita tra draghi alati e un calice affiancato da pavoni, e il frammento di pluteo con testa di agnello dall'ex palazzo Reale di Corteolona, mentre sempre legato al passato regio di Pavia è l'iscrizione del sarcofago delle regina Ada (moglie del re Ugo di Provenza, morta nel 931 e sepolta nella chiesa di San Gervasio e Protasio) e la sella plicatilis, sedia pieghevole di arte carolingia o ottoniana, esemplare raro (pochissimi museo europei conservano arredi di quell’epoca e quasi nessuno di essi raggiunge la qualità dell’esemplare pavese) per la complessità tecnica e il raffinato decoro.

Museo Faina, Orvieto (Umbria)

 


Il Museo Faina è un museo archeologico collocato nel palazzo Faina ad Orvieto, in provincia di Terni.
Il museo è stato fondato, come collezione privata, nel 1864.
Il museo comprende reperti antichi di età greca e corredi funebri etruschi, tra cui una raccolta di vasi attici a figure nere e rosse del VI-V secolo a.C., un monetiere e collezioni numismatiche.
Al piano terra sono conservati i frontoni del tempio del Belvedere di Orvieto, la celebre Venere di Cannicella (nella foto a destra), statua trovata nel santuario, compreso all'interno della necropoli di Cannicella e il cippo a testa di guerriero proveniente dalla necropoli del Crocifisso del Tufo entrambe site nei dintorni della cittadina di Orvieto.
Tra gli anni Sessanta e Ottanta dell’Ottocento, la collezione archeologica venne riunita dai conti Mauro ed Eugenio Faina.

Ereruyk - ARMENIA

 


Ereruyk (in armeno Երերույք), traslitterato anche Yereruyk o Ererouk, è un sito archeologico caratterizzato dalla presenza di un'antica basilica; situato in Armenia, provincia di Shirak, nei pressi del villaggio di Anipemza. Sorge su un altopiano, lungo le sponde del fiume Akhurian che segna il confine con la Turchia, circa cinque chilometri più a sud dell'antica capitale bagratide dell'Armenia, Ani.
La basilica è considerata uno dei più antichi esempi di architettura armena riferibile all'epoca "paleocristiana" (IV-VI sec.) anche se la sua datazione, inizialmente posta al quarto secolo, è stata prima spostata al quinto secolo, poi al sesto secolo. In effetti, non essendo la basilica citata in alcuna fonte, le datazioni proposte vanno considerate ipotetiche. Tuttavia gli studi più recenti che hanno comportato l'analisi delle caratteristiche architettoniche con l'esame della stratigrafia degli elevati, lo studio dei decori scultorei e dell'epigrafia, oltre che il confronto con chiese analoghe in Siria portano a ritenere assai verosimile la datazione al VI secolo
Il nome, in lingua armena, significa tremante; secondo la tradizione popolare, il nome del tempio è derivato dalla sua soluzione architettonica unica della struttura che sembra appunto tremante sulle sue sei colonne per coloro che la osservano a distanza. Ereruyk rappresenta uno dei primi esempi di architettura religiosa armena costruita su pilastri e una delle più grandi strutture medievali ancora esistenti.
L'edificio, a tre navate, strutturato con spesse mura laterali, è una delle più grandi chiese armene dell'epoca. Dotata di portici sui lati Nord, Ovest e Sud, di due pastoforia (cappelle lunghe e strette fiancheggianti l'abside) e di due nicchie absidali esterne all'estremità dei portici laterali, in origine potrebbe essere stata coperta da capriate in legno. Il pastoforia di Nord-Est conserva ancora buona parte delle due volte sovrapposte di cui la superiore è inclinata (più alta verso la navata centrale).
La basilica di Ererouyk presenta delle similitudini con le basiliche siriane tanto nell'impianto architettonico (alte torri angolari sporgenti sulla facciata Ovest) quanto nel decoro scultoreo (bande decorative alle finestre).
All'estremità Est della facciata Sud si trova un'iscrizione greca simile a quella della chiesa siriana di Deir Sem'an della fine del V secolo.
Con Tekor (fine del V secolo) e Zvartnots (VII secolo), è una delle rare chiese armene ad essere costruite interamente su uno zoccolo di 5-6 gradoni simile ad un crepidoma. Gli scavi archeologici hanno però svelato la mancanza di una piattaforma continua sotto l'edificio le cui fondamenta sono poste direttamente sulla roccia.
La basilica fungeva da santuario martiriale: un'iscrizione incisa sulla lesena posta all'angolo Nord-Est dell'abside recita: “martyrion [...] del Precursore e del Protomartire”, cioè dei santi Giovanni Battista e Stefano.
Lungo i lati Sud e Nord vi sono portali a timpano, ornati di dentelli con inscritto un arco leggermente oltrepassato, modellato con una cornice a bande che poggia su due colonne sormontate da capitelli a foglie d'acanto. Le facciate settentrionale e meridionale sono decorate da lesene e fortemente caratterizzate dalla presenza di 4 ampie finestre centinate inquadrate da una cornice a fasce appiattite le cui estremità inferiori sono rivolte ad angolo retto verso l'esterno. Nella parte superiore del muro, all'altezza delle lesene, corre una cornice dentellata.
La facciata Ovest è caratterizzata da due finestre analoghe a quelle della facciata, con differenti elementi decorativi e, nella parte alta della facciata, da una trifora che illuminava la navata centrale.
Le decorazioni scolpite a basso rilievo sugli architravi e sui capitelli dell'abside e delle absidiole alla testa dei portici settentrionale e meridionale, danno molto rilievo al motivo emblematico e apotropaico della croce “di Malta” (a 4 bracci uguali) inscritta in un medaglione, talvolta accostata da animali e/o fiancheggiata da alberi. Il medaglione centrale con la croce è spesso completato da due medaglioni laterali a rosone o margherita. I capitelli che coronano le semicolonne dei portali sono decorati con una stilizzazione delle foglie d'acanto, caratteristica della degenerazione di questa forma decorativa romana antica nelle culture paleocristiane.
La basilica doveva essere dotata di una decorazione dipinta di cui non restano che poche tracce, soprattutto nella finestra absidale e su una composizione in parte cancellata sull'architrave del portale Ovest della facciata Sud.
La vasta area archeologica che circonda la basilica comprende anche, oltre a numerosi frammenti scultorei, soprattutto delle steli, disperse tutto attorno alla basilica, una cinquantina di pietre tombali a sella su plinto ed i resti di diverse costruzioni: a) un muro di cinta a contrafforti ed esedre a Nord ed a est della basilica; b) in basso, a Nord-Est, nel vallone, le vestigia di un edificio voltato, un tempo interpretato come una cisterna ma corrispondente più verosimilmente ad un mausoleo, verosimilmente menzionato da N. Marr come dedicato a san Teodoro; c) a Sud della basilica, un numero insolitamente elevato (tra sei e otto) di piedistalli a gradoni che supportavano dei monumenti commemorativi a stele crucifera, attorno ai quali era stato realizzato un cimitero che ha funzionato per un lasso di tempo molto lungo, dal tardo antico fin quasi ai nostri giorni; d) leggermente più lontano, a Ovest e a Sud della basilica, i resti di tre o quattro muri che un tempo chiudevano il vallone, senz'altro per trattenere l'acqua ma anche, probabilmente, con funzione di viadotto; f) due stanze rupestri scavate nella parete rocciosa, a Nord della basilica.
Il sito di Ererouyk ed i suoi territori circostanti furono strettamente legati alle sorti della città di Ani come dimostra un'iscrizione posta sul lato Est della chiesa di San Giovanni ad Ani, datata attorno al 1200 in cui il generale Zakaré dichiara di aver ricevuto in dono il villaggio Lagaj situato di frontre al monastero ed Ererouyk "con tutte le sue terre e la primavera dei giardini fioriti". Tra il 1200 ed il 1600 non si trova alcuna notizia su Ererouyk che tra il 1600 e il 1700 doveva essere già abbandonata come dimostrerebbero due iscrizioni greche, probabilmente realizzate da viaggiatori dell'epoca, che N. Marr narra di aver trovato all'interno della basilica. A metà ottocento risalgono i primi studi e rilievi della basilica (H. Shakhatounyan, 1842; H. Abich, 1844; G. Alishan, 1881) che riportano una situazione molto simile all'attuale (fatta eccezione per la torre Sud Ovest, ora completamente crollata).
I primi scavi archeologici sul sito vengono organizzati e diretti da N. Marr con la partecipazione di T. Thoramanyan, A Fetfajian, S. N.. Poltarazkin, H. Orbeli e N. N. Tichonov nell'estate del 1908 e comportano la realizzazione di alcuni sondaggi all'interno della chiesa ed il riordino ed il rilievo delle decorazioni scultore di cui le più belle vengono portate presso il museo di Ani e in seguito vanno perdute.
Nel 1928 il Comitato per la Conservazione dei Monumenti dell'Armenia, in seguito alle sollecitazioni dell'architetto Alexandre Tamanyan, intraprende dei lavori di riassetto delle rovine e di restauro dello stilobate e di altre parti pericolanti della chiesa. A quell'epoca il villaggio curdo nei pressi della basilica è completamente abbandonato. Ulteriori lavori di consolidamento e scavo vengono realizzati nel 1948 sotto la direzione dell'architetto Sahinian che fa ricollocare la parte inferiore dell'iscrizione del 1038 e sostituire le pietre della parte inferiore della parete Sud.
Ulteriori lavori vengono progettati ed in piccola parte realizzati sotto la direzione dell'architetto Vahagn Grigoryan verso la fine degli anni '80. Il grave terremoto del 1988 provoca danni ingenti anche alla basilica di Ererouyk che viene inserita dal Governo armeno nella lista dei monumenti da salvare quando il Governo italiano offre un supporto tecnico per il consolidamento degli edifici danneggiati dal sisma. nel 1989 e nel 1991 vengono organizzate due missioni di esperti italiani per il rilievo (diretto dagli architetti P. Torsello e N. Gianighyan dell'IUAV di Venezia) e la valutazione del dissesto strutturale (prof. Locatelli, Politecnico di Milano).  Il 25 agosto 1995 il sito è stato inserito nella "Lista provvisoria" del Patrimonio dell'umanità dell'UNESCO. Nel 2016 il sito è stato nominato uno dei 7 siti più in pericolo d'Europa nell'ambito del progetto di salvaguardia "The 7 Most Endangered" lanciato dall'organizzazione Europa Nostra in partenariato con l'Istituto della Banca europea per gli investimenti.



Zorats Karer - ARMENIA

 


Zorats Karer (in armeno Զորաց Քարեր, conosciuta localmente come Դիք-դիք քարեր Dik-dik karer), conosciuta anche come Karahunj, Qarahunj o Carahunge e Carenish (in armeno Քարահունջ և Քարենիշ) è un sito archeologico preistorico posto nei pressi della cittadina di Sisian, nella provincia di Syunik, Armenia. Il sito è anche conosciuto a livello internazionale come la 'Stonehenge armena'.
Il sito si trova alle coordinate di latidutine 39° 34' e longitudine 46° 01', posto su di un altopiano a 1770 metri di altezza e ha una copertura di circa 7 ettari. I resti archeologici sono su un promontorio roccioso sulla riva sinistra del fiume Dar, tributario del fiume Vorotan, nelle vicinanze della cittadina di Sisian.
Lo storico armeno Stepanos Orbelian, nel suo libro 'Storia di Syunic', riporta che nella regione di Tsluk (Yevalakh), vicino al paese di Syunic o Sisian si trovava un villaggio di nome Carunge, che in armeno vuol dire "Pietra del tesoro" o "Pietre di fondazione".
Si pensa che il nome Carahunge possa derivare da due parole armene: car (o kar) che significa 'pietra' e da hunge o hoonch che significa 'suono'. Pertanto il nome Carahunge significherebbe 'pietre parlanti'.
Questa interpretazione è avvalorata dal
fatto che, in una giornata ventosa i menhir emettono dei suoni dovuti, probabilmente, a molteplici fori incisi con angolature diverse in tempi preistorici.
Nel 2004 il sito è stato ufficialmente ribattezzato Osservatorio Karahunj (Carahunge) tramite un decreto parlamentare (No. 1095-n, 29 Giugno, 2004).
Il complesso è costituito da diverse sezioni: un cerchio centrale, un braccio che punta a nord, uno a sud, un corridoio puntato in direzione N-E, un settore che attraversa il cerchio centrale e vari menhir sparsi. Il sito si presenta molto ricco di testimonianze antiche come
sepolture e cumuli di rocce. In totale sono stati registrati 223 megaliti.
L'altezza media delle pietre varia da 0,5 a 3 metri (dal suolo) e con un peso stimato fino alle 10 tonnellate. Sono realizzate in basalto, molto erose dal tempo e ricoperte da muschi e licheni di diversi colori. La superficie interna dei fori si presenta in condizioni migliori rispetto al resto della pietra. Molte sono rotte e non sono state catalogate.
Di tutti i megaliti presenti sul sito, solo 80
presentano dei fori circolari e di questi solo 37 (con 47 fori) sono ancora in piedi in situ. I menhir sono di grande interesse per gli archeoastronomi russi e armeni, i quali pensano che probabilmente furono utilizzati per osservazioni astronomiche. Diciassette pietre sono state messe in relazioni con l'alba e il tramonto durante solstizi ed equinozi, mentre 14 sono collegati a fasi lunari. Tuttavia sussistono anche dei dubbi, per via del fatto che la superficie interna dei fori non è erosa come l'esterno e pertanto potrebbero non essere stati realizzati in tempi preistorici.
In seguito a dei test eseguiti durante gli anni 1994-2001 dal radiofisico Parigi Herouni, assieme al suo team di ricerca, si è giunti alla conclusione che Carahunge è il più antico osservatorio astronomico al mondo.
Zorats Karer venne studiata nel 2000 da un'équipe di archeologi dell'Università di Monaco di Baviera come parte di uno studio più ampio sui siti preistorici nel sud Armenia. L'équipe ha identificato il sito come una necropoli utilizzata principalmente tra la media età del bronzo e l'età del ferro, trovando enormi tombe in pietra relative a tale periodo. Il leader del
team di studio, Stephan Kroll, è giunto alla conclusione che gli allineamenti di pientre erano, in realtà, i resti di una cinta muraria, risalente probabilmente al periodo ellenistico, realizzata per lo più con materiale di riporto e terriccio, mentre le pietre verticali fungevano da rinforzi.
L'archeoastronomo Clive Ruggles ha scritto che: 'Inevitabilmente ci sono state altre affermazioni - molto speculative e meno supportabili - relative al significato astronomico del sito. Una è che può essere astronomicamente databile al VI millennio a.C. e il confronto diretto con Stonehenge, che pochi ormai credono
fosse un osservatorio, sono meno utili.'
Una valutazione critica recente del sito ha messo in evidenza diversi problemi con le interpretazioni archeoastronomiche del sito. Il viale nord-est, che si estende per circa 50 metri dal centro, è stato associato in modo incoerente con il sostizio d'estate. Anche il braccio nord non sembra collegato né con fasi lunari che con Venere. 
Harouni sostenne che, al fine di utilizzare i fori nei megaliti per osservazioni astronomiche sufficientemente precise per stabilire la data dei solstizi, sarebbe stato necessario limitare il campo di visibilità inserendo uno stretto tubo nelle perforazioni esistenti. Senza queste modifiche, per i quali non vi è alcuna prova archeologica, il significato astronomico rivendicato per gli orientamenti dei fori svanisce. Di conseguenza, González-Garcia ha concluso che le affermazioni archeoastronomiche per il sito sono insostenibili, anche se ulteriori indagini per determinare il potenziale astronomico di Carahunge e siti simili sono da considerare. 




Insediamento di Shengavit - ARMENIA

 


L'insediamento di Shengavit (in armeno Շենգավիթ հնավայր?, Shengavit' hənavayr) è un sito archeologico situato nei pressi del distretto di Shengavit, uno dei dodici distretti in cui è suddivisa Erevan, l'odierna capitale armena, e in particolare su una collina a sud-est del lago Erevan. Il sito è stato abitato dal popolo dei Kura Araxes durante una serie di fasi di insediamento durata approssimativamente dal 3.200 a.C. al 2.500 a.C., durante il periodo dell'età del bronzo che prende il nome proprio dalla sopraccitata civiltà, e poi discontinuamente riutilizzato all'incirca fino al 2.200 a.C. A testimonianza di ciò vi sono i resti di ceramica rinvenuti, che collocano per l'appunto il sito nel periodo Kura-Araxes (o primo periodo Transcaucasico) e nell'area culturale Shengavitiana. 
Sembra che l'insediamento di Shengavit fosse un centro molto importante per l'area circostante, sia a causa delle sue insolite dimensioni, che dell'evidente sovrapproduzione di grano e di prodotti metallurgici, sia grazie alle sue mura in pietra larghe quattro metri. Al di fuori di queste ultime sono stati trovati i resti di quattro villaggi più piccoli: Moukhannat, Tepe, Khorumbulagh e Tairov.
Come detto, l'area dell'odierno sito di Shengavit è stata popolata a cominciare perlomeno dal 3.200 a.C., durante il periodo della prima fase dell'età del bronzo chiamato Kura-Araxes e che prende il nome proprio dalla civiltà che abitava allora queti luoghi. Gli scavi del sito archeologico di Shengavit iniziarono nel 1936, sotto la direzione dell'archeologo E. Bayburdian che scavò una fossa di prova sulla collina, dalla quale si evinse che in quel sito sarebbe valsa la pena effettuare ulteriori indagini archeologiche che furono per l'appunto svolte fino al 1938. Nel 1958, gli scavi nel sito furono poi ripresi dall'archeologo S. A. Sardarian, il quale li continuò fino al 1980,  lasciando però un lavoro molto poco documentato, che non sempre consentì di risalire ai punti esatti dello scavo in cui erano stati rinvenuti i determinati manufatti.
Nel 2000, a vent'anni di distanza dalla chiusura dell'ultima campagna, fu intrapreso un nuovo e intensivo programma di scavi sotto la guida dell'archeologo Hakop Simonyan, il quale fece realizzare due buche stratigrafiche ai bordi delle vecchie fosse scavate da Bayburdian e Sardarian. Nel 2009 a Simonyan si è unito il professor Mitchell S. Rothman dell'università Widener in Pennsylvania. I due hanno condotto assieme tre serie di scavi, nel 2009, nel 2010 e nel 2012. Durante una di queste, è stata ottenuta una colonna stratigrafica completa del terreno fino al substrato roccioso, la quale mostra 8 o 9 livelli stratigrafici distinti coprendo un lasso di tempo che va dal 3.200 al 2.500 a.C. In aggiunta, sono state trovate anche prove di un uso seguente del sito risalente al 2.200 a.C. Gli scavi hanno portato alla luce serie di edifici larghi, di edifici rotondi con stanze quadrate ediacenti e di edifici rotondi più semplici. Di particolare rilevanza, poi, è stata una serie di costruzioni a scopo rituale scoperta nelle sessioni di scavo del 2010 e del 2012. Nel luglio 2010, Simonyan annunciò la scoperta, nel sito, di ossa di cavallo. Riguardo a tale ritrovamento, il paleo-zoologo tedesco Hans-Peter Uerpmann affermò che molte di quelle ossa provenivano da contesti difficilmente identificabili e che i più antichi dei reperti ossei equini di chiara provenienza, sono quelli trovati da Simonyan nel suo scavo presso il sito di Nerkin Naver, risalente alla media età del bronzo.

Fino a oggi gli archeologi hanno rivenuto larghe mura poligonali corredate da torri che circondavano l'intero insediamento. All'interno delle mura, erano situati edifici a più piani a base sia circolare che quadrata, costruiti in pietra e mattoni di fango. All'interno di alcune delle strutture residenziali sono stati poi rinvenuti focolari rituali e pozzi domestici, mentre nelle loro vicinanze sono stati trovati grandi silos dove grano e orzo venivano conservati per tutti gli abitanti della città. Sempre all'interno della cinta muraria è stato poi ritrovato un passaggio sotterreano che portava dalla città al fiume. Al di fuori delle mura, in particolare in direzione sud-est e sud-ovest, sono invece state scoperte tombe nelle vicinanze di altri tumuli di sepoltura già portati alla luce in diverse serie di scavi precedenti. 
Tra gli oggetti (nella foto a sinistra) portati alla luce durante le diverse campagne di scavo ci sono utensili in chert e in ossidiana, teste di mazza, zappe, martelli, punte di lancia, aghi, terraglie e crogioli (che potevano contenere anche 10 kg di metallo fuso). Sono stati trovati anche contenitori per lo stoccaggio di metallo fuso che potevano contenere quantità anche molto maggiori di quelle che la città avrebbe dovuto richiedere. Le grandi quantità di detriti ritrovati e derivanti dalla realizzazione di utensili da taglio in selce e ossidiana, di ceramiche, di processi metallurgici e di armi, hanno fatto inoltre ipotizzare che in città vi fossero gilde organizzate e specializzate in tali produzioni. Gli oggetti di ceramica ritrovati in questo insediamento hanno in genere un caratteristico esterno brunito e un interno rossastro con disegni incisi o rialzati. Questo stile definisce il periodo e si può riscontrare la sua presenza in tutti i terrioti montuosi abitati del primo periodo Transacaucasico. 
Durante una delle prime campagne di scavi è stato portato alla luce un largo obelisco di pietra (a destra nella foto) dalla forma vagamente fallica, simile a un altro obelisco ritrovato nel sito di Mokhrablur, quattro chilometri a sud di Echmiadzin, celebre per essere la città più sacra dell'Armenia. Si ritiene che tale scultura, assieme a numerose statuette di argilla più piccole ritrovate nel sito, siano al centro di pratiche rituali un tempo svolte a Shengavit.

Tempio di Garni - ARMENIA


Il tempio di Garni (in armeno Գառնու տաճար?, Gaṙnu tačar, ˈgɑrnu ˈtɑtʃɑʁ) è il solo tempio Greco-Romano colonnato rimasto in Armenia. Realizzato in stile ionico e situato nel villaggio di Garni è la struttura e simbolo più conosciuto dell'Armenia pre-cristiana.
L'edificio fu probabilmente fatto costruire da re Tiridate I nel I secolo d.C. in onore al dio del sole Mihr. In seguito alla conversione dell'Armenia al cristianesimo all'inizio del IV secolo venne convertito in una residenza estiva per Khosrovidukht, sorella di Tiridate III. Secondo alcuni studiosi non era un tempio, ma una tomba e per questo sopravvisse alla distruzione delle strutture pagane. Crollò nel terremoto del 1679. L'interesse rinnovato nel XIX secolo portò agli scavi del sito e alla sua ricostruzione tra il 1969 e il 1975. è una delle principali attrazioni turistiche dell'Armenia e il santuario centrale del neopaganesimo armeno.
Il tempio è situato sull'orlo di una scogliera triangolare che sovrasta il burrone del fiume Azat e le montagne di Gegham e fa parte della fortezza di Garni. una delle più antiche fortezze armene. è menzionato come Gorneas negli Annales di Tacito del I secolo. La fortezza fu strategicamente significativa per la difesa delle principali città della piana dell'Ararat.
La data precisa di costruzione del tempio è sconosciuta e soggetta a dibattito. L'opinione maggioritaria è che sia stato costruito nel 77 d.C. durante il regno di Tiridate I. Questa data è stata calcolata sulla base di un'iscrizione in greco antico (nella foto aa sinistra), scoperta dall'artista Martiros Saryan nel 1945 su un muro della fortezza, che nomina Tiridate il Sole (Helios) come fondatore del tempio. L'iscrizione è danneggiata e varie letture sono possibili. 
La maggior parte degli studiosi attribuisce l'iscrizione a Tiridate I e poiché questa dice che il tempio fu costruito nell'undicesimo anno del suo regno, si ritiene che sia stato completato nel 77 d.C. La data è legata principalmente alla visita di Tiridate I a Roma nel 66 d.C., dove fu incoronato dall'imperatore Nerone. Per ricostruire la città di Artaxata, distrutta dal generale Romano Gnaeus Domitius Corbulo, Nerone diede a Tiridate 50 milioni di dracme e fornì artigiani Romani. Al suo ritorno in Armenia Tiridate iniziò un grande progetto di costruzioni, inclusa la ricostruzione della città fortificata di Garni. È in questo periodo che si ritiene che il tempio sia stato costruito.
Si pensa che il tempio sia stato dedicato a Mihr, il dio del sole della mitologia armena, influenzata dal Zoroastrianismo ed equivalente a Mithra. Tiridate, come altri monarchi armeni, considerava Mihr come patrono. Alcuni studiosi hanno sostenuto che nel contesto storico nel quale il tempio fu eretto, ciò al ritorno da Roma come re, è naturale che Tiridate dedicasse il tempio al suo dio patrono. Inoltre sono stati scoperte sculture in marmo bianco di zoccoli di toro a circa 20 metri dal tempio, che potrebbero essere i resti di una scultura del dio Mihr, che veniva spesso ritratto in lotta con un toro.
All'inizio del IV secolo, quando il re armeno Tiridate III adottò il cristianesimo come religione di stato, praticamente tutti i luoghi di adorazione pagani furono distrutti. Il tempio di Garni è la sola struttura pagana, ellenistica, e greco-romana ad essere sopravvissuta alla distruzione. Rimane sconosciuto il motivo.
Secondo Movses Khorenatsi una residenza estiva fu fatta costruire all'interno della fortezza per Khosrovidukht, la sorella di Tiridate III. Per questo motivo furono fatte alcune modifiche al tempio. L'altare sacrificale all'esterno del tempio e la statua di venerazione nella cella furono rimosse. L'apertura nel tetto fu chiusa. La struttura di pietra per rimuovere l'acqua dal tetto fu anch'essa rimossa, mentre l'entrata del tempio fu modificata.
Sui muri del tempio c'è una serie di graffiti in arabo, datati al IX-X secolo. Sul muro dell'ingresso del tempio c'è un'iscrizione in armeno datata 1291 e lasciata dalla principessa Khoshak of Garni, nipote di Ivane Zakarian, della famiglia zakaride, comandante delle forze georgiane-armene all'inizio del XIII secolo, e da Amir Zakare, figlio di Khoshak. Racconta dell'esenzione della popolazione di Garni da tasse in forma di vino, capre e pecore.
Tutte le colonne del tempio collassarono in seguito a un devastante terremoto il 4 luglio 1679, il cui epicentro si ritiene sia stato localizzato nella gola di Garni. La maggior parte dei blocchi rimasero sparsi sul sito e fu possibile ricostruirlo alla fine degli anni 1960 riutilizzando fino all'80% del materiale originale.
Nel 1949 l'Accademia nazionale delle scienze armena iniziò una serie importante di scavi sul sito della fortezza di Garni, condotti da Babken Arakelyan. Lo storico dell'architettura Alexander Sahinian si concentrò sul tempio. Fu solo circa vent'anni dopo che il 10 dicembre 1968 il governo armeno sovietico approvò il piano di ricostruzione del tempio. Un gruppo condotto da Sahinian iniziò i lavori nel gennaio 1969. L'opera fu completata nel 1975, circa 300 anni dopo il sisma del 1679 che l'aveva distrutto. Il tempio fu quasi completamente ricostruito usando le pietre originali, eccetto per quelle mancanti per le quali si usarono pietre bianche che fossero facilmente riconoscibili. Nel 1978 fu eretto un monumento a Sahinian nelle vicinanze del tempio.
Il tempio è un periptero (un tempio circondato da un portico colonnato) costruito su un podio elevato. È stato costruito con pietra in basalto grigio estratto localmente. Il tempio è formato da un pronao e una cella (naos, nella foto a sinistra). Il tempio è supportato da un totale di 24 colonne alte 6,54 m di ordine ionico: sei di fronte, sei sul retro e otto sui lati (le colonne d'angolo sono contate due volte). Basandosi su un'analisi comparativa Sahinian ritiene che le colonne provengano dall'Asia Minore.
Il frontone triangolare ritrae piante e figure geometriche. La scala ha nove scalini inusualmente alti (30 cm), circa il doppio del solito. Tananyan suggerisce che questo possa essere voluto per inspirare un senso di umiltà nelle persone fisiche e per richiedere uno sforzo fisico per raggiungere l'altare. Su entrambi i lati della scala ci sono dei piedistalli rozzamente squadrati. Su entrambi è scolpito Atlante, il titano che sostiene la terra, in una maniera che sembra che sostenga il tempio sulle sue spalle. Si assume che originariamente i piedistalli sostenessero altari sacrificali.
L'esterno del tempio è riccamente decorato. I fregi ritraggono una linea continua di acanti. Inoltre sono ornati i capitelli, architravi e il soffitto. Sulle pietre della cornice fontale si proiettano sculture di teste di leone. Un frammento dell'architrave che porta una testa di leone è stata rimossa dal capitano J. Buchan Telfer alla fine del XIX secolo e donata da lui al British Museum in 1907.
La cella del tempio è alta 7,132 m, lunga 7,98 m e larga 5,05 m. A causa delle sue dimensioni relativamente piccole è stato proposto che anticamente contenesse una statua e le cerimonie fossero tenute all'esterno. La cella è illuminata da due fonti: l'ingresso sproporzionatamente grande di 2,29 per 4,68 m e l'apertura del tetto di 1,74 per 1,26 m.
Il tempio divenne una destinazione turistica anche prima del suo restauro negli anni 1970. Oggigiorno è, con il vicino monastero di Geghard, una delle principali attrazioni turistiche in Armenia. La maggior parte delle persone che visitano Garni visitano anche Geghard. I due siti sono spesso noti collettivamente come Garni-Geghard (Գառնի-Գեղարդ). Nel 2013 circa 200000 persone visitarono il tempio.
Il tempio e la fortezza fanno parte del Riserva museale culturale e storica di Garni (in armeno «Գառնի» պատմա-մշակութային արգելոց-թանգարան?), che occupa 3,5 ettari (8,6 acri). Nel 2011 l'UNESCO assegnò al Museo-Riserva di Garni il premio internazionale Melina Mercuri per la protezione e la gestione di panorami culturali per le "misure intraprese per preservare le sue vestigia culturali e l'enfasi messa nello sforzo di interpretare ed aprire il sito per visitatori nazionali ed internazionali."
Dal 1990, il tempio è stato il santuario principale dei seguaci del Neopaganesimo armeno, che tengono annualmente cerimonie al tempio, specialmente il 21 marzo, il nuovo anno pagano.
Il 25 settembre 2014 Maksim Nikitenko, un turista russo ha deturpato il tempio scrivendo con della vertice spray "В мире идол ничто" (letteralmente "Nel mondo, l'idolo non è niente"). La scritta venne cancellata qualche giorno dopo. Il servizio di stato armeno per la protezione delle riserve storiche e culturali ha fatto causa contro Nikitenko nel febbraio 2015, chiedendo il risarcimento del danno risultato dal vandalismo, quantificato in 839.390 Dram armeni (~$1,760). Nell'aprile 2015 la corte della provincia di Kotayk ha condannato Nikitenko a due mesi di detenzione e a una multa per l'ammontare richiesto dal servizio di stato armeno.

Sarcofagi delle donne Seianti (Toscana/REGNO UNITO)

 


sarcofagi delle donne Seianti sono una coppia di sarcofagi etruschi chiusini, databili al 150-130 a.C. circa. In terracotta policromata, sono conservati al British Museum di Londra (quello di Hanunia Seianti, h. 117 cm, foto in alto) e al Museo archeologico nazionale di Firenze (quello di Larthia Seianti, foto in basso). I due sarcofagi sono provenienti da Chiusi e sono considerati capolavori dell'arte plastica etrusca in terracotta, anche per la policromia ben conservata. Contengono iscrizioni che hanno permesso di leggere i nomi delle due donne effigiate, appartenenti alla stessa casata chiusina e forse sorelle, ma comunque parenti. Esse sono ritratte distese nell'atto di scostarsi il velo dalla testa, mentre con la mano sinistra tengono uno specchio: quello di Hanunia è aperto, quello di Larthia è chiuso.
La cassa del sarcofago di Hanunia ha le estremità ornate da pilastrini eolici, che invece in quello di Larthia compaiono anche al centro. Il singolare fregio dorico che si svolge sulle casse ha al centro rosette particolarmente ornate nel caso di Larthia, e che in quello di Hanunia sono separate al centro da triglifi con doppia serie di gocce (superiore e inferiore). I letti (klìnai) sono dotati di alti cuscini.
Le due donne, appartenenti a una delle più ricche famiglie chiusine, mostrano il loro status vestendo abiti dai complicati panneggi, che ricadono sinuosi, e sono adorne di armilla, diadema, orecchini e collana. Soprattutto nel sarcofago di Hanunia, raffigurata come una più matura matrona, il panneggio mostra un complesso studio, che evita ripetizioni o incertezze; il gesto di scostarsi il velo, sebbene tradizionale, appare sciolto, così come realisticamente sono rappresentate le parti nude del corpo.
I volti, come consueto nell'arte funeraria etrusca, sono idealizzati secondo le fattezze classicheggianti, in questo caso femminili, senza pretese di essere somiglianti ai defunti, e quindi non classificabili propriamente come ritratti. Abbondanti sono i resti della policromia, più sobria nel sarcofago di Hanunia, più sovraccarica nell'altro.




Piramide della via Appia (Lazio)

 

La Piramide della via Appia è una tomba romana a forma di piramide di Roma, edificata lungo la via Appia. Della tomba a piramide lungo la via Appia non si conosce il nome del proprietario: questa poteva appartenere o alla famiglia dei Quintili, trovandosi nei pressi dell'omonima villa e testimoniato dal ritrovamento di una epigrafe, oppure a Quinto Cecilio Metello, il quale aveva una proprietà lungo il V miglio della strada. Persa la sua funzione di sepolcro, la piramide venne depredata e spogliata del suo rivestimento in marmo: ne sono testimonianza i numerosi chiodi quadrati ritrovati, utilizzati per arrampicarsi e legare le corde; allo stesso tempo gran parte delle decorazioni venne distrutto, come ad esempio una statua colossale, di cui rimangono alcuni frammenti sparsi nei dintorni, probabilmente a seguito della lotta al paganesimo. Nel XVIII secolo Giovanni Battista Piranesi ne fece un'incisione, mentre nella prima metà del XIX secolo fu oggetto di una campagna di scavo da parte di Luigi Canina durante la quale vennero recuperati i bassorilievi di grifoni e sfingi.
Ubicata lungo il IV miglio della via Appia, nei pressi del tumulo degli Orazi e dei Curiazi e della villa dei Quintili, la tomba è la seconda piramide per grandezza di Roma dopo quella Cestia. Alterata rispetto al suo aspetto originario, con la totale perdita del rivestimento in marmo e delle quattro sfingi che la circondavano, ne rimane un blocco di pietra calcarea, malta pozzolanica e pietra lavica, alto circa 20 metri per un diametro di 15, dalla forma a fungo.

Sarcofago "Grande Ludovisi" (Lazio)

 


Il sarcofago "Grande Ludovisi" è un'opera del III secolo conservato a palazzo Altemps a Roma. È alto 1,53 metri, largo 2,73 m e profondo 1,37 m.
Si tratta di una delle opere della scultura romana più famose e controverse, proveniente da una tomba presso la Porta Tiburtina, scoperta nel 1621. Il coperchio, esposto a Magonza, ha subito danni nel 1945: vi sono raffigurate scene di barbari sottomessi e una figura femminile in busto contro un parapetasma (tendaggio).
La cassa, tratta ad altorilievo, è decorata da una grandiosa scena di battaglia tra Romani e barbari (forse i Daci, a giudicare dall'abbigliamento). La convulsa scena è organizzata su quattro piani: i due inferiori sono occupati da barbari a cavallo o a piedi, feriti, morenti o morti; i due superiori da soldati o cavalieri romani impegnati a finire gli avversari o a combattere i nemici residui.
La superficie è animata da un groviglio di figure, tra le quali non si riesce a cogliere un vero e proprio duello (una "monomachia", come nel sarcofago Amendola), ma un accatastarsi di guerrieri, tra i quali spicca al centro la figura dal condottiero a cavallo, con un braccio alzato che fa cenno alla travolgente avanzata che proviene dall'angolo destro e che indirizza su di lui l'attenzione dell'osservatore.
Il personaggio è ritratto in maniera precisa, con la testa barbuta ed espressiva e con un segno di croce a "X" sulla fronte (riconoscimento dell'iniziazione mitraica) che ha permesso di identificarlo con uno dei figli di Decio, Ostiliano (morto di peste, del quale si conoscono altri due ritratti con lo stesso segno di iniziazione e con tratti somatici simili) o più probabilmente il maggiore, Erennio Etrusco, che morì in battaglia insieme al padre ad Abrittus contro i Goti di Cniva (nel 251).
L'opera è caratterizzata da una sapiente composizione che si avvale di linee orizzontali e verticali, che si intersecano su tutto il campo, senza "agglomerati" e zone vuote. Inoltre il rilievo delle figure crea un fittissimo chiaroscuro, con variazioni di effetti a seconda dei materiali scolpiti (panneggi, capigliature, criniere, corazze e cotta di maglia del soldato all'estrema destra), con un frequente uso del trapano.
Confronti si possono fare con opere attiche coeve, anche se il soggetto e la composizione può definirsi peculiarmente romana, in una sorta di preparazione alla rinascenza classicista dell'arte nell'età di Gallieno.


Piramide Cestia (Lazio)

 


La Piramide Cestia (o Piramide di Caio Cestio, Sepulcrum Cestii in latino) è una tomba romana a forma di piramide di stile egizio costruita a Roma tra il 18 e il 12 a.C. Si trova nelle immediate adiacenze di porta San Paolo ed è inglobata nel perimetro del posteriore cimitero acattolico, costruito tra il XVIII e il XIX secolo. Fu costruita tra il 18 e il 12 a.C. come tomba per Gaio Cestio Epulone, un membro dei septemviri epulones; è in calcestruzzo, con cortina di mattoni e copertura di lastre di marmo di Carrara; è alta 36,40 metri con una base quadrata di circa 30 metri di lato e si leva su una piattaforma di cementizio.
La piramide fu costruita in soli 330 giorni, forse anche meno. Infatti Gaio Cestio dispose espressamente nel suo testamento che gli eredi gli innalzassero il sepolcro piramidale entro tale termine, pena la perdita della ricca eredità, come ricorda l'iscrizione scolpita sul fianco orientale del monumento: opus absolutum ex testamento diebus CCCXXX, arbitratu (L.) Ponti P. f. Cla (udia tribu), Melae heredis et Pothi l(iberti). Gli eredi si affrettarono ad eseguire la disposizione testamentaria, tanto che, sembra, avessero completato la costruzione della piramide con qualche giorno di anticipo.
All'interno vi è un'unica camera sepolcrale, di 5,95 × 4,10 ed alta 4,80 metri, la cui cubatura costituisce poco più dell'1% del volume complessivo del monumento. Su entrambi i lati verso oriente e verso occidente, a due terzi dell'altezza, è incisa nel rivestimento l'iscrizione che registra il nome e titoli di Cestio; sul solo lato orientale, a circa un terzo dell'altezza, sono descritte le circostanze della costruzione del monumento.
Una comparazione della forma con le Piramidi di Giza rivela che la resistenza strutturale del calcestruzzo ha permesso di costruire la piramide romana ad un angolo molto più acuto di quelle dell'Egitto. La forma più slanciata ha permesso che la Piramide Cestia raggiungesse un'altezza maggiore con la stessa quantità di materiale.
Il monumento era posto lungo la Via Ostiense, era circondato da una recinzione in blocchi di tufo, oggi parzialmente in vista, aveva 4 colonne agli angoli (di cui sono state rialzate quelle dal lato opposto dell'Ostiense) e due statue del defunto ai lati della porta.
La camera sepolcrale con volta a botte – originariamente murata al momento della sepoltura, come nelle piramidi egizie – è dipinta in bianco, con sottili cornici e figure decorative (sacerdotesse ed anfore alle pareti, 4 figure di Nike sulla volta) di stile pompeiano. È relativamente ben conservata, ma completamente nuda, e sulla parete di fondo, dove doveva esserci il ritratto del defunto, ora c'è un buco, praticato da scavatori alla ricerca di tesori.
La presenza di un monumento funebre in forma di piramide a Roma si deve probabilmente al fatto che l'Egitto era divenuto provincia romana alcuni anni prima, nel 30 a.C., e la cultura sontuosa di questa nuova provincia stava venendo di moda anche a Roma.
Nel III secolo la piramide di Cestio fu incorporata nelle Mura Aureliane, delle quali venne a costituire un bastione, e l'attuale accesso corrisponde ad una posterula che immetteva su una strada secondaria – il cui basolato è in vista – in direzione dell'emporio sul Tevere. Questa circostanza costituisce, presumibilmente, la ragione per cui il monumento si salvò dalle spoliazioni, che afflissero nei secoli tutti i marmi di rivestimento dei monumenti antichi.
Nel Medioevo, la credenza popolare identificava la Piramide come meta Remi, collegandola con un'altra piramide indicata come meta Romuli, molto simile e coeva, esistente sino al 1499 nel rione di Borgo, riportata nella Pianta della città di Roma di Alessandro Strozzi del 1474, e demolita nel XVI secolo da papa Alessandro VI per l'apertura della nuova strada di Borgo Nuovo.  Lo stesso Francesco Petrarca, umanista ed esperto latinista, in un'epistola indica la Piramide Cestia come "sepolcro di Remo". Poggio Bracciolini per spiegare l'errore del grande scrittore afferma che esso fu causato dal «non avere il grande uomo voluto scoprire l'iscrizione coperta dagli arbusti».
Per il riferimento fantasioso alle origini della fondazione di Roma - oltre che per la sua forma - la Piramide Cestia fu molto ammirata dai viaggiatori, in particolare nel Seicento, e godette comunque di costante attenzione da parte dell'amministrazione pontificia: nel 1663 furono intrapresi degli scavi per ordine di papa Alessandro VII, che ne fece incidere la memoria sulla facciata; all'esterno furono trovate le basi di due statue dedicate a Cestio e fu scavata un'apertura nella piramide stessa, scoprendo la camera sepolcrale - che, come detto sopra, fu trovata vuota e già visitata da tombaroli. Esiste anche un progetto del Borromini per trasformare la cella funeraria in chiesa, che non ebbe seguito. Ancora alla fine del potere temporale, comunque, la Piramide era oggetto di manutenzione conservativa: vi fu installato il primo parafulmine, che c'è ancora.
Ai piedi della piramide, ancora dentro la cinta urbana ma immediatamente a ridosso delle mura, dal XVIII secolo si cominciò a seppellire gli stranieri non cattolici morti in Roma. Il sito fu ufficializzato nel 1821 come Cimitero degli inglesi.
Nel 2015 l'imprenditore e mecenate giapponese Yuzo Yagi, titolare della Yagi Tsusho Ltd (che distribuisce in Giappone prodotti della moda italiana) e insignito dell’onorificenza di Grande Ufficiale dal Presidente della Repubblica Italiana per il suo contribuito allo sviluppo dell’industria della moda italiana, ha finanziato il restauro della piramide costato 2 milioni di euro.

Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...