sabato 2 dicembre 2023

Apollo Chatsworth - REGNO UNITO

L'
Apollo Chatsworth, noto anche come Chatsworth Head è una testa di bronzo di dimensioni leggermente superiori al naturale che data a circa il 460 a.C. e che ora si trova al British Museum. La testa in origine era parte di una statua completa, probabilmente, (visto i capelli ricci che arrivano alle spalle) di Apollo, fatta di varie sezioni (testa, braccia, gambe, alcuni dei ricci dei capelli) prodotte separatamente con tecnica della fusione a cera persa poi riunite. Una gamba della stessa scultura è al Louvre (Br 69). Gli occhi probabilmente in origine erano fatti da inserti di vetro, marmo o avorio, tenuti in loco da piastre di bronzo ancora visibili, che piegano in fuori a formare le ciglia. Le labbra sembrano siano ricoperte con rame rosso per imitare il loro colore naturale. Nel 1834 il Louvre decise di acquistare la prima grande statua di bronzo rinvenuta in periodo moderno, dopo la sua scoperta in Italia, vicino all'Isola d'Elba. Due anni dopo una statua completa fu scoperta vicino Tamassos a Cipro e fu immediatamente recuperata dagli abitanti che la scavarono dalla sua posizione usando un carro di buoi.
Durante il viaggio la statua crollò perdendo gambe, braccia e torso. La testa fu acquistata da William Cavendish, VI duca di Devonshire a Smirne da H.P. Borrell nel 1838. 
Le altre parti della statua andarono perse, ma si pensa che una gamba, ora al Louvre, sia stata in origine parte della statua.
Il VI Duca del Devonshire e i suoi successori presero residenza alla Chatsworth House, da cui la statua prende nome. Fu prestata al Fitzwilliam Museum nella metà degli anni 1930 e fu poi acquistata, dall'XI duca, da parte British Museum nel 1958. È nel catalogo del British Museum con il numero 1958 0418 1 ed è esposto nella Room 15. Una piccola sezione laterale nel retro della testa, al livello degli occhi, è stata rimossa in un modo che implica che fosse stato fatto per permettere alla luce di illuminare gli occhi della statua. Può darsi che la testa fosse posizionata in modo da sfruttare questa caratteristica in un tempio, o la posizione del sole in un dato periodo dell'anno, ma questa è una ipotesi.

Mirone di Elètuere

 


Mirone di Elètuere (Eleutere, ... – V secolo a.C.) è stato uno scultore greco antico attivo tra il 480 e il 440 a.C. Fu uno dei più elogiati rappresentanti dello stile severo. Originario di Eleutere, in Beozia (Plinio il Vecchio, Nat. hist., XXXIV. 57-58), e specializzato nella lavorazione del bronzo, Mirone viene vagamente indicato dalle fonti come allievo di Agelada di Argo, stabilendo un collegamento con la scuola peloponnesiaca effettivamente riscontrabile nel Discobolo, ossia nell'opera più antica tra quelle identificate. Visse ad Atene dove ottenne la cittadinanza (Pausania, VI.2.2) ed eseguì i suoi capolavori, destinati a varie città, negli anni tra il 460 e il 440 a.C. I riferimenti cronologici, più sicuri per l'attività di Mirone sono dati dalle statue degli atleti vittoriosi ai giochi olimpici, ricordate da Plinio e da Pausania.
Nessuna sua opera è giunta fino a noi in forma diretta, ma possiamo avere idea dell'arte di Mirone attraverso copie romane in marmo, che dimostrano la popolarità di cui godeva sin dai tempi antichi.
Citato da Luciano e Cicerone, venne ricordato da quest'ultimo (Brut., XVIII.70) come capace di eseguire opere belle ma non ancora abbastanza vicine alla realtà, sottintendendo un giudizio che riconosceva alla sua opera ancora molti elementi dell'arte arcaica. Il Discobolo è un'opera indiscutibilmente nuova, ma è possibile collegare l'atteggiamento di Mirone verso il movimento a simili tentativi tardo arcaici esemplificati nelle figure dei frontoni di Egina inserendolo in quella linea di ricerca, percorsa anche da Pitagora di Reggio, che sarà abbandonata in favore di una più naturale e piana ricerca ritmica. Oltre alle due opere principali identificate nelle copie di età romana, il Discobolo e il gruppo di Atena e Marsia (ai Musei Vaticani, foto di apertura in alto), altre e numerose sono quelle menzionate dalle fonti: rappresentazioni di divinità e di eroi mitologici, la Mucca consacrata originariamente sull'acropoli di Atene (foto qui in alto, a destra), ricordata da Procopio e celebrata in diversi epigrammi dell'Antologia greca, i quattro tori bronzei attribuiti a Mirone da Properzio (II.21.7). Tentativi di identificazione sono stati effettuati per il Perseo ricordato da Pausania (I.23.7).
Non sono mancati i tentativi di attribuzione su base esclusivamente stilistica, come l'attribuzione dei Bronzi di Riace da parte di Vagn Häger Poulsen, estremamente variabili e sempre ridimensionati.
Anche il figlio e allievo di Mirone, Licio, fu un apprezzato scultore e bronzista.
La sua opera più nota è il Discobolo (a sinistra: Copia in marmo del II secolo d.C. - provenienza: scavi dell'Esquilino, 1871 - da originale bronzeo di Mirone datato al 450 a.C. circa. Roma, Museo nazionale romano, Palazzo Massimo, Collezione Lancellotti) le cui copie di età romana furono identificate grazie alla descrizione fornita da Luciano (Philops., XVIII, 45-46). L'originale bronzeo, forse fuso per Sparta, viene datato verso il 460 a.C. per la vicinanza stilistica con le teste dei Lapiti nel frontone occidentale del tempio di Zeus in Olimpia. Rappresenta l'atleta nudo nel momento del massimo sforzo e della massima concentrazione, quando raccoglie tutte le sue energie prima di lanciare il disco. Con il suo perfetto congegno di moti, il Discobolo appare immobile, in una posa fuori del tempo. L'interesse per il naturalismo e la contingenza che domineranno l'arte greca in età ellenistica sono esclusi non appena si considerino i rapporti geometrici che governano l'intera composizione: l'artista non ha voluto rappresentare il movimento di un singolo uomo in un dato attimo, ma l'idea stessa di movimento. Le proporzioni geometriche non collimano con quelle del corpo umano, creando delle impercettibili imprecisioni.
L'identificazione del Satyrum admirantem tibias et Minervam ricordato da Plinio (Nat. hist., XXXIV.57) con il Marsia Laterano venne effettuata da Heinrich Brunn nel 1858 attraverso riproduzioni su monete di epoca romana e su un chous a figure rosse di Berlino; l'Atena venne invece identificata nella copia marmorea ora conservata a Francoforte (Liebieghaus, 195) da Oscar Pollak. Il gruppo è generalmente datato fra il 457 ed il 447 a.C. e ritenuto inerente alla propaganda ateniese contro la Beozia (il flauto era ritenuto invenzione beotica), in un periodo di inimicizia tra le due popolazioni; nel 1940 Rhys Carpenter mise in discussione l'attribuzione a Mirone tramite confronto con opere della fine del V secolo a.C.




Discobolo Lancellotti. 

Necropoli di Casinalbo (Emilia-Romagna)

 
La Necropoli di Casinalbo, in provincia di Modena, è un sepolcreto a cremazione che appartiene al vicino villaggio (terramara) risalente all'età del Bronzo media e recente.
La necropoli, scoperta nel 1880 e studiata inizialmente da Carlo Boni, direttore del Museo Civico di Modena, e da Arsenio Crespellani, ispettore degli scavi nella Provincia di Modena, è stata oggetto di ulteriori scavi da parte di Fernando Malavolti nel 1949-50 e dell’Archeoclub di Modena nel 1975-77. Gli scavi scientifici condotti tra 1994 e 2015 dal Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna o su concessione ministeriale hanno consentito di raccogliere ed elaborare dati sulla struttura della necropoli e delle sepolture, e di avviare studi antropologici e demografici, archeobotanici, sedimentologici, petrografici, faunistici e archeometrici.
Gli scavi hanno compreso solo una parte della necropoli (probabilmente circa un quinto), ma grazie a ricognizioni di superficie l’estensione del sepolcreto è calcolabile in circa 12.000 mq. Il numero di tombe complessivamente scavato nei vari interventi è di 678. In base all’estensione presunta è stato calcolato che la necropoli poteva contenere circa 3000 sepolture distribuite nell’arco di 300 anni. La necropoli di Casinalbo (nella parte finora indagata) inizia ad essere utilizzata tra la fine del Bronzo Medio 2 e l’inizio del Bronzo Medio 3 (circa 1450 a.C.) e termina alla fine del Bronzo Recente 2 (circa 1150 a.C.).
Le tombe sono costituite solitamente da un vaso cinerario in ceramica nel quale venivano raccolte le ossa combuste dei defunti raccolte dopo il rogo funebre. L’urna, in rari casi protetta da una scodella, ciotola, tazza o da un coperchio in ceramica, veniva poi sepolta in un pozzetto poco profondo (massimo 60 cm circa) e poteva essere segnalata da un ciottolo fluviale posto sopra il cinerario in modo da spuntare dal terreno. Nella maggior parte dei casi le tombe erano riunite in gruppi, che comprendevano da 4 fino a 86 sepolture; specialmente nei gruppi più grandi la densità delle sepolture poteva raggiungere 8-10 tombe a mq, e queste erano accostate o sovrapposte le une alle altre, con la chiara intenzione di mettere in evidenza qualche forma di vincolo tra i defunti, presumibilmente di tipo parentelare. I gruppi di tombe erano collocati all’interno di isolati delimitati da strade in terra battuta larghe circa 2 m, che si incrociavano ortogonalmente e permettevano di percorrere la necropoli. Probabilmente uno di questi percorsi si prolungava fino a raggiungere l’abitato, distante circa 200 m. Il sepolcreto non sembra avere avuto delle strutture ben definite che ne delimitassero i confini, almeno nelle zone ovest e nord, dove gli scavi hanno verificato la semplice interruzione delle sepolture senza tracce riconoscibili di confini.
All’interno della necropoli sono state rinvenute tracce che hanno permesso di ricostruire il rituale funerario. In una zona con scarsa densità di sepolture è stata individuata sul terreno una serie di buche di palo che probabilmente dovevano sostenere una piattaforma in legno di forma circolare del diametro di circa 1,80 m. a cui si accedeva mediante una rampa sempre in legno. La piattaforma era probabilmente destinata all’esposizione e alla preparazione dei defunti prima del rogo funebre. Poco distante dalla “piattaforma cerimoniale”, in un’area senza sepolture, è stata trovata una zona con terreno scottato e arrossato, verosimilmente i resti dell’ustrino (o di uno degli ustrini) dove venivano cremati i cadaveri posti su una catasta di legna. Quando il rogo era spento, venivano recuperati i resti delle ossa da deporre nell’urna e gli eventuali oggetti personali bruciati assieme al defunto; questi ultimi nelle fasi iniziali della necropoli non erano inseriti nell’urna assieme alle ossa, mentre successivamente, durante il Bronzo Recente, alcune urne di donne o bambine potevano contenere qualche frammento di oggetti di corredo. Sempre all’interno della necropoli sono state trovate fosse di dimensioni variabili scavate nel terreno e contenenti carboni, frammenti di ossa animali, di vasi in ceramica e di oggetti in bronzo provenienti dai roghi funebri. Molto probabilmente queste fosse avevano la funzione di raccogliere quanto restava delle pratiche cerimoniali, come ad esempio banchetti e libagioni, che si svolgevano nella necropoli. In due grandi settori della necropoli sono stati trovati deposti sul terreno molti frammenti di ossa umane cremate, di vasi in ceramica probabilmente usati per libagioni funebri e poi ritualmente spezzati, e numerosi frammenti di oggetti in bronzo esposti al rogo anch’essi disposti sul terreno secondo un preciso disegno. La frammentazione e la deposizione sul piano della necropoli di questi frammenti pertinenti ai defunti aveva evidentemente un significato rituale, soprattutto nel caso di oggetti che connotavano i maschi guerrieri.
Dopo essere state prelevate dalla necropoli, le urne sono state microscavate. Il microscavo è un’operazione di scavo per livelli del contenuto del vaso che permette di recuperare con la massima cura le ossa cremate ed eventuali oggetti di corredo, tenendo nota della loro posizione. Di solito i vasi contengono ossa che hanno dimensioni da pochi mm fino anche a 10 cm, quindi molte di esse sono riconoscibili da parte dell’antropologo, permettendo di distinguere la presenza dei vari distretti scheletrici (cranio, ossa lunghe, coste e colonna vertebrale, bacino, mani/piedi, ossa non identificabili) e di individuare i rari casi in cui all’interno di una stessa urna venivano collocati due diversi individui. L’analisi delle ossa cremate permette anche la determinazione del sesso e dell’età dei defunti e quindi di compiere studi demografici sulla antica popolazione sepolta nella necropoli.
ella necropoli di Casinalbo le sepolture studiate hanno mostrato tra gli adulti un numero più o meno uguale di maschi e di femmine, per i bambini e i giovani la determinazione del sesso è invece meno attendibile o addirittura impossibile. Per quanto riguarda l’età alla morte, gli infanti deceduti entro i 6 anni di vita sono solo il 14% del totale, quindi si suppone che il dato sia sottostimato. L’assenza quasi totale di tombe di bambini fino ai 2-3 anni mostra che questi probabilmente non venivano cremati e collocati nella necropoli, ma sepolti in altri luoghi, ad esempio vicino alle abitazioni, all’interno del villaggio. Solo il 10% dei defunti è morto a più di 40-50 anni, mentre il 56% è deceduto tra 21 e 40 anni. L’aspettativa di vita media degli abitanti di Casinalbo si aggirava quindi intorno ai 20 anni. La struttura della famiglia era probabilmente mononucleare, e mediamente una donna poteva avere circa 6 figli, di cui solo 2 o 3 riuscivano a raggiungere l’età adulta e quindi dare origine a un nuovo nucleo famigliare.

(nelle foto, urna cinerarie dell'età del Bronzo provenienti dalla necropoli di Casinalbo presso il Museo Civico di Modena - foto di Paolo Terzi; la terza urna contiene resti soteologici)

venerdì 1 dicembre 2023

Anfiteatro romano di Amiternum (Abruzzo)

 


L'anfiteatro romano di Amiternum era il principale anfiteatro dell'antica città sabina di Amiternum, i cui resti archeologici sono situati nei pressi dell'abitato di San Vittorino nel territorio comunale dell'Aquila.
Dichiarato monumento nazionale nel 1902, la struttura si fa risalire al I secolo d.C., ed è quindi leggermente successiva al teatro romano. Contrariamente a quest'ultimo, l'anfiteatro si staglia all'estremità meridionale della città, lontano dal Foro. La cavea, che si eleva sulla via Amiternina tra il colle San Marco e il fiume Aterno, ha diametri di 68 e 53 metri misurati rispettivamente sulle direttrici est-ovest (lato parallelo alla scena del teatro) e nord-sud. Le arcate sono 48 e reggevano le gradinate, oggi praticamente scomparse,originariamente disposte su due piani e rivestite in laterizio; si stima che la capienza complessiva fosse di 6.000 persone. Dell'anfiteatro è oggi ancora visibile l'intero corridoio esterno con il colonnato a mattoncini sagomati e la struttura della cavea con muratura a sacco e rivestimento in laterizio. L'ingresso all'arena avviene dall'entrata situata sull'asse maggiore est-ovest, detta Porta Triumphalis.
Il monumento si presume sia stato rinnovato nel secolo successivo alla sua costruzione e abbandonato in seguito alla decadenza di Amiternum. La cavea è rimasta sempre in vista e ne è testimoniata la presenza negli archivi catastali ma l'intera struttura è tornata alla luce solo con gli scavi archeologici del 1880, mentre i lavori di consolidamento e restauro risalgono al 1996.
Altri scavi, effettuati nella seconda metà del Novecento, hanno portato alla luce i resti di una domus di età tardo-romana di cui è ancora oggi ben visibile la planimetria articolata su una corte centrale porticata sulla quale si affacciavano i vari ambienti; sono stati scoperti la sala di ingresso (atrium), la sala per la raccolta di acqua piovana (impluvium) e una sala di rappresentanza (tablinium), tutti ricchi di mosaici ed affreschi. Il sito è oggi parte di una vasta area archeologica comprendente anche il teatro romano e le catacombe di San Vittorino.


Domus Tiberiana (Lazio)

 


La Domus Tiberiana fu un palazzo imperiale sul Palatino edificato dall'imperatore Tiberio su lato occidentale della collina, su una vasta area tra il tempio della Magna Mater e le pendici del Foro Romano. Sopra di esso si estendono i cinquecenteschi Orti Farnesiani e ad oggi è stato scavato solo nelle zone marginali del perimetro, mentre il nucleo centrale, interessato solo da saggi alla metà del XIX secolo, è ancora fondamentalmente inesplorato.
Forse Tiberio scelse come sito quello dove si trovava la sua casa natale, che era sul colle. La fase iniziale del palazzo doveva essere limitata alla parte centrale degli odierni giardini, mentre Caligola lo ampliò verso il Foro e Domiziano lo fece restaurare. In questo restauro fu creato l'ingresso monumentale sul Foro, dove doveva avere sede anche la guardia pretoriana; qui poi sorse la chiesa di Santa Maria Antiqua.
La zona centrale del giardino fu sondata dal Rosa tra il 1861 ed il 1863.
Della parte centrale si conosce solo un grande peristilio circondato da stanze e dal quale si staccava un corridoio che finiva probabilmente presso gli ambienti scavati nei pressi del tempio della Magna Mater; altri corridoi dovevano sbucare poi nel criptoportico della Domus Transitoria neroniana, dove si vedono alcuni passaggi.
Il lato sud, verso il tempio e la più antica Casa di Livia, è stato scavato a fondo ed ha dato alla luce una fila di diciotto stanze rettangolari coperte da volta a botte. L'ottava da destra conserva un tratto di volta dipinta con riquadri che contengono scene figurate (una figura femminile, una pantera e degli uccelli), databili al III secolo d.C., mentre le pareti in laterizio sono databili alla ricostruzione neroniana dopo l'incendio del 64. Sempre su questo lato, all'angolo sud, si trova una vasca ovale con gradini, forse un vivarium dove erano tenuti pesci.
Il lato est è delimitato dal lungo criptoportico attribuito all'età neroniana. Vi si aprono finestre su un lato e conserva resti di pitture e dei pavimenti a mosaico. Un frammento del soffitto in stucco è decorato da cassettoni, elementi vegetali e un pannello con quattro Eroti (all'Antiquarium del Palatino). Da qui si può accedere alla Domus Augustana.
Il lato nord verso il Foro è quello meglio visibile, disposto lungo una via in salita identificata con il Clivus Victoriae. Alcuni ambienti orientati a nord-est/sud-ovest sono più antichi (domizianei) e sopra di essi si appoggiarono altre strutture adrianee orientate nord/sud che scavalcano la via antica con archi. In questi ambienti sono stati scoperti graffiti con liste di conti e nomi di monete, il che ha fatto pensare alla sede del fisco imperiale, forse dove veniva decisa la diffusione di nuovi coni. In seguito queste strutture vennero usate come magazzino.
Le fonti riportano che la Domus Tiberiana comprendeva almeno una biblioteca, sede anche dell'archivio imperiale, che subì un incendio al principio del 192 d.C., sotto Commodo.


Situla della Certosa (Emilia-Romagna)


La situla della Certosa o situla Zannoni, dal nome del suo scopritore Antonio Zannoni, è una situla in bronzo con figure in rilievo.
Si tratta di un contenitore troncoconico conservato nel museo civico archeologico di Bologna e rinvenuto in una tomba ad incinerazione nella necropoli della Certosa, a Bologna e risale all'inizio del V secolo a.C. Fa parte di quegli oggetti definiti dall'"arte delle situle", uno stile di decorazione figurativa diffuso dall'Italia settentrionale alla Dalmazia tra il VI e IV secolo a.C.
La situla a lastre di bronzo è decorata a sbalzo, con finitura a linee incise. Per la qualità della sua composizione, la cura nella realizzazione e l'attenzione ai dettagli, questa situla si distingue dagli altri oggetti dello stesso tipo.
La decorazione è disposta in quattro fasce orizzontali separate da un cordolo continuo. Sulle tre fasce superiori spicca un motivo centrale.
  • Fascia inferiore. Sequenza di animali, da destra a sinistra: un cervo, due fiere con lingue pendenti, cinque leoni alati. Una gamba emerge dalla bocca del quarto leone alato.
  • Fascia medio bassa. Il motivo centrale è costituito da due musicisti seduti su un letto, circondati da due figure che indossano un ampio mantello a quadri. La decorazione è organizzata in modo quasi simmetrico rispetto a questo gruppo, con una scena di caccia sulla destra e una scena campestre sulla sinistra.
  • Fascia medio alta. Il motivo centrale rappresenta due uomini che trasportano una situla tenendola per il manico. Su entrambi i lati si svolge una processione, forse sacrificale, che avanza da sinistra a destra: un uomo conduce un bue; dietro di lui, tre uomini e tre donne portano vari oggetti (uno scrigno, una cesta, ecc.) che potrebbero essere delle offerte, e altri due uomini sostengono un palo al quale è sospesa una situla. Dopo il gruppo centrale, si nota un uomo che conduce un ariete, seguito da tre uomini e tre donne con dei vasi; dietro, un uomo trasporta una piccola situla e un altro una spada. Un animale (forse un cane) chiude la processione.
  • Fascia superiore. Parata militare, da destra a sinistra. Due cavalieri aprono la sfilata, seguiti da cinque fanti armati di lancia e scudo ovale. Successivamente, dopo il motivo geometrico centrale, avanzano quattro fanti armati di lancia e scudo ovale più piccolo dei precedenti e quattro fanti armati di scudo rotondo; chiudono il corteo quattro uomini con un'ascia in spalla; tra loro e i cavalieri descritti inizialmente troviamo un motivo geometrico paragonabile a quello precedentemente citato.

Vestigia romane di Susa (Piemonte)

 
Le notevoli vestigia romane di Susa, capoluogo dell'omonima valle in Provincia di Torino, comprendono anche una cerchia di mura pressoché intatta, risalente nelle parti più antiche al III secolo e comprendente anche una porta urbis, la Porta Savoia, ancora integra ed utilizzata oggi. Segusio era probabilmente un tempo città celtico-ligure, capitale del regno dei Cozii. Le indagini archeologiche parlano di una città sviluppatasi nella piana ai piedi della rocca che ospitava il Pretorium e l'Arco di Augusto, quest'ultimo simbolo dell'alleanza tra Celti e romani. La cinta muraria è stata costruita per difendere Susa, porta di accesso all'Italia dal Nord-Europa, dai possibili attacchi dei barbari, probabilmente intorno al terzo secolo, secondo le evidenze archeologiche modificando l'assetto urbano preesistente). Le mura sono state costruite variando l'assetto urbano della città di Susa tagliandone fuori ampie porzioni, come ad esempio il foro. La cerchia dà alla città romana un peculiare assetto triangolare, ancora oggi dibattuto dagli studiosi. Un lavoro fatto in urgenza, come testimoniano gli ampi reimpieghi di materiale lapideo e addirittura marmi (i torsi loricati al Museo di Antichità di Torino sono stati recuperati dalla cinta segusina). La cinta muraria comprendeva cortine a sacco in muratura (pietrame), riempite con materiali di recupero e intervallate da torri di raccordo aperte sul lato interno. Il perimetro murario di Susa ha una peculiare forma triangolare, sul quale si aprivano le diverse porte di origine romana. Caposaldo della cinta doveva essere già in epoca romana il palacium che sorgeva sulla rocca della città. Facendo fare immaginariamente perno sul castello al triangolo costituito dalle mura, si può percorrere a sud il primo cateto, la cinta munita di torri lungo la zona dei Fossali (così chiamata per un antico vallo che proteggeva le mura) che culmina a oriente nella Porta di Piemonte. Sulla parte che da est va a nord, ipotenusa immaginaria del triangolo di cinta, la cerchia si avvicinava gradualmente al fiume della Valle di Susa, la Dora Riparia. Nel tratto più vicino al fiume, sullo spigolo nord-ovest, le mura fanno angolo con l'altro cateto, che va di nuovo a impostarsi sul castello e sul quale si apre la occidentale Porta Savoia.
Nel 312 Costantino conquistò la città, alleata con Massenzio. Intorno al X secolo il palacium sulla rocca dovette essere stato sostituito dal castello medioevale. Il primo recinto venne munito di altre porte fortificate da permettere le comunicazioni con l'esterno, come quella che doveva sorgere nei pressi della chiesa di Santa Maria Maggiore e della Casa dei Canonici. Sulla spianata a ovest delle mura dovette in seguito sorgere un secondo caposaldo, la torre del Vescovo, detta di S. Andrea.
La cerchia di mura non racchiudeva nel medioevo il cosiddetto Borgo dei Nobili, sorto lungo di fronte alla Porta di Piemonte e probabilmente attraversato dal percorso del tumultuoso rio Gelassa. Un secondo recinto, racchiudeva gli spazi della città occupati dai nobili e probabilmente dai mercanti. Rimangono quali vestigia di un tempo che fu, antichi portali di palazzi nobiliari e una casa-forte simile per certi versi alla Casaforte di Chianocco.
Rimaneggiamenti e adattamenti sono stati compiuti durante il Medioevo. Inoltre, stando alle notizie tramandate dal Settecento, l'altezza delle mura deve essere stata dimezzata da 12 a 6 metri. Analoga sorte, ma con un ribassamento meno cospicuo, ha subito la Porta Savoia, mentre in epoca imprecisata sono andate distrutte quasi del tutto le altre due porte urbane.
Le mura si presentano oggi in un buono stato di conservazione per la maggior parte del loro tracciato secondo alcuni studiosi uno dei migliori esempi conservati di città fortificata gallica della tarda antichità: il perimetro murario è facilmente visibile ed in gran parte ancora in opera per lunghi tratti. La parte sud-est è stata manomessa con interventi del primo ‘900, ma i vicini “fossali” mantengono il fascino antico. Le mura aiutano il centro storico di Susa a mantenere la peculiare forma urbis medievale della città che è passata pressoché indenne attraverso i secoli, nonostante alcune ricostruzioni settecentesche abbiano fatto perdere esempi edilizi certo importanti dell'età di mezzo, come la Pieve battesimale di Santa Maria Maggiore e il collegato ospizio per i pellegrini, la domus helemosinaria della Via Francigena del Moncenisio.

Museo archeologico comunale di Artimino (Toscana)

 
Il Museo archeologico comunale di Artimino nel comune di Carmignano è nato per raccogliere ed esporre i reperti provenienti dai numerosi siti archeologici dal territorio circostante, prevalentemente del periodo etrusco. Il museo ha sede nel borgo medioevale di Artimino, una frazione del comune di Carmignano (Prato).
Il Museo Archeologico Comunale fu inaugurato nel 1983 per ospitare i materiali degli scavi archeologici del territorio e trovò posto al piano seminterrato della Villa Medicea. Successivamente fu ampliato nel 1987 e nel 1992 per accogliere reperti che coprono un arco cronologico che va dal VII secolo a.C. alla prima età romana imperiale e che provengono dagli scavi che proprio in quegli anni continuavano con successo nelle varie aree archeologiche del territorio comunale:
  • L'Area urbana di Artimino posta sul crinale tra il borgo medievale e la Villa Medicea, ed in particolare l'area sacra posta nelle vicinanze della cosiddetta "Paggeria",
  • Le Tombe di Boschetti ed il Tumulo di Montefortini.
  • La Necropoli di Prato Rosello ed il vicino Tumulo di Grumaggio.
L'area archeologica di Pietramarina
Dal 2011 il museo è stato riallestito nel borgo di Artimino, nelle antiche stalle granducali, addossate all'esterno della cinta muraria. Nel 2013 il Museo Archeologico di Artimino ha ottenuto dalla Regione Toscana il riconoscimento di “museo di rilevanza regionale“.
Il museo vanta una collezione di reperti, soprattutto etruschi che sebbene piccola, è composta da alcuni pezzi di grande pregio e interesse scientifico, anche a causa della posizione dei luoghi di ritrovamento, sul margine settentrionale dell'area di diffusione della cultura etrusca. In effetti la scoperta di città etrusche ad Artimino e a Gonfienti, nei pressi di Prato, hanno rappresentato una svolta negli studi sulla presenza etrusca a nord dell'Arno e degli itinerari tra l'Etruria interna e gli insediamenti etruschi oltrappenninici.
Dagli scavi dell'area urbana di Artimino provengono oggetti d'uso comune, utensili e minuti componenti edilizi. I reperti più importanti e conosciuti provengono invece dalle aree sepolcrali poste intorno ad Artimino come il Tumulo di Montefortini, la Tomba dei Boschetti e soprattutto la Necropoli di Prato Rosello dalla quale proviene un elegante incensiere in bucchero a traforo (nella foto a sinistra - foto di Paolo Nannini), scelto come simbolo del museo e il Tumulo di Grumaggio dal quale proviene uno splendido corredo per il cerimoniale del vino, con un grande cratere per la mescita (foto in alto), decorato a figure rosse con personaggi legati ai riti iniziatici dionisiaci, in ottime condizioni di conservazione, e il corrispettivo servizio da simposio in bronzo, con tutta una serie di contenitori e strumenti per la preparazione, il filtraggio e il servizio del vino. Dalla Tomba del Guerriero, provengono una spada e una lancia in ferro. Nel museo sono esposte anche alcune steli e cippi arcaici, rinvenuti nell'area del podere Grumolo, oltre a delle urnette cinerarie del periodo ellenistico.


Barca lignea di Hanson - REGNO UNITO

 
La barca lignea di Hanson è una barca dell'età del bronzo trovata in una cava di ghiaia a Shardlow, nel Derbyshire ed oggi esposta nel Derby Museum and Art Gallery.
La barca è stata scoperta presso la cava di ghiaia Hanson a Shardlow, un villaggio a sud di Derby nel 1998. La barca era quasi completa, ma venne leggermente danneggiata dall'escavatrice prima che la sua importanza venisse compresa; è stata datata come risalente a circa il 3500 a.C. . Purtroppo la barca dovette essere tagliata in piccole parti in modo da poter essere trasportata e conservata perché altrimenti era troppo pesante; gran parte del peso era dovuto all'umidità, che aveva conservato il legno e lo aveva trattenuto dal marcire. Il legno è stato quindi lentamente asciugato al York Archaeological Trust dopo essere rimasto immerso per 18 mesi in una soluzione di poli etilene glicolico, prodotto chimico che penetrando ha dato consistenza al materiale.
Insolitamente la barca aveva ancora un carico di arenaria Bromsgrove che era stata estratta a Kings Mills, nelle vicinanze. La pietra si presume che fosse destinata al rafforzamento di una strada rialzata che attraversava il fiume Trent.
I procedimenti di conservazione della barca sono costati £ 119.000 ed è ora esposta nel Derby Museum. Cinque anni più tardi una seconda barca di legno è stata scoperta nella stessa cava, ma è stata reinterrata in modo che possa essere preservata.


Bir Hima - ARABIA SAUDITA


Bir Hima
 (in arabo بئر حما) è un sito di arte rupestre nella provincia di Najran, nel sud-ovest dell'Arabia Saudita, a circa 200 km a nord della città di Najrān. Antico sito del neolitico e del paleolitico, il complesso di Bir Hima copre il periodo di tempo compreso tra il 7000 e il 1000 a.C. Bir Hima contiene numerosi avvallamenti il cui tipo è simile dall'Arabia settentrionale allo Yemen.
È stato designato, come parte dell'area culturale di Ḥimā, quale sito del patrimonio dell'umanità dell'UNESCO nel luglio 2021.


L'antica storia dell'occupazione umana di questo habitat è attribuita alle sue risorse di selvaggina, acqua e terreno calcareo. L'arte rupestre dell'Arabia Saudita, che ha trovato apprezzamento negli ultimi anni, è considerata tra le più ricche al mondo insieme ad altri esempi rinvenuti in Australia, India e Sudafrica. L'area fu esplorata dalla spedizione Philby-Ryckmans-Lippen, del 1951, e pubblicata da E. Anati (1969-1972). È stato quindi notato che le immagini sulle rocce erano incise nella formazione di arenaria e datate 300-200 a.C. Il suo ricco patrimonio di incisioni rupestri ha attirato l'attenzione del Dipartimento delle Antichità dell'Arabia Saudita solo dopo il 1976, quando il sito di Jubba e altri sono stati indagati. Uno dei membri della spedizione che ha studiato questa forma d'arte ha trovato un sito a ovest degli antichi pozzi di Bir Hima dove ha registrato 250 immagini.

Bir Hima, che è un antico sito paleolitico e neolitico, si trova a nord di Najran ed è classificato come sito del Paleolitico inferiore o Olduvaiano. Oltre ai petroglifi, qui sono stati trovati anche strumenti di intaglio utilizzati per quest'opera d'arte, realizzati con materiali come quarzite, andesite e selce. Le immagini sembrano essere state incise con il bronzo. I petroglifi annotati, quando furono trovati inizialmente negli anni 1950, consistevano in pugnali e spade, archi con frecce con punte di freccia trasversali, spade a falce e bastoni da tiro. Queste raffigurazioni sono state interpretate come simboliche dell'animismo spirituale.

Bir Hima, come parte di Najran, è un tesoro di petroglifi, eclissato solo da quelli trovati nella regione di Jubba. Qui sono stati identificati 100 siti. Nell'area di Najran sono state registrate fino a 6.400 illustrazioni umane e animali, tra cui più di 1.800 cammelli e 1.300 raffigurazioni umane. In questo importante sito di arte rupestre, oltre alle raffigurazioni di umani, giraffe e altri animali, sono registrate anche le iscrizioni del VI secolo di Dhu Nuwas, un re himyarita che occupò Najran. Un certo numero di frammenti articolati di cammelli sono stati scavati nel sito 217-44. Mentre le sue incisioni sono probabilmente molto precedenti a quelle di Hunters Palette, il guerriero Bir Hima, armato di arco, è quasi identico agli uomini sulla Hunters Palette. Sono state trovate anche migliaia di iscrizioni, in varie scritture tra cui l'alfabeto al-musmad, aramaico-nabateo, sud-arabo, greco e islamico.

Arena di Pola - CROAZIA

 

L'arena di Pola (in croato: Pulska Arena), chiamato anche anfiteatro di Pola, è per grandezza il sesto nel suo genere. Il suo nome deriva dal latino ărēna, che indica la sabbia che ricopriva le platee degli anfiteatri romani. Tra i polesi, il monumento emblema della città, dal grandissimo valore simbolico ed affettivo, è chiamato solitamente Rena, dal dialetto istroveneto.
L'anfiteatro venne costruito tra il 27 a.C. ed il 68 d.C. sotto l'imperatore Augusto, prelevando il materiale dalle note cave di pietra situate alla periferia della città ed ancora oggi esistenti. In seguito, l'imperatore Vespasiano, che aveva commissionato il Colosseo a Roma, lo fece ampliare (secondo la leggenda, egli voleva rendere omaggio a Cenis, liberta di origine istriana nativa di Pola, già segretaria di Antonia - figlia minore di Marco Antonio triumviro - e sua amante, che l'imperatore tenne in conto di moglie per un trentennio, prima e dopo la morte della moglie).
L'anfiteatro, in pietra calcarea bianca, è articolato in tre ordini grazie alla sovrapposizione di due serie di archi; una parete alleggerita da aperture quadrangolari corona l'edificio formando il terzo ordine.
Dopo l'ampliamento di Vespasiano, l'ovale della pianta raggiunse le dimensioni di 132,5 m x 105. Visto dal litorale, ha un'altezza di 32,5 m, ma dato che la costruzione si erge su un pendio, il lato opposto al mare (ad est) è di altezza notevolmente ridotta: presenta solo il secondo ordine, di 72 arcate. Sempre a causa della pendenza del terreno, dalla parte del litorale gli ordini si appoggiano su un massiccio basamento.
Degli avancorpi distribuiti sulla circonferenza danno ritmo alla costruzione.
In origine la cavea, divisa in due meniani, comprendeva quaranta gradini per ospitare fino a 23.000 spettatori.
Come il Colosseo, veniva utilizzato prevalentemente per combattimenti di gladiatori o per naumachie. Si presume che sia rimasto intatto, seppure in uno stato di sempre maggiore trascuratezza ed abbandono, fino al XV secolo. In seguito sarebbe stato saltuariamente utilizzato come cava di pietra per alcune costruzioni della Repubblica di Venezia, oltreché degli abitanti locali. Secondo una tarda tradizione storiografica, sarebbe salita all'onore delle cronache nel 1583 quando al Senato veneziano, versando Pola in uno stato di sempre maggior decadenza e desolazione, si propose di smontare l'Arena pezzo per pezzo e di ricostruirla a Venezia. A sventare tal proposito sarebbe stata l'azione del senatore veneziano Gabriele Emo e per questo suo impegno, nell'anno successivo la città di Pola pose su una torre dell'Arena, lato mare, una lapide a perenne memoria e gratitudine. In realtà non esiste alcuna prova che la lapide - pur presente in situ - faccia riferimento a questo presunto tentativo: non risulta alcun documento coevo che parli dello smontaggio o della demolizione dell'Arena, mentre le prime notizie in tal senso sono apparse solo nel XIX secolo, per opera di storici o cronachisti locali.
Fu oggetto di ampio restauro durante l'epoca napoleonica.
Viene utilizzato tutt'oggi, similmente all'Arena di Verona: è un ambito centro di teatro e musica e nel 1993 ha ospitato il festival di Pola e gli Histria festivals, oltre a una puntata di Giochi senza frontiere nel 1981. Ogni estate è il palco privilegiato del Pola Film Festival. Personaggi di fama mondiale come Sting, Julio Iglesias, Anastacia, Luciano Pavarotti, Grace Jones, Norah Jones, Alanis Morissette, David Gilmour si sono esibiti in questa arena. Attualmente, è in grado di ospitare cinquemila spettatori.

Firomaco di Atene

 
Firomaco
 (in greco antico: Φυρόμαχος) di Atene (Atene, ... – ...; fl. III secolo a.C.) è stato uno scultore e pittore greco antico, attivo a Cizico, a Delo e a Pergamo, frequentemente in collaborazione con Nicerato, come testimoniato da rinvenute iscrizioni su basi marmoree.
La cronologia di Firomaco è dibattuta e posta variamente dagli studiosi tra la fine del IV secolo a.C. e l'inizio del II, ma le datazioni più basse sono improbabili: nel II secolo a.C. egli è già inserito da una fonte anonima (Laterculi Alexandrini) tra i grandi bronzisti dopo Mirone, Policleto e Lisippo.
Plinio ne pone il floruit alla 121ª olimpiade (296-293 a.C.), negli anni in cui «l’arte decadeva» (Nat. hist., XXXIV, 51), secondo la fonte di Plinio, ossia si allontanava dallo stile classico sviluppando nuove forme che nella conquista dello spazio, nell'eccentricità della struttura, univano alla scuola attica gli insegnamenti sicioni e lisippei; innovazioni formali che sarebbero state sviluppate in seguito dalla scuola di Pergamo. Poco oltre Plinio nomina Firomaco insieme a Epigono, Stratonico di Cizico e Antigono di Caristo come autore delle galatomachie eseguite per gli Attalidi a Pergamo (Nat. hist., XXXIV, 84).
Lo si dice autore della statua di Asclepio per il santuario di Pergamo che Prusia I di Bitinia portò via nel 156 a.C., un'attribuzione che lo lega alla politica culturale di Filetero (282-263 a.C.). Un suo Priapo in ginocchio davanti a una Carite è ricordato in un epigramma di Apollonide (Antologia greca, II, 120, 9) e Plinio ne ricorda una quadriga con Alcibiade, realizzata forse in collaborazione con Nicerato (Nat. hist., XXXIV, 8o).
Della sua attività come pittore Plinio ne ricorda gli insegnamenti ad un altrimenti sconosciuto Milone di Soli (Nat. hist., XXXV, 146).
La copia di età repubblicana di un'iscrizione che ricorda Firomaco come autore del ritratto di Antistene, noto attraverso diverse copie, è stata ritrovata a Ostia nel 1969. L'iscrizione doveva appartenere alla base di una statua bronzea. Le copie del ritratto, una delle quali riportando il nome del filosofo ne ha permesso l'identificazione, rimandano a influenze di tradizione lisippea, con quell'esasperazione dei tratti fisionomici che darà vita al barocco pergameno.


(nella foto, Ritratto di Antistene, una delle copie dall'originale attribuito a Firomaco. Roma, Museo Pio-Clementino, inv. 288)


Damofonte di Messene

 
Damofonte di Messene
(Messene, II secolo a.C. – II secolo a.C.) è stato uno scultore greco antico appartenente al periodo del medio ellenismo.
Fu uno dei primi classicisti e la sua attività segna il momento in cui la perdita di vitalità della scultura ellenistica cede il passo alla rievocazione delle opere di epoca classica, quella che le fonti di Plinio definirono "la rinascita dell'arte" datata alla metà del II secolo a.C. (v. Neoatticismo). Le opere di Damofonte sono state descritte da Pausania, la più nota è il gruppo scultoreo colossale eseguito per il tempio di Despoina a Licosura in Arcadia, i cui frammenti, rinvenuti nel 1889, sono conservati in parte nel museo locale e in parte nel Museo archeologico nazionale di Atene. L'opera, riprodotta su monete, rappresentava Despoina con la madre Demetra alla presenza di Artemide e del titano Anytos, tutore di Despoina.

Eutichide

 
Eutichide
 (in greco antico: Εὐτυχίδης, Eutychides; Sicione, ... – ...; fl. 300 a.C. circa) è stato uno scultore e pittore greco antico, allievo di Lisippo e attivo intorno al 300 a.C. circa, soprattutto come bronzista.
La data entro la quale Plinio indica il floruit di Eutichide (la 121ª Olimpiade) corrisponde alla commissione che egli dovette ricevere per la creazione della statua commemorativa della fondazione di Antiochia. L'opera ci è nota attraverso riproduzioni su gemme, monete e opere di toreutica, grazie alle quali è stato possibile identificarla in alcune copie di epoca romana: tra queste la statuetta marmorea ai Musei vaticani (nella foto). La Tyche, personificazione della città, era un colosso bronzeo ed era rappresentata seduta su una roccia con ai piedi il fiume Orontes. Doveva essere una figura potente e monumentale, dotata di un ritmo chiuso e spiraliforme, movimentato dalle pieghe del manto, dall'incrociarsi delle gambe e dalla torsione del busto.
Gli si attribuiscono anche una statua del fiume Eurotas (Nat. hist., XXXIV, 78), descritta anche in un epigramma della Antologia palatina (IX, 709), la statua di un atleta fanciullo vincitore a Olimpia (Pausania, VI, 2, 6), un Dioniso confluito in seguito nella collezione di Asinio Pollione (Nat. hist., XXXVI, 34) e il dipinto di una Nike su una quadriga (Nat. hist., XXXV, 141).

giovedì 30 novembre 2023

Nuraghe La Prisgiona, Arzachena (Sardegna)

 

Il nuraghe La Prisgiona è un sito archeologico nuragico (occupato dal XIV fino al IX secolo a.C.), situato nella valle di Capichera nel comune di Arzachena, in provincia di Sassari. Il complesso è composto da un nuraghe e da un villaggio di circa 90-100 capanne, distribuito su cinque ettari. Per via della sua grande estensione e del numero di edifici il sito è considerato unico nel contesto nuragico gallurese. Nelle vicinanze è situata inoltre la tomba dei giganti di Coddu Vecchiu. Il complesso nuragico è stato oggetto di diverse campagne di scavo condotte dalla archeologa Angela Antona.
Il nuraghe, di tipo complesso a thòlos, tipologia piuttosto rara in Gallura, controlla un'area di diversi chilometri quadrati; il suo ruolo prominente è confermato dalla dimensione, dalla complessità della sua stessa struttura architettonica. Secondo Giovanni Lilliu le maestranze che lo costruirono provenivano probabilmente dalla regione del Logudoro.
L'edificio ha una torre centrale (mastio) e due torri laterali che formano un bastione. L'ingresso del mastio è contraddistinto da una massiccia architrave di 3,20 m di lunghezza. La camera centrale possiede una falsa cupola alta più di 8 metri, ed è dotata di tre nicchie. Il bastione è ulteriormente protetto da una muraglia che delimita un ampio cortile.
All'interno del cortile è presente un pozzo di oltre 7 metri di profondità e ancora oggi funzionante. Nella fondo del pozzo sono stati rinvenuti numerosi reperti ceramici. Tra questi ci sono molte tipologie askoidi, abbellite con elaborate decorazioni e recanti tracce di riparazioni, indizi che danno prova del loro valore. Gli askoi non erano destinati a contenere semplicemente i liquidi, ma sono chiaramente destinati ad altri usi.
La "capanna delle riunioni" è un edificio a pianta circolare che si trova, forse non casualmente, a breve distanza dal pozzo. La panchina interna a forma di anello poteva ospitare 12 persone. L'importanza del luogo è ulteriormente confermata dalla scoperta di un vaso di forma e decorazione piuttosto inconsueta. Il vaso era probabilmente utilizzato per contenere una bevanda, forse un decotto o un distillato, il cui consumo era forse limitato ad un piccolo numero di persone, probabilmente le 12 persone che partecipavano alle riunioni.
Il villaggio si estende intorno al nuraghe e consiste di circa 90-100 capanne, anch'esse a pianta circolare. Durante lo scavo delle primi 15 capanne, gli archeologi notarono immediatamente la loro organizzazione in piccoli blocchi tra i quali si intersecano una serie di viuzze lastricate. Un blocco composto da 5 capanne rivelò specifiche attività artigianali, permettendo di approfondire come avvenisse la produzione di manufatti su larga scala, destinati non solo alle persone e le famiglie del luogo ma un mercato più ampio.
Sebbene gran parte del villaggio sia ancora sotto terra, la parte rimessa alla luce suggerisce che era abitato da una comunità dinamica, organizzata e che intesseva rapporti con gli altri popoli del Mediterraneo.

(foto da Arzachena Turismo)

Nuraghe Is Paras, Isili (Sardegna)

 


Il nuraghe Is Paras ("i frati"), si trova ad Isili, un paese della provincia del Sud Sardegna, nella regione storica del Sarcidano, in una posizione strategica a dominio dei sottostanti territori aperti verso Occidente. La sua forma è quella di un nuraghe trilobato, formato cioè da un bastione triangolare con tre torri agli angoli. Risale al XV secolo a.C. e originariamente era un nuraghe monotorre, di pianta circolare dal diametro di 12,50 metri per 12,70 metri, edificato con blocchi di calcare bianco tagliati in modo piuttosto regolari.
L'ingresso si trova esposto a mezzogiorno ed è sopraelevato rispetto al piano di campagna. Tramite il corridoio si accede alla camera principale voltata con una thòlos alta ben 11,80 metri di altezza, la più elevata in tutta la Sardegna nuragica e seconda, per quel periodo, solo alla tomba di Agamennone.
Il centro della camera è occupato da un pozzo circolare, mentre su una parete, in posizione sopraelevata, si trova l'accesso del vano scala per accedere ai piani superiori, i quali erano raggiungibili dal pianterreno probabilmente tramite una scala in legno.
Successivamente, tra il secolo XIII e il XII a.C., fu aggiunta una torre più piccola, fu spostato l'ingresso ad est e poi creato un cortile tra le torri.
Verso il XI secolo a.C. furono costruite altre due torri che furono raccordate tramite bastioni. Tutto il complesso fu successivamente racchiuso da un antemurale munito a sua volta di altre torri. All'esterno si trovava il villaggio nuragico, attualmente non ancora scavato.
Gli scavi del complesso nuragico risalgono al 1974 ad opera dell'archeologa Maria Ausilia Fadda. Sono poi proseguiti nel 1975-1977, sotto la direzione di Alberto Moravetti.
Molto resta ancora da scavare e l'attuale campagna è condotta dall'archeologa Tatiana Cossu.

(foto da Sardegna verso Unesco)

Nuraghe Nieddu, Codrongianos (Sardegna)

 
Il nuraghe Nieddu è un sito archeologico nuragico, risalente al II millennio a.C., situato nel comune di Codrongianos, in provincia di Sassari. È collocato su una piccola altura da cui si può apprezzare il panorama circostante. Si tratta di un nuraghe monotorre di circa 11 metri d'altezza con copertura a tholos. Venne costruito utilizzando grandi blocchi di basalto scuro che, assieme ai licheni di color giallo, ne caratterizzano la colorazione (da cui deriva il nome, infatti nieddu in lingua sarda significa nero, scuro).
Nella torre sono presenti due aperture: un ingresso nella base, ancora parzialmente interrato e, quasi sulla sommità, un finestrone.

Complesso nuragico di Albucciu, Arzachena (Sardegna)

 

Il complesso nuragico di Albucciu è un sito archeologico che si trova nel comune di Arzachena (SS), a circa 2 km dall'abitato in località Malchittu; è composto da un nuraghe, un villaggio di capanne circolari ed una tomba dei giganti. Il nuraghe è addossato ad una formazione granitica che occupa una leggera sopraelevazione sul terreno che condiziona forma e andamento delle strutture della costruzione nuragica.
La costruzione ha una pianta vagamente rettangolare con angoli arrotondati e ingresso sul lato est nel quale il nuraghe ha il suo massimo sviluppo costruttivo. Le dimensioni sono di 23,50 m x 15,50 m circa con l'asse maggiore orientato sulla direttrice nord-sud.
Le murature sono realizzate con blocchi di granito medio-grandi non rifiniti e disposti su file irregolari. Otto caratteristici mensoloni sporgenti oltre il filo della muratura (originariamente erano sicuramente in numero maggiore), coronano la sommità dell'edificio ed avevano lo scopo di ostacolare la scalata alla fortezza dall'esterno.
Impronte lignee nei grumi d'argilla alla base del nuraghe fanno pensare che i mensoloni sorreggessero una balaustra in legno che raffinava le difese della costruzione.
L'ingresso, decentrato rispetto alle mensole e sopraelevato rispetto al piano di calpestio esterno immette in un andito di forma trapezoidale ed era originariamente regolato dall'apertura o chiusura di una porta manovrabile probabile dal terrazzo sovrastante tramite una corda.
Sul fondo dell'andito, che corrisponde al lato maggiore del trapezio si aprono due ingressi, che conducono a sinistra verso uno stretto corridoio che doveva servire come magazzino, e a destra verso una camera ellittica che rappresenta l'ambiente più grande del nuraghe a livello del terreno.
Sul lato opposto rispetto all'ingresso della camera si apre un'altra porta sormontata da un sottile architrave alleggerito da un ampio finestrino di scarico e che immette in un'altra sala di forma ellittica.
Le pareti di quest'ultima sono ricavate sfruttando la roccia che emerge in più punti ed una porticina rettangolare permette tramite un basso corridoio di uscire dalla parete settentrionale del nuraghe.
Di fronte alla porta d'ingresso, nell'andito stesso, si apre la scala, articolata in due rampe intervallate da un pianerottolo, che porta verso il livello superiore della costruzione, dove si apre un ampio terrazzo. Qui si trovava l'ambiente più grande della costruzione, una camera a pianta sub-circolare divisa in due piani da un soppalco ligneo alla quale si accedeva dal terrazzo stesso e le cui pareti sono quasi interamente crollate.
Dal terrazzo è possibile accedere ad una torre situata nell'angolo nord nel cui interno sono ricavate due scale che portano rispettivamente a nord, verso le formazioni rocciose naturali e ad ovest, nello spessore murario, in un ambiente ormai crollato.
Un'altra costruzione, vagamente rettangolare, completa il quadro del terrazzo, che contava quindi tre corpi distinti.
Durante la seconda guerra mondiale parte del terrazzo venne adibita a piazzola per una mitragliatrice, cosa che ne alterò, probabilmente la struttura originaria.
Il nuraghe Albucciu viene considerato un nuraghe di tipo misto, con tratti caratteristici dei nuraghi a thòlos e di quelli "a corridoio". I caratteri "protonuragici" si manifestano nelle misure massicce della base irregolare e nei soli 7 metri di altezza residua massima e nella disposizione orizzontale degli spazi. L'influenza del nuraghe a thòlos si nota nel taglio trapezoidale delle porte, nell'accorgimento dello spiraglio di scarico nella porta d'ingresso, nel condotto, subito dopo l'entrata, per farvi scorrere la fune su cui oscillava la pesante lastra del portone, nella teoria delle mensole-ballatoi e più decisamente nella tecnica della falsa cupola utilizzata in alcune nicchie.
L'"attività" del nuraghe Albucciu si colloca tra la media e la tarda età del bronzo, con una breve ripresa, dopo un provvisorio abbandono, durante l'età del ferro
A circa un'ottantina di metri dal nuraghe, a nordest è situata la tomba dei giganti detta "tomba Moru". La costruzione è stata scoperta nel febbraio del 1988 durante i lavori di allargamento di una strada.
Una serie di lastroni delimitano un vano interno di forma rettangolare ricavato all'interno di un tumulo di pietrame, rettangolare anch'esso, contenuto esternamente da un filare di altri lastroni litici e da due bracci di muratura.
Il cumulo, lungo 11,30 m e largo 5,20 si estende sull'asse est-ovest, e il corridoio ricavato al suo interno ha una lunghezza di 9,10 m.
Delle lastre che costituivano la copertura ne rimane oggi solo una.

(foto di apertura di Helga Steinreich)
(foto della Tomba Moru dal sito Arzachena Turismo)


Pasitele

 
Pasitele
 (in greco antico: Πασιτέλης, Pasitéles; ... – ...; fl. I secolo a.C.) è stato uno scultore, toreuta e scrittore greco antico, forse originario di Taranto e attivo nel I secolo a.C. Plinio scrive che «Pasiteles [è] nato in una località costiera della Magna Grecia» (Nat. hist., XXXVI, 39-40) ed è vissuto nell'epoca di Pompeo Magno (Nat. hist., XXXVI, 156).
Noto come scultore in bronzo e marmo, viene ricordato da Cicerone anche come toreuta (De Divinatione I.36.79). Nell'89 a.C. divenne cittadino romano grazie alla lex Plautia Papiria. Pasitele viene più volte citato da Plinio come autore dei «Quinque volumina nobilium operum in toto orbe» (trad. lett.: «Cinque volumi di opere d'arte famose in tutto il mondo»); non ci sono giunte sue opere né basi firmate, ma la sua attività come scrittore sembra porlo nella tradizione di Senocrate di Sicione e Antigono di Caristo. In questa stessa tradizione, quella di Lisippo e Lisistrato, è possibile leggere anche il passaggio in cui Plinio sembra descriverlo come studioso della natura che lo circondava, narrando un episodio in cui lo scultore rimase quasi ucciso da una pantera mentre ritraeva un leone in gabbia. L'unica sua opera ricordata da Plinio a Roma è uno Iuppiter crisoelefantino (in avorio ed oro) nel tempio di Metello sul Campo Marzio.
A Roma sembra essere stato a capo di una scuola della quale ci sono giunti lavori firmati da almeno due generazioni di allievi: lo scultore Stefano che si firma appunto Πασιτέλους μαθητής (“Discepolo di Pasitele”) e l'allievo di questi Menelao. Attraverso le opere dei suoi allievi è stato ipotizzato per Pasitele stesso un indirizzo neoattico, che confermerebbe in qualche modo la tematica del trattato ricordato da Plinio.

(nella foto, statua di Atalanta del I sec. a.C., talvolta attrobuita a Pasitele e conservata nei Musei Vaticani)

Antenore

 
Antenore
 o Antenor (Atene, VI secolo a.C. – ...) è stato uno scultore greco antico, attivo tra il 530 e il 510 a.C.  . La figura di Antenor è una delle poche dell'epoca arcaica ad emergere con una certa chiarezza, attestata da fonti letterarie ed epigrafiche. Il padre, come si legge sulla base della sua opera più nota ovvero la kore Acropolis 681, sembra essere stato il pittore Eumares, ricordato da Plinio il Vecchio di cui ci resta una dedica per un'offerta fatta sull'acropoli di Atene datata circa 520 a.C. Resta anche parte del nome del fratello di Antenore, anch'egli scultore.
Pausania (Paus. 1.8.5) ricorda Antenor come autore del perduto gruppo bronzeo dei Tirannicidi Armodio e Aristogitone, che uccisero Ipparco, nel 514 a.C. L'opera venne posta nell'agorà ateniese e divenne il simbolo della libertà. Questo gruppo fu trafugato dai Persiani durante l'occupazione di Atene nel 480 a.C. (vedi Guerre Persiane) e restituito agli ateniesi da Alessandro Magno (secondo lo storico Arriano) o da Seleuco I Nicatore (secondo lo scrittore romano Valerio Massimo).
La datazione dell'opera è posta generalmente intorno al 510 a.C., ma alcuni studiosi, tra i quali il Raubitschek, hanno avanzato l'ipotesi che possa essere datata ad un'epoca immediatamente posteriore alla battaglia di Maratona.
L'unica sua opera rimasta in buono stato di conservazione è la maestosa kore (nella foto), conservata nel Museo dell'Acropoli ad Atene. Scolpita da Antenore per il vasaio Nearchos che la dedicò ad Atena è la più grande delle korai a noi giunte; il confronto con le figure femminili del frontone orientale del Tempio di Apollo a Delfi sembra supportare l'attribuzione che è stata da alcuni studiosi posta in dubbio. L'imponenza della figura e il trattamento a spigolo delle pieghe del panneggio sembrano elementi stilistici tipici di un bronzista quale era l'autore del monumento ai Tirannicidi. La kore è datata tra il 530 e il 520 a.C., anteriormente al frontone di Delfi.
Sono stati attribuiti alla bottega di Antenor, come già accennato, i frontoni del tempio di Apollo a Delfi, costruito dopo la morte di Ipparco (Herodoto 5.62) e finanziato dalla famiglia degli Alcmeonidi in esilio. Il Karouzos, in un lavoro del 1961 sul kouros di Aristodikos avvicina quest'opera ad Antenor insieme alla kore di Euthydikos e alla kore Acropolis 673.

Menofanto

 
Menofanto
 (in greco antico Μηνόϕαντος) (... – ...; fl. I secolo a.C.-I secolo) è stato uno scultore greco antico, attivo a Roma tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del I secolo d.C..
Lo scultore è noto solo per aver firmato con il suo nome una statua del tipo della Afrodite pudica, simile alla Venere capitolina.
L'iscrizione, in lingua e caratteri greci ("ἀπὸ τῆc / ἐν Τρῳάδι / Ἀφροδίτηc / Μηνόφαντοc / ἐποίει"", trascritta "Apo tes / en troadi / Afrodites / Menofantos / epoiei"), riferisce inoltre che si tratta di una copia da un originale di Alessandria Troade, probabilmente dell'inizio dell'epoca ellenistica (fine del IV - inizi del III secolo a.C.).
La statua, rinvenuta presso il monastero di San Gregorio Magno al Celio nel 1760, fu in possesso del principe Chigi e venne descritta dal Winckelmann. In seguito sarà esposta presso il Museo nazionale romano di palazzo Massimo.

Naucide

 
Naucide
 (in greco Ναυκύδης; V secolo a.C. – IV secolo a.C.) è stato uno scultore greco antico, attivo tra il 420 e il 390 a.C. circa (Plinio il Vecchio, Nat. hist., XXXIV, 50) e appartenente alla scuola policletea di prima generazione. Pausania il Periegeta lo definisce figlio di Motone e fratello di Policleto[1] (II, 22, 7), del quale fu anche maestro (VI, 6, 2). Suo allievo fu anche Alipo (Paus., VI, 1, 3). Numerose sono le opere assegnategli dalle fonti e tra queste Plinio ricorda un Hermes, un discoforo e un sacrificatore di ariete (Nat. hist., XXXIV, 80); si ricordano ancora una Ebe per l'Heraion di Argo in tecnica crisoelefantina (Paus., II, 17, 5), una Ecate bronzea presso il tempio di Ilizia ad Argo e due statue del lottatore Cheimon, queste ultime opere databili all'ultimo venticinquennio del V secolo a.C. (Paus., VI, 9, 3).
L'identificazione del discoforo marmoreo dei Musei Vaticani (Sala della Biga 2349, restaurato con testa non pertinente) con l'opera bronzea attribuita dalle fonti letterarie antiche a Naucide, datata ai primi anni del IV secolo a.C., risale a Ennio Quirino Visconti. La tipologia è conosciuta attraverso altre copie; la copia dei Musei Capitolini (nella foto, Centrale Montemartini, Sala Macchine S 1865), pur priva degli arti, potrebbe aver conservato la freschezza dell'originale nel trattamento del volto e dei capelli. Numerosi sono i dettagli policletei, sia nella struttura del corpo, con l'accentuazione di alcuni muscoli, sia nella modellazione e nella posa dell'atleta, derivate dal periodo tardo di Policleto, caratterizzato da maggiore fluidità nel passaggio tra i piani e da una maggiore staticità.
Il giovane sembra rappresentato nel momento di concentrazione che precede l'azione; la figura, non più interessata al contrapposto, è posizionata sulla diagonale, quasi invitando l'osservatore ad un percorso ad arco intorno ad essa per affermarne la tridimensionalità e la presenza nello spazio, superando in tal modo la frontalità e l'idealizzazione del V secolo a.C.

Monte San Calogero (Sicilia)

 

Il Monte San Calogero, o Monte Euraco (in siciliano San Caluòriu), è un monte della provincia di Palermo, tra i comuni di Termini Imerese, Caccamo e Sciara. Il monte si presenta come un poderoso massiccio costituito da calcari e dolomie originatesi dal mesozoico in poi, da strati silicei e dal cosiddetto flysh numidico. Geologicamente è una grossa anticlinale; a nord si affaccia sulla costa tirrenica, mentre a sud-ovest presenta due dorsali. Il rilievo è separato dalle Madonie da un breve pianoro nel territorio di Cerda, nei pressi della foce del fiume Torto.
Il nome del monte deriva dal greco ευ (eu, particella dal significato di "bene, bello") e ράχη (rache, "cresta, dorsale"); da ciò deriva anche il nome latino del monte, Euracus. La forma popolare derivata è Monte Urago.
Ai piedi orientali del monte resta un breve tratto di muro megalitico che per il suo spessore è conosciuto come "Mura pregne" o mura gravide. Questo muro probabilmente era posto a protezione di un villaggio preistorico. Nelle vicinanze esiste anche un piccolo dolmen probabilmente più antico. Secondo la tradizione, nelle sue rupi dimorò San Calogero e in una roccia lasciò l'impronta del suo piede nel cacciare i demoni che travagliavano il monte e i vicini bagni di Termini Imerese. Sulla cima fu edificata una chiesa in onore di Maria Vergine, che ora è dedicata al santo. Di essa rimangono scarsi ruderi perimetrali. Sino alla metà del XX secolo nei pressi della chiesetta era ancora visibile una statua frammentaria di pietra locale raffigurante il santo. Successivamente l'immagine fu gettata nel sottostante ed inaccessibile Canalone del Diavolo. Calogero, καλόγερος, è un vocabolo comune nella lingua greca che letteralmente significa "bel vecchio" o anziano di bell'aspetto e traduce termini generici quali eremita, frate o monaco. Secondo alcuni autori il Calogero di Termini Imerese è forse da identificare con San Teoctisto, abate basiliano di Caccamo che vi dimorò nel IX secolo.

Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...