sabato 23 settembre 2023

Statua di Cleopatra VII - STATI UNITI

La statua di Cleopatra VII (89.2.660) è un'antica statua egizia in marmo o calcare dolomitico raffigurante Cleopatra VII Tea Filopatore (51–30 a.C.), più nota come Cleopatra, ultima sovrana della Dinastia tolemaica (XXXIII dinastia egizia), e si trova al Metropolitan Museum of Arts, New York.
La statua è mancante dalle caviglie in giù; danni minori si trovano anche sulla superficie del resto dell'opera: per esempio sul seno destro. Il pilastrino dorsale non reca alcuna iscrizione geroglifica, ma sul braccio destro è presente un cartiglio (erroneamente orientato e di autenticità discussa) recante il nome di Cleopatra; il braccio è rigidamente disteso lungo il fianco e la mano è aperta anziché, come sarebbe stato più tipico, chiusa a pugno. Il braccio sinistro è avvolto intorno a una cornucopia: elemento tipicamente greco e presente nella statuaria regale ellenica. Pure il panneggio risente dei modelli stilistici greci: passa sopra alla spalla destra e forma un nodo appena sopra al seno destro. Il viso è largo, così come il taglio degli occhi; la bocca lineare e sottile, il naso minuto e lievemente all'insù. Il capo della sovrana è sormontato da una pesante parrucca dalle ciocche a spirale completata, sulla fronte, da riccioli a forma di guscio di chiocciola; la parrucca è stretta al capo da un diadema con tre urei consecutivi. Un'ulteriore corona egizia è oggi scomparsa. L'identificazione della donna raffigurata come Cleopatra VII si basa sul triplo ureo e su altre caratteristiche stilistiche quali la posa della mano, aperta anziché chiusa a pugno, e il design della parrucca. Anche il viso fornisce indizi in tal senso: gli occhi grandi e la bocca sottile sono comuni, appunto, della statuaria del I secolo a.C. Il triplo ureo è stato correttamente individuato nei ritratti scultorei in stile egizio di tutte le ultime regine tolemaiche. Infine, un dibattuto cartiglio sulla superficie del braccio destro reca proprio il nome regale di Cleopatra VII.

Testa di re Amenemhat III con la Corona bianca - DANIMARCA

La testa di re Amenemhat III con la Corona bianca (AEIN 924), conservata alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, è ritenuta uno dei capolavori della scultura del Medio Regno dell'antico Egitto.
Amenemhat III (ca. 1846–1801 a.C.) fu l'ultimo faraone di rilievo della XII dinastia egizia e regnò per circa quarantacinque anni. Già sotto il suo predecessore, il glorioso Sesostri III, la statuaria regale aveva conosciuto sensibili cambiamenti: il sovrano veniva ritratto in differenti età (già in questo differiva dalle effigi idealizzate e senza età dei precedenti re), e nelle figurazioni dove appariva più anziano, in particolare, presentava un'espressione estremamente triste o pesantemente amareggiata: gli occhi sporgevano dalle orbite contornate da rughe e occhiaie, la bocca e le labbra avevano assunto una piega decisamente malinconica, le orecchie erano enormi e prominenti; in netto contrasto con il realismo quasi esagerato e i segni dell'età del viso e della testa, il resto del corpo veniva scolpito come giovane, muscoloso e idealizzato, seguendo i canoni tradizionali della statuaria faraonica. È questo il modello ereditato dal figlio Amenemhat III, del quale esistono ritratti sia in giovane che in tarda età.
Questa testa di Amenemhat III, in grovacca, si trova alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen con la sigla d'inventario ÆIN 924. Il reperto, alto 46 centimetri, fu acquistato nel 1894 al Cairo da Valdemar Schmidt, curatore emerito della collezione egizia del Museo, per 2000 franchi; non si sa dove la testa sia stata originariamente scoperta, ma faceva quasi sicuramente parte di una statua del re a figura intera. Parte della corona è mancante, così come il naso e parte delle orecchie. Il faraone indossa la Corona bianca (hedjet) dell'Alto Egitto e non v'è traccia dell'ureo sulla fronte, né della tipica barba posticcia (tipici, del resto, della statuaria regale). La pietra è levigata e liscia. Le sopracciglia non sono mai state realizzate, la bocca è ampia, le pieghe naso–labiali e palpebrali lavorate con estrema cura. Una datazione alternativa non ascrive la Testa al regno di Amenemhat III (XIX secolo a.C.), ma al Periodo tardo dell'Egitto (VII–IV secolo a.C.), epoca nella quale furono copiate numerose opere del Medio Regno; tuttavia, la maggioranza degli egittologi concorda nell'attribuirla agli anni di Amenemhat III.

Museo Egizio, Firenze (Toscana)

 


La Sezione detta "Museo Egizio" del Museo archeologico nazionale di Firenze è seconda in Italia solo al Museo egizio di Torino, e, alloggiata in alcune sale decorate in maniera speciale al primo piano, trae origine dalle collezioni Nizzoli e Schiaparelli e dalla campagna di scavi di Ippolito Rosellini e François Champollion. Tra le altre acquisizioni, importante fu quella dei papiri provenienti dagli scavi del 1934-39. I reperti coprono molte delle attività quotidiane dell'Antico Egitto, con oggetti anche in materiali fragili come il legno, il tessuto e l'osso. L'esposizione è in corso di graduale risistemazione, privilegiando criteri cronologici e topografici piuttosto che tematici.
L'epoca preistorica dell'Antico e Medio Regno è documentala da selci, vasi e stele. Fra le opere più interessanti i modelli di due servitori, la macinatrice di grano e la donna che fa la birra risalenti dell'antico regno. Nella sala successiva è esposto il pregevole ritratto femminile proveniente dalla necropoli di Al-Fayum, un celebre rilievo con scribi dalla tomba del faraone Haremhab a Saqqara, e lo straordinario è il carro da guerra o da caccia, quasi intatto in osso e legno, risalente al XV secolo a.C., trovato vicino a Tebe assieme a tessuti, cordami, mobili, copricapi, borse e ceste. Risalgono allo stesso periodo il rilievo raffigurante la dea Maat, dalla tomba del faraone Sethy I nella valle dei re, il calice di faience a bocca quadrata (due soli esemplari al mondo) e numerosi esempi di statuette e oggetti legati alla vita quotidiana.
La Sala VIII è dedicata all'epoca finale della civiltà egizia e mantiene l'originale allestimento dell'ottocento. Particolarmente interessante è il corredo dalla tomba di una nutrice della figlia del faraone Taharqa (XXV dinastia) con due sarcofagi. È esposto qui anche l'involucro del corpo della donna chiamata Takherheb, in tela stuccata coperta di foglia d'oro.
L'arte copta è documentata dagli scavi dell'Istituto Papirologico Fiorentino ad Antinoe, fondata dall'Imperatore Adriano nel Medio Egitto. Tra i reperti una ricca collezione di stoffe curate e restaurate dalla torinese Erminia Caudana chiamata negli anni trenta da Giuseppe Botti ad intervenire anche su numerosi papiri. Sono presenti tuniche, cuffie, calzini, frammenti di decorazione e un mantello di seta, oltre a numerosi oggetti legati alla vita quotidiana o alle usanze funebri.

Museo egizio, Milano (Lombardia)

 

Il Museo egizio di Milano ha sede nei sotterranei del Castello Sforzesco, che ospitano anche il Museo della preistoria e protostoria. I primi reperti dell'Antico Egitto sono giunti a Milano negli anni venti del XIX secolo, anche se bisognerà aspettare il 1973 per vederli esposti al pubblico nella prima sede del Museo egizio della città. All'epoca la sede del Museo egizio di Milano era nel sotterraneo del cortile della Rocchetta, all'interno del Castello Sforzesco.
La proprietà delle esposizioni è passata al comune di Milano nell'anno 1900, con le collezioni che si sono ampliate nel corso del tempo grazie a donazioni di collezionisti privati e agli scavi effettuati in Egitto negli anni trenta del XX secolo da Achille Vogliano, che hanno portato il numero di reperti esposti a raggiungere le 3.000 unità. Degni di nota, tra le collezioni, sono il corredo funerario di Peftauajaset e una statua di Osiride in bronzo.
Nel 2003, previa ristrutturazione dell'esposizione, il museo è stato collocato nelle sale viscontee del Castello Sforzesco. Nel 2021 il museo egizio di Milano è stato oggetto di una nuova ristrutturazione con l'installazione di supporti multimediali, con lavori di adeguamento per eliminare le barriere architettoniche e con l'installazione di un nuovo impianto di illuminazione dei reperti.
Il museo è diviso in sette sezioni:
  1. La scrittura
  2. Il faraone
  3. Dei e culti
  4. La vita quotidiana
  5. Il culto funerario
  6. Gli scavi Vogliano
  7. Mummie, sarcofagi e maschere funerarie
All'ingresso, ad accogliere il visitatore è una statua-cubo con volto enigmatico. Il museo pone particolare attenzione alle usanze funerarie nell'Antico Egitto: fra i papiri e i rilievi del faraone, sono presenti steli funerarie, un libro dei morti, amuleti, ushabti, vasi canopi e sarcofagi. Il sesto dei sette percorsi del museo comprende opere provenienti dagli scavi effettuati dal papirologo ed egittologo fiorentino Achille Vogliano a Medinet-Madi (nel Fayyum) tra il 1935 e il 1936, fra le quali di grande rilievo è la statua del faraone Amenemhat III della XII dinastia (1842-1794 a.C., foto a sinistra; come quella in alto, ne è autore Stefano Stabile).




Ägyptisches Museum und Papyrussammlung, Berlino - GERMANIA

 
L'Ägyptisches Museum und Papyrussammlung ("Museo egizio e collezione di papiri") fa parte del Neues Museum sull'Isola dei musei a Berlino. Fanno parte della collezione numerose sculture, sarcofagi e frammenti architettonici di varie epoche. Tra le opere esposte sono degne di menzione il busto di Nefertiti e la "Testa verde berlinese" (una testa del IV secolo a.C. ricavata da pietre verdi) e la testa di Amasis in ardesia. Le origini del museo risalgono al 1828, a partire da una collezione del mercante triestino Giuseppe Passalacqua. Nuovi reperti vi si aggiunsero a seguito di una spedizione in Egitto, a Tell el-Amarna, ad opera dell'egittologo Karl Richard Lepsius.
Inizialmente ospitato allo Schloss Monbijou, dal 1850 il museo fu ospitato nel Neues Museum. Il famoso busto di Nefertiti si aggiunse alle collezioni nel 1920.
Durante la seconda guerra mondiale la collezione fu divisa e trasferita in altri luoghi, per proteggerla dai danni dei bombardamenti: l'edificio del Neues Museum fu gravemente danneggiato nel 1943.
Nel dopoguerra la maggior parte della collezione fu ospitata nel Bode-Museum, a Berlino Est. Alcuni pezzi (fra cui il busto di Nefertiti), rimasti a Ovest, furono esposti a Charlottenburg.
Con la riunificazione della città l'intera collezione è stata riunita a Charlottenburg (l'edificio del Bode-Museum è stato chiuso per restauri). Dal 2005 la collezione è stata trasferita all'Altes Museum. Nell'ottobre 2009 l'intera collezione è stata riportata al Neues Museum, sua sede definitiva.

Testa di principessa del periodo Amarna, 18esima dinastia, circa 1345 a.C., donata nel 1920 da James Simon – foto di Keith Schengili-Roberts

Statua eretta di Nefertiti, 18esima dinastia, circa 1345 a.C, - foto di  Andreas Praefcke  

Staatliches Museum Ägyptischer Kunst, Monaco - GERMANIA

 
Il Museo Statale Egizio (Staatliches Museum Ägyptischer Kunst) è un museo di Monaco di Baviera, Germania.
Ospita le collezioni di arte egizia appartenenti allo Stato di Baviera. A lungo situato nella Residenza di Monaco di Baviera, nel 2013 è stato spostato in un nuovo edificio realizzato nel Kunstareal.
Le collezioni risalgono già ad Alberto V di Baviera e furono poi ampliate da Carlo V e Ludovico I, oltre che da donazioni private e dell'Accademia bavarese delle scienze.
Comprendono reperti risalenti ad Antico, Medio, Nuovo Regno, all'Egitto ellenistico e romano, oltre a una piccola porzione di arte del vicino Oriente antico. La nuova sede del museo è un edificio sotterraneo sito di fronte alla Alte Pinakothek, progettato dall'architetto Peter Böhm e ispirato a una stanza funeraria egizia. L'ingresso, che ricorda i piloni egizi, conduce a tre sale illuminate e di lì a stanze interrate illuminate solo in parte e organizzate tematicamente ("Il faraone", "La religione", "Il regno dei morti", e così via). Il nuovo museo ha 2200 m² di spazi espositivi: 1800 m² per le esposizioni permanenti e 400 m² per le mostre temporanee.
La nuova sede è stata aperta al pubblico l'11 giugno 2013; vi è stato esposto anche l'obelisco di Monaco, che in precedenza era collocato all'aperto di fronte alla Residenz.
All'ingresso è presente l'opera Present Continuous dell'artista Henk Visch.
Assieme alle collezioni di Hildesheim e dell'Ägyptisches Museum und Papyrussammlung di Berlino, la collezione egizia di Monaco è la più significativa della Germania. Vengono esposti oggetti di tutti i periodi egiziani fino alla cultura copta cristiana, come anche alcuni reperti archeologici delle civiltà vicine: Nubia, Assiria, Babilonia.



le foto, dall'alto in basso:

Sfinge di Sesostri III, foto di Einsamer Schütze
Thutmose IV, foto di Einsamer Schütze
Sarcofago di Sitdjehuti, foto di Manfred Werner
Amenemhat III da fanciullo, foto di Manfred Werner   

Pizzo Cannita (Sicilia)

 


Pizzo Cannita è un'altura di 208 m nel territorio comunale di Misilmeri in Sicilia, sede di un sito archeologico datato tra il VI e il IV secolo a.C..
Il toponimo Cannita trae origine o dalla forma allungata della vetta calcarea (simile ad una canna) se vista da nord o dalla presenza, lungo il corso del vicino fiume Eleuterio, di numerosi canneti; un'altra ipotesi etimologica farebbe derivare il toponimo da Matteo La Cannita, un possidente locale.
Le prime notizie sulla presenza di fossili in una grotta di Pizzo Cannita si devono a scavi effettuati nel 1928 (Ursus, Cervus, Lupus, Elephas, Sus).
Nel 1695 e nel 1727 in località Portella di Mare furono rinvenuti due sarcofagi antropoidi di matrice punica del VI-V secolo a.C., oggi conservati presso il Museo archeologico regionale di Palermo ed esempi unici di questa categoria scultorea rinvenuti fino ad oggi in Sicilia. Tale necropoli, secondo la testimonianza dell'abate Michele Del Giudice, rientrava nella tipologia della camera ipogeica scavata nel banco roccioso, a pianta quadrangolare con tetto piano, cui si accedeva tramite un dromos a gradini chiuso da un lastrone litico. Sul lato orientale del pianoro della Cannita affiorano ruderi murari riferibili alla cinta muraria, mentre su quello sud-occidentale emergono i filari di fondazione di due strutture murarie angolari, costituite da filari di blocchi isodomi di calcarenite, la cui accurata tecnica indica una datazione al V secolo a.C. Nel sito, a seguito di rinvenimenti avvenuti nel secondo dopoguerra, è stata riscontrata l'esistenza di un'area sacra dedicata ad Atena; di tale destinazione cultuale sono testimonianza una statuetta fittile di Atena guaritrice ed una testina della stessa dea, oltre ad un'iscrizione greca in dialetto dorico incisa su una coppa ad alto piede («εκθυε επε μοι ται Αθαναια ι τυχαγαθαι», «Sacrifica su di me ad Atena per un buon auspicio») insieme ad un'arula fittile con grifoni in lotta con un equide, anse antropomorfe di braciere sacrificale, un gallo fittile originariamente policromo ed un oscillum con Menadi danzanti. L'assenza di frammenti ceramici posteriori al III secolo a.C. induce a supporre che la distruzione dell'abitato sia avvenuta nel corso della prima Guerra Punica, intorno al 261 a.C. Secondo un'ipotesi del 1953, basata sul ritrovamento di una moneta greca con la dicitura Kronia, l'insediamento di Pizzo Cannita sarebbe corrisposto alla città di Cronia, attestata da Polieno. I materiali rinvenuti nell'insediamento di Pizzo Cannita sono conservati al Museo archeologico regionale di Palermo.


Terme romane di Misterbianco (Sicilia)

 

Le Terme romane di Misterbianco sono una parte dei resti di un acquedotto romano costruito tra la fine del II secolo e terminato intorno al VIII secolo dopo Cristo. Oggi si trovano al centro della piazza della Resistenza nel comune di Misterbianco sul versante della periferia nord, a poca distanza dal centro storico. L'amministrazione comunale ha omaggiato l'antico acquedotto intitolandone a proprio nome (via delle Terme) una delle due strade che attraversano, in corrispondenza, la piazza.
La più antica menzione delle terme risale ad Ignazio Paternò Castello, Principe di Biscari. Anche Houel le segnalò e le raffigurò. Dalle poche notizie reperibili, si ha la certezza che la struttura venne ulteriormente adattata affinché divenisse fruibile come abitazione, ciò è dato dal fatto che le terme erano una proprietà privata al tempo in cui furono edificate; a partire dagli anni sessanta sono state oggetto di riqualificazione da parte dell'amministrazione comunale in seguito alla massiccia urbanizzazione che avvenne in quel periodo. Le terme furono edificate allo scopo di incanalare e agevolare il flusso d'acqua che scorreva dal comune più a monte di Santa Maria di Licodia fino a sfociare nella città di Catania, in modo da essere fruibile da tutti i paesi circondari in cui il torrente seguiva il percorso.

Teatro di Hippana (Sicilia)

 


Il teatro di Hippana è un teatro di età ellenistica dell'antica città di Hippana sito nell'area archeologica di Prizzi, comune italiano della città metropolitana di Palermo in Sicilia. Il teatro risale alla seconda metà del IV secolo a.C.; fu distrutto nel 258 a.C., anno del saccheggio della città di Hippana da parte dei Romani nell'ambito della prima guerra punica.
I resti dell'orchestra e la parte inferiore del koilon (52 metri di diametro) sono stati messi in luce grazie agli scavi svolti dalla Soprintendenza di Palermo nel 2007. L'edificio è posto a 1 007 metri di altezza sulla montagna dei Cavalli, all'esterno delle fortificazioni dell'acropoli della città: detiene, pertanto, il primato dell'altitudine tra tutti i teatri del mondo greco.

venerdì 22 settembre 2023

Navi greche di Gela (Sicilia)

 


Le navi greche di Gela sono tre imbarcazioni della fine del VI-inizi del V secolo a.C. rinvenute in prossimità della città di Gela, colonia dorica fondata nel 689 a.C. e importante emporio commerciale sulla costa meridionale della Sicilia. La prima nave, recuperata completamente nel 2008, è stata restaurata nel 2014 ed è stata esposta al pubblico in occasione della mostra "Ulisse. L'arte e il Mito" allestita pressi i Musei di San Domenico di Forlì e successivamente, nel 2022, presso un padiglione sito nel Bosco Littorio di Gela.
La scoperta della prima nave venne effettuata nel 1988 da due subacquei su un fondale argilloso e sabbioso a circa 4 m di profondità, a circa 800 m dalla costa (località Bulala) e a circa 2 km ad est della foce del fiume Gela, anticamente il porto-canale della città. Grazie alle caratteristiche del fondale la nave era molto ben conservata nella sua struttura lignea e conservava un carico vario, coperto da uno strato di pietre utilizzate come zavorra.
La nave era una nave da carico di grandi dimensioni (21 x 6,50 m), esempio unico di nave antica costruita con una tecnica particolare, già citata da Omero nel II libro dell'Iliade: il fasciame della carena era infatti "cucito" con fibre vegetali.
La nave è stata recuperata con due campagne di scavo nel 2003 (madiere della prua) e nel 2008 la poppa. Dopo il recupero venne restaurata nei laboratori specializzati di Portsmouth in Gran Bretagna. Restituita nel 2014, la nave avrebbe dovuto essere esposta nel "Museo della navigazione greca" di Gela, ma nonostante i 5 milioni e mezzo di euro stanziati dalla Regione Siciliana, prelevati dal Fondo Europeo, nessuno lavoro di allestimento è stato compiuto e la nave rimane a pezzi in circa 40 scatoloni.
Il carico era composto di oggetti caricati in varie località, a partire dal mar Egeo, probabile origine della navigazione. Le ceramiche a vernice nera e a rossa indicano anche una sosta nel porto di Atene. Da varie località provengono inoltre le anfore di varia origine, probabilmente contenenti vino e olio, e altre merci che erano state collocate in cesti rivestiti di pece. Nei diversi porti la nave aveva inoltre caricato pietre per la zavorra, che dovevano sostituire le merci sbarcate e sono di varia provenienza.
Alcuni degli oggetti trovati venivano utilizzati dei marinai: sia le ceramiche trovate nella cambusa, sia oggetti di culto che testimoniano le pratiche religiose durante la navigazione.
Una seconda nave, probabilmente databile alla fine del V secolo a.C. e di dimensioni inferiori, giace sui fondali a breve distanza dal primo relitto, ma più vicina alla costa. Anch'essa è ben conservata, ma il suo recupero non è stato ancora effettuato.
Un terzo relitto greco arcaico è stato recentemente individuato alla foce del fiume Dirillo che segna il confine tra le province di Caltanissetta e Ragusa (e tra i comuni di Gela ed Acate). Tale scoperta, avvenuta per caso durante i lavori di scavo per la posa del gasdotto libico, conferma l'importanza archeologica che riveste l'area del Golfo di Gela che, quasi certamente, conserva numerosi altri relitti di varie epoche (greca, romana e bizantina soprattutto). Basti pensare che in questo golfo, in epoca romana, si è combattuta la famosa battaglia tra Cartaginesi e Romani guidati da Attilio Regolo.

Antiquarium di Tindari (Sicilia)

 

Nella zona archeologica di Tindari (Messina) sorge l'edificio dell'
Antiquarium, suddiviso in cinque sale. Gli ambienti ospitano raccolte di epigrafi greche e romane, iscrizioni e cippi funerari, lastre tombali, mosaici, monete, medaglie, suppellettili d'uso quotidiano.
Sala I: planimetrie e tabelloni esplicativi. Ospita il plastico ricostruttivo della scena ellenistica del teatro.
Sala II: iscrizioni e marmi vari. Due statue frammentarie in marno raffiguranti Nikai (Vittorie) in volo, probabili acroteri di tempio, di prima età ellenistica. Grande riproduzione in marmo di maschera teatrale tragica di re Priamo di età imperiale romana, proveniente dall'edificio monumentale a gradoni di contrada Cercadenari.
Sala III: grande testa in marmo dell'imperatore Ottaviano Augusto divinizzato del I secolo d.C. proveniente dall'area della basilica, statue onorarie in marmo di personaggi maschili togati di avanzata età imperiale romana (foto in alto).
Sala IV: capitello corinzio fittile dal tablinum della casa C dell'insula IV, nelle vetrine sono esposte ceramiche varie di età greca e romana, provenienti da ambienti, cisterne e fognature della città.
Sala V
: ceramiche di impasto provenienti dall'insediamento preistorico della prima Età del Bronzo sottostanti il tablinum della casa C. Corredi tombali di età greca, ceramiche varie e terrecotte figurate, alcune di soggetto teatrale, come maschere e statuette. Materiali dalle case romane o dai relativi livelli di frequentazione urbana: suppellettili ceramiche varie, terrecotte figurate, frammenti di intonaci dipinti e stucchi con motivi ornamentali.
Francesco Ferrara, direttore delle Antichità nel 1814, documenta una Nike custodita nel museo archeologico regionale «Paolo Orsi» di Siracusa, una statua di Zeus (Zeus Horios o Iuppiter Terminus) nel museo archeologico regionale «Antonio Salinas» di Palermo, la statua raffigurante Giulia Mamea madre dell'imperatore Alessandro Severo e quella colossale dell'imperatore Publio Elio Traiano Adriano.

Monte Bubbonìa (Sicilia)

 


Il monte Bubbonìa è una maestosa collina di 595 metri situata nel territorio del comune di Mazzarino, a 20 chilometri in linea d'aria della città di Gela. È composta da tre piattaforme digradanti da occidente verso oriente, delle quali la più occidentale è la più elevata. Vi si giunge dopo aver percorso per un tratto la SS 117 Gela-Catania, imboccando lo svincolo per Piazza Armerina. Percorsi 9 chilometri, un incrocio apre sulla sinistra al vecchio asse viario per Mazzarino, segnalato da un opportuno cartello turistico che specifica l'esistenza di questa strada su un'antica mappa stradale romana conosciuta col nome di Itinerarium Antonini.
La conformazione dei terreni della collina, sotto l'aspetto geologico, è relativamente recente, a parte l'impianto calcareo di base di età miocenica coperto nel Pleistocene inferiore da marne siltose e quarzareniti e, in ultimo, da sabbie rosse molto incoerenti che ne fanno un'altura parecchio friabile e polverosa. Sotto il ciglio di una strada sterrata che percorre il fianco orientale del monte e sale verso l'acropoli, si osserva un dolmen "a camera" della lunghezza di 2,20m. La forma del monumento ricorda analoghe architetture presenti in Sardegna e in Puglia.
Sulla sommità del monte fu scoperta da Paolo Orsi un'antica città che, successivamente, l'archeologo Piero Orlandini pensò di riconoscere come la sicana Maktorion (Erodoto VII,53). Le rovine di monte Bubbonìa, comunque, non sembrano essere anteriori al VI secolo a.C., e questo fatto pone dei vincoli sull'identificazione dell'antico abitato.

Akrai (Sicilia)

 


Akrai fu una sub-colonia greca edificata in Sicilia nel 663 a.C. dai Siracusani. Sorgeva nei pressi dell'attuale Palazzolo Acreide.
Akrai fu la prima colonia di Siracusa, fondata da Corinzi giunti nei territori siciliani; dopo Akrai, sita nei pressi di Pantalica, ci furono Casmene (avamposto militare sul monte Lauro), fondata nel 643 a.C., Akrillai (sulla strada per Gela) e Kamarina, la più lontana delle colonie, fondata nel 598 a.C.
Costruita in cima ad un colle, Akrai era difficilmente attaccabile e al tempo stesso costituiva un punto ideale per vigilare sui territori circostanti. Grazie all'importanza della sua posizione strategica, la città si sviluppò fino a raggiungere il massimo splendore sotto il regno di Gerone II (275 a.C.-215 a.C.). Fedele a Siracusa, ebbe però vita politica, amministrativa e militare autonome, al punto che un suo esercito intercettò quello di Nicia (421 a.C.) nel Val di Noto o nella Valle dell'Anapo e contribuì alla sua sconfitta.
Nel 211 a.C., dopo la caduta di Siracusa, passò a far parte della provincia romana, assumendo il nome latino Acrae; in seguito passò sotto il dominio bizantino fino all'invasione araba.
La cittadina fu completamente distrutta dagli Arabi nell'827 e il sito, rimasto abbandonato, pian piano venne ricoperto da terriccio e vegetazione spontanea scomparendo alla vista e venendo dimenticato per quasi otto secoli.
Il primo studioso a individuare il sito della città scomparsa fu nel XVI secolo lo storico siciliano Tommaso Fazello; ma fu il barone Gabriele Iudica, che all'inizio del XIX secolo intraprese i primi scavi archeologici nel sito di Akrai e descrisse le sue ricerche nel libro Le antichità di Acre, pubblicato con la data del 1819.
Gli scavi successivi della città arcaica hanno riportato alla luce il Teatro, di piccole dimensioni, ma in ottimo stato di conservazione; la scoperta fu annunciata da Gabriele Iudica nel 1824. Sulla parte posteriore sorgono due latomie, cave di pietra, denominate Intagliata e Intagliatella, della metà del IV secolo a.C.. Sul pianoro sopra la latomia dell′Intagliata si trovano i blocchi di base dell′Aphrodision, il Tempio di Afrodite, eretto nel VI secolo a.C. Sul lato occidentale sorge il Bouleuterion, dove il consiglio cittadino si riuniva, scoperto sempre da Iudica nel 1820. Ad est del colle sorgono i Templi Ferali dedicati al culto dei morti.
Da ricordare pure i notevoli lavori compiuti da Luigi Bernabò Brea nel secondo dopoguerra.

Satiro danzante (Sicilia)

 

Il Satiro danzante è una statua bronzea, prodotto originale dell'arte greca di epoca classica o ellenistica.
La scultura rappresenta un sileno, ma ormai per opinione comune esso viene definito un satiro, essere mitologico facente parte del corteo orgiastico del dio greco Dioniso.
L'opera, di dimensioni superiori al vero, pari ad un modello in posizione stante di circa 2.5 metri di altezza, è attualmente ospitata presso l'omonimo museo di Mazara del Vallo, nella Sicilia occidentale.
La storia del ritrovamento della statua inizia nel luglio 1997, quando il peschereccio "Capitan Ciccio", appartenente alla flotta marinara di Mazara del Vallo e comandato dal capitano Francesco Adragna, forse casualmente, ripesca dai fondali del Canale di Sicilia una gamba di una scultura bronzea. Nella notte fra il 4 e il 5 marzo 1998 lo stesso peschereccio riporta a galla, da 500 metri sotto il livello del mare in cui era adagiata, gran parte del resto della scultura, perdendo nel recupero un braccio.
Inizialmente si individua la statua bronzea con Eolo, il dio del vento. Il reperto viene acquisito dalla Regione Siciliana ed esposto in deposito temporaneo, a cura dell'assessorato regionale ai beni culturali, in una vasca d'acqua dolce deionizzata nell'ex Collegio dei Gesuiti a Mazara del Vallo. La visita in città del ministro dei beni culturali Walter Veltroni, a ventiquattr'ore dal recupero, su richiesta dell'allora sindaco della città Giovanni D'Alfio, è testimonianza dell'eccezionalità del ritrovamento.
Nel settembre 1998 l'Istituto Centrale per il Restauro di Roma prende in consegna i due frammenti della statua, per effettuarvi i necessari interventi di restauro.
Il 31 marzo 2003 il satiro danzante restaurato viene esposto a Palazzo Montecitorio, sede della Camera dei deputati, alla presenza del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, del Presidente della Camera Pier Ferdinando Casini e del sindaco di Roma Walter Veltroni. La mostra rimane aperta fino al 2 giugno, ottenendo un ampio successo e un notevole risalto nazionale. Dal 6 giugno al 6 luglio è esposta ai Musei capitolini.
Il 12 luglio 2003 il satiro danzante viene ufficialmente riconsegnato alle autorità della città di Mazara del Vallo per essere esposto al pubblico nell'ex chiesa di Sant'Egidio, in pieno centro cittadino.
Nel 2005 il Satiro è stato trasportato in Giappone per essere esposto al Museo Nazionale di Tokyo e conseguentemente all'Expo 2005 di Aichi. Per il suo trasporto è stata appositamente realizzata una struttura in fibra di carbonio ed è stato progettato e realizzato, ad opera dell'Istituto Centrale per il Restauro, un nuovo supporto espositivo in carbonio e titanio. All'inizio del 2007 la statua è stata temporaneamente in esposizione presso il Museo del Louvre di Parigi, nell'ambito di una mostra dedicata alle opere di Prassitele. Da allora non è stata più trasportata altrove.
Nel 2003 viene istituito nella ex Chiesa di Sant'Egidio dalla Regione Siciliana il Museo del Satiro danzante, di cui diviene il pezzo di maggior prestigio. Secondo Sebastiano Tusa (soprintendente del mare della Regione Siciliana) la nave che lo trasportava fece naufragio nell'area di mare tra Pantelleria e Capo Bon in Tunisia tra il III e il II secolo a.C..
Una datazione dell'opera al IV secolo a.C. è stata invece proposta da Paolo Moreno (Università di Roma Tre). Secondo essa la statua dovrebbe essere identificata con il "satiro periboetos", citato da Plinio quale opera del celebre scultore Prassitele. Al termine periboetos, normalmente interpretato come "di cui si parla molto", ossia "famoso", "celebre", viene invece attribuito il significato di "colui che grida freneticamente", in base ad un passo di Platone, in cui lo troviamo come epiteto riferito al dio Ares.
Tale datazione sarebbe confermata da un confronto con un satiro danzante davanti al dio Dioniso seduto raffigurato su un vaso attico datato al IV secolo a.C.
Eugenio La Rocca (all'epoca sovraintendente ai beni culturali del comune di Roma), ritiene invece che l'irruenza del movimento della figura del satiro, che spezza l'armonia classica, sia meglio inquadrabile in epoca più avanzata, nel III-II secolo a.C., come sembrano confermare numerosi confronti con le raffigurazioni di satiri presenti in quest'epoca su gemme, rilievi e statuette.

giovedì 21 settembre 2023

Anaktoron di Pantalica (Sicilia)

 


L'Anaktoron di Pantalica è un edificio megalitico rinvenuto sull'acropoli di Pantalica, nel territorio di Sortino, comune italiano della provincia di Siracusa in Sicilia. Sull'altopiano di Pantalica rimangono quasi esclusivamente i ruderi dell'anaktoron, un edificio megalitico di grossi blocchi di 37,5x11,5m, con diverse stanze rettangolari, evidente imitazione dei palazzi micenei. Secondo questa tesi il principe locale (Wanax) proprio come quelli micenei comandava sulla popolazione locale. Esso appartiene alla prima epoca di Pantalica (XII-XI secolo a.C.) e ne rimangono soltanto i blocchi di fondazione. A tal proposito Paolo Orsi, in 'Pantalica e i suoi monumenti', scrive:
«Qualcuno degli Egei che poco prima del Mille toccavano la costa siracusana, si spinse o volontario o captivo per entro la valle dell'Anapo fino all'aspra Pantalica che già attraeva merci egee e si mise al servizio del principe come dimostrano i principi tectonici della Grecia micenea nel nostro palazzo ed anche lo schema planimetrico che ricorda in qualche parte le costruzioni achee
Egli quindi sostiene, assieme a diversi studiosi, il legame con le maestranze micenee che potrebbero aver favorito la costruzione dell'edificio anche in virtù di un già presente commercio tra le due sponde del mediterraneo. Ma non solo, è ben evidente che i siculi non fossero abili costruttori di edifici in pietra, poiché essi risiedevano in capanne fatte in materiale deperibile. Questa anomalia fu subito riscontrata da Orsi che ipotizzò l'utilizzo di maestranze esterne, in grado di eseguire lavori altrimenti non attuabili: «Se dunque i Siculi non furono né muratori, né costruttori, si affaccia come una strana anomalia l'edificio di Pantalica, che non a torto ho chiamato sede principesca o Anàktoron
L'edificio fu modificato e riutilizzato in epoca bizantina dopo un precedente abbandono. Vennero eseguite delle modifiche come il rinforzo con calce del muro perimetrale e la creazione di un pavimento in cemento. Il suo definitivo abbandono è avvenuto a causa di un incendio, forse dovuto dall'arrivo degli arabi.
All'interno sono state rinvenute diverse armi in bronzo e una fonderia, che fanno supporre un'ipotetico privilegio di fusione da parte del principe ivi residente. Bisogna tuttavia aggiungere che le porte dell'edificio avevano l'apertura verso l'esterno, il che fa supporre anche la funzione non residenziale del palazzo ma di possibile deposito o forziere (Rosa Maria Albanese, -La tarda età del Bronzo e la cultura di Pantalica)

Monte Adranone (Sicilia)

 


Monte Adranone è un rilievo di 899 m s.l.m. a settentrione del comune di Sambuca di Sicilia, in provincia di Agrigento. La sommità del monte Adranone accoglie i resti di un'antica città, ritenuta di nome Adranon, importante sito archeologico della Sicilia. L'antica città di Adranon fu un insediamento greco-punico distrutto, secondo i dati degli scavi archeologici, intorno al III secolo a.C.. Le imponenti rovine ritenute del periodo tra l’VIII e il III secolo a.C. rivelano l'importanza strategica del centro sin dalla fase più arcaica, in quanto dominavano la strada che collegava Selinunte con Akragas. Forse fu caposaldo del sistema di difesa realizzato dai cartaginesi per la difesa della loro eparchia. Gli studiosi hanno ritenuto di identificare il sito con l’Adranon di cui riferisce Diodoro Siculo in relazione alla prima guerra punica.
La città, riemersa dopo gli scavi archeologici, si estende su un territorio collinoso e ondulato che avanza a terrazza verso sud-ovest. Nella zona corrispondente all'ingresso dell'area archeologica, si trova la Necropoli, nella quale spicca la monumentale Tomba della Regina. Proseguendo verso la sommità del monte Adranone si possono osservare la cinta muraria della città-fortezza, il quartiere artigianale e commerciale e un Santuario circondato da un temenos, recinto sacro, e preceduto da un sacello, dove si raccoglievano le offerte votive dei fedeli. Sulla cima vi è l'area sacra dell'Acropoli. In tutto il sito dell'antica città di Adranon sono state rinvenute numerose deposizioni votive quali anfore, terrecotte, pregevoli busti di divinità, corredi vari, insieme a ceramica attica e suppellettili di bronzo. Questi reperti sono visibili nei musei archeologici di Palermo, di Agrigento e di Sambuca di Sicilia,

Solunto (Sicilia)


Solunto è un'antica città ellenistica sulla costa settentrionale della Sicilia, sul Monte Catalfano, a circa 2 chilometri da Santa Flavia, di fronte Capo Zafferano, nei pressi di Palermo. Secondo Tucidide, Solunto costituiva, assieme a Panormus e a Motya, una delle tre città fenicie, in Sicilia. In realtà alcuni scavi, che hanno interessato questo sito, mostrano come l'ipotesi che Solunto fosse una cittadina dalle origini fenicie sia ancora priva di supporti archeologici adeguati, e ne indicano come autentici fondatori i Sicani, maggiormente motivati a stanziarsi in una così particolare collocazione (come i pendii di un promontorio roccioso). Il nome greco di Solunto, secondo il mito di fondazione, riportato da Ecateo di Mileto, deriverebbe da quello di un brigante, Solus, ucciso da Eracle. Il nome fenicio conosciuto dalle monete (Kfr = Kafara), significa «villaggio», mentre lo stesso nome greco (Solus, corrispondente al latino Soluntum) potrebbe essere d'origine semitica (סלעים selaim, «rupi») o greca arcaica (σολος solos, «roccia ferrosa»). La più antica notizia su Solunto ci è trasmessa da Tucidide, secondo il quale il luogo sarebbe stato occupato da Fenici (insieme a Mozia e Palermo) al momento della prima colonizzazione greca. Dell'abitato punico sul promontorio di Solanto, in lingua punica Kfr, rimangono oggi scarse tracce a causa della recente crescita edilizia, come una necropoli con sepolture a camera (distrutte nell'aprile 1972 durante lavori edili) nei pressi della stazione ferroviaria di Santa Flavia, un quartiere industriale con fornaci, un probabile tofet con resti di ossa combuste e stele «a trono» e, presso la località Olivella, una sepoltura ipogea con dromos.
Tra i materiali ceramici rinvenuti si ricordano kylikes di produzione ionica, aryballoi corinzi, un kantharos etrusco di bucchero, anfore puniche di forma Ramón 1.1.2.1 e Ramón 4.2.1.4. La città fu conquistata per tradimento da Dionisio I di Siracusa nel corso della sua guerra contro i Cartaginesi (396 a.C.), insieme a Cefalù ed Enna.
Già in precedenza il suo territorio era stato saccheggiato insieme a quello di altre due città rimaste fedeli ai Cartaginesi, Halyciae e Palermo. È probabile che in quest'occasione l'abitato sia stato gravemente danneggiato o distrutto, dal momento che non se ne parla più a proposito della seconda spedizione di Dionisio, nel 368 a.C. In ogni caso, è proprio immediatamente dopo tale data che la città venne ricostruita interamente, secondo un piano regolare, nella fortissima posizione sul Monte Catalfano che rimase la sua sede definitiva.
Nella nuova città disposta a pianta ippodamea sul Monte Catalfano si insediò (307 a.C.) un gruppo di mercenari greci abbandonati da Agatocle in Africa dopo il fallimento della sua spedizione. La presenza di un forte nucleo ellenico è, del resto, confermata, oltre che dal carattere stesso delle costruzioni e della loro decorazione, dalla presenza d'iscrizioni in greco, e dal tipo delle magistrature e dei sacerdozi in esse ricordati: gli anfipoli di Zeus Olimpio e gli hieròthytai (i primi sembrano riprodurre un'istituzione siracusana, introdotta da Timoleonte nel 363 a.C.).
Nel 254 a.C., durante la prima guerra punica, la città passò ai Romani, come Iaitai, Tindari ed altre. Sappiamo da Cicerone che essa faceva parte delle civitates decumanae. La notizia più tarda si ricava dall'unica iscrizione latina scoperta a Solunto, una dedica della res publica Soluntinorum a Fulvia Plautilla, moglie di Caracalla. A giudicare dai materiali archeologici sembra che il sito, semideserto e in decadenza già dal I secolo, sia stato definitivamente abbandonato poco più tardi.
Gli scavi iniziarono nel 1825 per interessamento della Commissione di Antichità e Belle Arti, e in tale occasione fu rinvenuta la statua raffigurante Zeus in trono oggi conservata al Museo archeologico regionale Antonio Salinas; essa è caratterizzata dal corpo scolpito in calcarenite locale e la testa in marmo bianco, mentre il trono è decorato con rilievi raffiguranti Ares coronato da Nike, Afrodite, Eros e le Grazie. I lavori di scavo proseguirono nel 1836 e nel 1863, liberando una parte della città, ma essi sono stati ripresi nel 1952, e portati avanti negli anni successivi. È così tornato alla luce un settore notevole del tessuto urbano, che permette di ricostruire la struttura riorganizzata integralmente intorno alla metà del IV secolo a.C.
La città occupa il pianoro del Monte Catalfano, che digrada da ovest ad est (da un'altezza sul livello del mare da m 235 a 150), e in parte è franato sul lato nord. La superficie doveva essere originariamente di circa 18 ettari, ed era suddivisa regolarmente - secondo i dettami urbanistici di Ippodamo da Mileto - da una serie di strade orientate da nord-est a sud-ovest (tre delle quali sono state parzialmente scavate), intersecate da assi minori perpendicolari (larghi da 3 a 5,80 m), i quali, essendo disposti perpendicolarmente alla pendenza, sono perlopiù costituiti da scalinate. Ne risultano isolati rettangolari, di circa 40 x 80 m, disposti con il lato minore sugli assi principali. Essi sono suddivisi a metà, in senso longitudinale, da uno stretto ambitus (m 0,80-1), destinato a drenare gli scoli, che, in corrispondenza delle strade principali, si trasformano in canali sotterranei. Non esistevano fogne.
La strada principale (nota col nome moderno di Via dell'Agorà è larga da 5,60 a 8 m, e conduce alla zona pubblica della città, situata nella zona nord. A differenza delle altre – che sono pavimentate in lastre di calcare – essa presenta, a partire dal terzo isolato, una pavimentazione in mattoni quadrati. In corrispondenza degli incroci, la carreggiata è occupata da tre blocchi allineati con incassi, forse destinati a sostenere ponticelli lignei d'attraversamento in caso d'inondazioni.
La disposizione delle abitazioni riflette certamente diversi livelli sociali. Nelle zone periferiche, infatti, per quanto finora si conosce, gli isolati sono divisi in otto abitazioni, di 400 m² al massimo, e perlopiù prive di peristilio, sostituito da un semplice cortile. Nell'area centrale gli isolati comprendono in genere sei case, la cui superficie arriva sino a 540 m², e che sono perlopiù dotate di peristili e di ricca decorazione musiva e pittorica. L'impianto sembra essere sostanzialmente quello originario, della metà del IV secolo a.C., anche se naturalmente si notano numerosi rifacimenti d'età tardoellenistica e romana (che sembrano solitamente concentrati fra il II secolo a.C. e il I secolo, mentre scarsissime sono le aggiunte posteriori). Si tratta insomma di un tipico piano regolatore d'età tardoclassica, che ritroviamo anche altrove in Sicilia (Iatai, Tindari, Eraclea, Gela, Agrigento, probabilmente a Segesta ed a Taormina), derivato da modelli greci, verosimilmente dell'Asia minore, come quello di Priene.
Seguendo la via principale della città (che nel primo tratto è selciata con lastre di calcare), s'attraversa dapprima un quartiere periferico, costituito da case modeste, a semplice cortile, e mal conservate, la cui tecnica costruttiva è a telaio, tessuta con grandi blocchi incrociati, e pietrame di riempimento tra di essi.
Poco dopo la prima traversa, a sinistra, ha inizio il settore occupato dalle case più lussuose. La seconda casa dell'isolato, che s'affaccia sulla Via dell'Agorà, con l'ingresso principale sulla seconda trasversale, costituisce un buon esempio d'abitazione di livello alto, anche se non eccezionale. Come molte altre, essa sorge su tre livelli, progressivamente più elevati da est ad ovest. Il settore più basso, fronteggiante la Via dell'Agorà, è costituito da quattro botteghe, due delle quali (quelle laterali) collegate con due ambienti corrispondenti al livello superiore (quello intermedio): si tratta evidentemente delle abitazioni dei bottegai.
Una delle due tabernae centrali, quella di sinistra, non comunica con la parte posteriore, mentre da quella di destra s'accede, mediante una scala, ad un ampio ambiente di livello intermedio, a sua volta comunicante col terzo livello, occupato dalla casa. Sembra probabile che in quest'ultimo caso si tratti di una dispensa appartenente all'abitazione, accessibile dalla strada (dove potevano giungere i carri e le bestie da soma), mentre le altre tabernae dovevano essere botteghe d'affitto. Il piano più alto era occupato dall'abitazione vera e propria, cui s'accedeva da una delle tranquille vie trasversali a gradini. La porta d'ingresso dava in un ambiente comunicante con due stanze laterali (una certamente riservata al portiere), e da qui, tramite un'altra porta, s'accedeva al peristilio a quattro colonne (tetrastilo). Su questo s'affacciano alcuni grandi ambienti (quelli d'abitazione dovevano essere al piano superiore), uno dei quali con il pavimento a mosaico. 
Sulla destra, a livello leggermente superiore, sono il bagno e la cucina. Subito dopo la via trasversale, nell'isolato successivo, è il cosiddetto Ginnasio, scavato verso la metà dell'Ottocento e restaurato nel 1866 dal Cavallari, che rialzò le colonne del peristilio con aggiunte arbitrarie. Il nome è dovuto alla scoperta, in questa zona, di un'iscrizione greca (ora al Museo Archeologico Regionale di Palermo) con una dedica da parte di un gruppo di soldati, comandati da un Apollonio figlio di Apollonio, ad Antallo Ornica, figlio di Antallo e nipote di Antallo, ginnasiarca. Quest'iscrizione dimostra l'esistenza a Solunto dell'istituto tipicamente greco dell'efebia, e certamente anche l'esistenza di un ginnasio, che non è però stato finora identificato. L'edificio che va sotto questo nome è invece una ricca dimora dotata di un peristilio a due piani, con colonnato inferiore dorico e superiore ionico, con transenne scolpite "a cancello" fra le colonne (dodici in tutto e quattro per lato): un tipo che è ora conosciuto anche altrove in Sicilia (a Iatai, ad esempio) ed un po' ovunque nel mondo ellenistico (particolarmente a Delo). Nella casa si notano ancora resti di ricchi pavimenti a mosaico, e di pitture di IV stile, appartenenti ad un restauro della seconda metà del I secolo d.C. 
Oltrepassata un'altra via trasversale (denominata dagli scavatori Via Ippodamo di Mileto) si trova un'altra dimora piuttosto ben conservata che, dal soggetto di uno dei suoi dipinti, ha preso il nome di Casa di Leda, scavata nel 1963. Anche questa sorge su tre livelli: il più basso, adiacente alla Via dell'Agorà, è occupato da quattro botteghe con mezzanini-dormitori soprelevati. Fra questo settore e la casa, utilizzando il dislivello, è stata inserita la lunga cisterna, absidata alle due estremità, nella quale confluiva l'acqua proveniente dal peristilio. A questo s'accedeva dalla via Ippodamo di Mileto, tramite il solito ambiente intermedio. Si tratta di un cortile probabilmente a dodici colonne (quattro per lato), doriche in basso e ioniche al primo piano: queste ultime erano collegate da una transenna di calcare con reticolato a rilievo (i frammenti sono conservati sul posto).
Gli ambienti circostanti sono riccamente decorati con mosaici e pitture. Nel peristilio sono i resti di un mosaico con motivi ad onde in bianco e nero. In un cubicolo (stanza da letto) a nord, la zona destinata al giaciglio è separata con un motivo a cubi in prospettiva, in pietre di tre colori. Al centro della stanza ad ovest del vestibolo è conservato un emblema (quadretto) con una rappresentazione del tutto eccezionale: un astrolabio, col globo terrestre circondato dalle sfere celesti (bisogna ricordare il planetario d'Archimede trasferito a Roma da Siracusa dopo la conquista della città, nel corso della seconda guerra punica). Il mosaico, in cui sono state utilizzate lamine di piombo per separare i vari settori della rappresentazione, è databile – come gli altri della casa – intorno alla metà del II secolo a.C., ed è stato forse importato da Alessandria.
In un'ampia sala che s'affaccia ad ovest del peristilio (forse il triclinio) sono conservate pitture di IV stile, del tardo I secolo d.C., che sostituiscono quelle originarie, di I stile, delle quali restano tracce. Nella parete settentrionale, sopra uno zoccolo a larghe zone dipinte ad imitazione del marmo, sono quattro ampi pannelli separati da steli vegetali, su uno dei quali si distingue la rappresentazione dei Dioscuri, mentre sul successivo è dipinta la madre dei divini gemelli, Leda (col cigno), che ha dato il nome alla casa. Sulla parete di fondo (quella occidentale) sono tre pannelli: in quello centrale si distinguono le tracce di una figura maschile nuda e seduta, mentre su quelli laterali sono figure maschili alate con fiaccole (probabili Imenesi, geni del matrimonio).
La decorazione di questa ricca dimora era completata da alcune sculture: tre piccole statue femminili panneggiate, due delle quali marmoree ed una in calcare, con mani e piedi di marmo (esposte nell'Antiquarium). L'ultimo livello del fabbricato comprendeva una cisterna (a nord del triclinio) ed un ambiente comunicante direttamente con l'esterno, forse una stalla.
Continuando a risalire la Via Ippodamo di Mileto, si trovano sui lati altre case. La seconda sulla destra, dopo la Casa di Leda, è una casa senza peristilio (scavata anch'essa nel 1963), con cortile pavimentato in cocciopesto, con decorazioni a losanghe di tessere bianche. Su di esso s'aprono vari ambienti uno dei quali, ad ovest, ha pavimento a signino (una grande ruota al centro, con decorazione di tessere bianche disposte a raggera, ed orlo a meandro); un altro, a nord, conserva pitture della prima fase del secondo stile, ad imitazione di una struttura marmorea, davanti alla quale pendono ghirlande (inizio del I secolo a.C.). Si notano resti di una più antica decorazione di I stile, coeva ai pavimenti conservati. L'ultima casa a destra lungo la via Ippodamo di Mileto è una delle prime esplorate nel secolo scorso. Il resto dell'abitazione è stato scavato nel 1962. Il peristilio conserva un pavimento con tessere policrome disposte irregolarmente. In un ambiente a nord-est sono conservati affreschi di II stile. Subito ad est di questa casa, è una grande cisterna con vari ambienti, forse di carattere pubblico. Ritornando sulla via dell'Agorà, all'altezza del successivo incrocio con una strada trasversale (denominata Via Salinas), ha inizio la principale zona pubblica della città. Qui la strada è interrotta da una soglia, che impediva l'accesso dei carri nell'agorà. 
Subito sulla sinistra è un importante complesso, identificabile con un santuario. Esso si compone di due edifici distinti: il primo, più ad est (lungo m 20,50, largo 6,50), comprende tre ambienti non comunicanti, aperti sulla strada. Quello di sinistra è caratterizzato da un altare con tre betili (stele aniconiche infisse verticalmente), tipico del culto fenicio-punico. Un piano, inclinato dalla piattaforma dell'altare ad una vaschetta, probabilmente serviva a raccogliere il sangue delle vittime. L'ambiente centrale, caratterizzato da una banchina a due gradini estesa ai quattro lati, era certamente destinato a cerimonie di culto. Nulla si può dire del terzo ambiente, molto rovinato. Tutto il complesso presenta numerosi rifacimenti fino ad età imperiale. L'edificio retrostante (lungo m 20,50, largo 16) comprende nove ambienti, distribuiti su tre livelli. Dopo un grande cortile (d), terminante in un piccolo vano (e), forse destinato ad ospitare gli animali del sacrificio (vi si trovano degli abbeveratoi), segue il secondo ripiano, con cinque ambienti, il più importante dei quali (h) è dotato di una banchina e di altari, ed era certamente destinato al culto: la terrazza più alta è occupata da un grande ambiente allungato (n), preceduto da un altro. La metà settentrionale di tale ambiente n era coperta a volta. Vi si trova una cisterna ed una fossa, entro la quale è stato trovato un grande scarico di materiale votivo (pesi da telaio, arule di terracotta, ceramica) e moltissime ossa di animali sacrificati. Il deposito appartiene alla fase originaria dell'edificio (IV – inizio del III secolo a.C.), che quindi è nato come luogo di culto. Vi si distingue una seconda fase, che dura sino ai primi due secoli dell'età imperiale. Non è impossibile che proprio qui fosse collocata originariamente la grande statua di culto trovata in questa zona nel 1825 (nella quale, più che una divinità greca, si deve riconoscere un Baal punico, rappresentato in forme ellenizzanti del II secolo a.C., ora al Museo di Palermo). Altri preferiscono pensare, come luogo di provenienza della statua, ad un piccolo edificio a due navate, prossimo al teatro.
Si trattava certamente di un santuario di grande importanza, come dimostrano le dimensioni e la prossimità alla zona pubblica principale della città (è possibile che vi fosse un altro santuario più a monte, in quella che probabilmente è anch'essa una zona pubblica). È particolarmente interessante che l'edificio di culto abbia conservato le sue forme orientali, in una città per il resto così profondamente ellenizzata.
La Via dell'Agorà, ivi allargandosi sino a 8 metri, conduce alla vera e propria zona pubblica della città. Sulla sinistra, le si affianca un piazzale allungato, lastricato a mattoni, che probabilmente era chiuso da un grande portico a paraskénia (cioè con brevi risvolti all'estremità). In fondo al portico si aprono nove esedre a pianta rettangolare, dotate di due colonne, fra ante con semicolonne: la presenza di banchine dimostra che si trattava di luoghi destinati al soggiorno ed al riposo. Nell'ultimo ambiente a nord sono i resti di una nicchia, originariamente ospitante le statue di due anfipoli di Zeus Olimpio, come si deduce dall'iscrizione qui trovata in situ. Gli ambienti erano ricoperti da un robusto solaio in muratura, ampliamento della terrazza sovrastante. Oltre l'estremità settentrionale del portico si trova una grandiosa cisterna rettangolare, certamente pubblica, la cui copertura era sostenuta da tre file i pilastri. Questa non è l'unica cisterna del sito, anche se essa è la più grande. La terrazza superiore era occupata dal teatro e dal bouleuterion. 
Il teatro, nella sua forma definitiva, aveva un diametro di circa 45 m e ventuno ordini di gradini (esclusi quelli di proedria – per i personaggi più facoltosi della città – che però non sono conservati). Esso è limitato da un muro di sostegno poligonale, del quale resta un tratto nel lato settentrionale (una simile sistemazione si ritrova nel contemporaneo teatro di Metaponto). Si tratta di un piccolo edificio, adeguato alle ridotte dimensioni della città, che poteva contenere circa milleduecento spettatori. L'orchestra presenta due pavimenti sovrapposti, relativi a due fasi successive: la prima probabilmente del IV secolo a.C., la seconda d'età ellenistica. La scena, anch'essa rifatta più di una volta, è simile a quella dei teatri di Segesta e Iaitas.
A nord del teatro si trovava in origine un edificio, certamente pubblico, dotato di un piccolo colonnato, e che si concludeva in una rotonda, parti della quale sono conservate aderenti al recinto esterno del teatro. Nel corso della prima metà del I secolo d.C. questa costruzione, ed una parte della cavea del teatro furono occupate da una grande casa privata. È questo un chiaro indizio della decadenza della città, e in particolare delle sue istituzioni civiche: il teatro infatti, nel mondo ellenico o ellenizzato, non era solo un edificio destinato allo spettacolo, ma anche la sede delle assemblee popolari (come dimostra, in questo caso, il collegamento strettissimo con l'agorà e soprattutto col vicino bouleuterion).
Il bouleuterion (edificio della boulé, il senato locale), collocato immediatamente a sud del teatro, è una costruzione rettangolare (11,30 x 7,30 m), che include una piccola cavea circolare a cinque ordini di posti, suddivisi in tre settori. Il loro numero, circa cento, corrisponde bene a quello di un ridotto senato locale. Nella parte del colle sovrastante il teatro sono resti di strutture non ancora identificate; ma il cui carattere è probabilmente sacro. Si può pensare, in effetti, che qui fosse l'acropoli della città; cosa che potrà essere compresa in seguito a futuri scavi.
All'estremità settentrionale dell'area pubblica, dove termina anche la parte conservata dell'abitato, è un'importante casa, un angolo della quale è scomparso nella frana che ha interessato quest'area. Si tratta di una ricca abitazione con peristilio ad otto colonne (tre per lato), circondato da ampi ambienti e da un cubicolo. Il peristilio presenta un pavimento a pietre bianche irregolari, in cui sono irregolarmente inserite pietre colorate. Nell'area centrale è un impluvio con orlo in blocchi modanati. L'ambiente a sud conserva un pavimento in mosaico bianco con un disegno a reticolato in tessere nere. Il cubicolo è distinto in due parti: quella destinata all'alcova è separata da un motivo lineare in bianco e nero, mentre al centro dell'altra era un emblema, poi asportato.
I muri conservano resti di pitture di II stile, appartenenti ad una seconda fase della decorazione (circa 70 a.C.). I due grandi ambienti a sud-ovest e ad ovest del peristilio sono pavimentati con mosaici bianchi con semplici fasce d'inquadramento nere. Quello ad ovest presenta anche notevoli resti di pitture di III stile, d'età augustea: tirsi verticali che sostengono ghirlande, su fondo bianco.


La tazza di Filo Braccio (Sicilia)

 
Dal villaggio di Filo Braccio (isola di Filicudi) proviene uno dei più interessanti reperti di tutta la cultura dell'età del bronzo, nelle Eolie detta di Capo Graziano. Si tratta di una tazza con decorazioni incise, rinvenuta presso la capanna F. L'importanza di questa tazza risiede nel fatto che probabilmente è uno dei più antichi esempi di raffigurazione della preistoria italiana (Graziano I). Per quanto faccia parte della cosiddetta cultura di Capo Graziano si può dire che si discosta rispetto ai comuni reperti e trova confronto grafico in un elemento decorativo inciso in un vaso scoperto a Lipari loc. Pignataro di fuori, nel quale è segnato un incrocio di linee forse raffigurazione della divisione dello spazio celeste e terrestre. Il disegno di Filicudi rappresenta un insieme di linee che secondo alcuni autori può raffigurare una figura umana a braccia aperte, in cui sarebbe possibile notare anche le membra e il corpo. Secondo altri potrebbe essere un'immagine di un panorama con un elemento lineare, quale limite o approdo. Chiaramente l'intera rappresentazione è stilizzata, così come le onde del mare rappresentate con delle linee a zig-zag e, forse, delle barche formate da linee orizzontali con altre minori verticali. Nel caso della lettura della figura non è chiaro chi sia rappresentato, se un uomo o una divinità, se le barche partono o arrivano, tuttavia è importante dire che è l'unico esempio di rappresentazione complessa, rispetto alle semplici linee di decorazione che troviamo nelle ceramiche anche della seconda fase di Capo Graziano e del Bronzo medio.

Parco archeologico di Sabucina (Sicilia)

 

Il parco archeologico di Sabucina (o Sabbucina, secondo la toponiia mufficiale), sito sul monte omonimo nei pressi di Caltanissetta (8 chilometri a nord-est), è un sito archeologico della Sicilia. Nel territorio si susseguirono insediamenti dall'età del bronzo antico (XX-XVI secolo a.C.), poi la fase di ellenizzazione del sito fino al periodo romano.
Il villaggio originario ha sicuramente origini pre-greche: fu, infatti, costruito dai Sicani, i quali sfruttarono l'agevole posizione del monte che domina l'intera vallata del Salso.
In base ai dati archeologici disponibili, le fasi dell'abitato possono essere suddivise come mostrato di seguito:
  • XXIII-XV secolo a.C.: alcuni villaggi di facies castellucciana ai piedi della montagna
  • XIII-X secolo a.C.: esteso abitato di capanne di facies di Pantalica Nord (tre fasi):
  • Nella prima fase (XIII-XII secolo a.C.) avviene l'occupazione del sito con la nascita di capanne circolari con diametro tra i 3,5 m e i 7 m scavate direttamente nella roccia con un gradone.
  • Nella seconda fase le capanne vengono delimitate perlopiù da muri a secco con diametri tra i 4,9 m e i 7,9 m.
  • Nella terza fase (XI-X secolo a.C.) i nuclei abitativi cambiano forma diventando a pianta rettangolare e spesso divisi in due ambienti tramite muri di pietre.
  • X-IX secolo a.C.: l'abitato diviene modesto (forse a causa di una violenta distruzione) e si collega alla cultura di Cassibile
  • VIII-VII secolo a.C.: nuovo insediamento con case rettangolari; aree di culto organizzate disposti sulla sommità della collina.
  • VI secolo a.C. il sito viene ellenizzato da coloni rodio-cretesi e realizzata la cinta muraria, che verosimilmente restrinse l'area abitata.
  • V secolo a.C. il centro viene distrutto da Ducezio, nel corso della rivolta sicula contro i Greci e poi ricostruito.[3] Sul finire del V secolo a.C. avvenne un'altra distruzione, questa volta da parte dei Cartaginesi contro i Greci.
  • IV secolo a.C.: la città viene ricostruita, le mura rinforzate e fortificate con torri quadrangolari ad opera di Timoleonte: il centro presentava un orientamento diverso.
  • 310 a.C. il sito viene abbandonato probabilmente per la distruzione operata da Agatocle determinando il trasferimento della popolazione che si disperde.
  • In epoca romana si insediano delle fattorie e ville in pianura presso Piano della Clesia e la necropoli di contrada Lannari.
La scoperta di questo sito archeologico è relativamente recente, infatti fu solo negli anni sessanta che venne intrapresa la prima campagna di scavi, guidata da Piero Orlandini, che condusse alla scoperta del villaggio capannicolo del Bronzo Tardo, risalente al XIII-X secolo a.C.; questa scoperta fu di straordinaria importanza, in quanto si trattò del primo villaggio di questo tipo individuato in Sicilia. Nella zona ai piedi della montagna, sono state rinvenute anche alcune tombe a grotticella, risalenti all'età del bronzo.

Della facies di Pantalica Nord sono alcune
capanne circolari parzialmente scavate nella roccia e contenute da un muretto di pietre su cui poi si insediava la struttura lignea fatta di pali che determinano fori circolari nel terreno. Al centro delle capanne vi era il focolare, alcune di esse erano collegate ad ipogei sottostanti. Una delle capanne era adibita a fornace, essendo state ritrovate anche delle matrici in pietra per la costruzione di armi metalliche. Nel sito vengono ritrovati anche dei manufatti di ascendenza egea, segno della presenza di contatti o di migrazioni di genti dalla madrepatria sino alla Sicilia.
La fase finale della cultura di Pantalica Nord determina abitazioni a pianta rettangolare che richiama alle strutture abitative di Thapsos e persino modelli egei. Del IX secolo a.C. risalgono le tracce di una violenta distruzione, testimoniata da tracce di bruciature. A quest'epoca risalgono i manufatti provenienti dalla cultura di Cassibile e vasi in stile Sant'Angelo Muxaro.

A sud del muro di fortificazione, cioè all'esterno della cinta muraria, si trova l'antica
area sacra. Qui sono presenti una serie di ambienti rettangolari o circolari probabilmente destinati al culto di divinità ctonie. Lo sviluppo di tale area avviene tra l'VIII secolo a.C. e il V secolo a.C.
Ritrovamenti sono relativi ad una capanna adibita a santuario e al cosiddetto sacello di Sabucina. È quest'ultimo un modello in terracotta, risalente al VI secolo a.C., trovato nei pressi della necropoli, che rappresenta un tempietto con pronao in antis, un tetto a doppio spiovente, sormontato da due figure di cavalieri e con il basso timpano ornato da due maschere di tipo gorgonico.
In questa stessa area verrà poi costruito il quartiere artigianale con la presenza di una fornace per la fusione delle armi.

Il
muro di fortificazione risale all'ellenizzazione del sito, cioè al VI secolo a.C. dove è presente anche un torrione circolare. La fortificazione cinge la parte alta del monte. Dopo la distruzione operata da Ducezio nel V secolo a.C. la fortificazione viene rinsaldata con la costruzione di torri quadrate.
A seguito della distruzione da parte dei Cartaginesi, nella metà del IV secolo a.C. le mura vennero ripristinate e rinnovate consentendo anche la creazione di nuovi quartieri abitativi.


Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...