Solunto è
un'antica città ellenistica sulla costa settentrionale
della Sicilia, sul Monte Catalfano, a circa 2 chilometri
da Santa Flavia, di fronte Capo Zafferano, nei pressi
di Palermo. Secondo Tucidide, Solunto costituiva, assieme
a Panormus e a Motya, una delle tre città fenicie,
in Sicilia. In realtà alcuni scavi, che hanno interessato questo
sito, mostrano come l'ipotesi che Solunto fosse una cittadina dalle
origini fenicie sia ancora priva di supporti archeologici adeguati, e
ne indicano come autentici fondatori i Sicani, maggiormente
motivati a stanziarsi in una così particolare collocazione (come i
pendii di un promontorio roccioso). Il nome greco di Solunto, secondo
il mito di fondazione, riportato da Ecateo di Mileto,
deriverebbe da quello di un brigante, Solus, ucciso da Eracle.
Il nome fenicio conosciuto dalle monete (Kfr = Kafara),
significa «villaggio», mentre lo stesso nome greco (Solus,
corrispondente al latino Soluntum) potrebbe essere d'origine
semitica (
סלעים selaim,
«rupi») o greca arcaica (σολος solos, «roccia ferrosa»).
La più antica notizia su Solunto ci è trasmessa da Tucidide,
secondo il quale il luogo sarebbe stato occupato da Fenici (insieme
a Mozia e Palermo) al momento della prima
colonizzazione greca. Dell'abitato punico sul promontorio
di Solanto, in lingua punica Kfr, rimangono oggi scarse tracce a
causa della recente crescita edilizia, come una necropoli con
sepolture a camera (distrutte nell'aprile 1972 durante
lavori edili) nei pressi della stazione ferroviaria di Santa
Flavia, un quartiere industriale con fornaci, un probabile tofet con
resti di ossa combuste e stele «a trono» e, presso la
località Olivella, una sepoltura ipogea con dromos.
Tra i materiali ceramici rinvenuti si
ricordano kylikes di produzione ionica, aryballoi corinzi,
un kantharos etrusco di bucchero, anfore puniche di
forma Ramón 1.1.2.1 e Ramón 4.2.1.4. La città fu
conquistata per tradimento da Dionisio I di Siracusa nel
corso della sua guerra contro i Cartaginesi (396 a.C.),
insieme a Cefalù ed Enna.
Già in
precedenza il suo territorio era stato saccheggiato insieme a quello
di altre due città rimaste fedeli ai Cartaginesi, Halyciae e
Palermo. È probabile che in quest'occasione l'abitato sia stato
gravemente danneggiato o distrutto, dal momento che non se ne parla
più a proposito della seconda spedizione di Dionisio, nel 368
a.C. In ogni caso, è proprio immediatamente dopo tale data che
la città venne ricostruita interamente, secondo un piano regolare,
nella fortissima posizione sul Monte Catalfano che rimase
la sua sede definitiva.
Nella nuova
città disposta a pianta ippodamea sul Monte Catalfano si
insediò (307 a.C.) un gruppo di mercenari greci abbandonati
da Agatocle in Africa dopo il fallimento della sua
spedizione. La presenza di un forte nucleo ellenico è, del resto,
confermata, oltre che dal carattere stesso delle costruzioni e della
loro decorazione, dalla presenza d'iscrizioni in greco, e dal
tipo delle magistrature e dei sacerdozi in esse ricordati: gli
anfipoli di Zeus Olimpio e gli hieròthytai (i
primi sembrano riprodurre un'istituzione siracusana, introdotta
da Timoleonte nel 363 a.C.).
Nel 254 a.C., durante la prima guerra punica, la città
passò ai Romani, come Iaitai, Tindari ed altre.
Sappiamo da Cicerone che essa faceva parte delle civitates
decumanae. La notizia più tarda si ricava dall'unica iscrizione
latina scoperta a Solunto, una dedica della res publica
Soluntinorum a Fulvia Plautilla, moglie di Caracalla. A
giudicare dai materiali archeologici sembra che il sito, semideserto
e in decadenza già dal I secolo, sia stato definitivamente
abbandonato poco più tardi.
Gli scavi iniziarono nel 1825 per
interessamento della Commissione di Antichità e Belle Arti, e in
tale occasione fu rinvenuta la statua raffigurante
Zeus in
trono oggi conservata al Museo archeologico regionale Antonio
Salinas; essa è caratterizzata dal corpo scolpito
in calcarenite locale e la testa in marmo bianco,
mentre il trono è decorato con rilievi raffiguranti Ares coronato
da Nike, Afrodite, Eros e le Grazie. I lavori di scavo
proseguirono nel 1836 e nel 1863, liberando una parte
della città, ma essi sono stati ripresi nel 1952, e portati
avanti negli anni successivi. È così tornato alla luce un settore
notevole del tessuto urbano, che permette di ricostruire la struttura
riorganizzata integralmente intorno alla metà del IV secolo
a.C.
La città occupa il pianoro del Monte
Catalfano, che digrada da ovest ad est (da un'altezza sul livello del
mare da m 235 a 150), e in parte è franato sul lato nord. La
superficie doveva essere originariamente di circa 18 ettari, ed era
suddivisa regolarmente - secondo i dettami urbanistici di Ippodamo
da Mileto - da una serie di strade orientate da nord-est a
sud-ovest (tre delle quali sono state parzialmente scavate),
intersecate da assi minori perpendicolari (larghi da 3 a 5,80 m),
i quali, essendo disposti perpendicolarmente alla pendenza, sono
perlopiù costituiti da scalinate. Ne risultano isolati rettangolari,
di circa 40 x 80 m, disposti con il lato minore sugli assi
principali. Essi sono suddivisi a metà, in senso longitudinale, da
uno stretto ambitus (m 0,80-1), destinato a drenare gli
scoli, che, in corrispondenza delle strade principali, si trasformano
in canali sotterranei. Non esistevano fogne.
La strada principale (nota col nome
moderno di Via dell'Agorà è larga da 5,60 a 8 m, e
conduce alla zona pubblica della città, situata nella zona nord. A
differenza delle altre – che sono pavimentate in lastre di calcare
– essa presenta, a partire dal terzo isolato, una pavimentazione in
mattoni quadrati. In corrispondenza degli incroci, la carreggiata è
occupata da tre blocchi allineati con incassi, forse destinati a
sostenere ponticelli lignei d'attraversamento in caso d'inondazioni.
La disposizione delle abitazioni
riflette certamente diversi livelli sociali. Nelle zone periferiche,
infatti, per quanto finora si conosce, gli isolati sono divisi in
otto abitazioni, di 400 m² al massimo, e perlopiù prive
di peristilio, sostituito da un semplice cortile. Nell'area
centrale gli isolati comprendono in genere sei case, la cui
superficie arriva sino a 540 m², e che sono perlopiù dotate di
peristili e di ricca decorazione musiva e pittorica.
L'impianto sembra essere sostanzialmente quello originario, della
metà del IV secolo a.C., anche se naturalmente si notano
numerosi rifacimenti d'età tardoellenistica e romana (che sembrano
solitamente concentrati fra il II secolo a.C. e il I
secolo, mentre scarsissime sono le aggiunte posteriori). Si tratta
insomma di un tipico piano regolatore d'età tardoclassica, che
ritroviamo anche altrove in Sicilia (Iatai,
Tindari, Eraclea, Gela, Agrigento, probabilmente
a Segesta ed a Taormina), derivato da modelli greci,
verosimilmente dell'Asia minore, come quello di Priene.
Seguendo la via principale della città
(che nel primo tratto è selciata con lastre di calcare),
s'attraversa dapprima un quartiere periferico, costituito da case
modeste, a semplice cortile, e mal conservate, la cui tecnica
costruttiva è a telaio, tessuta con grandi blocchi incrociati, e
pietrame di riempimento tra di essi.
Poco dopo la prima traversa, a
sinistra, ha inizio il settore occupato dalle case più lussuose. La
seconda casa dell'isolato, che s'affaccia sulla Via dell'Agorà,
con l'ingresso principale sulla seconda trasversale, costituisce un
buon esempio d'abitazione di livello alto, anche se non eccezionale.
Come molte altre, essa sorge su tre livelli, progressivamente più
elevati da est ad ovest. Il settore più basso, fronteggiante la Via
dell'Agorà, è costituito da quattro botteghe, due delle quali
(quelle laterali) collegate con due ambienti corrispondenti al
livello superiore (quello intermedio): si tratta evidentemente delle
abitazioni dei bottegai.
Una delle due tabernae centrali,
quella di sinistra, non comunica con la parte posteriore, mentre da
quella di destra s'accede, mediante una scala, ad un ampio ambiente
di livello intermedio, a sua volta comunicante col terzo livello,
occupato dalla casa. Sembra probabile che in quest'ultimo caso si
tratti di una dispensa appartenente all'abitazione, accessibile dalla
strada (dove potevano giungere i carri e le bestie da soma), mentre
le altre tabernae dovevano essere botteghe d'affitto. Il
piano più alto era occupato dall'abitazione vera e propria, cui
s'accedeva da una delle tranquille vie trasversali a gradini. La
porta d'ingresso dava in un ambiente comunicante con due stanze
laterali (una certamente riservata al portiere), e da qui, tramite
un'altra porta, s'accedeva al peristilio a quattro colonne
(tetrastilo). Su questo s'affacciano alcuni grandi ambienti (quelli
d'abitazione dovevano essere al piano superiore), uno dei quali con
il pavimento a mosaico.
Sulla destra, a livello leggermente
superiore, sono il bagno e la cucina. Subito dopo la via trasversale,
nell'isolato successivo, è il cosiddetto
Ginnasio, scavato
verso la metà dell'Ottocento e restaurato nel 1866 dal
Cavallari, che rialzò le colonne del peristilio con aggiunte
arbitrarie. Il nome è dovuto alla scoperta, in questa zona, di
un'iscrizione greca (ora al Museo Archeologico Regionale di
Palermo) con una dedica da parte di un gruppo di soldati, comandati
da un Apollonio figlio di Apollonio, ad Antallo Ornica, figlio di
Antallo e nipote di Antallo, ginnasiarca. Quest'iscrizione dimostra
l'esistenza a Solunto dell'istituto tipicamente greco dell'efebia, e
certamente anche l'esistenza di un ginnasio, che non è però stato
finora identificato. L'edificio che va sotto questo nome è invece
una ricca dimora dotata di un peristilio a due piani, con colonnato
inferiore dorico e superiore ionico, con transenne
scolpite "a cancello" fra le colonne (dodici in tutto e
quattro per lato): un tipo che è ora conosciuto anche altrove
in Sicilia (a Iatai, ad esempio) ed un po' ovunque
nel mondo ellenistico (particolarmente a Delo). Nella
casa si notano ancora resti di ricchi pavimenti a mosaico, e di
pitture di IV stile, appartenenti ad un restauro della seconda metà
del I secolo d.C.
Oltrepassata un'altra via trasversale (denominata
dagli scavatori Via Ippodamo di Mileto) si trova un'altra dimora
piuttosto ben conservata che, dal soggetto di uno dei suoi dipinti,
ha preso il nome di
Casa di Leda, scavata nel 1963. Anche
questa sorge su tre livelli: il più basso, adiacente alla Via
dell'Agorà, è occupato da quattro botteghe con mezzanini-dormitori
soprelevati. Fra questo settore e la casa, utilizzando il dislivello,
è stata inserita la lunga cisterna, absidata alle due estremità,
nella quale confluiva l'acqua proveniente dal peristilio. A questo
s'accedeva dalla via Ippodamo di Mileto, tramite il solito
ambiente intermedio. Si tratta di un cortile probabilmente a dodici
colonne (quattro per lato), doriche in basso e ioniche al primo
piano: queste ultime erano collegate da una transenna di calcare con
reticolato a rilievo (i frammenti sono conservati sul posto).
Gli ambienti circostanti sono
riccamente decorati con mosaici e pitture. Nel peristilio sono i
resti di un mosaico con motivi ad onde in bianco e nero. In un
cubicolo (stanza da letto) a nord, la zona destinata al giaciglio è
separata con un motivo a cubi in prospettiva, in pietre di tre
colori. Al centro della stanza ad ovest del vestibolo è conservato
un emblema (quadretto) con una rappresentazione del tutto
eccezionale: un astrolabio, col globo terrestre circondato dalle
sfere celesti (bisogna ricordare il planetario d'Archimede trasferito
a Roma da Siracusa dopo la conquista della città, nel corso della
seconda guerra punica). Il mosaico, in cui sono state utilizzate
lamine di piombo per separare i vari settori della rappresentazione,
è databile – come gli altri della casa – intorno alla metà
del II secolo a.C., ed è stato forse importato da Alessandria.
In un'ampia sala che s'affaccia ad
ovest del peristilio (forse il triclinio) sono conservate
pitture di IV stile, del tardo I secolo d.C., che sostituiscono
quelle originarie, di I stile, delle quali restano tracce. Nella
parete settentrionale, sopra uno zoccolo a larghe zone dipinte ad
imitazione del marmo, sono quattro ampi pannelli separati da steli
vegetali, su uno dei quali si distingue la rappresentazione
dei Dioscuri, mentre sul successivo è dipinta la madre dei
divini gemelli, Leda (col cigno), che ha dato il nome alla
casa. Sulla parete di fondo (quella occidentale) sono tre pannelli:
in quello centrale si distinguono le tracce di una figura maschile
nuda e seduta, mentre su quelli laterali sono figure maschili alate
con fiaccole (probabili Imenesi, geni del matrimonio).
La decorazione di questa ricca dimora
era completata da alcune sculture: tre piccole statue femminili
panneggiate, due delle quali marmoree ed una in calcare, con mani e
piedi di marmo (esposte nell'Antiquarium). L'ultimo livello
del fabbricato comprendeva una cisterna (a nord del triclinio) ed un
ambiente comunicante direttamente con l'esterno, forse una stalla.
Continuando a risalire la Via
Ippodamo di Mileto, si trovano sui lati altre case. La seconda sulla
destra, dopo la Casa di Leda, è una casa senza peristilio
(scavata anch'essa nel 1963), con cortile pavimentato in cocciopesto,
con decorazioni a losanghe di tessere bianche. Su di esso s'aprono
vari ambienti uno dei quali, ad ovest, ha
pavimento a signino (una
grande ruota al centro, con decorazione di tessere bianche disposte a
raggera, ed orlo a meandro); un altro, a nord, conserva pitture della
prima fase del secondo stile, ad imitazione di una struttura
marmorea, davanti alla quale pendono ghirlande (inizio del I
secolo a.C.). Si notano resti di una più antica decorazione di I
stile, coeva ai pavimenti conservati. L'ultima casa a destra lungo
la via Ippodamo di Mileto è una delle prime esplorate nel
secolo scorso. Il resto dell'abitazione è stato scavato nel 1962.
Il peristilio conserva un pavimento con tessere policrome disposte
irregolarmente. In un ambiente a nord-est sono conservati affreschi
di II stile. Subito ad est di questa casa, è una grande cisterna con
vari ambienti, forse di carattere pubblico. Ritornando sulla via
dell'Agorà, all'altezza del successivo incrocio con una strada
trasversale (denominata Via Salinas), ha inizio la principale
zona pubblica della città. Qui la strada è interrotta da una
soglia, che impediva l'accesso dei carri nell'agorà.
Subito sulla
sinistra è un importante complesso, identificabile con un
santuario.
Esso si compone di due edifici distinti: il primo, più ad est
(lungo m 20,50, largo 6,50), comprende tre ambienti non
comunicanti, aperti sulla strada. Quello di sinistra è
caratterizzato da un altare con tre betili (stele
aniconiche infisse verticalmente), tipico del culto
fenicio-punico. Un piano, inclinato dalla piattaforma dell'altare ad
una vaschetta, probabilmente serviva a raccogliere il sangue delle
vittime. L'ambiente centrale, caratterizzato da una banchina a due
gradini estesa ai quattro lati, era certamente destinato a cerimonie
di culto. Nulla si può dire del terzo ambiente, molto rovinato.
Tutto il complesso presenta numerosi rifacimenti fino ad età
imperiale. L'edificio retrostante (lungo m 20,50, largo 16)
comprende nove ambienti, distribuiti su tre livelli. Dopo un grande
cortile (d), terminante in un piccolo vano (e), forse destinato ad
ospitare gli animali del sacrificio (vi si trovano degli
abbeveratoi), segue il secondo ripiano, con cinque ambienti, il più
importante dei quali (h) è dotato di una banchina e di altari, ed
era certamente destinato al culto: la terrazza più alta è occupata
da un grande ambiente allungato (n), preceduto da un altro. La metà
settentrionale di tale ambiente n era coperta a volta. Vi
si trova una cisterna ed una fossa, entro la quale è stato trovato
un grande scarico di materiale votivo (pesi da telaio, arule di
terracotta, ceramica) e moltissime ossa di animali sacrificati. Il
deposito appartiene alla fase originaria dell'edificio (IV – inizio
del III secolo a.C.), che quindi è nato come luogo di culto. Vi
si distingue una seconda fase, che dura sino ai primi due secoli
dell'età imperiale. Non è impossibile che proprio qui fosse
collocata originariamente la grande statua di culto trovata in questa
zona nel 1825 (nella quale, più che una divinità greca, si deve
riconoscere un Baal punico, rappresentato in forme
ellenizzanti del II secolo a.C., ora al Museo di Palermo). Altri
preferiscono pensare, come luogo di provenienza della statua, ad un
piccolo edificio a due navate, prossimo al teatro.
Si trattava certamente di un santuario
di grande importanza, come dimostrano le dimensioni e la prossimità
alla zona pubblica principale della città (è possibile che vi fosse
un altro santuario più a monte, in quella che probabilmente è
anch'essa una zona pubblica). È particolarmente interessante che
l'edificio di culto abbia conservato le sue forme orientali, in una
città per il resto così profondamente ellenizzata.
La Via dell'Agorà, ivi
allargandosi sino a 8 metri, conduce alla vera e propria zona
pubblica della città. Sulla sinistra, le si affianca un piazzale
allungato, lastricato a mattoni, che probabilmente era chiuso da un
grande portico a paraskénia (cioè con brevi risvolti
all'estremità). In fondo al portico si aprono nove esedre a pianta
rettangolare, dotate di due colonne, fra ante con semicolonne: la
presenza di banchine dimostra che si trattava di luoghi destinati al
soggiorno ed al riposo. Nell'ultimo ambiente a nord sono i resti di
una nicchia, originariamente ospitante le statue di due anfipoli
di Zeus Olimpio, come si deduce dall'iscrizione qui
trovata in situ. Gli ambienti erano ricoperti da un robusto
solaio in muratura, ampliamento della terrazza sovrastante. Oltre
l'estremità settentrionale del portico si trova una grandiosa
cisterna rettangolare, certamente pubblica, la cui copertura era
sostenuta da tre file i pilastri. Questa non è l'unica cisterna del
sito, anche se essa è la più grande. La terrazza superiore era
occupata dal teatro e dal bouleuterion.
Il
teatro, nella sua
forma definitiva, aveva un diametro di circa 45 m e ventuno
ordini di gradini (esclusi quelli di proedria – per i
personaggi più facoltosi della città – che però non sono
conservati). Esso è limitato da un muro di sostegno poligonale, del
quale resta un tratto nel lato settentrionale (una simile
sistemazione si ritrova nel contemporaneo teatro di Metaponto).
Si tratta di un piccolo edificio, adeguato alle ridotte dimensioni
della città, che poteva contenere circa milleduecento spettatori.
L'orchestra presenta due pavimenti sovrapposti, relativi a due fasi
successive: la prima probabilmente del IV secolo a.C., la
seconda d'età ellenistica. La scena, anch'essa rifatta più di una
volta, è simile a quella dei teatri di Segesta e Iaitas.
A nord del teatro si trovava in origine
un edificio, certamente pubblico, dotato di un piccolo colonnato, e
che si concludeva in una rotonda, parti della quale sono conservate
aderenti al recinto esterno del teatro. Nel corso della prima metà
del I secolo d.C. questa costruzione, ed una parte della cavea del
teatro furono occupate da una grande casa privata. È questo un
chiaro indizio della decadenza della città, e in particolare delle
sue istituzioni civiche: il teatro infatti, nel mondo
ellenico o ellenizzato, non era solo un edificio destinato allo
spettacolo, ma anche la sede delle assemblee popolari (come dimostra,
in questo caso, il collegamento strettissimo con l'agorà e
soprattutto col vicino bouleuterion).
Il
bouleuterion (edificio
della boulé, il senato locale), collocato immediatamente a sud
del teatro, è una costruzione rettangolare (11,30 x 7,30 m),
che include una piccola cavea circolare a cinque ordini di posti,
suddivisi in tre settori. Il loro numero, circa cento, corrisponde
bene a quello di un ridotto senato locale. Nella parte del colle
sovrastante il teatro sono resti di strutture non ancora
identificate; ma il cui carattere è probabilmente sacro. Si può
pensare, in effetti, che qui fosse l'acropoli della città; cosa che
potrà essere compresa in seguito a futuri scavi.
All'estremità settentrionale dell'area
pubblica, dove termina anche la parte conservata dell'abitato, è
un'importante casa, un angolo della quale è scomparso nella frana
che ha interessato quest'area. Si tratta di una ricca abitazione con
peristilio ad otto colonne (tre per lato), circondato da ampi
ambienti e da un cubicolo. Il peristilio presenta un pavimento a
pietre bianche irregolari, in cui sono irregolarmente inserite pietre
colorate. Nell'area centrale è un impluvio con orlo in
blocchi modanati. L'ambiente a sud conserva un pavimento in mosaico
bianco con un disegno a reticolato in tessere nere. Il cubicolo è
distinto in due parti: quella destinata all'alcova è separata da un
motivo lineare in bianco e nero, mentre al centro dell'altra era un
emblema, poi asportato.
I muri conservano resti di pitture di
II stile, appartenenti ad una seconda fase della decorazione (circa
70 a.C.). I due grandi ambienti a sud-ovest e ad ovest del peristilio
sono pavimentati con mosaici bianchi con semplici fasce
d'inquadramento nere. Quello ad ovest presenta anche notevoli resti
di pitture di III stile, d'età augustea: tirsi verticali che
sostengono ghirlande, su fondo bianco.