sabato 16 settembre 2023

Römisch-Germanisches Museum, Köln - GERMANIA

 


Il Römisch-Germanisches Museum è un'istituzione museale di Colonia che contiene reperti archeologici dell'epoca preistorica, di quella romana e di quella franca ritrovati nell'area urbana della città. Si trova proprio a ridosso del Duomo e della stazione centrale. Inaugurato il 24 novembre 1961, è stato costruito attorno ad un importante mosaico ritrovato in seguito ai lavori di recupero post-bellici. Il mosaico ritrae diverse scene della vita di Dioniso e probabilmente faceva parte di un complesso abitativo romano del III secolo. Nel 1999, in occasione di un pranzo ufficiale del G8, il mosaico è stato coperto con una protezione in plexiglas.
Il museo ha una superficie espositiva di 4.500 m² in cui sono esposti reperti di 100.000 anni di storia, dal Paleolitico all'alto Medioevo. I più antichi risalgono a raccoglitori e cacciatori presenti in Renania durante il Paleolitico e il Mesolitico. Nel VI millennio a. C. gli uomini divennero stanziali e costruirono villaggi con grandi case che fungevano anche da stalle. La scoperta della civiltà che lavorava ceramica a banda lineare a Colonia-Lindenthal è una delle pietre miliari della ricerca riguardante il Neolitico europeo. Attrezzi di pietra, armi e vasi di ceramica fatti a mano raccontano la vita delle persone di circa 8.000 anni fa. I reperti preromani raccolti dalle tombe e dai villaggi dell'Età del Bronzo e del Ferro risalgono ai primi insediamenti agricoli della Renania. Nei secoli che precedettero l'arrivo dei Romani la Renania fu colonizzata da tribù celtiche e germaniche, che seppellivano i propri morti in tumuli con urne di ceramica e oggetti di pietra e metallo come viatico per l'aldilà. Ma il fulcro delle collezioni è costituito dalle testimonianze dei cinque secoli di dominazione romana. Il fondatore di Colonia, l'imperatore Augusto, viene ricordato da un'effigie in miniatura di vetro verde. 
Il famoso mosaico di Dioniso del III secolo d. C. e il monumento funerario alto 15 metri del I secolo d. C. dedicato al legionario Marco Publicio possono essere ammirati a tutte le ore del giorno e della notte dalle finestre panoramiche che danno sul piazzale del Duomo. Dal punto di vista architettonico la suggestiva struttura del museo è concepita come una "finestra sull'epoca romana".
Le colonne lungo il suo perimetro richiamano il peristilio romano situato al piano inferiore che ospita il Mosaico di Dioniso visibile dalla Roncalliplatz. Al piano immediatamente superiore, il cosiddetto piano di Publicio, si trovano le stanze che ospitano mostre temporanee e congressi. Al piano superiore, una serie di reperti archeologici raggruppati cronologicamente e per tema descrivono l'evoluzione della “città degli Ubii”, costruita all'epoca dell'imperatore Augusto, che poi divenne centro economico e religioso della Germania Inferior. Ne costituiscono una testimonianza i resti del porto romano sul Reno, quelli del ponte ligneo costruito sotto Costantino, e quelli della testa di ponte di Divitia sulla sponda est. Delle mura perimetrali romane sono rimasti solo la base di una torre a pianta circolare (dove vengono allestite mostre temporanee) e l'enorme arco centrale in pietra della Porta Nord con l'iscrizione CCAA (Colonia Claudia Ara Agrippinensium). 
La ricostruzione di una carrozza da viaggio romana da un'idea dei mezzi di trasporto usati sulle strade a lunga percorrenza che collegavano l'Impero Romano.
Il museo contiene la più grande collezione al mondo di oggetti di vetro di epoca romana utilizzati fra il I e il IV secolo, fra cui numerosi bicchieri di lusso e decorati della stessa epoca come i vasi soffiati decorati con figure, bicchieri decorati, e calici. Gli orafi e gli scultori romani crearono prodotti di grande pregio, come ad esempio le raffinate miniature di ambra. Affreschi maestosi e mosaici di grande valore, come il famoso Mosaico del Filosofo, erano parte integrante dell'arredamento delle case degli aristocratici della città. L'arredamento delle abitazioni comprendeva anche alcuni prodotti di ceramica, come ad esempio alcuni e coppe bicchieri decorati con scene di caccia che furono venduti e fino in Inghilterra.
Le pregiate opere di oreficeria della collezione Diergardt, che risale al Barone Johannes Freiherr von Diergardt, è una delle più importanti collezioni a livello internazionale di gioielli dell'epoca delle migrazioni di popoli germanici. Sono presenti costumi e accessori appartenuti a cavalieri nomadi e a popoli germanici dei secoli fra il IV e il VI sono provenienti da tutta Europa, dalla Crimea alla Spagna. La “Kertscher Krone” (corona Kertscher), gli anelli del tempio e il diadema provenienti da Tiligul hanno fama mondiale. I reperti più recenti del museo risalgono all'età merovingia (V – VI secolo). Nelle celebrazioni dei I funerali franchi degli abitanti cittadini e delle campagne attorno a Colonia nel territorio del Reno venivano spesso celebrati utilizzati con ricchi corredi funerari per accompagnare i defunti nel la vita nell'aldilà. I corredi funebri sono testimonianze della storia della civiltà dell'Alto Medioevo.
Il Museo Romano Germanico ha le sue origini nella "collezione di antichità di Colonia", raccolta il 25 aprile 1807, in seguito alla circolare per la protezione dei reperti archeologici degli scavi nel dipartimento di Colonia, e alla collezione di antichità romane di Ferdinand Franz Wallraf, poi presa in consegna dalla città di Colonia, dalla quale nacque nel 1861 la sezione di storia romana del nuovo Wallraf-Richartz-Museum aperto da poco. Già dall'epoca della prima guerra mondiale la sezione ha avuto un proprio direttore. Fin dal 1923 la sezione sovraintende agli scavi archeologici all'interno della città e ha creato una sempre maggiore consapevolezza dell'origine romana della città di Colonia. Anche a questo scopo è servita la costruzione, nel 1946, del Museo Romano Germanico, collegata al ritrovamento del Mosaico di Dioniso nei sotterranei del Duomo. Il museo è stato inaugurato il 24 novembre 1961 nel bunker del Duomo. In occasione della costruzione della linea nord-sud della ferrovia metropolitana, l'ente museale ha supervisionato la più grande area di scavi d'Europa. Come centro di ricerca il museo ha lavorato, tra gli altri, con l'Istituto archeologico,con l'Istituto di studi sull'antichità, con i centri di ricerca sulla dendrocronologia e sull'archeobotanica dell'università di Colonia e con l'università di scienze applicate di Colonia nei settori restaurazione e visualizzazione.


Odeon di Lyon - FRANCIA


L'Odeon di Lione è un piccolo teatro romano (più precisamente un odeon) che si trova a Lione vicino alla sommità della collina Fourvière.
L'Odeon si trova accanto al Teatro antico con cui forma una coppia archeologica molto rara nel mondo romano, tanto che nella Gallia solo Vienne possedeva un teatro accompagnato da un odeon.
La costruzione dell'Odeon risale al periodo tra la fine del I secolo e l'inizio del II secolo e il suo diametro di 73 metri lo rendeva uno dei più grandi dell'Impero. Le rovine dell'Odeon erano ancora visibili nel XVI secolo e per errore vennero scambiate con quelle dell'anfiteatro dove avvenne la persecuzione di Lione del 177.
L'Odeon ha una capienza di 3.000 posti, inferiore a quella solita dei teatri romani, ulteriore indizio che fa propendere per una classificazione come odeon, cioè un edificio coperto utilizzato per gli spettacoli musicali e le letture e probabilmente anche come sala riunioni dei notabili della città.
Insieme ad altri edifici del centro storico di Lione, dal 1998 è incluso tra i Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO.


Arciere di Amesbury - REGNO UNITO

 

Col nome di Arciere di Amesbury (soprannominato il "Re di Stonehenge" dalla stampa britannica, sebbene nulla metta in connessione il sito e l'arciere) si indica un uomo di 35-45 anni della prima età del Bronzo (databile attorno al 2300 a.C.), trovato nel maggio 2002 ad Amesbury, nei pressi di Stonehenge (Inghilterra).
Questa tomba riveste una grande importanza sia perché è una delle più ricche di quell'epoca mai scoperte in Gran Bretagna sia per le sue connessioni con l'Europa continentale. La datazione di questa sepoltura è stata resa possibile dalla presenza di cinque vasi funerari associabili con la Cultura del vaso campaniforme. Vicino all'arciere è stato trovato il corpo di un altro uomo, probabilmente un suo parente.
Il ricco corredo funerario comprendeva oltre cento oggetti, tra cui orecchini d'oro, coltelli di rame e vasellame. L'uomo è stato soprannominato arciere per le molte punte di frecce trovate nel corredo.
Attraverso un'analisi condotta sullo smalto dei denti, è stato possibile individuare la provenienza dell'"Arciere" da una regione fredda dell'Europa centrale, in un'area compresa tra la Svizzera, l'Austria e la Germania. Si pensa che sia stato uno dei primi fabbri della Gran Bretagna.
L'esempio dell'Arciere di Amesbury è usato dai sostenitori dell'ipotesi secondo cui la diffusione della Cultura del vaso campaniforme (Bell Beaker culture in inglese) fu determinata da movimenti di popolazioni e non dalla semplice diffusione e adozione di modelli per la fabbricazione di oggetti.

giovedì 14 settembre 2023

Villaggio di Tiscali (Sardegna)

 


Il villaggio di Tiscali è un sito archeologico situato in Sardegna, al confine fra i comuni di Dorgali (che ne detiene il 90% del territorio) e Oliena (il restante 10%). Si trova sul monte Tiscali, una piccola montagna alta 518 m s.l.m. al confine tra il Supramonte di Oliena e il Supramonte di Dorgali. Sulla sommità del monte si trova un'enorme dolina carsica all'interno della quale si trovano i resti del villaggio, costruito nel corso dell'Età Nuragica (XV/XIV - IX/VIII secolo a.C.), frequentato e ristrutturato durante l'Età romana (II/I secolo a.C.). Con ogni probabilità il sito è stato frequentato anche nel corso dell'Età prenuragica. Il villaggio è interamente costruito lungo le pareti della dolina e non risulta visibile fino a quando non si raggiunge l'interno della cavità, attraverso un'ampia apertura nella parete rocciosa. Fu visitato nel 1910 da Ettore Pais, quando si trovava ancora in ottime condizioni di conservazione. Il villaggio fu descritto e fotografato soltanto nel 1927, ad opera di Antonio Taramelli. Nel 1999 Susanna Massetti ha effettuato i primi e finora unici scavi nel sito per conto della Soprintendenza per i beni archeologici per le province di Sassari e Nuoro. Nel 2005 Fabrizio Delussu (Museo archeologico di Dorgali) ha realizzato uno studio preliminare dei materiali rinvenuti nel corso degli scavi, esame che gli ha consentito di formulare una nuova interpretazione del sito. Decenni di incuria e di saccheggi hanno notevolmente danneggiato il sito che nonostante ciò rimane un luogo dall'atmosfera molto suggestiva. Sulla parete rocciosa della dolina si apre inoltre un ampio finestrone dal quale si domina la sottostante valle di Lanaittu, a pochi chilometri da Dorgali e da Oliena.
Nel 1995 è stato avviato un progetto di recupero e salvaguardia del sito che è stato affidato alla Cooperativa Ghivine di Dorgali, in accordo con il Comune di Dorgali e la Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Sassari e Nuoro. Il sito è regolarmente gestito con servizio di guardiania notturna. Per l'accesso e la visita al villaggio nuragico è necessario pagare il biglietto di ingresso.

mercoledì 13 settembre 2023

Anfiteatro romano di Mérida - SPAGNA

 


L'anfiteatro romano di Mérida (in spagnolo Anfiteatro de Mérida) è un anfiteatro romano in rovina situato nella colonia romana di Emerita Augusta, l'odierna Mérida, in Spagna. La città stessa, Emerita Augusta, fu fondata nel 25 a.C. da Augusto, per ricollocare soldati emeriti congedati dall'esercito romano da due legioni veterane delle guerre cantabriche (la Legio V Alaudae e la Legio X Gemina). L'anfiteatro stesso fu completato nel 8 a.C. Il termine emerito si riferisce ai soldati, tutti congedati con onore dal servizio. La città divenne capoluogo della provincia romana della Lusitania.
L'anfiteatro fa parte dell'insieme archeologico di Mérida, uno dei siti archeologici più grandi ed estesi della Spagna che è stato dichiarato Patrimonio dell'umanità dell'UNESCO nel 1993.
L'anfiteatro fu inaugurato nell'anno 8 a.C. Questo edificio era destinato a combattimenti di gladiatori e combattimenti tra belve o uomini e bestie (venationes)(nell'immagine a sinistra, un bassorilievo in marmo proveniente dall'anfiteatro). L'anfiteatro ha una forma ellittica con un asse maggiore di 126 metri e uno inferiore di 102 metri, mentre l'arena misura di 64x44 metri rispettivamente. L'arena era coperta di sabbia e al centro aveva una fossa bestiaria al centro, che era ricoperta di legno e sabbia. Questa fossa veniva usata per ospitare gli animali prima che venissero rilasciati nell'arena.
Il suo design consiste in una tribuna con ima, media e summa cavea e un'arena centrale. Le tribune avevano una capienza di circa 15.000 spettatori e avevano scale di sostegno e corridoi ( scalae) che collegavano internamente le diverse parti. L'ima cavea aveva una fila riservata all'élite locale e altre dieci al pubblico. C'erano anche due tribune situate ai lati dell'asse minore: una sopra l'atrio principale e l'altra di fronte. Sotto di essi si trovava l'iscrizione monumentale da cui si può datare l'anfiteatro.

Anfiteatro di Tarragona - SPAGNA

 


L'anfiteatro di Tarragona è un anfiteatro romano della città di Tarraco, odierna Tarragona, nella regione della Catalogna, nel nord-est della Spagna. Fu costruito nel II secolo vicino al foro di questo capoluogo di provincia romana.
L'anfiteatro poteva ospitare fino a 15.000 spettatori e misurava 130 x 102 metri.
Fu edificato tra la fine del I e l'inizio del II secolo, fuori le mura, sul fianco della collina di fronte al mare. Ci sono resti di una grande iscrizione risalente al regno di Eliogabalo (III secolo) situata nel podio.
Nel 259, durante la persecuzione dei cristiani da parte dell'imperatore Valeriano, il vescovo della città, Fruttuoso, e i suoi diaconi, Augurio ed Eulogio, furono bruciati vivi. Dopo che il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell'impero, l'anfiteatro perse le sue funzioni originarie. Negli anni successivi alcune delle pietre dell'edificio furono utilizzate per costruire una basilica per commemorare i tre martiri. Nell'arena furono scavate tombe e alla chiesa furono annessi mausolei funerari.
Con l'invasione islamica della Spagna iniziò un periodo di abbandono della zona, che durò fino al XII secolo, quando sui resti della chiesa visigota fu costruita una chiesa, in stile romanico. Questa fu demolita nel 1915.
Nel 1576 divenne convento dell'ordine della Trinità fino al 1780 quando divenne carcere per i prigionieri che stavano costruendo il porto. Dopo aver chiuso il carcere, fu abbandonato fino alla metà del XX secolo quando furono avviati i lavori di recupero dell'anfiteatro, finanziati dalla Bryant Foundation.


Grande menhir brisé di Locmariaquer - FRANCIA

 


Il Grand Menhir Brisé ("Grande menhir spezzato"), conosciuto anche come Grand Menhir d'Er Grah (in bretone: Men-er-Hroëc'h, ovvero "Pietra della/e fata/") è il più grande menhir del mondo occidentale: risale all'incirca al 4500 a.C. e si trova nella cittadina francese di Locmariaquer, nel dipartimento del Morbihan (Bretagna meridionale), all'interno di un complesso megalitico che comprende anche il Tumulo di Er Grah e il dolmen noto come Table des Marchands. È classificato come monumento storico (dal 1889).
Spezzato in quattro tronconi, raggiungeva in origine l'altezza di circa 20 metri ed un peso complessivo di circa 280-350 tonnellate. Faceva probabilmente parte di un allineamento che comprendeva 19 menhir che si estendeva per 55 metri di lunghezza.
Gli antichi Romani lo chiamavano "Colonna del Nord", in quanto indicava la strada verso il porto sul Golfo del Morbihan.
Non è chiara l'epoca in cui il menhir andò semi-distrutto. Pare tuttavia che il suo abbattimento risalga addirittura a poco dopo la sua costruzione, ovvero al Neolitico, forse intorno al 4200-4300 a.C.
Il menhir è intagliato in un tipo di granito estraneo alla zona attorno a Locmariaquer e forse proveniente dall'altro lato della costa che si affaccia sul Golfo del Morbihan.
Secondo il Prof. Alexander Thom, il sito su cui si trovava in origine il menhir doveva servire come una sorta di calendario lunare.
Essendo - come detto - costituito di un tipo di granito estraneo alla zona, il gigantesco blocco di pietra fu trasportato per diversi chilometri con una tecnica sconosciuta. Fu quindi eretto probabilmente dopo aver eseguito le seguenti operazioni: la costruzione di una rampa a terra, il ribaltamento in una buca grazie all'utilizzo di leve e "capre" in legno e la puntellatura con delle pietre.Venne infine levigato per mezzo di alcuni percussori in quarzo.

(da Wikipedia, l'enciclopedia libera)


Pollentia, Isole Baleari - SPAGNA

 

Pollentia
 è una città romana i cui resti sono visibili presso la città di Alcúdia, nell'isola di Maiorca, in Spagna.
La città fu fondata intorno al 70 a.C. I suoi resti comparvero a partire dal XVII secolo e scavi regolari vi furono condotti a partire dagli inizi del XX secolo.
Attualmente i resti sono suddivisi in tre aree archeologiche visitabili:
  • La Portella: si conservano i resti di tre domus ad atrio, tra cui la meglio conservata è la "Casa dei due tesori", con facciata porticata sulla strada. La "Casa della testa di bronzo" ha restituito una piccola testa in bronzo di una fanciulla. Presso la "Casa di nord-est" si conserva un tratto delle mura cittadine del III secolo.
  • Foro romano: vi si conservano i resti del Capitolium e di tabernae. L'area è ancora oggetto di scavo.
  • Teatro romano: del I secolo d.C. conserva i resti della cavea, scavata nella roccia, e della scena, a pianta rettangolare. In epoca tardo-antica fu utilizzato come necropoli.


Monte d'Accoddi (Sardegna)

 

Monte d'Accoddi, a volte scritto Akkoddi, è un importante sito archeologico della Sardegna prenuragica fondato tra il 4000 e il 3650 a.C. e ampliato tra il 2800 e il 2400 a.C. (Cultura di Abealzu-Filigosa).
Per la concentrazione di differenti tipologie di costruzione, il monumento è tutt'oggi considerato unico non solo in Europa, ma nell'intera zona del mar Mediterraneo, tanto particolare da essere associato, erroneamente, per la forma alle strutture di più piani orizzontali sovrapposti (dette "ziqqurat") della Mesopotamia.
Monte d'Accoddi è situato nella Nurra, regione della Sardegna nord-occidentale, e più precisamente nel territorio del comune di Sassari, vicino al vecchio percorso della Strada statale 131 Carlo Felice, in direzione di Porto Torres, in un terreno in origine di proprietà della famiglia Segni.
Il complesso si trova all'interno di una porzione di territorio che registra una importante presenza di monumenti preistorici distanti fra loro poche centinaia di metri.
Tra i più importanti da segnalare, oltre a Monte d'Accoddi, gli antichi cimiteri (chiamati "necropoli") di Su Crucifissu Mannu, Ponte Secco, Li Lioni, Sant'Ambrogio, Su Jaiu, Spina Santa e Marinaru, le tombe costruite con grosse pietre (cioè i "dolmen") e le grandi pietre infisse nel terreno (ossia i "menhir") di Frades Muros, oltre ad una decina di nuraghi.
Il monumento, unico nella zona del Mediterraneo, faceva parte di un complesso di epoca prenuragica, sviluppatosi su un'area pianeggiante a partire dalla seconda metà del IV millennio a.C. e preceduto da tracce di visite del neolitico medio.
In un primo periodo si stabilirono nella zona diversi villaggi di capanne a quattro angoli, appartenenti alla cultura di Ozieri, ai quali si collega un cimitero con tombe sotterranee a domus de janas e un probabile tempio con pietre infisse nel terreno, lastre di pietra per sacrifici e sfere di pietra.
Successivamente, popolazioni sempre appartenenti alla cultura di Ozieri costruirono un'ampia piattaforma sopraelevata, a forma di piramide tronca (27 m x 27 m, di circa 5,5 m di altezza), alla quale si accedeva con una rampa. Sulla piattaforma venne costruita una grande struttura rettangolare rivolta verso sud (12,50 m x 7,20), che è stata riconosciuta come tempio (chiamata "Tempio rosso", perché la maggior parte delle superfici sono intonacate e dipinte con ocra rossa); sono presenti anche tracce di giallo e di nero.
All'inizio del III millennio a.C. la struttura probabilmente fu abbandonata (sono state rinvenute anche tracce di incendi). Intorno al 2800 a.C. venne completamente ricoperta da un colossale riempimento, costituito da strati alternati di terra, pietre e calcare del posto polverizzato.
Il riempimento è contenuto da un rivestimento esterno in grandi blocchi di calcare. In questo modo venne creata una seconda grande piattaforma a piramide tronca (36 m x 29 m, di circa 10 m di altezza), accessibile per mezzo di una seconda rampa, lunga 41,80 m, costruita sopra quella più antica. Questo secondo santuario, conosciuto anche come "Tempio a gradoni" è stato attribuito alla cultura di Abealzu-Filigosa.
L'edificio conservò la sua funzione di centro religioso per diversi secoli e venne abbandonato con l'età del bronzo antico: intorno al 1800 a.C. era ormai in rovina e venne utilizzato occasionalmente per sepolture.
Durante la seconda guerra mondiale fu danneggiata la parte superiore dallo scavo di stretti fossati per posizionare sopra delle armi contraeree.
Gli scavi archeologici furono condotti da Ercole Contu (1954-1958) e da Santo Tinè (1979-1990). Il monumento negli anni ottanta è stato oggetto di un pesante intervento di restauro, con scavi, rimozioni di materiale e ricostruzioni ingiustificate sulla rampa e posizionamento di alcuni resti trovati nell'area.
Le ricerche di Contu prima, e in seguito di Tinè appurarono la presenza di due altari costruiti in periodi diversi, quello più antico e più piccolo è inglobato dalla costruzione più recente.Quest'ultima è costituita da un tronco di piramide con base di 37,50 m (lati nord e sud) per 30,50 m (lati est e ovest) e altezza di 9 m circa. Dal lato meridionale si sviluppa la rampa d'accesso, lunga 41,50 m e larga da un minimo di 7 m ad un massimo di 13,50 nella parte a ridosso della costruzione, che occupava nel suo complesso circa 1600 m².
Il monumento era costruito nella parte più esterna da muri in pietra a faccia singola (a differenza dei nuraghi, che ne hanno generalmente due) costituito da blocchi irregolari di calcare, non poggiati sulla giuntura dei blocchi sottostanti (altra differenza costruttiva rispetto ai nuraghi).
Queste murature, inclinate a favore di gravità, sostenevano l'ammasso interno, stratificato, di terra e pietrame, organizzato in cassoni di contenimento e si sono conservate intatte nella porzione di sud-est fino a 5,40 m di altezza.
La rampa era costruita con la stessa tecnica man mano che procedeva la costruzione del tronco di piramide, in modo da servire come piano inclinato per edificare il resto dello stesso edificio.
Il tempio interno, era egualmente del tipo "a terrazza" con base quadrangolare di 23,80 m x 27,40 e altezza di 5,50 m al quale era collegata una rampa di 25 m circa di lunghezza che permetteva di raggiungere la cella (12,50 m x 7,25 m) che sovrastava la struttura. Della cella, o sacello, che era l'ambiente più sacro della struttura, rimangono oggi il pavimento ed il muro perimetrale per un'altezza di 70 cm, entrambi intonacati di rosso ocra.
Oltre all'altare nel complesso archeologico di Monte d'Accoddi sono presenti altri monumentali artefatti prenuragici.
Nel lato est della rampa, a pochi metri da essa è presente un lastrone di compatto calcare di 8,2 tonnellate di circa tre metri per tre, che costituiva un dolmen o forse una tavola per offerte. La seconda ipotesi sembra essere confermata dalla presenza di sette fori passanti nei bordi della pietra che potevano servire a legare le vittime degli eventuali sacrifici. La lastra è posta sopra un inghiottitoio naturale ed è contemporanea all'altare più recente.
Nello stesso lato della rampa d'accesso, e proprio a ridosso di essa fu trovata un'altra lastra, questa in trachite, del peso di circa 2,7 tonnellate.
Nel lato opposto della rampa è stato recentemente rialzato un menhir là trovato, di calcare squadrato e forma allungata, alto 4,40 m e pesante 5,7 tonnellate.
Questi tre manufatti sono oggi visibili nella posizione originaria e gli ultimi due sembrano essere coevi dell'altare più antico.
Altri due monumenti litici, provenienti dalla zona ad est del complesso sono stati collocati nei pressi della lastra più grande, e sono due pietre calcaree sferoidali, la più grande, lavorata, pesa più di una tonnellata ed ha una circonferenza di 4,85 m, mentre la seconda ha un diametro di circa 60 cm. Sul monumento vi sono tuttora solo delle ipotesi sia sul nome che sulla tipologia del monumento stesso. Il nome akkoddi sembra derivare dal sardo arcaico Kodi che significava: monte e da cui deriverebbe l'altro nome sardo Kodina o Kudina che sta ad indicare " pietra ". Ma quella riportata sopra è una delle tante ipotesi sull'origine del nome, tuttavia ne esistono diverse ma abbastanza confuse. L'altare sulla torre era considerato il punto di incontro tra umano e divino e si pensa che un gran numero di animali – sicuramente bovini - venissero sacrificati per propiziare la rigenerazione della vita e della vegetazione. Ai piedi della piramide a gradoni sono stati ritrovati dagli archeologi grandi accumuli composti da resti di antichi pasti sacri ed anche oggetti utilizzati durante i riti propiziatori.
Numerose sono anche le ipotesi sull'utilizzo che ne veniva fatto. Sulle credenze religiose, sui concetti di fertilità e riproduzione legati al monumento e sulle antiche credenze dell'unione tra il cielo e la terra, ci sono anche le ipotesi dell'archeologo Giovanni Lilliu.
Vi è infine un'ipotesi, formulata dall'appassionato Eugenio Muroni, secondo la quale la simmetria dell'altare prenuragico riprodurrebbe le stelle della Croce del Sud, oggi non visibile dal sito di Monte d'Accoddi, a causa della precessione degli equinozi, ma che 5000 anni fa era probabilmente visibile nel settore sud del cielo sardo, come confermato dal fisico Gian Nicola Cabizza. Secondo questa teoria, le forme stilizzate, a croce secca, della Dea Madre, stele posizionata a nord del monumento, realizzata in granito rosso, non hanno neanche il segno o la modanatura del piccolo busto presente in altre dee madri coeve; per cui, secondo Muroni, si volle realizzare un qualcosa ispirato ad una forma a croce che altro non poteva essere che la nota costellazione, significando, al contempo, il passaggio dal culto meramente terragno a quello astrale, e quindi ad uno stadio culturale maggiormente evoluto.

lunedì 11 settembre 2023

Acropoli di Arpino (Lazio)

 


L'Acropoli di Arpino è un sito archeologico situato al centro di Arpino, uno dei più importanti per la conoscenza dell'architettura megalitica del Lazio meridionale, non solo per la grande estensione delle mura ma anche per la loro vetustà, maggiore di quella di altri siti (collocabile secondo alcuni in piena età del ferro, VIII/VII secolo a.C.), e classificabili secondo la scala ideata da Giuseppe Lugli nella seconda maniera.
La civitas vetus della città rappresenta una delle cinte murarie meglio conservate costruite in opera poligonale in epoca preromana. Di particolare significatività è la presenza di un "arco a sesto acuto" unico sopravvissuto nel suo genere in tutta l'area mediterranea.
Trattasi di un tipico arco a mensola, che viene a costituire una porta cosiddetta scea.
Le porte scee (famose quelle dell'antica Troia) sono varchi nelle cinte murarie che non si aprono frontalmente, bensì di lato, e precisamente in lato sinistro (scaevus, in latino "sinistro") su una muraglia sghemba; in tal modo, per entrare nella città fortificata si doveva esporre agli abitanti il lato destro del corpo, che in caso di guerra e in caso di soldati attaccanti era quello sguarnito dalla difesa dello scudo (il quale veniva tenuto con la mano sinistra, mentre l'arma veniva tenuta con la mano destra).
Gli abitanti godevano pertanto del sostanziale vantaggio di poter respingere un potenziale attacco nemico, colpendo il nemico nel lato sguarnito da difesa, quello destro.
Giustiniano Nicolucci, antropologo e archeologo originario di Isola del Liri, in gioventù allievo del collegio Tulliano di Arpino, indi illustre docente all'università di Napoli (ove fu fondatore e titolare della cattedra di antropologia), strinse amicizia con il celeberrimo archeologo tedesco Heinrich Schliemann, riuscendo tra l'altro a condurlo ad Arpino nel settembre 1875 e a intrattenere con lui un interessante carteggio tra il 1874 e il 1889.
L'Acropoli è difesa in lato nord da poderose mura poligonali della seconda maniera, che raggiungono anche l'altezza di sei metri in alcuni punti, e si articolano con l'Arco a sesto acuto in un sistema di difesa di epoca preromana.
L'Acropoli, situata a un'altitudine media di m. 627 s.l.m., è oggi chiamata Civita Vecchia o Civitavecchia (C'tavecchia in dialetto arpinate), probabilmente in contrapposizione alla Civita Falconara (cì'uta in dialetto arpinate), costituente la parte più impervia ed elevata del sottostante centro storico di Arpino e situata su un contrafforte quasi opposto alla Civitavecchia in aspetto ovest-sud-ovest.
Sia la Civitavecchia sia la Civita Falconara sono raggiunte e difese da mura poligonali della seconda maniera, le quali costituiscono una cinta muraria completa per un perimetro di più di tre chilometri (di cui almeno un chilometro e mezzo in buone condizioni), racchiudente sia la città di Arpino propriamente detta (altitudine media m. 450 s.l.m.) sia la Civitavecchia (m. 627 s.l.m.), sia la collina e il dislivello esistenti tra le due; le mura si sviluppano non solo in tratti pianeggianti, dove a volte assumono aspetti imponenti di più di sei metri di altezza, ma anche lungo i dislivelli orografici, discendendo e risalendo dalla Civitavecchia alla Civita Falconara, e fungendo spesso in quest'ultima (specie nel quartiere Caùto, attuale via Caio Mario) da fondamenta di case, giardini e palazzi di epoca più recente, non di rado inglobate nei sotterranei e nei divisori di tali fabbricati.
Civitavecchia, come l'Acropoli è oggi chiamata comunemente, è ancor oggi abitata da un centinaio di persone, alcune delle quali dedite in loco all'artigianato e alle attività agricole; il borgo è tutelato ai fini storico-ambientali e all'interno di esso non vi sono esercizi commerciali.

Oltre all'Arco a sesto acuto e alle mura poligonali, con vari torrioni strategici aggiunti nell'età moderna (probabilmente a cavallo tra il quindicesimo e il sedicesimo secolo), i monumenti di più grande interesse all'interno dell'Acropoli sono la cosiddetta "Torre di Cicerone", restaurata nel 2011 (residuo di un castello merlato medievale di cui si conserva sul retro della torre una piccola piazza d'armi con cisterna e ruderi delle fondazioni delle altre torri), la Chiesa di San Vito, con una bella facciata e campanile del XVII/XVIII secolo in puddinga di Arpino, un interno pesantemente rimaneggiato in epoca moderna e una pala d'altare del Cavalier d'Arpino raffigurante i Santi Vito, Modesto e Crescenzia del 1625/1627, e, in aderenza all'Arco a sesto acuto, la piccola Chiesa della Santissima Trinità o del Simulacro del Crocefisso, unica chiesa con pianta a croce greca in Arpino, edificata nel 1720, con una facciata in severo stile tardobarocco con suggestioni neoclassiche, costituita da un corpo aggettante delimitato da due paraste in puddinga, e interno in parte affrescato e ornato con motivi religiosi tardobarocchi.

Raccolta egizia Giuseppe Acerbi (Lombardia)

 

La raccolta egizia Giuseppe Acerbi è una raccolta di antichità egizie ospitata al MACA - Mantova Collezioni Antiche di Mantova. Si compone di circa 500 pezzi raccolti da Giuseppe Acerbi (1773-1846), esploratore ed egittologo, dal 1826 al 1834 console generale d'Austria in Egitto, che nel 1840 donò alla città di Mantova, atto confermato dal nipote erede Agostino Zanelli.
I vari reperti provenienti dall'Egitto, hanno un notevole valore didattico e documentale. Tra questi:
la Testa bronzea della regina Arsinoe, sposa di Tolomeo IV; un Gatto di bronzo; il Cane Anubi, statua lignea.
In una sala è esposto il Ritratto di Giuseppe Acerbi, dipinto ad olio di Luigi Basiletti del 1826.

Lago di Loppio (Trentino - Aldo Adige)



Il lago di Loppio (Äppl-See, Löppel-See o Loppl-See in tedesco, Lac de Lopi in dialetto trentino) si trova nel Trentino meridionale, a 224 m s.l.m. La zona, lunga 1,870 km, larga 0,480 km, profonda 4 m, con una superficie di 600000 m². Non è più un lago dopo la costruzione della galleria Adige-Garda se non in occasione di anni particolarmente piovosi, ma rimane un'importante zona umida. Nel 1439 il lago di Loppio fu teatro della galeas per montes, una memorabile impresa di ingegneria militare compiuta dalla Repubblica di Venezia, che vi fece transitare una piccola flotta diretta al lago di Garda scendendo a Torbole.
Dopo il disastro ambientale avvenuto nel 1956, quando venne prosciugato e mai più riempito in seguito allo sprofondamento della falda freatica durante i lavori per la costruzione della galleria Adige-Garda, l'ambiente si è consolidato divenendo palude ed è frequentemente invaso da abbondanti quantità di acqua in particolari momenti di piovosità intensa. Il lago è la più estesa area palustre della provincia autonoma di Trento. A occidente sorge il piccolo centro abitato di Loppio, con l'importante villa quattrocentesca della famiglia Castelbarco e la vicina chiesa del Nome di Maria con la torre campanaria che porta ancora le tracce dei colpi di artiglieria della prima guerra mondiale. Il 19 ottobre 1987 l'area è stata dichiarata zona protetta col provvedimento della giunta provinciale trentina n. 11130 (modif. delib. 20.12.1996, n. 17031.
Il lago di Loppio è conosciuto come biotopo tutelato e anche come importante sito archeologico. Fin dal 1900 vi sono stati ritrovamenti che documentano la presenza di antichi abitanti sull'isola di Sant'Andrea, situata nel sito di ricerca: frammenti di vasellame di età romana e resti di una sepoltura con corredo funebre.
L'indagine archeologica ha suddiviso il lago in tre settori:
Settore A, lato Nord-orientale dell'isolotto
Settore B, nell'area meridionale
Settore C, zona centrale e punto più elevato dell'isola
Settore A

Nella zona settentrionale dell'isola di Sant'Andrea sono state rinvenute tracce di capanne in legno e altri materiali deperibili databili intorno al V-VI secolo d.C. Sul terreno sono visibili strati di ceneri, focolari e buche. Accanto alle capanne sono stati trovati resti di mura appartenenti a piccoli edifici non ancora datati. Sono stati individuati poi edifici risalenti alla prima metà del VI secolo e dell'inizio del VII. Le loro piante sono di forma rettangolare e trapezoidale e si estendono su una superficie tra i 45 e i 60 m². L'edificio nel settore è rivolto verso il lago. I materiali rinvenuti all'interno ipotizzano un uso strettamente domestico. È presente inoltre una tomba con la sepoltura di un feto o di un nato prematuro all'interno di un contenitore in terracotta. Questa sorta di tomba era molto diffusa tra i popoli del Mediterraneo e nel VI e VII secolo era in uso anche presso l'area di dominazione bizantina. La sepoltura di Loppio è la prima del suo genere a essere scoperta nell'area alpina orientale.

Settore B

Nel sud dell'isola, come è avvenuto per la zona A, nuove costruzioni solide in muratura, dalle pareti in pietre e ciottoli di diversa misura e materiale, hanno sostituito le più primitive casupole in legno. I muri sono ottenuti ponendo in modo irregolare massi vari, poi legati con malta di calce grossolana. Le nuove abitazioni piano piano hanno sostituito completamente la capanne, inglobandone gli edifici.



Settore C

La zona centrale dell'isola è costituita dalla cosiddetta "area sacra", cioè dalla chiesa di Sant'Andrea e dalla sua necropoli. La chiesa romanica risale sicuramente ad un'epoca successiva rispetto alla necropoli, in quanto quest'ultima è stata scoperta sotto i resti dell'edificio. Qui sono state riconosciute varie tombe, ma prive del loro corredo, tra le quali una tomba cappuccina e i resti di un'altra a cassa laterizia e poi di una terza, formata da un pozzetto quadrangolare con i lati in muratura.
Sono state condotte più ricerche sull'edificio religioso attraverso documenti e lo studio stratigrafico. Di una cosa si è sicuri: l'abbandono della costruzione è precedente al XVI-XVII secolo, come testimonia un'edicola quadrifronte, che si trova sopra i suoi strati di distruzione.
Tra i resti portati alla luce vi sono materiali che testimoniano uno scenario di vita quotidiana antica movimentato per la presenza di oggetti provenienti dall'esterno come frammenti di anfore orientali e africane. Presumibile quindi una rete di scambi commerciali d'ampio raggio. I reperti dimostrano che i gruppi familiari che vivevano sull'isola erano dediti all'allevamento, alla pesca e all'agricoltura. Il sito ha restituito anche varie monete. Oltre alle più diffuse in bronzo del III-IV secolo, pure rare frazioni di silique in argento di epoca bizantina. 

domenica 10 settembre 2023

Museo civico archeologico di Bologna (Emilia Romagna)

 


Il Museo civico archeologico di Bologna ha sede nel quattrocentesco Palazzo Galvani, in Via dell'Archiginnasio 2, 40124 Bologna, l'antico “Ospedale della Morte”. Inaugurato nel settembre 1881, nasce dalla fusione di due musei: l'Universitario – erede della “Stanza delle Antichità” dell'Accademia delle Scienze fondata da Luigi Ferdinando Marsili (1714) - e il Comunale, arricchitosi della collezione di antichità del pittore Pelagio Palagi (1860) e di numerosissimi reperti provenienti dagli scavi condotti in quegli anni a Bologna e nel suo territorio.
Il museo si colloca tra le più importanti raccolte archeologiche italiane ed è altamente rappresentativo della storia locale, dalla preistoria all'età romana. La sua collezione di antichità egizie è una delle più importanti d'Europa. Tra il 1972 e il 2012 il Museo ha ospitato oltre 150 mostre ed esposizioni a carattere archeologico e artistico.
Dal 2012 al 2022 il Museo civico archeologico ha fatto parte dell'Istituzione Bologna Musei, sostituita dai Musei Civici gestiti dal Comune di Bologna.
La sezione preistorica
- Espone materiali preistorici che vanno dal Paleolitico Inferiore (circa 700.000 anni fa) fino all'età del Bronzo Finale (X secolo a.C.). Il Paleolitico è documentato da strumenti in selce e ftanite: bifacciali, punte, raschiatoi e nuclei; più scarse sono le testimonianze per il Mesolitico (da 11.000 anni fa) ed il Neolitico (4.500-3.000 a.C.). Con l'età del bronzo i rinvenimenti si fanno più frequenti, come testimoniano i numerosi esemplari di recipienti in ceramica, gli strumenti in osso, corno e metallo, rinvenuti, insieme alle forme per la fusione, nei grandi villaggi in pianura della metà del secondo millennio a.C. Completano la sezione i materiali preistorici provenienti da località italiane, europee ed extraeuropee.
La sezione etrusca - Questa sezione del museo espone i materiali degli scavi effettuati nel XIX secolo e nella prima metà del XX secolo nel territorio bolognese e consente di ricostruire lo sviluppo dell'antico insediamento etrusco dalle origini (IX secolo a.C.) alla fondazione della città di Felsina (l'insediamento bolognese del periodo etrusco) fra la metà del VI ed il V secolo a.C.[6]
Le fasi più antiche della Bologna etrusca (villanoviana e orientalizzante, IX - metà del VI secolo a.C.) sono illustrate da una vasta scelta dei circa 4000 corredi tombali rinvenuti: vasi dalla caratteristica forma biconica (per la deposizione delle ceneri del defunto), oggetti di uso personale e strumenti in bronzo, nonché vasellame in ceramica e bronzo. Tra i pezzi esposti, si segnalano l'askos Benacci, una tipologia di vasi assai rara utilizzata per contenere l'olio per le lucerne, e il "ripostiglio di San Francesco" ovvero il deposito di una fonderia, costituito da un grande vaso (dolium) che conteneva oltre 14.000 pezzi di bronzo.
La fase urbana di Felsina (metà del VI secolo a.C. – inizio del IV secolo a.C.) è rappresentata prevalentemente da corredi tombali, fra i quali spiccano quelli della "Tomba grande" e della "Tomba dello sgabello" provenienti dalla ricca necropoli dei Giardini Margherita, con pregiati vasi di importazione greca per il consumo del vino e oggetti di lusso, quali un grande candelabro o un sedile in avorio. Da ricordare anche la "Situla della Certosa"(nella foto a sinistra), un raffinato recipiente in bronzo decorato con scene di vita militare, civile e religiosa.
Alla cultura villanoviana di Verucchio - il sito principale della Romagna della prima età del ferro - è dedicata una sala in cui è esposta una tomba principesca, caratterizzata da tavolini per offerte, vasellame, trono e poggiapiedi in legno, perfettamente conservati.
La sezione gallica - La civiltà etrusca si concluse a Bologna all'inizio del IV secolo a.C. con l'invasione dei Celti (o Galli), che occuparono gran parte dell'Italia a nord degli Appennini e le Marche. Nel bolognese si stanziò la tribù dei Boi. La sezione espone i corredi più significativi delle necropoli galliche del bolognese, caratterizzati dalla presenza di armi in ferro di tradizione transalpina e dall'uso del vasellame da banchetto di fabbricazione etrusca.
Il lapidario - Comprende soprattutto lapidi sepolcrali romane provenienti dalla città e della provincia databili tra la metà del I secolo a.C. e la metà del II secolo d.C. Di particolare interesse la statua con corazza dell'imperatore Nerone (metà del I secolo d.C.) rinvenuta nel XV secolo in Piazza de' Celestini, già sede del teatro romano della città. Nel cortile è presente anche una serie di pietre miliari della via Emilia.
La collezione greca
- In questa sala è esposto il reperto maggiormente rappresentativo della Collezione Palagi risalente all'antica greca: la testa dell'Atena Lemnia (nella foto a sinistra), copia in marmo di età augustea da una statua di bronzo eseguita da Fidia nel V secolo a.C.; anche gli altri reperti in marmo esposti nella sala sono in gran parte rielaborazioni romane di originali greci. Molto ricca è la raccolta di ceramiche greche, per lo più di fabbricazione attica, insieme a numerosi esemplari di fabbrica magnogreca. Pregevole è pure la raccolta di gemme antiche e moderne e di oreficerie. Due postazioni informatiche sono a disposizione per la consultazione della banca dati relativa alla sezione.
La collezione etrusco-italica - Raccoglie reperti provenienti dall'Italia centrale: di particolare interesse sono i buccheri, gli specchi etruschi a rilievo e incisi, e le urne etrusche in terracotta e marmo.
La collezione romana - La collezione romana comprende una ricca raccolta di vasellame di vetro, di bronzetti figurati e di instrumentum domesticum: chiavi, fibule, aghi, cucchiai, campanelli, pesi, bilance, vasellame. Pregevole la serie di avori paleocristiani (dittici e pissidi), decorati da motivi sacri e profani (V secolo d.C.). Le sculture in marmo comprendono rilievi, statue, ritratti pubblici e privati, documenti dell'attività delle botteghe romane di età imperiale.
La collezione egizia
- La collezione egizia del museo è una fra le più importanti d'Europa, ricca di più di 3500 oggetti, tra cui sarcofagi, stele e ushabti che documentano tremila anni di civiltà. Il moderno allestimento suggerisce un percorso di tipo cronologico, a partire dall'Antico Regno fino all'epoca tolemaica, con sezioni di approfondimento su tematiche di particolare interesse, quali il corredo funerario, la scrittura e gli amuleti. Tra i reperti più importanti spiccano i rilievi provenienti dalla tomba di Horemheb a Saqqara (XIII secolo a.C.), monumento riscoperto da scavi recenti, cui è dedicato un video in computer-grafica.
La collezione numismatica
- Il Museo archeologico vanta anche un'ampia collezione numismatica composta da circa 100 000 esemplari di monete, medaglie e conii. Tra le sezioni più significative si segnalano il consistente nucleo delle monete romane di età repubblicana e imperiale, la raccolta delle monete delle zecche italiane e il nucleo delle medaglie papali. La banca dati della raccolta, non esposta al pubblico, è consultabile su appuntamento presso il museo.
La gipsoteca - Una raccolta di copie in gesso di celebri sculture greche e romane (nella foto a sinistra).

Il museo è dotato di: sezione didattica, biblioteca specializzata con sala di lettura, archivio storico (consultabile su appuntamento), archivio fotografico (consultabile su appuntamento o tramite richiesta scritta), laboratorio di restauro, accesso per i disabili, sale per esposizioni temporanee, sala conferenze e libreria.





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Museo nazionale del Bardo: II, Statuaria e sala del periodo cristiano - TUNISIA

 


Accanto ai mosaici, preponderanti sul resto dei reperti, sono esposte diverse statue raffiguranti divinità, eroi e personaggi mitologici, tutte di eccezionale fattura.
Una testa ciclopica di Giove, alta più di un metro, campeggia su un enorme salone il cui pavimento è ricoperto da un altrettanto enorme mosaico, del tutto integro. Un piede, anch'esso ciclopico (foto in alto), giace sotto la testa di Giove al cui gruppo scultoreo potrebbe appartenere facendone così intuire la grandezza colossale.
Diverse statue di Venere fanno da cornice agli onnipresenti mosaici mentre un Ercole ubriaco, in posa licenziosa, sembra osservare divertito. Sembrerebbe una figura futuristica relativa ai tempi in cui il vino costava pochi denari greci, e Bacco avrebbe fatto bere gli eroi e miti assieme al popolo.

Il museo contiene inoltre una sala che raccoglie opere del periodo cristiano della Tunisia, fra le quali figurano:
  • Mosaico tombale dell'Ecclesia mater: in questa rappresentazione schematica di
    una basilica paleocristiana, l'edificio è composto da un grande arco supportato da tre colonne che dà accesso, attraverso una scala, a un'abside vuota con una facciata con un frontone triangolare e tre finestre, una linea di colonne al centro della basilica, da una navata centrale dove si trova l'altare sul quale bruciano tre ceri e da un tetto a doppia inclinazione coperto da tegole piatte e semicilindriche con sopra un'iscrizione su due linee che recita: «Ecclesia mater» e «Valencia in pace». Questo pezzo, che data al V secolo, è stato ritrovato a Tabarka e costituisce una testimonianza fondamentale per spiegare il passaggio da un Cristianesimo più intimista che si sviluppava in luoghi per lo più privati a un'architettura che richiama alla successiva vita legata alla basilica cristiana, dopo l'editto dell'imperatore romano Costantino del 313.
  • Tomba doppia: questo mosaico ricopriva un sarcofago in cui sono stati rinvenuti due scheletri. Nella parte alta del mosaico è rappresentato uno scriba barbuto che indossa una tunica riccamente decorata seduto davanti a una scrivania nell'atto di tenere in mano una piuma d'oca. In basso, una donna di nome Vittoria, affiancata da numerosi uccelli e da un cero, è raffigurata mentre prega vestita da religiosa. Questo pezzo del V secolo è stato ritrovato a Tabarka.
  • Pavimento del mausoleo: questo pavimento è una composizione di rombi delimitati da immagini di piante intrecciate. Al centro è rappresentato un ottagono che illustra la scena biblica del profeta Daniele, nudo, mentre prega nella fossa coi leoni. Questo pavimento appartiene al mausoleo di un'importante famiglia romana, i Blossi, e data al V secolo.
  • Pavimento della cappella: questa rappresentazione di un cantiere per la costruzione di una
    cappella è articolata su differenti livelli che rappresentano scene di lavoro: in alto, un responsabile dei lavori impartisce ordini a un operaio che rifinisce una colonna, al centro alcuni muratori sono intenti a impastare malta mentre nella parte inferiore la colonna viene trasportata su un carro trainato da due cavalli. Questo pezzo del V secolo proviene dal Governatorato di Zaghouan.
  • Battistero di Kélibia: questo pezzo, non visibile al pubblico, rappresenta un battistero riccamente ornato di mosaici. È invece visibile un'altra fonte battesimale molto più semplice.

Museo nazionale del Bardo: I, I mosaici - TUNISIA

 


Il Museo nazionale del Bardo nell'omonima periferia occidentale di Tunisi, è un museo archeologico che contiene, fra le altre, la più ricca collezione di mosaici romani del mondo, tutti in perfetto stato di conservazione.
Situato nella fastosa residenza del bey del XIX secolo, circondata da un grande giardino ricco di essenze locali, si sviluppa su tre piani ed è caratterizzato da una particolare luminosità naturale che esalta i reperti esposti. Si tratta del più importante museo tunisino e allo stesso tempo del più antico museo del mondo arabo e dell'Africa. È stato inaugurato il 7 maggio 1888.
Il suo nome originario era Museo Alawi in onore del sovrano alawita dell'epoca, Ali Muddat ibn al-Husayn (1882-1902) e prese il nome attuale nel 1956, dopo l'indipendenza della Tunisia, dalla località in cui si trova, Bardo, nell'immediata periferia di Tunisi.
Il palazzo, che nel 1899 era stato ampliato con l'aggiunta del Piccolo Palazzo per ospitarvi le collezioni d'arte islamica, fu dichiarato monumento storico nel settembre 1985. Il 18 marzo 2015 il museo ha subito un attacco terroristico che ha causato 25 morti, molti dei quali erano turisti. Due terroristi sono stati uccisi dalle forze di sicurezza e numerose persone sono rimaste ferite. L'organizzazione museale si sviluppa in sei dipartimenti che riflettono le tappe archeologiche del paese: il periodo preistorico,  punico, romano, cristiano, arabo-islamico e quello relativo all'archeologia sottomarina.
L'esposizione dei reperti occupa 34 sale impegnandone i pavimenti, le pareti e, in alcune, i soffitti: solo sui pavimenti sono sistemati 2.115 m2 di mosaici.
Le sale hanno mantenuto nella nuova destinazione un'atmosfera calda e avvolgente che, specie per quanto riguarda i mosaici, fa sentire le opere esposte come se fossero state concepite e create per esse. La collezione più importante del museo è costituita da un'enorme quantità di mosaici romani del II-IV secolo, tutti di eccezionale fattura e conservazione, che di fatto sono il simbolo del museo stesso.
Oltre alle migliaia di metri quadrati di mosaici vi sono opere scultoree di particolare bellezza, reperti punici e le sale arabo-islamiche, altrettanto importanti sotto l'aspetto storico.
Il museo è noto in tutto il mondo per possedere una delle più importanti collezioni di mosaici romani. Tra i principali pezzi della collezione figurano:
  • Perseo libera Andromeda (a destra): l'eroe, che ha ucciso un mostro marino, aiuta con un gesto maestoso la
    principessa che era incatenata a una roccia. La scena è evocata da Ovidio. Questa opera è rilevante per essere stata eseguita con un ottimo effetto di ombre e luci e una grande maestria nel creare l'illusione dello spazio. Questo mosaico in origine costituiva la parte centrale di una sala di ricevimento di una ricca Villa romana di Bulla Regia (circa III secolo).
  • Virgilio tra Clio e Melpomene (a destra, in basso): quest'opera, rinvenuta a Susa (antica a Hadrumetum) e situata nella sala eponima, costituisce uno dei gioielli del museo, poiché è il più importante ritratto del sommo poeta romano Virgilio, che qui compare vestito di un'ampia toga bianca decorata di ricami. Assiso tra le muse Clio e Melpomene, egli regge, nella mano sinistra posata sulle ginocchia, un rotolo di pergamena, dove è contenuta dal proemio dell'Eneide l'invocazione: «Musa, mihi causas memora, quo numine laeso, / quidve... » (Aen., I, vv. 8-9).
  • Venere alla toilette: la dea per metà nuda regge in una mano i propri capelli e nell'altra uno specchio che prende da un contenitore aperto ai suoi piedi. Due Amorini le portano, l'uno una collana, l'altro un cestino e dei gioielli. Questo mosaico, datato al III secolo, proviene dal sito di Thuburbo Majus.
  • Corsa di carri in un circo: il circo romano è parte di un porticato ad arcate dove si ammassano gli spettatori: quattro logge (careceres) con alla loro entrata quattro personaggi in bronzo e, al margine, la predella della spina attorno alla quale girano le bighe in gara. La scena della corsa rappresenta la fase finale della competizione fra quattro quadrighe con i colori delle fazioni: il giudice al margine della pista si appresta a consegnare la palma della vittoria mentre un musico suona la fanfara. Nel resto dell'Arena sono presenti diversi impiegati del circo: sparsores che bagnano con l'acqua i cavalli e i carri, e i propulsores che attivano il treno delle trazioni. Questo mosaico, datato al VI secolo, proviene da Gafsa.
  • La proprietà del signore Giulio (a destra): uno dei pezzi principali del museo, rappresenta una grande proprietà al centro della quale è raffigurata una villa romana attorniata da scene ripartite su tre livelli. Nella parte a sinistra, il proprietario arriva a cavallo seguito da un valletto. A destra è rappresentata la partenza per una battuta di caccia. Nel livello superiore, il mosaico mostra scene che evocano l'inverno e l'estate. Al centro, si vede la moglie del proprietario dentro un boschetto all'ombra di cipressi. Infine, al livello inferiore, si vede la padrona appoggiata a sinistra su una colonna e il padrone della proprietà seduto a destra dentro un frutteto mentre riceve dalle mani di un servitore una lettera sulla quale si legge «D(omi) no Ju(lio) » (Al signore Julius). Questa opera data alla fine del IV secolo o all'inizio del V secolo e proviene da Cartagine.
  • Trionfo di Nettuno, l'allegoria di una delle stagioni presente nell'angolo inferiore destro
  • I ciclopi forgiano i fulmini di Giove: si tratta del pavimento di un frigidarium che mostra tre ciclopi: Bronte, Sterope e Arge (o Pyracmon).
  • Nudi, forgiano i fulmini di Giove che Vulcano, seduto davanti a loro, mantiene sulla forgia. Il mosaico data alla fine del III secolo e proviene da Dougga.
  • Trionfo di Nettuno (a destra): si tratta del pavimento di un atrium. Al centro figura, dentro un medaglione, Nettuno, con la testa
    aureolata, che monta su una quadriga trainata da quattro ippocampi. Agli angoli sono rappresentati, dentro dei recinti di foglie, quattro figure femminili simboleggianti le stagioni. Il mosaico data al II secolo e proviene da Chebba.
  • Ulisse e le sirene (in basso a destra): questa opera è ispirata all'Odissea: a bordo di un battello a due vele, ornato di una testa umana e di un ramo di palma, appare l'eroe greco con le mani legate all'albero maestro per evitare di soccombere alla musica delle sirene. Attorno ad Ulisse sono seduti i suoi compagni di viaggio con le orecchie tappate con la cera come riporta la leggenda. Ai piedi di alcune rocce si vedono tre sirene rappresentate con il busto di donna al quale sono attaccate delle ali e delle zampe da uccello. Una di queste regge un doppio flauto, l'altra una lira, la terza, senza strumenti, è considerata come la sirena incantatrice. L'opera, che proviene dal sito Dougga, è datata circa al 260.
  • Le nozze di Dioniso e d'Arianna: il decoro di questo mosaico è ripartito in tre livelli. In alto, Dioniso e Arianna sono semistesi su una pelle di leopardo all'ombra di una vigna. Il dio completamente nudo è munito di uno scettro e di un cratere d'oro conseguentemente Arianna è raffigurata di dorso, un ampio drappeggio che non gli copre che le gambe. Nella parte centrale, un personaggio barbuto che afferra con le mani un cratere che gli tende un satiro. Infine, nella parte inferiore, delle baccanti, dei satiri e un Pan animano la festa.
  • Teseo e il Minotauro: la scena rappresenta il momento in cui Teseo decapita il Minotauro al centro del labirinto, dove sono inoltre presenti i resti delle vittime giacenti al suolo. Questo mosaico, proveniente da Thuburbo Majus, ricopriva il suolo di un frigidarium e data circa al IV secolo.
  • Pavimento di Xenia: questo piccolo mosaico raffigura i resti di un pasto secondo i canoni estetici conosciuti nell'epoca ellenistica e tradotti in mosaico.
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Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...