sabato 17 febbraio 2024

MONDOARKEO cessa momentaneamente le pubblicazioni

 


 MONDOARKEO

si prende una pausa di riflessione.
la scarsa frequentazione del blog
e l'impegno quotidiano di 10-12 post pubblicati
sono inconciliabili, al momento, tra loro.
un grazie al manipolo di affezionati 'lettori'.
speriamo di incontrarci presto con tante novità.

Sergio Albertini


Ceramica apula

 

La ceramica apula è la ceramica a figure rosse prodotta dalla scuola di ceramografi insediatasi a Taras (Taranto) intorno al 430 a.C. e formatasi ad Atene in ambito polignoteo. Sono escluse dalla denominazione le ceramiche indigene messapiche (o, più genericamente, iapigie).
Arthur Dale Trendall e Alexander Cambitoglu hanno distinto la ceramica apula in tre fasi: apulo antico (430-370), apulo medio (370-340), apulo tardo (340-300). La scuola apula termina forse verso i primi anni del III secolo a.C. Esemplari apuli sono stati esportati in altre parti del sud Italia, in Sicilia e sulle coste della Dalmazia; ebbe grande influenza sulla ceramica lucana, campana e pestana. La ceramica di Canosa sembra essere derivata dall'apulo tardo tramite il Pittore di Baltimora.
Dopo una prima fase di stile atticizzante la scuola formò uno stile proprio. Pionieri furono il Pittore della Danzatrice di Berlino e il Pittore di Sisifo. I loro seguaci svilupparono espressioni diverse e coesistenti nell'opera dei maestri dando luogo a due stili distinti: lo stile ornato entro il quale la figura più significativa è stata riconosciuta nel Pittore di Dario, e lo stile semplice che ha il proprio capostipite nel Pittore di Tarporley.
Stile semplice

I soggetti dello stile semplice sono gruppi dionisiaci, giovani e fanciulle; la rappresentazione è sobria e ripetitiva e non comprende più di quattro figure; si svolge su crateri, anfore, pelikai e soprattutto su piccoli vasi. Alla metà del IV secolo a.C. lo stile semplice, attraverso l'opera del Pittore di Atene 1714, acquisisce i colori e l'ornamentazione complessa dello stile ornato. Il Pittore di Atene 1714 si pone anche all'origine della tradizione floreale della scuola apula, forse ispirata alle decorazioni del greco Pausia.
Stile ornato
Lo stile ornato è presente su vasi di più grandi dimensioni, crateri a volute, anfore e loutrophoroi e raggiunge il massimo della floridezza a metà del IV secolo a.C. Gli esemplari più ambiziosi recano soggetti tratti dalla mitologia greca, soggetti tragici e funerari; le scene si dispiegano su più livelli e possono comprendere più di venti figure attorno ad un elemento centrale. Gli spazi vuoti sono riempiti da decorazioni floreali particolarmente studiate ed elaborate, con viste di scorcio e meandri ombreggiati. Nel pieno stile ornato il bianco, il giallo e il porpora sono usati ampiamente.
Il Pittore dell'Ilioupersis, che prediligeva lo stile ornato, fu l'iniziatore, nel secondo quarto del IV secolo a.C., della decorazione con edicola centrale sul lato anteriore e stele su quello posteriore per i grandi vasi funerari.

venerdì 16 febbraio 2024

Sarcofagi clazomeni

 


sarcofagi clazomeni sono sarcofagi fittili, solitamente di forma trapezoidale, con decorazione dipinta, databili tra la metà del VI secolo e il 450 a.C., rinvenuti in gran parte nella necropoli di Clazomene, luogo di origine di questa produzione, o nei dintorni (Smirne, Rodi, Samo, Lesbo e Efeso); il peso notevole di questi oggetti funerari ne limitava la diffusione. La decorazione, a figure nere o a risparmio, è eseguita prevalentemente nel tardo stile delle capre selvatiche tipico della Ionia settentrionale, ma presenta alcune similitudini con la ceramica clazomenia e con lo stile attico.
L'argilla usata per la fabbricazione dei sarcofagi tende al rosso ed è simile a quella usata per i mattoni, l'ingubbio è color crema e la pittura di un marrone scuro; i colori bianco e porpora aggiunti generalmente non sono sopravvissuti al tempo. La tecnica a risparmio è impiegata per le figure di animali dipinte in composizioni simmetriche; i soggetti preferiti a figure nere sono scene di guerra o corse di carri dove l'azione è comunque scarsa e si bada prevalentemente alla simmetria compositiva, mentre sono rare le scene mitologiche. Frequentemente le figure nere sono solo imitative e le linee incise sono sostituite da linee di bianco aggiunto. Su alcuni esemplari più tardi si trovano esperimenti con le figure rosse, o meglio, "figure bianche", risparmiate su fondo color crema.
I sarcofagi di terracotta erano largamente utilizzati nell'oriente greco del VI secolo a.C. e avevano generalmente forma semplice e non decorata; a partire da alcuni esemplari con il bordo più ampio sul quale sono stati dipinti motivi decorativi lineari, una versione più elaborata si è sviluppata intorno alla metà del VI secolo a.C. 
La parte decorata era il bordo superiore della cassa che aveva forma rettangolare negli esemplari più antichi e forma trapezoidale in quelli più recenti con il pannello della testata più ampio, un mutamento avvenuto nel terzo quarto del secolo. Gli esemplari più antichi avevano i listelli corti decorati con figure di animali dipinte con tecnica a risparmio, in seguito vennero introdotte le figure umane dipinte a figure nere, il pannello di testata assunse un'importanza maggiore e si ingrandì fino a far assumere all'intero sarcofago una forma trapezoidale. 
I lati lunghi erano decorati con intrecci e palmette e terminavano alle estremità con due pannelli decorati con figure o motivi ornamentali. I sarcofagi dipinti clazomeni sono gli unici reperti fittili della Grecia orientale sui quali si continuò ad impiegare il tardo stile delle capre selvatiche, tipico della Ionia settentrionale, che altrimenti si sarebbe creduto estinto alla metà del VI secolo a.C.
A partire dall'evoluzione in forma trapezoidale sono state individuate e distinte le mani di alcuni pittori. Il Pittore di Borelli è stilisticamente affine al Pittore di Petrie (→ Ceramica clazomenia), i suoi lavori sono databili al 530 a.C. ed è quindi uno dei più antichi tra gli autori individuati. 
Il gruppo dell'Albertinum è più recente e sembra aver stabilito una sorta di monopolio sull'attività di decorazione dei sarcofagi, infine il Pittore di Hopkinson semplifica la decorazione fino ad evitare l'uso delle figure nere. La datazione di questi autori è difficoltosa e basata quasi esclusivamente su confronti stilistici; i sarcofagi decorati erano sufficientemente costosi da non richiedere ulteriori offerte funerarie, di conseguenza sono scarse le testimonianze vascolari utili per la datazione delle tombe.

giovedì 15 febbraio 2024

Ceramica della Magna Grecia e della Sicilia

 
La ceramica della Magna Grecia e della Sicilia è la ceramica prodotta localmente dalle popolazioni italiote e siceliote a partire dal tardo VIII secolo a.C. fino ai primi anni del III secolo a.C. La denominazione, come quelle delle suddivisioni regionali, non comprende le produzioni indigene geometriche e subgeometriche.
Il predominio commerciale, e quindi stilistico, corinzio e attico esisteva ad ovest del mondo greco come altrove; costituiscono eccezioni scarsamente rilevanti gli influssi dal subgeometrico cretese e dalla ceramica greco-orientale a Gela, Catania, Siracusa, Selinunte e soprattutto Agrigento, la ceramica laconica piuttosto diffusa nel VI secolo a.C. e naturalmente la ceramica calcidese.
Protocorinzio di imitazione, databile a partire dal tardo VIII secolo a.C., è presente a Pithecusa e Cuma, le prime e più distanti colonie greche in Italia. La produzione di imitazione si distingue da quella importata grazie all'argilla differente e, talvolta, per la presenza di un ingubbio che imita l'argilla dei prodotti originali.
Gli scavi di Megara Hyblaea hanno restituito vasi con decorazione figurata policroma (con l'aggiunta del marrone chiaro al bianco e al rosso), di grandi dimensioni e in stile orientalizzante, che è stato possibile classificare come di produzione locale e datare intorno al 650 a.C. Si trattò tuttavia di un esperimento che lasciò presto il posto all'imitazione dello stile animalistico di Corinto. I crateri della necropoli del Fusco, a Siracusa, suggeriscono l'esistenza di un simile fenomeno di produzione locale, forse opera di vasai argivi immigrati, che può essere datato al secondo quarto del VII secolo a.C.
Produzioni di ceramica a figure nere sono attestate nel sud Italia e soprattutto in Campania nel tardo VI e all'inizio del V secolo a.C., dove si caratterizzano per un uso più libero del bianco aggiunto, ma a parte la ceramica calcidese (VI secolo a.C.), nessuna scuola locale mise radici fino alla metà del V secolo a.C.
Dopo 300 anni di importazione più o meno regolare, prima da Corinto e poi da Atene, alcuni artigiani presumibilmente immigrati e già formatisi ad Atene durante l'età di Pericle, giunti in Italia con la fondazione di Thurii nel 443 a.C., diedero inizio ad una produzione di ceramica a figure rosse, che viene genericamente definita italiota: le officine siceliote vennero riconosciute e distinte in un momento successivo allo stabilirsi del termine, che continuò quindi ad essere impiegato in letteratura in modo onnicomprensivo. 
L'ulteriore suddivisione in scuole regionali è basata sui luoghi di ritrovamento (apula, lucana, campana, pestana, siceliota), ma le differenze tra le diverse scuole non sono sempre evidenti; solo la scuola apula, la più grande e influente, è dotata di una maggiore unità stilistica che si può riassumere in una tendenza al monumentale e alle grandi composizioni, suddivise su diversi registri.
Tra le produzioni più antiche, ma priva di sviluppi, è quella del Gruppo del pilastro con civetta (Owl pillar group), sorto apparentemente in Campania ad imitazione dello stile attico nel secondo e terzo quarto del V secolo a.C. I due centri di produzione che si svilupparono sulla costa meridionale italiana, convenzionalmente indicati come "Gruppo A" e "Gruppo B", diedero invece luogo rispettivamente alla scuola lucana e alla scuola apula. La prima sorse a ovest di Taras intorno al 440 a.C., al tempo della fondazione di Thurii; la seconda comparve a Taras subito dopo, intorno al 430 a.C. La scuola siceliota ebbe inizio nell'ultimo decennio del V secolo a.C. La scuola lucana fu influenzata da quella apula mentre tutte tendevano col tempo a divergere dall'originario e comune stile di appartenenza, derivato dalla ceramica prodotta ad Atene nelle botteghe del Pittore di Achille e di Polignoto, anche in conseguenza di una diminuzione delle importazioni da Atene durante e dopo la guerra del Peloponneso. 
Questa prima fase di sviluppo della ceramica italiota ebbe termine verso il 380-370 a.C. quando, a partire dalle prime scuole regionali si formarono nuovi laboratori in Sicilia, in Campania e a Paestum.
La terracotta della ceramica italiota varia nel colore e nella consistenza, andando da un giallo pallido che può essere scambiato per corinzio, al marrone scuro di alcuni esempi campani. Una ingubbiatura rossastra è presente negli esemplari che più si allontanano dal colore tipicamente aranciato della terracotta attica.
Le forme dipendono inizialmente dal repertorio attico, ma il loro sviluppo è spesso indipendente. Il cratere a campana, l'oinochoe e l'hydria sono le forme più comuni. I crateri a colonnette e a volute sono diffusi particolarmente nelle scuole apula e lucana, così come la pelike. I grandi crateri apuli a volute avevano destinazione funeraria, un uso ormai decaduto in Grecia, e potevano giungere al metro e mezzo di altezza. L'anfora a collo distinto si sviluppa in Campania in una forma tipica che reca un manico ad arco sopra l'imboccatura (bail amphora). Il piatto da pesce diviene una tipologia tipica dalla metà del IV secolo a.C. Le forme piccole, esclusa la coppa, sono frequenti nel IV secolo a.C.: askos, lekythos e kantharos. In generale col tempo le forme tendono ad allungarsi, ad assumere forme più spigolose e ad accrescere la propria ornamentazione.
I soggetti erano prevalentemente dionisiaci con un gusto particolare per la teatralità tragica o per le farse fliaciche, presenti soprattutto a Paestum; queste ultime si svilupparono a partire dal 400 a.C. sulla scia di simili e rari esperimenti fatti ad Atene qualche tempo prima.
Nel secondo quarto del IV secolo a.C. una nuova tecnica, non presente in Attica, si sviluppa a partire dalla scuola apula; è detta ceramica di Gnathia dal nome del luogo dei primi ritrovamenti e consiste in una decorazione a colori sovrapposti ad un fondo nero, similmente alla tecnica di Six.
La ceramica del sud Italia veniva prodotta principalmente per uso locale, ma alcune esportazioni sono attestate lungo le coste della Francia e della Spagna, in Dalmazia e in Albania. Esemplari sicelioti sono stati rinvenuti a Cartagine, esemplari apuli a Sidone. Un certo influsso stilistico da parte della produzione campana e apula del IV secolo a.C. si ebbe sulla produzione etrusca e iberica.

Nelle foto, tutte di ceramiche appartenenti al Museo d'Antichità JJ Winckelmann, Sala delle collezioni dalla Magna Grecia, dall'alto:

Cratere a campana a figure rosse
Lato A: menade con tirso, tra due satiri in corteo danzante
Lato B: tre giovani ammantati
Pittore di Pisticci (440-420 a.C.)
Altezza cm 33

Anfora campana a figure nere
Lato A: satiro nudo in marcia
Lato B: efebo nudo in marcia
Pittore di Milano (525-500 a.C.)
Altezza cm 23,5

Brocca Altezza cm 19,5; diam. massimo 16,7 IV sec. a.C. Collezione Grecia 324 (RA 21363); da Rudiae, acquisto Ostrogovich 1871  

Cratere a colonnette a figure rosse Lato A: partenza di guerrieri, donna stante con offerte, guerriero seduto con spada e lancia, donna stante offerente, guerriero con scudo e lancia Lato B: satiro tra due menadi con rhyton Pittore di Tarporley (370-360 a.C.) Altezza cm 46, diam. 32 Inv. S.394; legato Sartorio 1910

Anfora panatenaica a figure rosse, con particolari in bianco e giallo Sul collo, spalla e basso piede: fasce a fiori, onde marine, serti d’edera e meandri Lato A: defunto eroicizzato: all’interno di un’edicola, un giovane nudo seduto, con lancia e patera, situla e serto; a sinistra, donna vestita di chitone con phiale e uva; a destra, giovane nudo con situla e phiale Lato B: scena di offerta: cippo con acroteri, ai lati due donne vestite di chitone con uva e phiale Pittore della Patera (340-320 a.C.) (già Gruppo delle Anfore) Altezza cm 76,5; diam. 22,7 Inv. S.381; legato Sartorio 1910  

Ceramica laconica

 

La ceramica laconica descrive una classe della ceramica greca prodotta nella regione della Laconia a partire dal X secolo a.C.
Dopo i periodi protogeometrico e geometrico gli artigiani laconici si rivelarono poco ricettivi alle influenze orientali, dirette o indirette. La migliore ceramica laconica, il cui apice si pone nel secondo quarto del VI secolo a.C., venne prodotta dopo l'introduzione verso il 620 a.C. della tecnica a figure nere, che i ceramografi laconici seppero interpretare e adattare alle proprie predisposizioni e tramite la quale furono capaci di competere con la ceramica ateniese sui mercati orientali e occidentali.
La terracotta laconica ha un colore che varia dal rosa al marrone chiaro; l'ingubbiatura, quando presente, è color crema e la pittura è di un seppia profondo che si avvicina al nero intorno alla metà del VI secolo a.C. per imitazione di quella attica. I forti contrasti tra i colori rendono questi vasi particolarmente vivaci benché eseguiti con la tecnica a figure nere.
Laconico di transizione e Laconico I

Dopo un periodo chiamato “di transizione” (690-650 a.C. circa) iniziò ad emergere un'autonoma scuola locale (laconico I, 650-620 a.C. circa) che si distinse, nei vasi di maggior pregio, per una decorazione caratteristica formata da una fascia a quadri alternati tra due fasce a punti, che circondava la bocca del vaso. Erano rare le figure, umane o animali, e scarsa era l'ornamentazione di riempimento. Questi decenni videro la compresenza di una pittura sperimentale applicata ai grandi vasi e di una scuola pittorica tecnicamente eccellente ma di tipo conservativo che si limitava ai vasi piccoli, dove applicava schemi lineari e astratti, accettando il fregio animale solo alla fine del periodo.
Prime figure nere (laconico II, 620-580 a.C. circa)
La grande diffusione e il grande successo della ceramica corinzia comportò l'introduzione della tecnica a figure nere ad Atene come in Laconia, dove si sviluppò uno stile autonomo a partire dall'inizio del VI secolo a.C.
La decorazione era caratterizzata da figure nere con dettagli incisi e ritocchi color porpora; frequenti erano le modanature e la decorazione a rilievo. Iniziò in questo periodo una modesta esportazione e la forma più comune e diffusa era la coppa. Le figure umane continuarono ad essere rare e per lo più limitate ai gorgoneia all'interno delle coppe, disegnati principalmente a linea di contorno. Nei fregi animali, contrariamente all'uso corinzio, si preferivano le file di una stessa specie con pochissima ornamentazione di riempimento. Tra i migliori esemplari di questa ceramica vi sono le coppe conservate al Museo archeologico nazionale di Taranto (Pittore dei pesci di Taranto, n. inv. 4804-06) decorate internamente con un girotondo di pesci attorno ad una rosetta centrale riservata all'interno di un cerchio scuro. All'esterno si trovano tipici uccelli a silhouette con il porpora aggiunto sulle code abbassate. La maggior parte dei vasi del laconico II tuttavia era più semplicemente decorata con fasce geometriche e colorate e con sobrio ornamento vegetale, sempre tendente in questa regione alla stilizzazione. La fila di quadrati tra due file di punti rimase comune per la zona intorno al labbro, ma il motivo decorativo che caratterizzò il laconico a partire dal VII secolo a.C. fu la fila di melagrane a volte intrecciate e alternate ai fiori di loto.
Laconico III e IV
, 580-500 a.C. Circa
È questo il periodo in cui, forse per un vuoto di mercato lasciato da Corinto e Atene in una fase di passaggio per entrambi i centri produttivi, la ceramica laconica riuscì ad inserirsi con una produzione che resta per questa regione quella maggiormente conosciuta e all'interno della quale sono state individuate singole personalità. L'importazione di opere corinzie è stato un fattore essenziale per il nuovo corso della ceramica laconica, la quale tuttavia riuscì a competere rimanendo indipendente e lontana da imitazioni non veramente comprese, sviluppando uno stile proprio, sobrio e vivace allo stesso tempo.
La coppa laconica era la forma principale e quella più popolare sul mercato. La ciotola era divenuta meno profonda, lo stelo si era allungato e terminava in alto in una modanatura tonda. La ricchezza della decorazione era paragonabile alle contemporanee coppe di Siana attiche. Il labbro, divenuto più evidente, era frequentemente coperto da una rete di melagrane che presero il posto dei precedenti riquadri. Il fregio all'altezza delle anse presentava, tra le palmette orizzontali derivate da modelli metallici, una banda ornamentale vegetale entro la quale il fiore di loto mostrava una stilizzazione tipicamente laconica. Il color porpora continuava ad essere liberamente aggiunto per aumentare il contrasto con la vernice scura e l'ingubbiatura gialla. Lo stelo e il piede erano scuri, con l'eccezione della modanatura in alto e del profilo del piede, riservati e privi di ingubbiatura.
Nella coppa laconica la parte che ne rivelava maggiormente lo stile nativo era la parete interna della ciotola con lo spazio interamente decorato; anche a Corinto si sfruttava tutto lo spazio, ma separato in zone concentriche. I pittori laconici dipingevano l'interno delle ciotole come dipingessero in grande scala, in piena opposizione rispetto ai tondi delle coppe ateniesi (almeno finché, alla metà del secolo, l'influenza di queste ultime non introdusse anche a Sparta il tondo piccolo). La scena principale veniva posizionata sopra una linea di base orizzontale; la soluzione più frequentemente adottata per la decorazione dell'esergo, oltre ad altri curiosi esperimenti compositivi (si veda ad esempio la kylix del Museo archeologico di Rodi 10711, con la linea di esergo che divide il campo in due parti uguali), consisteva nel riempire la zona con un fiore di loto o con animali, spesso pesci o uccelli.
A fianco di queste coppe elaborate ne venivano prodotte altre, più piccole e più semplici, nelle quali il labbro e la ciotola erano poco differenziati, lo stelo non aveva modanature e gli esemplari più economici erano decorati internamente solo con un piccolo medaglione.
Le prime personalità individuate all'interno di questa classe di ceramiche hanno iniziato a lavorare intorno al 580 a.C. e sono chiamate Pittore dei Boreadi e Pittore di Naukratis. Il primo era il maestro che aveva stabilito il nuovo sistema di decorazione delle coppe con il proprio stile accurato e sobrio nei dettagli incisi; le sue coppe sono state trovate a Samo, Olimpia e Naucrati ma non a Sparta. Il secondo, meno austero, influenzerà gli autori a lui successivi. Il Pittore di Arkesilas deve il proprio nome alla coppa conservata al Cabinet des médailles di Parigi (De Ridder 189) che presenta all'interno una scena vivace realizzata in modo da includere nella narrazione anche l'esergo. Il Pittore della caccia è conosciuto per i caratteristici tondi a oblò con le figure tagliate fuori dalla scena; fu il più dotato degli allievi del Pittore di Arkesilas, miglior disegnatore rispetto a quest'ultimo e capace di dare alla pittura laconica un grado maggiore di realismo.
I soggetti erano tratti dal mito come dalla vita quotidiana. Alcuni temi sono unici, come i miti di Prometeo e Atlante (Pittore di Arkesilas, coppa a figure nere, 550 a.C. al Museo gregoriano etrusco 16592), la costruzione di un tempio, i soldati che riportano a casa i propri morti (Pittore della caccia, coppa a figure nere, 550-540 a.C. circa, Musei statali di Berlino 3404). Scarsissimo era l'uso del bianco fra i pittori laconici, che non usavano neppure differenziare attraverso il colore il genere delle figure, o usavano semplicemente la linea di contorno per le carni femminili. La decorazione a figure umane veniva eseguita oltre che sulle coppe, sulle hydriai, sui crateri a volute e sui dinoi. In diversi casi è possibile notare la derivazione di forme e decorazioni ceramiche da originali in metallo. Nei vasi grandi la decorazione si svolgeva generalmente in strette bande dall'imboccatura al piede e tendeva a sottolineare la forma del vaso. Generalmente vasaio e pittore erano una stessa persona; gli autori che lavoravano nella tecnica a figure nere producevano anche, in misura più elevata, vasi interamente dipinti in nero o con semplici decorazioni geometriche, ad esempio sulla riservata parete esterna del labbro nei crateri a colonnette, molto apprezzati per la qualità della forma.
La produzione degli artisti individuati era finalizzata soprattutto all'esportazione sul mercato estero, mentre il mercato locale era fornito di prodotti ceramici di minore o diversa qualità, come già era accaduto per la produzione policroma della ceramica protocorinzia. Intorno al 550 a.C. la competizione con la ceramica attica divenne ingestibile e il commercio della ceramica laconica diminuì drasticamente. La nuova chiusura e la prevalente produzione per il commercio locale diviene evidente già nelle ultime opere del Pittore della caccia e in quelle dei suoi seguaci. La produzione propriamente laconica non andrà oltre il VI secolo a.C.

Nelle foto, dall'alto:
Pittore di Arkesilas, coppa a figure nere, 560 a.C. circa, Parigi, Biblioteca nazionale, Cabinet des médailles 189.
Pittore della caccia, coppa laconica a figure nere, 555 a.C. circa, Museo del Louvre E670.
Pittore dei cavalieri, coppa a figure nere, tra il 550 e il 530 a.C., Londra, British Museum 1842,0407.7.
Cratere laconico a vernice nera, Staatliche_Antikensammlungen
Lakaina a smalto nero gruppo E, periodo alto arcaico, circa 580-570, probabile provenienza Etruria, collezione Castellani, Museo nazionale etrusco di Villa Giulia, Roma
Coppa laconiana a figure nere con Goegone, Cabinet des médailles de la BnF (Paris)
Ariballo globulare laconiano, circa 575-550 a.C., da Kameiros, Rodi – Museo del Louvre, Parigi

mercoledì 14 febbraio 2024

Collezione Caputi, Napoli

 

La collezione Caputi è una collezione di ceramiche attiche e magnogreche risalenti al V-III secolo a.C., provenienti dai terreni di Ruvo di Puglia, iniziata dall'arcidiacono Giuseppe Caputi. 
La collezione rappresenta un importante valore storico poiché oltre un terzo dei vasi è inserito nella raccolta del Corpus Vasorum Antiquorum. Attualmente è di proprietà di Banca Intesa ed è esposta a Palazzo Leoni Montanari. Intorno al 1830 l'arcidiacono Giuseppe Caputi in contemporanea ad altri aristocratici della città di Ruvo quali Giovanni Jatta, incominciò la raccolta dei vasi e delle ceramiche attiche, che provenivano da un unico sepolcreto ed erano costituite da 522 reperti, la sua attività fu continuata anche dal nipote Francesco Caputi Iambrenghi.Sebbene la collezione sia stata iniziata da Giuseppe Caputi, nel cenno storico di Giovanni Jatta egli afferma che durante gli scavi di ampliamento delle cantine di Palazzo Caputi intorno al 1814 furono trovati da Matteo Caputi altri vasi dipinti e una tomba raffiguranti miti greci, l'intero corredo fu venduto all'ambasciatore inglese presso il Regno di Napoli, Sir.William Temple che acquistò un gran numero di reperti provenienti dal territorio di Ruvo donandoli in seguito al British Museum. La collezione fu collocata nell'omonimo palazzo e fu resa fruibile al pubblico. Le ceramiche inoltre nel 1884 furono analizzate dal noto archeologo tedesco Heinrich Heydemann nella monografia denominata "Vase Caputi".
Nel 1920 la collezione fu ceduta dagli eredi al marchese Orazio De Luca Resta imparentato con la famiglia Caputi Iambrenghi, che insieme alla moglie Emanuela Caracciolo dei principi di Castagneto trasferì nell'omonimo palazzo a Piazza Venezia a Roma .Nel 1950 fu acquistata dall'ingegner Giuseppe Torno e successivamente è entrata nel patrimonio di Banca intesa.


Nelle foto, dall'alto:
Coppa di Lekanis 350-300 a.C. (foto banca intesa sanpaolo)
Il lato A con l’Apoteosi di Eracle del cratere apulo a volute a figure rosse del Pittore di Licurgo (360-350 a.C.) (foto banca intesa sanpaolo)
Hydria (Kalpis), Pittore di Leningrado, 470-460 a.C. (foto banca intesa sanpaolo)

Lomekwi 3 - KENYA

 

Lomekwi 3 è un sito archeologico preistorico che si trova sulla formazione Nachukui, poco ad ovest del Lago Turkana in Kenya. Il sito archeologico ha restituito oggetti in pietra tagliata risalenti a 3,3 milioni di anni fa, tra i più antichi strumenti preistorici ad oggi conosciuti. Questa scoperta ha messo in discussione l'idea predentemente comunemente accettata, secondo cui la comparsa degli strumenti in pietra sarebbe legata all'emergere del genere Homo come cambiamento climatico.
Scoperto casualmente da un team di ricercatori nel 2011, Lomekwi 3 è stato scavato nel 2012. Il sito ha dato alla luce quasi 150 oggetti in pietra tagliata e ossa fossili (elefante, ippopotamo, coccodrillo, felini). Le principali rocce utilizzate sono il basalto e la fonolite, presenti in zona; la particolarità è che per questi strumenti, diversamente da quanto rilevato per altri siti, sono stati selezionati blocchi di pietra di grandi dimensioni; il più grande pesa 15kg.
Particolari per il periodo a cui si fa riferimento, anche i metodi di scheggiatura utilizzati, che prevedono la percussione su un'incudine con una superfici piana. La datazione così antica, e le particolarità della lavorazione della pietra, hanno fatto ipotizzare ai ricercatori l'ipotesi che il sito non appartenga alla cultura olduvaiana, ma che invece si possa attribuire ad una nuova facies culturale.
Tra i fossili ritrovati in questo sito, anche due molari appartenenti ad indivui del genere Paranthropus.

Necropoli della Banditaccia (Lazio)


La necropoli della Banditaccia è una area funebre etrusca, afferente all'antica città di Caere, situata su un'altura tufacea a nord-ovest di Cerveteri, in provincia di Roma.
La necropoli si estende per circa 400 ettari e vi si trovano molte migliaia di sepolture (la parte recintata e visitabile rappresenta soli 10 ettari di estensione e conta circa 400 tumuli), dalle più antiche del periodo villanoviano (IX secolo a.C.) alle più "recenti" del periodo ellenistico (III secolo a.C.). La sua origine va ricercata in un nucleo di tombe villanoviane nella località Cava della Pozzolana, e il nome "Banditaccia" deriva dal fatto che dalla fine dell'Ottocento la zona viene "bandita", cioè affittata tramite bando, dai proprietari terrieri di Cerveteri a favore della popolazione locale. Vista la sua imponenza, la Necropoli della Banditaccia è la necropoli antica più estesa di tutta l'area mediterranea.
Le sepolture più antiche sono villanoviane (dal IX secolo a.C. all'VIII secolo a.C.), e sono caratterizzate dalla forma a pozzetto, dove venivano custodite le ceneri del defunto, o dalle fosse per l'inumazione.
Dal VII secolo a.C., durante il Periodo orientalizzante si hanno principalmente tumuli di grandi dimensioni. Le sepolture a tumulo sono caratterizzate da una struttura tufacea a pianta circolare che racchiude all'interno una rappresentazione della casa del defunto, con tanto di corridoio (dromos) per accedere alle varie stanze. La dovizia di particolari dell'interno di queste sepolture ha permesso agli archeologi di venire a conoscenza degli usi casalinghi degli Etruschi. Di questo periodo fanno parte la "Tomba della Capanna", il "Tumulo Maroi" e il "Tumulo Mengarelli".
Nel V secolo a.C. le tombe a tumulo furono sostituite da quelle "a dado". Quest'ultime consistono in una lunga schiera di tombe allineate regolarmente lungo vie sepolcrali. Nella parte visitabile della Necropoli della Banditaccia ci sono due di queste vie, via dei Monti Ceriti e via dei Monti della Tolfa, risalenti al VI secolo a.C..
Le sepolture più "recenti" sono del III secolo a.C., periodo dell'ellenizzazione etrusca. La sepoltura più rappresentativa di questo periodo risulta essere la "tomba dei Rilievi", risalente al IV secolo a.C. e appartenuta alla famiglia dei Matunas, come si legge nelle iscrizioni: l'interno della tomba si è mantenuto in condizioni particolarmente buone, permettendo di osservare anche gli affreschi alle pareti e sulle colonne (per questo, infatti, questa tomba è l'unica della Banditaccia che non si possa visitare -ma l'interno è visibile attraverso un vetro-, a causa della particolare delicatezza degli affreschi).
Molti dei reperti trovati nella necropoli sono raccolti nel Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma ed in molti altri musei sparsi in tutto il mondo, mentre solo una piccola parte dei corredi funebri rinvenuti in loco è conservata nel Museo nazionale cerite. Dal luglio 2004 la necropoli della Banditaccia, insieme a quella dei Monterozzi di Tarquinia, entra a far parte della lista dei siti patrimonio dell'umanità dell'UNESCO. Nel 2012 venne inserito un percorso di visita multimediale all'interno di alcune tombe, in modo da ricreare quello che era l'ambiente nell'antichità e nel periodo in cui furono scoperte.
Inizialmente nell’800 gli scavi furono compiuti da amanti dell’antiquariato ,con il fine di trovare oggetti preziosi per venderli al mercato . Nel ventesimo secolo invece cominciarono ad essere regolarizzati, grazie all’archeologo Raniero Mengarelli, direttore dell’Ufficio Scavi dei Mandamenti di Civitavecchia e Tolfa, che portò avanti l’opera dal 1909 fino al 1936.
L’intento di questi scavi era quello di recuperare oggetti preziosi, tanto che si limitò allo sterro in quelle strutture più evidenti. Nel 1927 portò alla luce quella che denominò Via degli Inferi, ossia la via principale dei sepolcri. Mengarelli effettuò ulteriormente degli studi topografici e approntò una serie di interventi volti ad aprire l’area al pubblico, trasformando progressivamente l’antica necropoli in un sito archeologico. A partire dal 1936 il sito venne abbandonato e approfittando di questa situazione di degrado, il luogo fu soggetto a numerosi scavi clandestini con lo scopo di trovare reperti archeologici da essere venduti privatamente ai collezionisti. Le ricerche ripresero legalmente negli anni sessanta del 900 grazie a Mario Moretti, un archeologo collaboratore di Mengarelli. Nominato direttore degli scavi di Cerveteri dal 1952, nel 1957 avviò le campagne di scavi per la Banditaccia, riportando in auge la zona ‘dei grandi tumuli’ e quella del ‘nuovo recinto’. Negli anni 80 Mauro Cristofani operò nell'area dell'antica civita, lavoro che poi venne proseguito dal Consiglio Nazionale delle Ricerche in collaborazione con il comune di Cerveteri, la Fondazione Luigi Rovati di Monza e la onlus A.S.S.O.

Nelle foto, dall'alto in basso:
Tomba dei vasi greci, Tumulus II, VI secolo a.C.
Tomba della Cornice (Banditaccia)
Tomba della casetta
Tomba dei capitelli
Tomba dei letti funebri

Monetazione di Cosa (Toscana)


La 
monetazione di Cosa riguarda un gruppo di monete che recano l'etnico COZANO o COSANO.
Queste monete sono state coniate a Cosa (o Cossa) Vulcentium, una colonia romana che si trovava tra i centri di Portus Herculis e Graviscæ. Plinio il vecchio l'indica come dipendente da Vulci e colonizzata da Roma: "Cossa Vulcentium a populo romano deducta".
La deduzione della colonia è del 273 a.C. stante quanto scritto sulle epitomi di Livio e da Velleio Patercolo. La monete con la scritta COZANO o COSANO sono generalmente trovate in Etruria, da qui l'attribuzione a questo centro anziché ad altri centri nell'Italia meridionale.
I tesori più rilevanti vedono le monete di Cosa principalmente assieme a monete di Roma e poi a monete di Neapolis, Cales, Suessa, Teanum, colonie o alleati di Roma che hanno coniato tra il 270 ed il 210.
Le monete sono quindi monete coniate da una colonia romana nell'ambito dell'autonomia che avevano le colonia nel III secolo.
Dal punto di vista stilistico le monete sono strettamente affini ai bronzi romani con i tipi di Minerva / protome equina.
I tipi sono due: Marte e Minerva.

Le monete del tipo
"Marte" presentano al dritto la testa della divinità barbata ed elmata ed al rovescio la testa di cavallo con testiera, posto sopra un delfino che nuota. Sono presenti due varianti: in una il cavallo è volto a sinistra e nell'altra a destra.

Le monete del tipo
"Minerva" presentano al dritto una testa femminile con un elmo corinzio e la legenda COZA. Questa testa è interpretata o come la dea Minerva oppure, data le legenda, come la personificazione di Cosa. Al rovescio è raffigurato una protome di cavallo con testiera. La legenda è COSANO o COZANO
Le monete hanno pesi medi uguali a quelli delle monete romane contemporanee.


Parco archeologico e museo all'aperto della Terramara di Montale (Emilia Romagna)


Il Parco archeologico e museo all'aperto della Terramara di Montale è un sito archeologico con annesso museo e parco tematico situato a Montale Rangone, frazione del comune di Castelnuovo Rangone, in provincia di Modena. Il parco archeologico di Montale, situato a una decina di chilometri da Modena nel luogo stesso in cui sorgeva un abitato di 3500 anni fa, è dedicato alla valorizzazione della civiltà delle terramare, una fra le realtà culturali più significative dell'età del bronzo europea, fiorita intorno alla metà del II millennio a.C..
Nel parco coesistono l'area di scavo, indagata scientificamente e successivamente musealizzata, il museo all'aperto con la ricostruzione a grandezza naturale di una parte del villaggio, gli spazi destinati alle attività didattiche. Il complesso, dal carattere fortemente evocativo, offre l'opportunità di conoscere un momento significativo della preistoria con un approccio basato sull'esperienza diretta.
Il percorso di visita è segnalato da una serie di pannelli che inquadrano dal punto di vista storico-archeologico le terramare e illustrano la storia del sito dal momento della costruzione del villaggio fino alla successiva riscoperta avvenuta nel XIX secolo.
La prima tappa della visita è l'area archeologica, racchiusa da una struttura che con il suo profilo ricalca l'originario rilievo della collinetta, formatasi durante gli oltre tre secoli di vita dell'abitato. All'interno si possono ammirare l'imponente stratigrafia che testimonia le diverse fasi di vita del villaggio e il calco di uno strato che conserva significative testimonianze lignee di una delle abitazioni. L'area archeologica fornisce la chiave di lettura per la visita del museo all'aperto dove, sulla base dei risultati degli scavi, sono state ricostruite le fortificazioni del villaggio, il fossato e il terrapieno sormontato da una palizzata, due abitazioni arredate con vasellame, utensili, armi e vestiti che riproducono fedelmente gli originali di 3500 anni fa, le aree produttive collegate alla realizzazione di ceramica e oggetti in bronzo. Recentemente sono state impiantate le colture sperimentali di alcune delle piante coltivate dagli abitanti del villaggio.

Museo civico Guido Sutermeister (Lombardia)

 

Il Museo civico Guido Sutermeister è un museo archeologico di Legnano, nella città metropolitana di Milano, in Lombardia, intitolato all'archeologo Guido Sutermeister, che ne volle la fondazione. È stato allestito nel 1929 grazie alla volontà di Guido Sutermeister, che fece un'assidua ricerca archeologica sul territorio tra il 1925 e il 1964. Le collezioni si sono poi arricchite con materiale giunto al museo da scavi della Soprintendenza Archeologica della Lombardia e da donazioni di privati.
Il Museo civico Guido Sutermeister conserva, in particolare, materiale proveniente dalla città e dal territorio circostante. La maggior parte dei reperti archeologici esposti al museo risale a un periodo compreso tra la preistoria e l'epoca medioevale longobarda, con particolare riferimento all'età romana imperiale. I ritrovamenti conservati testimoniano la frequentazione della zona fin dall'Età del rame e l'esistenza di una civiltà stanziale sin dall'Età del bronzo.
All'interno del museo, fino al 2012, erano presenti anche le tre grandi tele di Gaetano Previati, pittore ferrarese vissuto tra la seconda metà dell'Ottocento e i primi del Novecento, rappresentanti i tre momenti fondamentali della battaglia di Legnano: la Preghiera, la Battaglia e la Vittoria. Le opere sono state trasferite nella sezione "Spazio Castello" al castello di San Giorgio.
Nel 2004 il museo civico Sutermeister è diventato "sede museale certificata"; con questo riconoscimento, che è stato conferito dalla Regione Lombardia, il polo espositivo legnanese ha acquisito ufficialmente lo status di "museo". Ha una superficie espositiva di circa 250 m².
L'edificio che ospita il museo riprende lo stile architettonico del Maniero Lampugnani, dimora quattrocentesca di una delle nobili famiglie della zona, i Lampugnani. Questo palazzo gentilizio, che si trovava tra la moderna strada statale del Sempione e il fiume Olona, più o meno presso largo Franco Tosi, è stato demolito nel 1927.
Il museo, che sorge più a nord rispetto all'antico Maniero Lampugnani, è stato costruito nei pressi del convento di Sant'Angelo, ora non più esistente.
Per la costruzione del complesso museale sono stati utilizzati alcuni resti originali del Maniero Lampugnani recuperati durante la demolizione dell'edificio: soffitti lignei a cassettoni, colonne e camini. Dalla demolizione si è anche salvata una mensola in cotto raffigurante un putto. Questa mensola, che faceva parte di una finestra del Maniero Lampugnani e che riporta scolpito l'anno 1420, è ospitata all'interno del museo
Il complesso architettonico, che ha forma a "L" e che è stato costruito nel 1928, è diviso in due livelli ed è arricchito da una torretta quadrata che svetta sul secondo piano. Il primo piano comprende un porticato a cinque arcate che è formato da alcune colonne recuperate dal Maniero Lampugnani; questo spazio aperto occupa l'ala dell'edificio che si sviluppa verso l'ingresso di corso Garibaldi. La torretta è situata nel punto di intersezione delle due ali, dove sono state ricavate anche le scale che mettono in comunicazione i vari piani.
Il corpo dell'edificio è in mattoni, mentre i soffitti sono lignei a cassettoni. Alcuni solai lignei, come già accennato, appartenevano all'antica dimora gentilizia dei Lampugnani. I pavimenti interni, che sono in pietra, sono ricoperti da parquet e moquette. I motivi geometrici che sono incisi a graffito sulle pareti esterne del museo si ispirano agli affreschi un tempo presenti sulle pareti del Maniero Lampugnani; queste pitture, che si sono salvate dalla distruzione del palazzo che le ospitava, sono ora conservate presso la Torre Colombera, ovvero in un antico edificio rinascimentale legnanese che funge da sezione distaccata del museo. Il Museo civico Guido Sutermeister è inserito in un piccolo giardino; staccata dall'edificio espositivo è presente l'abitazione del custode, che è stata costruita con il medesimo stile architettonico dell'edificio principale.
Il complesso museale possiede cinque sale di esposizione interne: la saletta della torre, lo studiolo, il salone d'onore, la sala della loggetta e la sala delle esposizioni. Anche il portico è adibito a spazio espositivo.
Il porticato ospita i reperti in pietra trovati nella zona. La collezione è formata, tra l'altro, da are e steli funerari, macine, una sepoltura in cassa litica, ossuari e un'ancora in piombo, tutti risalenti all'età romana; d'epoca romana tardo imperiale sono invece alcuni sarcofagi.
Ai reperti dell'antichità classica si aggiungono, tra gli altri, i resti di alcuni camini che un tempo arricchivano le dimore rinascimentali legnanesi; queste ultime sono state demolite nei primi decenni del XX secolo, cioè nello stesso periodo in cui venne fondato il museo.
Per quanto concerne il materiale in pietra risalente all'antichità classica, sono di particolare importanza alcune iscrizioni: sulle are è riportata la loro intitolazione, mentre sulle sepolture è scolpito il nome delle gens romane a cui appartenevano le tombe.
Nel cosiddetto "studiolo" è conservata la collezione, un tempo privata, che appartenne a Emilio Sala, noto collezionista locale di reperti archeologici. Alla morte del possessore venne comperata dall'associazione locale Famiglia Legnanese, che la donò al museo. La collezione è formata da materiale archeologico che risale ai secoli precedenti alla conquista romana dell'Italia.
Più precisamente, i 57 reperti conservati nello studiolo risalgono alla civiltà greca dell'Italia meridionale, alla civiltà etrusca e alle civiltà preromane dell'Italia settentrionale; sono quindi ascrivibili a un periodo storico compreso tra il IX secolo a.C. e il III secolo a.C..
Degni di nota sono una fibula in bronzo del IX secolo a.C. trovata nel Lazio, un pettorale ornamentale in bronzo rinvenuto in Italia settentrionale e risalente a un periodo compreso tra il VII secolo a.C. e il VI secolo a.C., un alabastron prodotto in Attica nel VII secolo a.C. (ma appartenente a signori etruschi), una patera realizzata in Magna Grecia e risalente a un periodo compreso tra il IV secolo a.C. e il III secolo a.C. e una preziosa lekanis, prodotta a Centuripe, in Sicilia, che è caratterizzata da decorazioni plastiche e dipinte e che è databile al III secolo a.C. (nella foto a sinistra), La collezione è completata da ceramiche di pregio che risalgono a un periodo compreso tra il VII e il III secolo a.C.
Nella saletta della torre è conservata la collezione numismatica del museo. Questa raccolta comprende monete antiche (dall'antica Grecia all'epoca medioevale longobarda) e coni moderni (dal Medioevo all'Impero austriaco). La collezione è formata da monete d'oro, d'argento, di bronzo e di rame che sono state reperite nella zona.
Alcune monete sono frutto di donazioni di privati, mentre altre sono state trovate durante gli scavi archeologici effettuati sul territorio. Molto spesso le monete antiche trovate in zona durante gli scavi hanno permesso la datazione dell'intero sito archeologico.
Ciò è successo in particolar modo per le monete romane, che sono state principalmente trovate all'interno di necropoli: secondo le credenze dell'epoca, essendo sepolte insieme al defunto, ne consentivano il passaggio nell'oltretomba grazie al pagamento dell'"obolo di Caronte", ovvero del pedaggio da versare al traghettatore dell'Ade per trasportare l'anima nell'aldilà.
Di molte altre monete, principalmente quelle frutto di donazioni, non è invece conosciuta la provenienza.
All'interno della saletta delle esposizioni, del salone d'onore e della cosiddetta "loggetta" sono conservati i ritrovamenti archeologici rinvenuti a Legnano e nelle zone circostanti. La collezione di reperti comprende pezzi databili dall'età del rame all'epoca medioevale longobarda.
L'età del rame è rappresentata da un solo pezzo: un frammento di vaso campaniforme legato alla cultura di Remedello che risale al III millennio a.C. e che è il più antico reperto archeologico trovato nel Legnanese.
L'età del bronzo è rappresentata dai ritrovamenti legati alla cultura di Canegrate (nella foto a sinistra), che risalgono al XIII secolo a.C. Nel Legnanese, dello stesso periodo storico, sono stati trovati altri reperti, tra cui resti di abitazioni.
La prima età del ferro è invece rappresentata da ritrovamenti legati alla cultura di Golasecca recente (VI-V secolo a.C.), mentre alla seconda era del ferro (IV-I secolo a.C.) sono legati ritrovamenti ascrivibili alla cultura di La Tène. Di questa epoca è degno di nota il corredo denominato il "Guerriero di Pontevecchio"; è formato dagli armamenti di un soldato del I secolo a.C. che sono stati trovati nell'omonima frazione di Magenta (seconda foto dall'alto).
Ricchissima è la collezione di reperti d'epoca romana: la datazione parte dalla prima età imperiale (I secolo a.C.) e arriva all'epoca tardo imperiale (V secolo d.C.). Questa abbondanza di ritrovamenti dimostra un'assidua frequentazione della zona durante questo periodo storico, con una cospicua popolazione stanziale che abitava le sponde del fiume Olona.
Da un punto di vista cronologico, chiudono la collezione di queste sale i ritrovamenti databili all'epoca medioevale longobarda (568-774 d.C.). Tra i reperti longobardi conservati, degno di nota è un vaso a fiasca decorato a stampiglia che è stato scoperto a Inveruno e che risale ai primi decenni del VII secolo d.C., cioè all'inizio della dominazione longobarda.

Antiquarium di Lucrezia Romana, Roma (Lazio)


L'Antiquarium di Lucrezia Romana è un piccolo museo archeologico collocato nel quadrante sud-est della Capitale, in una zona che prende il nome di Lucrezia Romana, tra via Tuscolana, via delle Capannelle e il Grande Raccordo Anulare. Fu inaugurato al pubblico il 28 marzo 2015 dall'allora Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l'Area Archeologica di Roma, e dedicato all’archeologo Giuseppe Vitale, prematuramente scomparso nel 2004 a soli trentasette anni. Successivamente è stato annesso al Parco archeologico dell'Appia Antica.
Il museo espone i materiali provenienti dalle indagini archeologiche preventive effettuate negli ultimi venticinque anni nel territorio compreso tra le antiche via Latina e via Castrimeniensis dove la recente urbanizzazione ha portato alla scoperta di siti archeologici databili a partire dalla preistoria.
Gli scavi sono stati effettuati nel territorio dell’attuale VII Municipio, in particolare nelle zone di Osteria del Curato, Lucrezia Romana, Tor Vergata, Morena, Romanina, Centroni, Cinecittà, Anagnina, Quadraro, quartieri Appio e Tuscolano. Le indagini archeologiche hanno permesso di individuare siti preistorici, eneolitici, dell'età del Bronzo, necropoli di età medio repubblicana e imperiale oltre che lussuose ville.
L’Antiquarium espone una piccola ma interessante collezione che offre una panoramica sulla vita quotidiana dei nostri antenati, facendo ripercorrere le tappe fondamentali che hanno portato a cambiamenti significativi del paesaggio antico e delle modalità di utilizzo del territorio. Nel Museo è possibile usufruire di un percorso di visita attraverso codice QR realizzato dagli studenti dell'Istituto Ferrari-Hertz nell'ambito di un progetto di alternanza scuola-lavoro in collaborazione con il Servizio Educativo del Parco.

L’Antiquarium si articola in due edifici: un’antica cisterna e un casale databili ai primi del Novecento, restaurati e adibiti a spazio museale.
All’interno della ex-cisterna (sala A) la collezione è esposta con ordinamento cronologico in senso antiorario, a partire dalle prime vetrine sulla destra che ospitano reperti databili tra Neolitico finale (4170-4040 a.C.) ed Eneolitico finale (2580-2470 a.C.), fino alle ultime vetrine sulla sinistra, con reperti di età medievale e rinascimentale.
I reperti databili in epoca preistorica provengono sia da abitati che da tombe, nelle quali costituivano elementi del corredo. Tra gli utensili sono presenti le punte di freccia in selce e le lame di ossidiana, vetro di origine vulcanica. I frammenti di vasi in ceramica, realizzati a mano, sono pertinenti a scodelle e a olle, di forma molto semplice nelle fasi più antiche e dal profilo più articolato nelle fasi più recenti.
Passando alla Protostoria sono presenti reperti dell’età del Bronzo antico (2300-1700 a.C.) e del Bronzo finale (1200-950 a.C.), da abitati e necropoli, nelle quali costituivano oggetti del corredo del defunto: fibule, rasoi, anelli e anche un pettine in avorio.
Seguono i reperti provenienti dalle tombe di età Orientalizzante (fine dell'VIII - inizi del VI secolo a.C.), periodo di grande fermento culturale caratterizzato da frequenti contatti commerciali tra le popolazioni del Mediterraneo, del vicino Oriente e dell’Europa centrale. Ricchi corredi funerari riproducevano il servizio da banchetto aristocratico con vasi che si distinguono per raffinatezza ispirandosi a modelli greci con ricca decorazione dipinta: aryballoi (piccoli vasi a corpo ovoide o globulare) e oinochoai (brocche con orlo trilobato). Sono anche presenti anforette, coppe e kyathoi in bucchero, distintivo della cultura etrusca e ottenuto dalla cottura in atmosfera riducente, ossia senza l’immissione di aria nella camera di cottura delle fornaci.
Da contesti funerari, abitativi e sacri, compresi tra l’età arcaica e l’età repubblicana (tra fine VI secolo e fine I secolo a.C.) provengono ornamenti personali, decorazioni architettoniche, oggetti di culto che testimoniano la persistenza della tradizione etrusco-italica nell’arte romana e contemporaneamente l’adozione di tecniche, gusti e tradizioni proprie dell’arte greco-ellenistica. Nella tarda età repubblicana le numerose fattorie che popolavano il suburbium di Roma si trasformano in impianti produttivi, le villae rusticae, adibiti alla produzione su vasta scala di vino e olio. Queste ville erano articolate in pars rustica, dedicata alla produzione, e pars urbana o dominica, ossia la zona residenziale riservata ai proprietari, da cui provengono le decorazioni più ricche come affreschi, stucchi, mosaici. Il suburbio era interessato anche da luoghi di culto dei quali restano tracce nei depositi di ex voto di terracotta, che riproducono in maniera molto realistica ritratti degli offerenti o elementi anatomici per la cui guarigione si chiedeva l’intercessione divina.
Ad epoca giulio-claudia (fine I secolo a.C.- fine I secolo d.C.), risalgono oggetti provenienti dalle fiorenti villae rusticae, appartenenti alle famiglie più ricche del patriziato e della nobiltà, che popolavano il suburbio. Seguono alcuni esempi di corredi funerari in uso presso le classi sociali medio-basse dei primi due secoli dell’Impero. Il corredo di una tomba rinvenuta presso la via Tuscolana con un bracciale in bronzo “a serpentina” e vasellame in ceramica africana: un guttus, ossia un “vaso da cui il liquido fuoriusciva a goccia a goccia”, dotato di un beccuccio e che poteva anche essere usato come biberon e un askòs, ovvero un vaso che conteneva liquidi pregiati.
Il corredo di una tomba trovata presso via S. Giorgio Morgeto conserva uno specchio in bronzo, un vago di collana in pasta vitrea, un dente di animale in osso, un balsamario in vetro e una figurina femminile. Curiosa è la presenza di un ex voto all’interno di una sepoltura: forse era indossato dalla defunta a ricordo o a ringraziamento di una malattia risoltasi positivamente.
Da una tomba infantile della necropoli di Osteria del Curato proviene una statuetta in terracotta di Arpocrate, divinità popolare tra i ceti più modesti, identificato anche con Horus, figlio di Iside e Osiride.
Le sepolture conservano spesso oggetti della vita quotidiana dei defunti, ad esempio gioielli o elementi di vestiario, che erano indossati al momento della sepoltura o deposti come corredo funebre. Sono presenti collane in pasta vitrea e oro, in ambra (resina fossile che in antico era considerata di grande pregio) e orecchini in oro e pasta vitrea di un tipo chiamato in antico crotalia, perché le perle nel muoversi urtavano tra di loro tintinnando come i crotali che erano strumenti musicali simili alle nacchere.
Altri oggetti appartenenti al mondo della bellezza femminile sono il contenitore per cosmetici, gli specchi in bronzo, le pinzette, gli aghi crinali o spilloni, gli unguentari o balsamari e i tintinnabula, cioè campanelli e sonagli in bronzo deposti nelle tombe per allontanare gli spiriti malvagi.
L’ultima vetrina della sala espone oggetti rinvenuti in sepolture tardo antiche e alto medievali della zona (che mostrano corredi molto semplici spesso composti solo da recipienti ceramici o in vetro e lucerne) oltre a ceramiche rinascimentali come i piatti o la ciotola dai vivaci colori datati al XVI secolo.
Nel casale (con le sale B, C e D) sono esposte statue, elementi architettonici, sarcofagi, arredi marmorei, frammenti di pavimenti in mosaico e affreschi, provenienti dalle tante ville rustiche di età repubblicana e imperiale scoperte durante le indagini archeologiche tra cui anche la Villa dei Sette Bassi.
Notevole è la pregevole vasca rinvenuta al VI miglio della via Latina antica e databile al II secolo d.C.. Ricavata in un unico blocco di alabastro “cotognino”, di provenienza egiziana, è stata ritrovata in frammenti e pazientemente ricomposta dai restauratori del MIBAC. Questo tipo di vasca in epoca antica decorava generalmente giardini o peristili (cortili porticati) di ville oppure ambienti termali. L’esemplare qui visibile, invece, proviene da un’area funeraria ed era probabilmente utilizzata per lo svolgimento di riti religiosi o funebri.
I mosaici esposti, databili tra la fine II e gli inizi del III secolo d.C., sono realizzati con tessere bianche e nere e provengono dalla cosiddetta Villa del Casale di Marzio, non lontana dall’Antiquarium.
Le due statue acefale (prive di testa), rinvenute in un’area funeraria di via Lucrezia Romana ed esposte a sinistra dei mosaici, ritraggono, secondo alcune ipotesi, i proprietari della Villa del Casale di Marzio nella fase di età augustea. Il personaggio maschile, in particolare, indossa la toga, che era l’abito tipico del cittadino romano.
L’interessante affresco con prospettive architettoniche (della fine del I secolo a.C.), inquadrabile nel cosiddetto Secondo Stile Pompeiano, caratterizzato da vedute prospettiche che tendono ad ampliare illusionisticamente lo spazio della parete dipinta, è stato rinvenuto fuori contesto, a ridosso di un mausoleo di età imperiale e non nella dimora in cui originariamente doveva essere collocato.
Numerosi esemplari di statuaria dell’età imperiale si conservano nell'’Antiquarium: statue di Ermafrodito e di Priapo, una testa di fanciullo o Eros, una testa maschile, forse Dioniso, una testa femminile con una pettinatura tipica della seconda metà del II secolo d.C., una testa femminile con copricapo statue di Eros e di un Barbaro morente, una piccola statua di Ercole e un’erma maschile acefala.
Una delle opere più belle conservate nell’Antiquarium è la Nereide su mostro marino databile nella metà del I secolo a.C. e proveniente dal IV miglio della via Latina, in località Quadraro. Le Nereidi, secondo il mito, erano delle divinità marine figlie di Nereo ed erano spesso raffigurate sedute su mostri o cavalli marini.
Nel giardino e nel piazzale dell’Antiquarium sono collocati cippi ed epigrafi; alcune iscrizioni si riferiscono agli acquedotti, che caratterizzavano, e caratterizzano ancora oggi, il paesaggio di questo settore del suburbio sud-orientale di Roma, basti pensare al Parco degli Acquedotti, dove ancora oggi si stagliano le imponenti arcate.Nelle vicinanze dell’Antiquarium è possibile visitare alcune aree archeologiche di grande valore.
Alle spalle del museo è conservato un tratto di strada antica, la via Castrimeniensis, fiancheggiata da strutture in laterizio che avevano la funzione di pozzi di ispezione dell’Acquedotto Claudio. Quest’opera di alta ingegneria romana, che in questo tratto corre sotterranea, è caratterizzata da poderose arcate nell’area del Parco degli Acquedotti, raggiungibile da via di Capannelle.
Percorrendo via Lucrezia Romana in direzione nord e girando a destra per via Broglio, prima dell’incrocio con via del casale Ferranti si giunge a un parco pubblico che conserva un’area archeologica di grande valore, risparmiata dall’urbanizzazione. Sono oggi visibili resti di sepolcri e un tratto di strada basolata, identificabile con l’antica via Latina.



Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...