sabato 6 gennaio 2024

Quiriguá - MESSICO

 

Quiriguá è un'antica città maya che si trova nel dipartimento di Izabal, in Guatemala. Si tratta di un sito di medie dimensioni situato lungo il corso inferiore del fiume Motagua, con il centro cerimoniale posto a circa un chilometro dalla riva sinistra del fiume. Il periodo d'occupazione della città sembra coincidere col periodo classico della civiltà maya: le prime tracce risalgono al III secolo, la costruzione dell'acropoli è del 550, mentre all'VIII secolo risale il periodo più florido della città, con un grande sviluppo edilizio. Nell'850 improvvisamente la città viene abbandonata.
Il grande sviluppo di Quirigua è con ogni probabilità dovuto alla vittoria militare riportata dal re Cauac Sky (conosciuto anche col nome di Butz Tiliw o K'ak' Tiliw Chan Yo'at) sulla città di Copán nel 738, quando il re di questa città (Uaxaclajuun Ub'aah K'awiil) venne sconfitto, imprigionato e poi sacrificato sulla piazza centrale di Quirigua. Gli storici pensano che prima di questo evento Quirigua fosse una città vassalla di Copán, mentre a partire da quella data la situazione dovrebbe essersi ribaltata.
Per una città della sua importanza Quirigua presenta poche architetture cerimoniali di grandi dimensioni, ma il sito riveste una primaria importanza per la grande quantità di statue che vi sono state ritrovate, alcune delle quali sono considerate le più preziose del Mesoamerica. Fra queste sculture sono particolarmente impressionanti alcune stele, scolpite in singoli blocchi di pietra, la più grande delle quali è alta 10 metri e pesa circa 60 tonnellate (la stele B, la più grande del periodo Maya che sia giunta fino a noi).
Oltre alle stele, nel sito sono presenti altari, sculture che decorano le facciate degli edifici e alcune rocce con elaborate sculture rappresentanti animali mitologici, dette per questo zoomorfe.
Il primo visitatore moderno a pubblicare un resoconto di Quirigua fu Frederick Catherwood nel 1840. A causa delle avverse condizioni meteorologiche egli poté trattenersi nel sito per poco tempo, ma questo fu sufficiente per tracciare alcuni schizzi alle stele visibili fra le rovine; due di questi disegni vennero poi pubblicati nel libro di John Lloyd Stephens Incidents of Travel in Central America, Chiapas, and Yucatan (avvenimenti del viaggio in Centro America, Chiapas e Yucatán), con un breve resoconto di Catherwood. Nel 1854 venne pubblicato un resoconto più esaustivo, ad opera del dottor Karl Scherzer.
Fra il 1881 e il 1883 Alfred Maudslay pose un campo nella zona di Quirigua e condusse approfondite ricerche sulle rovine, realizzando numerose fotografie e compiendo alcuni scavi archeologici di piccola entità; oltre a questo realizzò disegni e calchi in gesso di tutte le iscrizioni geroglifiche e delle principali sculture, spediti poi al British Museum. Maudslay tornò a Quirigua per un ulteriore studio nel 1894.
Nel 1910 la United Fruit Company acquistò il sito su cui si trovava Quirigua e gran parte del terreno circostante con lo scopo di adibirlo alla produzione delle banane. La piantagione venne effettivamente sviluppata, tranne che in una zona di circa 120.000 metri quadrati in cui fu istituita una zona archeologica. Nei decenni successivi vennero condotti alcuni lavori di scavo, ma i più importanti furono senza dubbio quelli compiuti fra il 1975 e il 1980, sotto il controllo dell'Università della Pennsylvania, della National Geographic Society e del governo guatemalteco. Nel 1981 Quirigua è stata inserita nell'elenco dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO.

Chichén Itzá - MESSICO

 


Chichén Itzá è un importante complesso , nel nord della penisola dello Yucatán. Le rovine, che si estendono su un'area di 3 km², appartenevano ad una grande città che fu uno dei più importanti centri della regione intorno al periodo epiclassico della civiltà maya, fra il VI e l'XI secolo. Il sito comprende numerosi edifici, rappresentativi di diversi stili architettonici; fra i più celebri si possono indicare la piramide di Kukulkan (nota come El Castillo), l'osservatorio astronomico (il Caracol) e il Tempio dei guerrieri.
Il sito di Chichén Itzá è stato dichiarato patrimonio dell'umanità UNESCO nel 1988. Costituisce una proprietà federale dello stato del Messico, ed è amministrato dall'Instituto Nacional de Antropología e Historia (INAH). È stato inserito nel 2007 fra le sette meraviglie del mondo moderno.
Il nome Chichén Itzá deriva dalle parole chi ("bocca") e ch'en ("pozzo"), e significa letteralmente "Alla bocca del pozzo degli Itza". Gli Itza erano un gruppo etnico che aveva una posizione politica ed economica predominante nella parte settentrionale dello Yucatán. A sua volta, il nome "Itza" viene in genere ricondotto a itz ("magia") e (h)á ("acqua"), e tradotto in "maghi" (o "streghe") "dell'acqua".
Il nome del sito viene in genere (ma non sempre) trascritto con accenti sulle ultime sillabe in spagnolo e in altre lingue (incluso l'italiano); alcune fonti riportano la forma "Chich'en Itzá", che suggerisce in modo più esplicito l'etimologia maya.
La città esisteva certamente prima dell'arrivo degli Itza nella penisola, e aveva un altro nome, come si desume per esempio da alcuni riferimenti nei Libri di Chilam Balam. Il nome precedente potrebbe essere Uuc Yabnal (trascritto anche come Uuc Habnal, Uuc Hab Nal o Uc Abnal); la maggior parte delle fonti concordano che la prima parola indichi il numero sette, ma la seconda parte del nome è di traduzione incerta.
In uno Yucatán prevalentemente arido la presenza di due larghi e profondi pozzi naturali, chiamati cenotes, che forniscono acqua in abbondanza, ha reso il sito particolarmente attraente per l'insediamento. Dei due cenotes il Cenote Sagrado è il più famoso. Secondo le fonti post-conquista, sia Maya che spagnoli, i Maya precolombiani compivano sacrifici al dio della pioggia Chaac, gettando nel cenote sia manufatti che esseri umani. Il console statunitense Edward Herbert Thompson dragò il cenote negli anni tra il 1904 e il 1910, portando alla luce manufatti d'oro, di giada e di ceramica, così come resti umani con ferite compatibili con l'ipotesi dei sacrifici.
Chichén Itzá ascese al predominio regionale verso la fine del periodo classico arcaico (approssimativamente nel 600 d.C.). Fu comunque verso la fine del periodo medio classico e agli inizi del periodo classico finale che il sito divenne una grande capitale regionale, centralizzando e dominando politicamente, culturalmente ed economicamente la vita nelle pianure settentrionali dei Maya.
L'ascesa di Chichén Itzá viene messa in relazione con il declino dei principali centri Maya delle pianure meridionali, come ad esempio Tikal.
Alcune fonti indicano che intorno al 987 d.C. un re Tolteco di nome Quetzalcoatl arrivò in armi dal Messico centrale e, con l'aiuto di alleati locali, fece di Chichén Itzá la sua capitale, una seconda Tula. L'arte e l'architettura di questo periodo mostrano un interessante mescolanza di stili Maya e Toltechi. Tuttavia la recente nuova datazione del declino di Chichén Itzá indica che essa è in gran parte un sito del periodo classico finale, mentre Tula rimane un sito del primo periodo postclassico, rovesciando la direzione di possibile influenza.
Al contrario di altre città Maya del primo periodo classico, Chichén Itzá non era governata da un singolo individuo o da una singola dinastia. L'organizzazione politica della città era invece strutturata attraverso un sistema cosiddetto multepal, caratterizzato dal governo di un consiglio composto dai membri delle famiglie più importanti.
Chichén Itzá al suo apogeo era la maggiore potenza economica delle terre Maya settentrionali. Sfruttando le rotte marittime che circondavano la penisola dello Yucatán per mezzo del sito portuale di Isla Cerritos, la città riusciva a ottenere materie prime non disponibili localmente, come l'ossidiana dalle regioni del Messico centrale e l'oro dalle regioni del Centroamerica più a sud.
Le cronache Maya riportano nel 1221 una rivolta con una conseguente guerra civile, e le prove archeologiche sembravano confermare che le coperture lignee del grande mercato e del Tempio dei Guerrieri bruciarono all'incirca in quel periodo. Per Chichén Itzá iniziò il declino come città dominante dello Yucatán, soppiantata da Mayapan. Questa cronologia è stata tuttavia drasticamente rivista in anni più recenti. Da un lato una migliore conoscenza archeologica sui cambiamenti della ceramica nella regione, dall'altro un maggior numero di reperti databili con la tecnica del radiocarbonio giunti dagli scavi a Chichén Itzá, hanno spostato la datazione del declino della città all'indietro di due secoli, intorno al 1000 d.C.
Questa nuova datazione lascia un intervallo temporale inspiegato tra la caduta di Chichén Itzá e il sorgere del suo successore Mayapan. Le ricerche in corso nel sito archeologico di Mayapan potrebbero aiutare a risolvere questo enigma cronologico. La città non fu mai completamente abbandonata, tuttavia la popolazione diminuì e nessuna nuova importante costruzione venne eretta dopo il collasso politico. Il cenote sacro rimase comunque un luogo di pellegrinaggio. Nel 1531 lo spagnolo Francisco de Montejo conquistò Chichén Itzá con l'intento di farne la capitale dello Yucatán spagnolo, ma dopo pochi mesi una rivolta dei nativi Maya lo costrinse ad abbandonarla.
La riscoperta di Chichén Itzá è opera dell'esploratore statunitense John Lloyd Stephens che nel suo libro Incidents of Travel in Yucatan (1843), descrisse la prima esplorazione del sito, col corredo delle illustrazioni dell'inglese Frederick Catherwood. La pubblicazione del libro diede impulso a nuove spedizioni archeologiche. Nel 1860 l'esploratore francese Désiré Charnay compì una nuova perlustrazione del sito traendone un reportage fotografico pubblicato in Cités et ruines américaines (1863).
Nel 1875, Augustus Le Plongeon e sua moglie Alice Dixon Le Plongeon, nel corso di una campagna di scavi a Chichén Itzá, riportarono alla luce una statua raffigurante una figura umana in posizione reclinata con la testa alzata e rivolta verso il lato destro, con un vassoio appoggiato sul ventre. Augustus Le Plongeon la battezzò “Chaacmol” (corretto più tardi in “Chac Mool,” termine utilizzato per indicare tutte le statue con le medesime fattezze rinvenute in Mesoamerica). Un'ulteriore esplorazione del sito fu compiuta da Teobert Maler e Alfred Maudslay negli anni ottanta; i due trascorsero diverse settimane tra le rovine ricavandone una ricca documentazione fotografica. Maudslay pubblicò la prima dettagliata descrizione di Chichén Itzá nel suo libro Biologia Centrali-Americana.
Nel 1894 il console degli Stati Uniti Edward H. Thompson acquistò per pochi dollari, l'intera area su cui sorgevano le rovine di Chichen Itzá, e durante i 30 anni successivi esplorò l'antica città. Le sue scoperte includono il più antico rilievo datato sopra l'architrave del Tempio delle Serie Iniziali e lo scavo di diverse tombe nell'Ossario. Thompson è tuttavia principalmente ricordato per aver tolto i mattoni che formavano la piramide per costruire la sua abitazione, per aver sottratto manufatti rinvenuti durante gli scavi, spedendoli negli U.S.A., e anche per aver dragato il Cenote sacro negli anni dal 1904 al 1910, dal quale egli portò alla luce manufatti in oro, rame e giada intagliata, nonché i primi esempi di quelle che si ritenevano abbigliamento e armi dei Maya. Thompson spedì la gran parte dei reperti al Museo Peabody della Harvard University.
Nel 1913 l'archeologo Sylvanus G. Morley persuase la Carnegie Institution a finanziare un esteso programma di scavi a Chichén Itzá, che includeva la mappatura completa delle rovine e il restauro di diversi monumenti. La rivoluzione messicana e l'instabilità politica che ne seguì impedì l'inizio dei lavori fino al 1924. Nel corso di 10 anni i ricercatori della Carnegie scavarono e restaurarono il Tempio dei Guerrieri e il Caracol. Il governo messicano da parte sua fece la stessa cosa per El Castillo e per il campo del gioco della palla.
Nel 1926 il governo messicano accusò Thompson di avere rubato i manufatti ritrovati nel Cenote Sagrado e di averli contrabbandati al di fuori del paese; la proprietà fu posta sotto sequestro. Thompson, che in quel momento si trovava negli Stati Uniti, non ritornò mai più nello Yucatán. Scrisse un resoconto dei suoi scavi nel libro People of the serpent; life and adventure among the Mayas, pubblicato nel 1932. Morì nel New Jersey nel 1935. Nel 1944 tuttavia la Suprema Corte messicana stabilì che Thompson non aveva violato alcuna legge e restituì Chichén Itzá ai suoi eredi, che la rivendettero al pioniere del turismo messicano Fernando Barbachano Peon.
Nel 1961 e nel 1967 ci sono state altre due spedizioni per la ricognizione del Cenote Sagrado. La prima fu finanziata da National Geographic e la seconda da privati, entrambe con la supervisione dell'Instituto Nacional de Antropología e Historia (INAH) messicano. Sempre all'INAH si debbono i più recenti tentativi di riportare alla luce e restaurare altri monumenti della zona archeologica, inclusi l'Ossario, Akab D'zib, e numerosi edifici di Chichén Viejo.

Il sito comprende numerosi raffinati edifici in pietra, in vario stato di conservazione; alcuni erano adibiti a luogo di culto, altri erano palazzi di rappresentanza. Vi si trovano anche due grandi cenotes (uno di questi si chiama Ik Kil) ed un campo del gioco della pelota tra i più grandi e meglio conservati dello Yucatán.

El Castillo

Il centro di Chichén Itzá è dominato dal tempio di Kukulkan (nome Maya di Quetzalcoatl), chiamato anche El Castillo.
Fu costruito dalla Civiltà Maya in un periodo compreso tra l'XI ed il XIII secolo; si tratta di una delle più famose piramidi a gradoni precolombiane del Messico, con scalinate che corrono lungo i quattro lati fino alla sommità.
Agli equinozi di primavera e d'autunno, al calare e al sorgere del sole, gli angoli della piramide proiettano un'ombra a forma di serpente piumato, Kukulkan appunto, lungo la scalinata nord.
Caso non unico nelle culture mesoamericane, il castillo venne costruito al di sopra di un tempio preesistente. Nel 1930 il governo messicano promosse una campagna di scavi nella quale fu scoperta una scala sotto il lato nord della piramide. Proseguendo lo scavo a partire dall'alto si scoprì un altro tempio sepolto all'interno di quello attuale. All'interno della camera del tempio c'era una statua Chac Mool e un trono a forma di giaguaro, dipinto di rosso con le macchie costituite da inserti di giada. Fu scavato un tunnel a partire dalla base della scalinata nord fino al tempio nascosto, che venne aperto ai turisti. Nel 2006 tuttavia l'INAH ha chiuso la sala del trono al pubblico, a causa di un incidente a una turista americana, che morì cadendo dalle scale del tempio.

Tempio dei Guerrieri

Il complesso del Tempio dei Guerrieri consiste in una larga piramide a gradoni, con file di colonne intagliate raffiguranti guerrieri nella parte antistante e sui lati.
Il complesso è simile al tempio B della capitale tolteca di Tula, evidenza di contatti culturali tra le due regioni. Quello di Chichén Itzá è peraltro di dimensioni maggiori.
Alla sommità della scala in cima alla piramide, indicante l'entrata al tempio, è posta una statua Chac Mool utilizzata in passato come altare per i sacrifici.
Adiacente al tempio c'è una larga piazza circondata da pilastri, chiamata Il grande mercato.

Campo del gioco della palla

Gli archeologi hanno identificato a Chichén Itzá sette campi per il gioco della palla, il maggiore dei quali è situato circa 150 metri a nord-ovest del Castillo.
Si tratta del più grande campo per il gioco della palla di tutta la mesoamerica, lungo 166 metri e largo 68. Le mura che chiudono i lati lunghi sono alte 12 metri e sorreggono al centro anelli di pietra intagliata con figure di serpenti intrecciati.
Alla base dei muri interni sono situati schienali obliqui con pannelli scolpiti che rappresentano le squadre dei partecipanti al gioco. In uno dei pannelli un giocatore è raffigurato decapitato e dalla ferita si dipartono sette fiotti di sangue, sei prendono la forma di serpenti mentre quello centrale diventa un albero. Sul lato nord del campo si trova un tempio conosciuto come Tempio dell'uomo barbuto. Sulle mura interne di questo piccolo edificio di pietra sono infatti presenti bassorilievi molto dettagliati, tra i quali una figura scolpita con segni sul mento somiglianti a una barba.[7] Sul lato sud si trova un altro tempio, di dimensioni maggiori, ma in rovina. Inglobato nel muro est si trova il Tempio del Giaguaro. La parte alta del tempio guarda sul campo di gioco, e ai due lati dell'ingresso sono poste due larghe colonne scolpite con la figura del serpente piumato. All'interno del tempio un grande affresco, in gran parte danneggiato, raffigura scene di guerra. La parte bassa del Tempio del Giaguaro si apre sulla piazza dalla parte opposta al campo di gioco. Nell'entrata è situato un trono a forma di giaguaro simile a quello trovato nel tempio interno del Castillo, ma privo di pitture e altre decorazioni. Le colonne esterne, così come i muri interni sono coperti da elaborati bassorilievi. Oltre il Tempio del Giaguaro si trova un'iscrizione muraria in rilievo raffigurante uno tzompantli, sorta di scaffale riempito di teschi umani allineati.

Complesso des Las Monjas

Considerato una delle più raffinate strutture di Chichén Itzá, è un complesso di edifici risalenti al periodo Classico terminale della civiltà maya, costruiti in stile architettonico Puuc. Gli spagnoli soprannominarono il complesso Las Monjas, avendolo scambiato per la sede di un ordine monastico, ma si trattava in realtà di un palazzo governatoriale. Subito ad est del complesso principale si erge un piccolo tempio (soprannominato La Iglesia) decorato con elaborate maschere del dio della pioggia Chaac.

El Caracol

A nord del complesso de Las Monjas si trova un edificio rotondo posto sopra una larga piattaforma quadrata, soprannominato El Caracol (la chiocciola) dalla scala di pietra a spirale presente al suo interno. Questa struttura era un osservatorio astronomico, con le porte allineate con la posizione del sole all'equinozio di primavera, con i punti delle massime declinazioni nord e sud della luna e altri eventi astronomici sacri a Kukulkan, il serpente piumato dio del vento e della conoscenza. I Maya determinavano il momento dei solstizi per mezzo delle ombre proiettate dal sole all'interno della struttura. Ai margini di El Caracol sono poste delle ampie coppe di pietra che venivano riempite d'acqua. L'osservazione delle stelle che vi si riflettevano aiutava gli astronomi Maya a determinare il loro complesso, ma estremamente preciso calendario.

Akab Dzib
Situato a est del Caracol, Akab Dzib significa, nel linguaggio Maya, La casa delle iscrizioni misteriose. Un nome precedente dell'edificio, secondo una traduzione dei glifi della Casa Colorada, era Wa(k)wak Puh Ak Na, ossia la casa piatta con un eccessivo numero di stanze, ed era la residenza dell'amministratore di Chichén Itzá, kokom Yahawal Cho' K'ak'. Si tratta di una costruzione relativamente corta, alta solamente 6 metri, con una lunghezza di 50 metri e una larghezza di 15 metri. La facciata rivolta a ovest presenta sette porte, quella rivolta a est solamente quattro, interrotte da una larga scalinata che conduce al tetto. Questa era apparentemente la parte frontale della casa, e guarda verso un cenote, oggi asciutto. Il lato sud ha una sola porta, che si apre su una piccola camera. All'interno si trovano le iscrizioni misteriose a cui l'intero edificio deve il suo nome attuale, intricati glifi in rilievo situati al di sopra di una delle porte interne. Nello stipite della porta c'è un altro pannello scolpito che rappresenta una figura seduta circondata da altri glifi.
Ossario

Questo tempio a forma di piramide a gradoni è una versione ridotta di El Castillo (tempio di Kukulkan); il nome deriva da una tomba scoperta dal primo scavatore E. H. Thompson.

Chichen Viejo

"Vecchio Chichen" è il soprannome di un gruppo di strutture poste a sud del sito centrale. Questo gruppo include il Gruppo della Serie Iniziale, il Tempio Fallico, la Piattaforma della Grande Tartaruga, il Tempio delle Civette (nella foto) e il Tempio delle Scimmie.
Altre strutture
Chichén Itzá possiede anche molte altre strutture posizionate nel centro cerimoniale di circa 5 km², oltre a parecchi siti sussidiari esterni.

Chichén Itzá, Patrimonio mondiale dell'umanità dell'UNESCO, è il secondo sito archeologico più visitato del Messico. Il turismo è l'elemento chiave per Chichén Itzá da più di un secolo. John Lloyd Stephens, che ha reso noto lo Yucatán dei Maya al grande pubblico con il suo libro Incidents of Travel in Yucatan, ha ispirato più di un "pellegrinaggio" a Chichén Itzá. Anche prima della pubblicazione del libro, Benjamin Norman e il Barone Emmanuel de Friederichsthal visitarono la città a seguito di un incontro con Stephens, e entrambi pubblicarono i diari dei ritrovamenti.
Con l'acquisizione da parte di Edward Thompson della Hacienda Chichén nel 1894 (che includeva Chichén Itzá) il flusso dei visitatori è costante. Nel 1910 Thompson annunciò la propria intenzione di costruire un hotel nella sua proprietà, ma abbandonò i suoi piani, probabilmente a causa della Rivoluzione Messicana.
Nei primi anni venti, un gruppo di yucatechi, guidati dallo scrittore e fotografo Francisco Gómez Rul, iniziarono a lavorare per l'espansione del turismo nella penisola dello Yucatán. Fecero pressioni perché il governatore Felipe Carrillo Puerto costruisse strade che conducessero verso i famosissimi siti archeologici della penisola, inclusa Chichén Itzá. Nel 1923 Carrillo Puerto inaugurò l'autostrada per Chichén Itzá. Gómez Rul pubblicò una delle prime guide dello Yucatán e dei suoi siti archeologici.
Il genero di Gomez Rul, Fernando Barbachano Peon (nipote del precedente governatore dello Yucatán Miguel Barbachano) dette inizio al primo business ufficiale legato al turismo nei primi anni venti incontrando passeggeri che arrivavano in vaporetto a Progreso, il porto a nord di Mérida, e li invitava a trascorrere una settimana nello Yucatán, dopodiché avrebbero potuto prendere la nave successiva e proseguire per la loro destinazione finale. Il primo anno di attività, Barbachano Peon convinse a seguirlo solo sette passeggeri della nave; a metà degli anni venti egli riuscì a convincere Edward Thompson a vendergli cinque acri della proprietà di Chichén per costruire un hotel. Nel 1927, il Mayaland Hotel fu inaugurato, poco a nord della Hacienda Chichén proprietà della Carnegie Institution.
Nel 1944 Barbachano Peon acquistò la Hacienda Chichén, inclusa Chichén Itzá, dagli eredi di Edward Thompson. Circa nello stesso periodo il Carnegie completò i lavori di scavo a Chichén Itzá e abbandonò la Hacienda Chichén, che Barbachano trasformò in un altro hotel.
Nel 1972, il Messico ha rilasciato l'atto di legge federale sui monumenti e i siti archeologici, artistici e storici che pone tutti i monumenti precolombiani, inclusa Chichén Itzá, sotto la proprietà federale. C'erano all'epoca centinaia se non migliaia di visitatori ogni anno a Chichén Itzá, e se ne attendevano di più con lo sviluppo dell'area costiera di Cancún a est.
Negli anni ottanta, Chichén Itzá inizia a ricevere l'affluenza di visitatori specialmente il giorno dell'equinozio di primavera. Oggi alcune migliaia di visitatori si presentano per vedere l'effetto di luci ed ombre sul lato della scalinata del tempio di Kukulcan, dove il serpente piumato sembra discendere il lato della piramide per terminare in una delle due teste di pietra alla sua base.

Xunantunich - BELIZE

 


Xunantunich (pronuncia sciù-nan-tùnic' ) è un sito archeologico costruito dalla civiltà Maya situato in Belize, a 130 km a ovest rispetto alla città di Belize, nel distretto di Cayo.
Xunantunich si trova sopra una elevazione presso il fiume Mopan, in vista del confine con il Guatemala. Il nome significa donna di pietra nella lingua Maya (combinazione di due termini dei dialetti Mopan e Yucateco); il nome originale antico è sconosciuto. La "donna di pietra" sarebbe il fantasma di una donna che diversi abitanti del posto credono abiti nel sito sin dal 1892, vestita di bianco e con occhi rosso fuoco. Compare di fronte al Castillo, sale le scale di pietra e scompare attraverso un muro.
Molte delle strutture furono costruite durante l'Età Classica dei Maya, tra il 200 e il 900. Alcune furono danneggiate da un terremoto, probabile causa dell'abbandono della zona.
Il nucleo di Xunantunich si estende per circa 2,6 km quadrati, ed è costituito da una serie di 6 plazas circondate da oltre 26 templi e palazzi. La piramide conosciuta come El Castillo è la seconda struttura più alta in Belize dopo il tempio di El Caracol: 40 metri. Scavi archeologici hanno riportato alla luce diverse facciate ricoperte di fregi dei templi antichi. Diverse prove dimostrano che il tempio fu costruito in tre fasi diverse nei secoli VII, VIII, e IX. I fregi furono scolpiti nell'ultima fase.
Le prime spedizioni moderne del sito furono condotte da Thomas Gann nel 1894 e nel 1895; altri progetti e scavi dal 1930 al 1990. Una delle stele meglio conservate è datata tra il 200 a.C. e il 150.. Su di essa è rappresentata una figura maya rivolta a sinistra.

Cahal Pech - BELIZE

 

Cahal Pech è un sito della civiltà Maya situato vicino alla città di San Ignacio nel distretto di Cayo in Belize. Situato sopra una collina, il sito era sede del palazzo di una famiglia importante. Nonostante la sua struttura più importante risalga al Periodo Classico, il sito era già abitato nel 900 a.C., durante il periodo medio pre-classico e ciò fa di Cahal Pech uno dei più antichi siti maya del Belize occidentale. Il sito sovrasta le rive del fiume Macal, occupando una posizione strategica che permette la vista in direzione della confluenza del Macal con il fiume Mopan. Si sviluppa attorno a un'acropoli centrale ed è formato da 34 costruzioni. Il tempio più alto misura 25 metri. Il sito venne abbandonato nel IX secolo d.C. per ragioni sconosciute.
Cahal Pech, che significa “posto delle zecche”, fu chiamato così negli anni cinquanta, all'epoca dei primi studi archeologici sul sito incolto condotti da Linton Satterthwaite del Museo di archeologia e antropologia della University of Pennsylvania. Oggi è una riserva archeologica e ospita un piccolo museo di manufatti rinvenuti in occasione di scavi tuttora in corso.
Gli scavi preliminari iniziarono nel 1988. Il restauro fu completato nel 2000 sotto la guida del Professor Jaime Awe, direttore del NICH, l'Istituto nazionale di archeologia del Belize.
Nelle vicinanze si trovano anche i siti maya di Xunantunich e di Chaa Creek.

El Caracol - BELIZE

 

El Caracol o Caracol è un grande sito archeologico costruito dalla civiltà maya situato nel distretto di Cayo, in Belize. Caracol si trova a circa 25 miglia a sud di Xunantunich e San Ignacio Cayo, a 460 metri dal livello del mare, sulle colline dei monti Maya, circondato dal Parco nazionale di Chiquibul. Caracol significa chiocciola in spagnolo, il nome originale datogli dai Maya potrebbe essere stato Oxhuitza (pronuncia o-shu-itsa). È conosciuto come tale perché A. H. Anderson, il capo delle spedizioni archeologiche nell'Honduras Britannico, trovò molte chiocciole nel sito dopo la scoperta del 1937 da parte di Rosa Mai, una boscaiola. Il sito era già abitato nel 1200 a.C., ma il periodo più florido si ebbe nella età classica dei Maya, con oltre 40 monumenti datati tra il 485 e l'889 con relative documentazioni riguardanti le dinastie dei sovrani. Caana (il palazzo del cielo, foto in basso) è il monumento più grande di Caracol, e una delle strutture maggiori costruite dall'uomo nell'intero Belize.
La Caracol antica era una delle città maya più estese, coprendo 168 chilometri quadrati e ospitando una popolazione da 120 000 a 180 000 persone. Un monumento segnala la vittoria militare contro Tikal del 562, che mostra il Signore dell'Acqua di Caracol dopo aver catturato e sacrificato il Doppio Uccello di Tikal. Queste indicazioni archeologiche mostrano l'inizio della perdita di popolarità temporanea di Tikal come città centrale della regione e dello sviluppo di Caracol come potenza maggiore della zona.
Il sito venne scoperto nel 1937. L'Università della Pennsylvania condusse esplorazioni della zona e successive documentazioni vennero fatte nel 1951 e nel 1953. Un altro progetto di scavo è incominciato nel 1985, attualmente diretto dalle dottoresse Arlen e Diane Chase della Università della Florida Centrale. Il sito è gestito da guardiani locali del Belize Institute of Archaeology, una suddivisione del National Institute of Culture and History. Il sito attrae una media di 15-20 turisti al giorno, con picchi maggiori durante il periodo pasquale.

Cerros - BELIZE

 

Cerros è un sito archeologico della civiltà Maya situato in Belize, che raggiunse il massimo splendore durante il periodo Tardo Preclassico. Arrivò a contare una popolazione di circa 1.089 persone. Il sito si trova in una zona strategica, una penisola alla foce del New River. Gli abitanti costruirono un sistema di canali. Il nucleo del sito è formato di alcune grandi strutture e piramidi, una acropoli, e alcuni campi da gioco.
Dal periodo in cui venne costruito fino all'età Preclassica, intorno all 400 a.C., Cerros era un piccolo villaggio di contadini, pescatori e mercanti.  Coltivarono il suolo fertile e sfruttarono l'accesso al mare, mentre si producevano oggetti da vendere ad altra gente nella zona. Intorno al 50 a.C., con la crescita economica, iniziarono a sperimentare un programma di ricostruzione, erigendo templi e piazze..
La prima delle nuove costruzioni era la struttura 5C-2nd (nella foto a sinistra), che era diventata il pezzo di architettura più famoso al sito. Marcava il punto più a nord del sacro asse nord-sud del sito. Quando i re morivano, altri venivano eletti e si venivano a costruire altri templi in loro onore. L'ultima delle costruzioni più importanti al sito, la struttura 3A-prima, venne completata nel 100 d.C., e molte delle altre strutture sembra che fossero state abbandonate prima. Da allora ogni nuova costruzione era circoscritta alla zona residenziale esterna, in quanto la popolazione iniziò a diminuire di numero.
Cerros venne abbandonata completamente nel 400 d.C. La città rimase quasi del tutto indisturbata, finché Thomas Gann parlò dell'esistenza di alcuni tumuli vicino alla costa nel 1900, attirando l'attenzione degli archeologi per quella zona.
I lavori archeologici iniziarono intorno al 1973, quando il sito venne comprato dalla Metroplex Corporation di Dallas, per costruire un complesso turistico intorno al centro cerimoniale. Questi piani fallirono e il sito venne dato al governo del Belize. Nel 1974 l'archeologo David Freidel e la sua squadra determinarono che il sito risaliva al Tardo Preclassico. Negli anni 70, le ricerche continuarono quando il National Science Foundation fornì altro denaro per gli scavi. La squadra originale completò i propri scavi nel 1981.
Negli anni 90, Debra Walker e una squadra di archeologi iniziò una serie di scavi nuovi per capire cosa avesse causato il declino della città alla fine del periodo Tardo Preclassico. Oltre alla ricerca effettuata al sito, la squadra di Walker effettuò datazioni al carbonio sui monili trovati.


Leoni Prudhoe - REGNO UNITO


I Leoni Prudhoe (anche Leoni rossi di Amenofi III) sono una coppia di sculture monumentali in granito rosso realizzate sotto la XVIII dinastia egizia, intorno al 1370 a.C., cioè durante il regno di Amenofi III "il Magnifico". Si trovano al British Museum di Londra. Erano originariamente posti a sorvegliare l'ingresso del Tempio di Soleb in Nubia, edificato dal nipote abiatico di Amenofi III, il giovane Tutankhamon.
I due leoni sono fissati in una posa rilassata e naturalistica, con le zampe anteriori placidamente incrociate e la testa rivolta di lato, che li differenzia dalle sfingi classiche con le zampe rigidamente distese in avanti e il muso fisso a guardare di fronte a sé. I leoni recano numerosi iscrizioni che ne attestano il riutilizzo da parte di vari sovrani nel corso dei secoli: destino condiviso da numerosi monumenti egizi di notevole pregio e prestigio. Le iscrizioni originali risalgono ad Amenofi III. In seguito la loro superficie accolse anche la testimonianza del restauro del Tempio da parte di Tutankhamon, con le seguenti parole: «Colui che rinnovò il Tempio di [per] suo padre [termine simbolico], il re dell'Alto e Basso Egitto Nebmara [Amenofi III], immagine di Ra, figlio di Ra, Amenofi, signore di Tebe»
Un'ulteriore iscrizione ne ricorda lo spostamento da parte di Ay, successore di Tutankhamon. Nel III secolo a.C. furono nuovamente spostati a Gebel Barkal, città meridionale, da parte di Amanislo, re kushita di Meroe; anche Amanislo fece incidere il proprio nome sui leoni.
All'inizio del XIX secolo i due leoni furono reperiti a Gebel Barkal da parte di Algernon Percy, IV duca di Northumberland, noto come Lord Prudhoe, di cui prendono il nome e che lì donò al British Museum nel 1835. Le due statue hanno la sigla d'inventario EA 2.

Statua di Amenofi III e Sobek - EGITTO

 
La statua di Amenofi III e Sobek (J 155) è un antico colosso egizio in alabastro calcareo raffigurante il dio-coccodrillo Sobek e l'importante faraone Amenofi III (1388/6–1350 a.C.) della XVIII dinastia egizia. Si trova al Museo di Luxor.
Fu scoperta casualmente nel 1967 presso il sito del Tempio di Sobek a Dahmasha (presso il quale venivano allevati coccodrilli sacri), nel Basso Egitto: la rinvennero, all'interno di un pozzo protetto da una lastra di pietra arenaria (fatta scorrere nella sua posizione, in antichità, grazie a due rotelle di bronzo), alcuni lavoratori impegnati nello scavo di un canale.
L'iconografia delle due figure è classica e tradizionale. Il temibile dio Sobek, assiso, sulla sinistra, su un trono dai lati coperti d'iscrizioni geroglifiche, è nella sua consueta forma antropomorfa, con testa di coccodrillo sormontata dall'ureo regale e da un imponente copricapo costituito da: modio, corna orizzontali d'ariete, disco solare e due alte piume; un pilastro dorsale interamente coperto d'iscrizioni ne rinforza la figura. Il dio distende il braccio sinistro per stringere a sé il faraone, in segno di protezione, mentre gli avvicina la mano destra al viso: impugna il simbolo ankh della vita e intende "vivificare" Amenofi III. Il sovrano, d'aspetto particolarmente giovanile, è in piedi, di dimensioni sensibilmente minori rispetto a Sobek (consueto segno di ossequio) e la sua posa è rigida: le braccia sono distese lungo il gonnellino mentre il piede sinistro è avanzato; indossa anche la barba posticcia, il copricapo nemes e l'ureo regale.
Nel secolo successivo, il faraone Ramses II della XIX dinastia "usurpò" la statua (verosimilmente considerata di gran pregio) facendovi apporre i cartigli dei propri nomi.

Statua di Tutankhamon offerente - REGNO UNITO


La statua di Tutankhamon offerente (EA75), in granito nero, è un'antica statua egizia, frammentaria, raffigurante il faraone Tutankhamon (1332–1323 a.C.) della XVIII dinastia egizia, poi usurpata da re Horemheb (1319–1292 a.C.).
Proveniente da Karnak, ma esposta al British Museum di Londra sin dal 1823, questa figura del sovrano adolescente si è preservata solamente nella parte superiore: indossante i consueti attributi faraonici (copricapo nemes, barba posticcia, sofisticato gonnellino), Tutankhamon è immortalato nell'atto di presentare un pilastrino alto fino al suo petto e terminante, un tempo, alla base della statua, oggi scomparsa. Oltre a iscrizioni geroglifiche, le facce del pilastro presentano, in rilievo, i tipi d'offerte elargiti dal re: uva, fiori di loto, melagrane, spighe di grano, pollame (un frammento della parte inferiore mostra anche piante di papiro): è un'iconografia tipica del generoso dio Hapy, personificazione del fiume Nilo, cui Tutankhamon potrebbe essere qui assimilato. L'abbondanza dei frutti della terra era garantita, secondo gli Egizi, dal faraone stesso.
I due cartigli nelle iscrizioni presenti sul pilastrino recano i nomi regali di Horemheb e sembrano incisioni originali (cioè senza previa raschiatura di un nome già inscritto): ciò portò alla conclusione che la statua raffigurasse Horemheb e che fosse un monumento realizzato durante il suo regno[1].
«Qui vive il dio perfetto che compie ciò che è benefico per suo padre Amon-Ra: il Re dell'Alto e Basso Egitto Djeserkheperura-Setepenra, il figlio di Ra Horemheb, amato da Amon.»
Nonostante l'originalità dei cartigli, i tratti somatici del sovrano raffigurato sono quelli di Tutankhamon, del tutto simili ad altri sicuri ritratti di quest'ultimo sovrano[1]. È probabile che il pilastro sia rimasto privo di iscrizioni durante il regno di Tutankhamon e quello, breve, del suo immediato successore Ay: Horemheb avrebbe provveduto a commissionare il testo una volta salito al trono.

Colosso di re Aspelta - STATI UNITI

 
Il colosso di re Aspelta (23.730), in granito gneiss, è un'antica statua egizia di dimensioni monumentali raffigurante Aspelta, sovrano kushita della città di Napata (600–580 a.C. circa), esposto al Museum of Fine Arts di Boston.
Il regno di Kush (o regno di Nubia) comprendeva un esteso territorio in Nubia (attuale Sudan) presso la confluenza del Nilo Azzurro con il Nilo Bianco e il fiume Atbara. La potenza kushita si assestò solo dopo la disintegrazione della XX dinastia egizia e del Nuovo Regno in generale (1069 a.C. circa). Nella sua fase iniziale, lo Stato kushita ebbe il suo centro nella città di Napata. Dopo che re Kashta ebbe invaso l'Egitto da sud, nell'VIII secolo a.C., la sua discendenza, la XXV dinastia, si attribuì la piena titolatura faraonica e governò la valle del Nilo per un secolo, finché non fu cacciata dagli Assiri. Dopo la perdita dell'Egitto, la dinastia tornò a insediarsi nella nativa Nubia; re Aspelta spostò la capitale da Napata a Meroe, molto più a sud, intorno al 591 a.C. Si conoscono maggiori dettagli del regno di questo sovrano, rispetto a quelli degli altri dinasti del regno di Kush (noti a loro volta grazie soprattutto alle svariate stele risalenti al suo regno). La sua tomba a Nuri (la seconda del sito per grandezza) fu esplorata nel 1916 dall'archeologo statunitense George Reisner, che vi rinvenne molti oggetti oggi conservati presso il Museum of Fine Arts di Boston; lo stesso Reisner si occupò, nel 1920, degli scavi del palazzo edificato da Aspelta e dal suo fratello e predecessore Anlamani.
Il colosso in questione, originariamente nel Tempio di Amon a Gebel Barkal, rappresenta re Aspelta, che non fu faraone (pur possedendo il set di titoli tipici dei sovrani dell'Alto e Basso Egitto), in un tipico stile faraonico. Il sovrano, giovane e atletico, ha una postura ritta e fiera: il piede sinistro avanza un passo, le braccia aderiscono rigidamente ai fianchi; le mani impugnano corti "cilindri" che, nelle convenzioni della scultura egizia, suggerivano il principio di due sottili scettri (troppo fragili per essere eseguiti nella loro interezza). Indossa un inusuale copricapo, simile a una cuffia aderente, completato dall'ureo e dall'avvoltoio regali, tipici degli antichi faraoni della storia egizia; quest'ultimo è a sua volta sormontato dal copricapo a quattro piume stilizzate tipico dell'iconografia di Shu (dio primordiale, personificazione dell'aria, dell'atmosfera e del vento, e membro della grande Enneade di Eliopoli), simboleggianti i quattro pilastri che Shu avrebbe posto posto a sorreggere il cielo. La superficie del corpo di Aspelta è liscia, alternata a parti ruvide come i copricapi, il gonnellino, la collana e i bracciali ai polsi, alle spalle e alle caviglie: tali superfici furono forse originariamente dorate.
Il torso fu rinvenuto in un nascondiglio di statue a nord del primo pilone del Grande Tempio di Amon a Gebel Barkal; la testa venne scoperta altrove nel sito templare.

Busto del principe Ankhhaf - STATI UNITI

 

Il Busto del principe Ankhhaf è un'antica scultura egizia in calcare stuccato e dipinto, risalente all'Antico Regno. È considerato opera di un maestro dell'arte egizia ed è esposto al Museum of Fine Arts di Boston, con il numero d'inventario 27.442.
Il busto, probabilmente realizzato durante il regno di Chefren (ca. 2558 a.C. - 2532 a.C.), raffigura un uomo in età matura, calvo. Si tratta del più antico ritratto propriamente detto dell'arte egizia (anche se non è possibile provare inconfutabilmente che ritraga il principe[3]), nonché di uno dei più raffinati, con un grado di individualizzazione notevole; non si conoscono esempi anteriori di ritratti non idealizzati a tal punto. Le sculture riproducenti il reale aspetto degli individui, anziché una fisionomia altamente idealizzata, sono rare nella antica statuaria egizia - sia nelle epoche precedenti che in quelle successive alla realizzazione di questo busto. L'anima in pietra calcarea è coperto di vari strati di stucco, a sua volta dipinto di colore rosso-ocra, che nelle statue e nei rilievi contraddistingue le figure maschili (le donne erano, invece, contraddistinte dal colore giallo). Il volto ha un'espressione severa e tranquilla, piuttosto distaccata e impersonale, anche se la bocca sembra sul punto di abbozzare un lieve sorriso. La palpebre sembrano leggermente appesantite, mentre gli occhi erano originariamente dipinti di bianco, con pupille marroni. La barba, le orecchie e la punta del naso sono mancanti.
Il busto fu scoperto nella tomba del principe Ankhhaf, figlio del faraone Snefru e fratello (o fratellastro) di Cheope, la mastaba G 7510 nella necropoli di Giza, piuttosto danneggiata. Le braccia del busto potrebbe essere state realizzate sui braccioli di un seggio oggi perduto. Sembra evidente che fu al centro di un culto funerario siccome, cadendo dal luogo in cui si trovava, infranse alcuni vasetti di ceramica del tipo utilizzato per le offerte ai defunti (così fu rinvenuta)[5].
La tomba del principe Ankhhaf, con il suo busto, fu portata alla luce nel 1925 da una spedizione congiunta del Museum of Fine Arts di Boston e dalla Università di Harvard; secondo la prassi dell'epoca, un oggetto di simile valore artistico e storico sarebbe stato collocato nel Museo egizio del Cairo. D'altronde, in quel caso, il busto fu donato nel giugno 1927 come ringraziamento per il lavoro svolto e per la scoperta della tomba straordinariamente intatta della regina Hetepheres I, zia di Ankhhaf. Recentemente, Zahi Hawass, capo del Supremo Concilio delle Antichità egiziano, ha chiesto il rimpatrio del busto, da lui incluso in una lista di 5 reperti fondamentali per l'identità egiziana, fra cui il busto di Nefertiti (nell'Ägyptisches Museum und Papyrussammlung di Berlino), la statua di Hemiunu, architetto della Grande Piramide (Roemer und Pelizaeus Museum di Hildesheim) e il rilievo dello Zodiaco del Tempio di Dendera (al Museo del Louvre).

venerdì 5 gennaio 2024

Civico Museo Archeologico e della Città di Savona (Liguria)


Il Civico Museo Archeologico e della Città di Savona è un museo inaugurato nel 1990, con sede a Savona. Si trova nella fortezza del Priamar ed è collocato al piano terra e al primo piano del palazzo della Loggia, oggetto di campagne di scavo (condotte dall'Istituto Internazionale di Studi Liguri) che hanno permesso l'acquisizione di importanti dati relativi alla storia del promontorio roccioso del Priamàr su cui sorgeva la città antica. Il museo è gestito da Istituto Internazionale di Studi Liguri.
Il 92% dei reperti esposti in Museo proviene dalle campagne di scavi archeologici condotte dall'Istituto Internazionale di Studi Liguri a Savona, nell'area della Fortezza e in altre zone della Città, su concessione del Ministero della Cultura.
Il Civico Museo Archeologico e della Città di Savona è stato inaugurato il 7 aprile del 1990 in occasione della riapertura al pubblico di una parte del complesso del Priamàr e ha sede nella quattrocentesca “Loggia del Castello Nuovo”, all’interno del complesso monumentale del Priamàr di Savona.
Il Museo, collocato al piano terra e al primo piano del Palazzo della Loggia, unisce la suggestione del percorso archeologico con alcune suggestive aree di scavo lasciate in vista.
L’allestimento, curato da Guido Canali e dall'Istituto Internazionale di Studi Liguri su finanziamento del Comune e della Cassa di Risparmio di Savona, si pone in una prospettiva di continuo rinnovamento per adeguare i contenuti scientifici ai nuovi dati forniti grazie alle ricerche archeologiche che da oltre sessant’anni l'Istituto di Studi Liguri conduce sul Priamàr e in altri siti del territorio di Savona. Una efficace integrazione tra spazio museale e aree archeologiche lasciate in vista permette al visitatore di seguire un percorso a ritroso nel tempo sia attraversando ambienti che in età successive ebbero funzioni diverse, sia mediante l’esposizione di reperti ordinati cronologicamente.
Il Museo fa parte del circuito MUSA (Civici Musei Savona), è inserito nella rete dei musei della Regione Liguria e della Provincia di Savona ed è attualmente inserito anche nell’articolato Sistema Museale dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri, ente scientifico che (oltre all’importante attività di ricerca e studio) gestisce il più importante sistema museale del Ponente ligure.
Piano terra
Dalla medievale Sala ad Ombrello, sede della biglietteria e degli spazi di accoglienza, si passa nella seconda sala nella quale, oltre a una sezione di mosaici, rilievi marmorei, vetri e ceramiche d’età romana sono esposti i reperti più antichi: le vecchie collezioni con materiali di provenienza eterogenea e i reperti rinvenuti negli scavi archeologici sul Priamàr, dall’età protostorica al periodo tardo-antico e alto-medievale (scavi eseguiti dall’Istituto Internazionale di Studi Liguri nel ventennio 1969-1989, su concessione del Ministero dei Beni Culturali). Di grande suggestione è la visita all’area di scavo della necropoli bizantina (IV-VII sec d.C.) dove è possibile vedere le tracce del villaggio dei Liguri Sabazi e delle prime fasi di insediamento dell’area all’interno delle strutture pertinenti al palazzo medievale della Loggia. Nel 2019 nella Sala ad Ombrello è stato allestito il nuovo settore dedicato all’ antica cattedrale di Savona (VII-XVI sec. d.C., chiusa al culto nel 1543 e poi distrutta nel 1595, per l’ampliamento della Fortezza genovese: dal 1956 l’Istituto Internazionale di Studi Liguri ne sta portando alla luce quanto ancora è conservato nel sottosuolo, con sistematiche campagne di scavi archeologici, su concessione del Ministero dei Beni Culturali).
Primo piano

L’esposizione del primo piano (ri-allestita completamente ex novo nel 2013-2014 dall'Istituto Internazionale di Studi Liguri) è interamente dedicata all’illustrazione della storia della città attraverso le testimonianze archeologiche e storico-artistiche di età medievale e moderna rinvenute nel corso delle indagini archeologiche condotte sul Priamàr e in altre aree di Savona. Il filo conduttore dell’allestimento è costituito dalla ceramica: sono esposti numerosi esempi di importazioni che testimoniano l’intenso commercio marittimo della città medievale con il bacino del Mediterraneo. Il percorso prosegue con l’esposizione, in sequenza cronologica, di ceramiche di produzione locale attestate a partire dalla fine del XII secolo, che fanno di Savona uno dei più importanti centri produttivi di età medievale.
Due sezioni sono dedicate al complesso della chiesa e del convento di San Domenico, e al relativo quartiere medievale, e alla contrada dei Cassari. Le ricerche hanno consentito la ricostruzione della vita dei due quartieri medievale e delle loro attività artigianali. Un’altra sezione è dedicata ai dieci oratori delle Confraternite che fino al 1542 sorgevano sul Priamàr: tutto il quartiere della città scomparve negli anni 1542-1544, per la costruzione della Fortezza imposta da Genova; gli ampliamenti sei-settecenteschi della Fortezza causarono successive ulteriori distruzioni dell'abitato. Da segnalare alcuni pregevoli pezzi, alcuni di proprietà dell'Istituto Internazionale di Studi Liguri e diversi altri frutto delle donazioni di collezionisti al Centro Ligure per la storia della Ceramica: si tratta di ceramiche di produzione ligure di XVII – XIX secolo.

Criptoportico romano di Vicenza (Veneto)

 

Il criptoportico romano di Vicenza è un criptoportico della antica Vicetia (odierna Vicenza), risalente alla fine del I secolo a.C. Al criptoportico, perfettamente conservato, si accede dall'ingresso posto nell'attuale Piazza Duomo e si estende sotto alla canonica della cattedrale e a palazzo Roma.
Il criptoportico rimase in uso almeno fino al IV secolo, dapprima come luogo per rinfrescarsi, poi come dispensa di generi alimentari.
È l'esempio meglio conservato di criptoportico romano di abitazione privata situato a nord del Po.
Il criptoportico apparteneva a una domus romana, non conservata (ma viste le dimensioni del criptoportico certamente ricca), ubicata nel settore di sudovest della città romana. È formato da tre bracci disposti a U . Il piano del pavimento si trova a una profondità di 6,31 m rispetto all'attuale piano della piazza. Il braccio centrale, quello rivolto a ovest e più lungo, misura 29,5 m in lunghezza e 3,28 m in larghezza, mentre quelli laterali misurano entrambi 27,35 m in lunghezza e 2,98 m in larghezza. I bracci sono a singola navata e coperti con volta a botte realizzata in opus caementicium. L'altezza del criptoportico è pari a circa 2,75 m e lo spessore della volta e delle pareti è circa 1 m.
Il criptoportico riceveva luce da 31 piccole finestrelle a bocca di lupo collocate nella parte alta dei lati interni, molto probabilmente in corrispondenza del giardino del peristilio soprastante. Vi si accedeva tramite una stretta scala, in parte corrispondente a quella tuttora in uso, che immetteva nel braccio settentrionale. Gli ultimi 4 scalini in pietra sono originali; per gli altri è stata ricostruita la struttura in laterizio sfruttando la pendenza indicata dalle campiture nell'affrescatura che si trova sulla parete alla sinistra di chi scende.


Alle due estremità del braccio centrale sono presenti in posizione simmetrica due vani, che avevano funzioni differenti. Quello settentrionale, detto normalmente vano A, doveva essere adibito all'immagazzinamento di materiali; nelle tre pareti infatti è presente una doppia fila di fori di incasso per il posizionamento di travi destinate a sostenere ripiani lignei che correvano tutt'attorno alla stanza. L'accesso a questo ambiente è delimitato da una soglia di ingresso in pietra alta circa mezzo metro, probabilmente in funzione di protezione dalle alluvioni. Nella stessa soglia e nell'architrave superiore sono ricavati gli smussi di battuta per la porta di chiusura, che quindi era in grado di sigillare l'ambiente. Tutti questi accorgimenti indicano che questo vano era destinato ad accogliere materiali o oggetti che si voleva assolutamente proteggere dall'acqua. Considerando le dimensioni dei fori sui muri, le travi che vi si dovevano incastrare dovevano essere molto robuste, destinate quindi a sostenere pesi piuttosto elevati, ma generati da materiali non molto ingombranti, in quanto la distanza tra le due file di fori è di circa mezzo metro. In questa stanza sono alloggiati frammenti di colonne e una vasca in pietra per l'acqua, databile al periodo tardo-antico, dopo la fine dell'impero romano.


Al vano meridionale B si accede attraverso una soglia poco elevata, destinata quindi solo a isolare l'ambiente dall'eventuale pioggia che potesse bagnare il pavimento del corridoio. In questa stanza non sono presenti fori sui muri che indichino la presenza di mensole. Da qui si accede a una seconda stanzetta C aperta verso una rampa larga 1,8 m, solo parzialmente indagata. In queste due stanze sono stati posizionati due lacerti delle pavimentazioni ritrovate durante i lavori di scavo.
La pavimentazione originaria era costituita da un mosaico di esagonette in laterizio, alternate a componenti romboidali. Lo spessore, la finitura irregolare e le differenze tra i vari pezzi indicano che le esagonette erano ricavate a mano dallo stampo di mattone prima della cottura. In una piccola incisione al centro di ogni esagonetta è stata posta una tessera di pietra bianca. La pavimentazione originaria fu poi ricoperta da un mosaico a tessere bianche intervallate da rade tessere nere. Questo secondo pavimento è stato posato sopra al precedente innalzando la quota del piano di calpestio (la prima stesura si trovava a -2,75 m dall'intradosso della volta, la seconda a -2,70 m). In uno dei vani è presente parte di una terza pavimentazione in posizione rialzata, posta alla quota di -2,30 m dall'intradosso, e costituita da più grandi mattoni sesquipedali, cioè della lunghezza di un piede e mezzo, vale a dire all'incirca mezzo metro di lato. Non è chiarito l'utilizzo di questa struttura, che si è ipotizzata utilizzata per lavori di officina o laboratorio.
La pavimentazione attuale è moderna ed è posta a 0,15 m sopra la pavimentazione antica. L'innalzamento è dovuto alla necessità di prevedere lateralmente uno scolo alle infiltrazioni di acqua piovana, dal momento che il pavimento si trova circa 6 metri al disotto dell'attuale piano stradale ed è anche situato al di sotto della falda freatica della città, con conseguenti problemi di percolazioni in caso di violenti temporali. La scelta delle piastrelle è stata fatta in modo da riprodurre l'aspetto della pavimentazione originaria.


Le pareti presentano un'intonacatura a marmorino chiaro sovrapposta ad uno strato di intonaco più grossolano. Nella parte superiore, al limite dell'intradosso della volta, l'intonaco è delimitato da una fascia in rosso pompeiano larga circa tre dita, a cui è sovrapposta una cornicetta in stucco dalla forma di scala rovesciata con tre gradini aggettanti. L'insieme indica chiaramente che si trattava di un ambiente molto curato e che quindi doveva essere utilizzato dalla famiglia per attività di vita domestica. L'uso del criptoportico quindi, almeno per una parte della sua vita, non fu limitato a quello di ripostiglio.
Nei più frequenti esempi di criptoportici romani presenti nell'Italia meridionale, dove il clima è decisamente più caldo, questi spazi offrivano refrigerio d'estate in quanto ambienti a temperatura più gradevole. Nel caso vicentino il problema del caldo estivo era meno impellente, ma in compenso questo spazio poteva offrire riparo anche durante l'inverno quando la temperatura al suo interno era più mite che nelle stanze non riscaldate della domus al piano superiore.
Al termine del braccio meridionale è presente la canna di un pozzo in laterizio, certamente non parte dell'originaria struttura romana e di probabile origine medioevale, che sbocca nel cortile del soprastante palazzo Roma. Il pozzo fu probabilmente costruito per attingere all'acqua che si trovava nell'ambiente sottostante. Nel corso dei lavori di restauro successivi alla scoperta del 1954, fu ricavata un'apertura nella parete del pozzo dotandola di grata di protezione. Con questo accorgimento si è instaurato un flusso d'aria che si incanala poi verso il cancello posto all'ingresso, favorendo così l'aereazione dell'ambiente sotterraneo e contribuendo a ridurre la formazione di muffa.
Il criptoportico fu rinvenuto all'inizio dell'estate del 1954 nel corso dei lavori per la realizzazione della canonica della cattedrale di Vicenza lungo il lato meridionale di Piazza Duomo.
Per ricavare le cantine della canonica, i lavori prevedevano lo scavo fino alla profondità di 3,20 m. Arrivati però alla quota di 3 metri, gli operai si imbatterono in una struttura compatta molto più dura della terra e ghiaia circostante, probabilmente un frammento di pavimento. Nel delimitare la struttura ci si accorse che al di sotto essa appariva vuota. Con l'aiuto di una torcia apparve quello che sembrava una canaletta, poco profonda e non molto lunga. I lavori di pulizia e consolidamento subito programmati, rivelarono invece che si trattava di una struttura molto più complessa.
Gli esperti della Soprintendenza archeologica, subito interpellati, intuirono che potesse trattarsi di un criptoportico di epoca romana. Furono pertanto predisposti i lavori di pulizia, restauro, illuminazione e messa in sicurezza che si protrassero per tre anni. Nel 1957, dopo la posa del pavimento in piastrelle, il criptoportico fu finalmente aperto al pubblico.
I reperti qui rinvenuti durante lo scavo del 1954 sono conservati presso il Museo naturalistico archeologico di Santa Corona. In particolare, si rinvennero antefisse in terracotta, vasetti, lucerne, un mattone ellittico con bollo T. Delli Sereni, un'applique di bronzo raffigurante una divinità marina, elementi in marmo fra cui quelli di un tavolo. Nel giardino del vicino palazzo vescovile fu rinvenuto un capitello ionico probabilmente relativo al peristilio soprastante il criptoportico.


Museo archeologico regionale eoliano "Luigi Bernabò Brea" (Sicilia)


Il museo archeologico regionale eoliano "Luigi Bernabò Brea" è ubicato nel complesso del Castello che domina l'isola di Lipari ed è intitolato a Luigi Bernabò Brea, grande archeologo e Soprintendente della Sicilia Orientale (1939-1973).
Il museo è stato realizzato nel secondo dopoguerra (1954) e contiene, per la maggior parte, reperti archeologici provenienti da sistematiche campagne di scavo, condotte dagli archeologi Luigi Bernabò Brea e Madeleine Cavalier, nel territorio delle isole Eolie.
È costituito da oltre 40 sale, ubicate in diversi edifici del complesso del Castello, e suddiviso in diverse sezioni:
Preistorica: la preistoria di Lipari e la fondazione greca di Lipara;
Sezione classica: dedicata ai materiali di età arcaica, classica, romana e bizantina. Sala dell'archeologia subacquea;
Epigrafica: cippi e steli funerarie della necropoli greco-romana di Lipari;
Delle Isole minori: reperti preistorici delle isole minori (Punta Milazzese a Panarea, Capo Graziano a Filicudi);
Vulcanologica: geomorfologia e vulcanismo delle Eolie;
Paleontologica: del quaternario.
Negli ambienti sono esposti strutture architettoniche, esempi di scultura in marmo e pietra, corredi funerari, vasi, cippi, steli tombali e sarcofagi in pietra che testimoniano la vita della polis e l'evoluzione del culto dei defunti. Inoltre ceramiche di tipi e fogge varie, maschere teatrali e statue fittili.
Fanno parte dell'istituzione:
biblioteca di arte e archeologia;
ex chiesa di Santa Caterina d'Alessandria per mostre e convegni;
ex ostello della gioventù, sede della mostra permanente sulla storia degli scavi e del Museo;
sala didattica;
sala lettura;
ex carcere.
Esistono poi due sezioni staccate del museo ubicate sulle isole di Panarea e Filicudi e molti materiali sono esposti nell'Antiquario Civico di Salina.
I materiali, datati dalla preistoria ai nostri giorni in lingua italiana e inglese, che rende fruibile la conoscenza dello stesso contestualizzata al luogo del ritrovamento.
Nei padiglioni sono ubicate le sezioni:
Preistorica
La sede della sezione è nel padiglione costituito dalle strutture dell'antico palazzo vescovile costruito nel XVIII secolo adiacente alla concattedrale di San Bartolomeo, fabbriche parzialmente edificate sulle vestigia del monastero normanno.
Sale I - IX
: la preistoria allestita negli ambienti attraverso le culture presenti sull'isola dai primi insediamenti umani del Neolitico (5500 - 5000 a.C.) fino all'inizio dell'età del ferro (900 a.C.). La cultura di Stentinello, l'Ossidiana, la ceramica tricromica, la cultura di Serra d'Alto, la cultura di Diana, la cultura di Pianoconte, la cultura di Piano Quartara, la cultura di Capo Graziano, l'età del bronzo, la cultura del Milazzese, Ausonio I, Ausonio II.
Sala X: la città di Lipari in età greco e romana.
Sezione classica
Sale XVII - XXVII: Padiglione età greco e romana[6] ubicato nella struttura posta a settentrione rispetto alla concattedrale. Fabbriche adibite a campo di confino, in seguito a ostello della gioventù.
Sala XIX: la necropoli di piazza Monfalcone oggi piazza Salvatore Luigi d'Austria.
Sala XX: la necropoli di Lipari in età greco e romana.
Sarcofagi, tombe, cippi, lastre, vasi cinerari, crateri, anfore.
Sale XXI - XXV: Corredi.
Ceramiche, crateri e vasellame decorato e dipinto con riferimento al pittore di Lipari, pittore di Siracusa 47099, Pittore dei cigni, Pittore di Cefalù, pittore Mad-Man, Pittore NYN, pittore della Sphendone bianca.
Sala XXVI: l'Ellenismo maturo, le età romana repubblicana e romana imperiale, medievale e moderna.
Produzioni della Zecca di Lipari. Anelli, pendenti, orecchini, collane, diademi.
Sala XXVII
: archeologia sottomarina.
Ancore, anfore, vasellame. Materiali provenienti da naufragi presso la baia di Pignataro di Fuori a Lipari, relitto presso lo scoglio di Dattilo a Panarea, relitto di Capo Graziano a Filicudi, relitto della Secca di Capistello a Lipari, relitto Alberti delle Formiche di Panarea, relitto di punta Crepazza.
Sezione di Milazzo.
Necropoli del predio Caravello, necropoli protovillanoviana, necropoli di età greca.
Epigrafica
Sale XI - XV: Epigrafia, sezione illustrata nel giardino e padiglione epigrafico[8] ubicato nella struttura posta a levante rispetto al palazzo vescovile.
La raccolta comprende sarcofagi, iscrizioni, cippi, steli funerarie.
Delle Isole minori
Padiglione preistoria delle isole minori, ubicato nella struttura posta a ponente rispetto al palazzo vescovile, lato nord.
L'esposizione segue pressappoco lo stesso ciclo di culture della preistorica di Lipari.
Vulcanologica
Padiglione vulcanologia delle isole minori, ubicato nella struttura intitolata al vulcanologo Alfred Rittman, edificio posto a ponente rispetto al palazzo vescovile, lato sud.
Vulcanologia generale, vulcanologia cosmica, vulcanologia sottomarina, rischio vulcanico. Vulcanologia eoliana, caratteri morfologici e geologici delle isole.
Paleontologica
Paleontologia.

Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...