sabato 12 ottobre 2024

Roma, Miliario aureo (Lazio)


Il Miliario aureo (Miliarium aureum o "pietra miliare aurea") era una colonna marmorea rivestita di bronzo dorato innalzato presso il tempio di Saturno, all'estremità del Foro Romano. Venne eretta da Augusto nel 20 a.C., quando divenne curator viarum. Era collocato simmetricamente all'Umbilicus urbis rispetto all'arco dei Rostra] Al monumento sono stati attribuiti un rocchio di fusto di colonna in marmo del diametro di 1,15 m che recava incassi interpretati come le tracce dell'apposizione di un rivestimento metallico e un basamento in muratura, situato all'estremità dei Rostra verso il tempio di Saturno, identificato all'inizio dell'Ottocento.
Al rivestimento di questo basamento, sopra il quale sarebbe sorta la colonna, furono attribuiti alcuni frammenti marmorei (un fregio con anthemion e uno zoccolo), visibili nella fotografia a fianco.
Vi erano incisi i nomi e le distanze delle più importanti città dell'impero, anche se la sua funzione era prettamente celebrativa della carica di curator viarum da parte di Augusto; si trattava però di una convergenza ideale delle strade consolari, la cui misura era calcolata a partire dalle porte delle mura serviane. 

Area archeologica di Sofiana (Sicilia)

 

L’abitato di Sofiana è in territorio del Comune di Mazzarino (CL); è stato inserito nel Parco Archeologico di Morgantina e della Villa Romana del Casale di Piazza Armerina in modo da agevolare sia la ricerca scientifica sia la fruizione, in rapporto alla vicina Villa del Casale di Piazza Armerina. Scavi archeologici sono stati condotti tra il 1954 e il 1961 e dal 1986 in poi. Inizialmente si era pensato a un insediamento rurale a servizio della vicina grande villa di Piazza Armerina; le indagini degli ultimi anni hanno portato a capire che si si tratta di un centro urbano di nuova fondazione sorto in seguito al riassetto della Sicilia in età augustea. La strada Catania-Agrigento è la sola che non ripercorre viabilità precedente; collega Catania, una delle colonie di nuova istituzione, con Agrigento, che mantiene la sua importanza per l’età imperiale: è chiaro che la nuova arteria incide sull’assetto del territorio; Sofiana è esattamente a metà del nuovo tracciato viario.
Dal tardo I secolo a.C. sorgono diversi insediamenti rurali soprattutto nell’area a sud del sito; interessante il fatto che lo spazio pianeggiante a sud-est sembra mostrare una divisione degli appezzamenti modulare, coerente con l’orientamento della maglia stradale urbana, possibile segno di assegnazioni di terra al momento della fondazione. La città, sin dal momento iniziale, mostra segni di ricchezza; ma non sono stati individuati segni di attività amministrativa e politica, edifici pubblici: è probabile che tale attività si concentrasse fondamentalmente nelle coloniae. La continua occupazione fino al XIII secolo fornisce importanti dati.
Una domus gentilizia a peristilio si data, nell’impianto originario, tra la fine del I secolo a.C. e il I secolo d.C. Le terme risalgono al 320-330 e si sovrappongono a un precedente edificio termale, con diverso orientamento. La basilica tardoantica, con annessa necropoli, presenta diverse fasi.

(da: Sicilia Archeologica, Il sistema dei Parchi)

Tempio del Belvedere, Orvieto (Umbria)


L'unico tempio etrusco oggi ben visibile sopra la rupe di Orvieto (in provincia di Terni) è il tempio del Belvedere, situato nei pressi del pozzo di San Patrizio. La pianta è molto vicina alla descrizione canonica dei templi etrusco-italici fornita da Vitruvio nel suo trattato De Architectura.
Il tempio venne scoperto casualmente nel 1828 durante i lavori per costruzione della vicina strada.
Risale probabilmente al principio del V secolo a.C. ed ebbe vita fino ai primi decenni del III secolo a.C. Oggi sono ben leggibili il basamento, la scalinata d'ingresso, le basi di quattro colonne ed alcuni blocchi perimetrali.
Non si conosce la divinità venerata nel tempio. L'epigrafe dipinta su una coppa trovata nei dintorni del tempio riporta il nome di Tinia, lo Zeus degli Etruschi. Secondo altre ipotesi, tra le divinità venerate in questo santuario è da annoverare anche il dio Suri. Alle spalle del tempio trovava posto un ambiente sotterraneo rivestito di cocciopesto, in cui potremmo riconoscere una riserva per acque da destinare a celebrazioni liturgiche o piuttosto uno spazio destinato a particolari pratiche di culto.
Molti frammenti delle decorazioni architettoniche sono conservati al Museo Faina.


Ocriticum (Abruzzo)


Ocriticum è un sito archeologico situato nel territorio del Comune di Cansano, in provincia dell'Aquila, e precisamente nell'area conosciuta coi microtoponimi di Zeppe, Pantano e Tavuto. Le testimonianze che presenta abbracciano un periodo compreso tra il Neolitico e l'Alto Medioevo, ma lo sviluppo dell'area fu massimo sotto i Romani, quando in corrispondenza della vicina e assai trafficata Via Nova, l'asse viario che collegava Corfinium con il Sannio, si sviluppò un grande santuario monumentale dedicato a Giove. Nell'area, interessata dai traffici della suddetta via Nova, sorse la mansio Jovis Larene, segnata, tale la sua importanza, sulla Tavola Peutingeriana.
I traffici commerciali, la religiosità e la conseguente ininterrotta frequentazione dell'area ne favorirono lo sviluppo abitativo, economico e produttivo (fra le testimonianze, una fornax calcaria, impianto di produzione per la calce). Un violento terremoto nel II secolo d.C. distrusse buona parte degli edifici, dando così inizio ad un progressivo abbandono dell'area (compiutosi attorno al VI secolo d.C.).
Gli scavi, avvenuti clandestinamente tra il XIX e il XX secolo, sono stati avviati ufficialmente solo nel 1992, in occasione del passaggio del metanodotto Snam, e si sono conclusi nel 2005. Oggi l'intera area è protetta nel parco archeologico e naturalistico di "Ocriticum", istituito nel 2004 insieme con il relativo centro di documentazione e visita "Ocriticum" di Cansano, che ospita parte dei reperti rinvenuti nel corso dello scavo e un'importante mostra permanente sull'emigrazione (è dunque detto pure museo dell'emigrazione). Parte dei reperti provenienti da Ocriticum è conservata presso il museo civico di Sulmona e il museo nazionale archeologico di Chieti.
A pochi chilometri da Cansano, alle pendici del colle Mitra e, più lontano, del complesso della Maiella, si estende il pianoro conosciuto agli abitanti coi toponimi Zeppe, Pantano e Tavuto, dove circa duemila anni fa sorgeva, a sette miglia da Sulmo, uno dei villaggi che in questo periodo costellavano l'ager sulmonense, il territorio amministrato dal municipium di Sulmona.
Come ben si osserva dalle foto aeree del pianoro, il sito era organizzato, all'apice del suo sviluppo, in più spazi e aree destinati ciascuno ad una precisa funzione (pratica, questa, definita zonazione): a Nord si trova la vasta zona di culto con i suoi tre templi allineati e rivolti verso la Maiella; nell'area meridionale, l'abitato di Ocriticum; sulla collina orientale, la via glareata su cui si affaccia la fornax calcaria, l'impianto per la produzione della calce; ad ovest, l'antico tracciato della Via Nova; lungo le strade e in prossimità dell'area sacra, tombe monumentali, epigrafi et cetera.
Il villaggio di Ocriticum e l'epigrafe a Sesto Paccio

Il villaggio era collocato nell'area meridionale del pianoro; di modeste dimensioni, il sito è stato tuttavia saggiato e indagato in via piuttosto superficiale. I resti degli edifici possono, ad ogni modo, essere interpretati come una mansio, stazione di sosta per chi viaggiava lungo la vicina Via Nova.
Lungo un tracciato stradale che dal villaggio si dirigeva a Sud, oltre a canalette e modeste muraglie in opera incerta, erano pure collocate - secondo uso romano - delle steli funerarie epigrafate. Sebbene tale necropoli sia stata quasi interamente intaccata dall'agricoltura, un'epigrafe scoperta in zona ha permesso di risalire al toponimo con cui fra i Romani era conosciuto il villaggio; essa riporta l'iscrizione:
«SEX(TO) PACCIO / ARGYNNO /CULTORES IOVIS / OCRITICANI /P(OSUERUNT)»
(«A Sesto Paccio / Argynno / i Cultori Ocriticani / di Giove /P(osero)»)
(Epigrafe funeraria)
Sia che Ocriticani si riferisca a Jovis, sia che si riferisca a Cultores, esso riconduce al toponimo Ocriticum, probabilmente in riferimento all'ocre (il centro fortificato) che sorgeva sulla cima del vicino colle Mitra. Tracce del toponimo, peraltro, restano nel nome della chiesa rurale che ivi si trovava e oggi scomparsa, di cui tuttavia resta il ricordo nella memoria popolare di Cansano: Santa Maria de' gli Tridece (ovvero Santa Maria dei Tredici), precedentemente conosciuta come Santa Maria dei Chierici e ancor prima come Santa Maria Oclerici, dunque Ocritici: di Ocriticum. La presenza dei Pacci è inoltre attestata nella Marsica e fra i Sabini.
L'area sacra

La presenza di un'ampia area sacra fu determinante per lo sviluppo del villaggio di Ocriticum sotto tutti i punti di vista: dal momento in cui, difatti, essa sorgeva in prossimità d'un tratto di una delle vie più importanti dell'Impero romano, grande era la quantità di pellegrini, viandanti, commercianti, pastori che vi facevano tappa per venerare le divinità. La fervente attività religiosa costituì un impulso non indifferente sia per il moltiplicarsi dei culti praticati nel pianoro, sia per la monumentalizzazione e l'ampliamento degli edifici sacri, sia, infine, per l'accrescersi della fama del luogo, che divenne tale da essere segnalato col nome di (Mansio) Jovis Larene sulla Tavola Peutingeriana, famosa copia medievale di un'originale carta militare stradale romana. In tale carta il sito di Ocriticum risulta distante sette miglia da Sulmo e venticinque da Aufidena, ed è collocato lungo l'importante tracciato che collegava la Valle Peligna con il Sannio Pentro; l'antico asse viario, riconosciuto da Ezio Mattiocco come la Via Nova di medievale memoria, è tuttora in parte percorribile e riconoscibile.
Il tempio italico

Il primo tempio edificato nell'area risale alla fine del IV secolo a.C.; originariamente era costituito da un'unica cella di base pressoché quadrata, con ingresso rivolto a Sud-Est (dove sorge il Sole) attorno alla quale era un giardino sacro (hurtuz > lat. HORTUS > ita. orto) delimitato da un muro perimetrale eretto a secco. In una successiva fase edilizia, ebbe luogo un ampliamento del recinto e dell'edificio templare, che fu provvisto d'un pronao realizzato in tecnica sensibilmente diversa dalla cella.
Nel giardino sacro, scavato nel terreno a ovest dell'edificio, è stato rinvenuto un deposito votivo volto a conservare gli oggetti che, per mancanza di spazio, non potevano più essere ospitati all'interno del naos; circa 600 gli ex voto rinvenuti, databili fra il IV secolo a.C. e il I secolo a.C., fra i quali una statuetta bronzea di Ercole che giaceva isolata sul fondo del deposito: ad Ercole, divinità assai diffusa in area peligna in età tardo-italica e romana, pare dunque che fosse dedicato il tempio, seppur, verosimilmente, non in via esclusiva.
Il tempio romano

Attorno agli inizi del I secolo a.C. (e quindi ormai sotto il dominio dei Romani), si assiste a un ulteriore ampliamento dell'area sacra, nella quale, su un terrazzo più elevato rispetto al tempio italico ma con esso perfettamente allineato, viene edificato un altro edificio templare, più grande e architettonicamente sofisticato. Il tempio, di base rettangolare e diviso in due ambienti di egual misura (pronao e cella), era probabilmente prostilo tetrastilo, con scalinata incastonata innanzi all'entrata, rivolta a Sud-Est come per il precedente tempio. Della struttura originale resta solo il podio in opera reticolata: dell'intero apparato decorativo non è rimasta traccia, come anche del pavimento musivo della cella, eccezion fatta per alcune tessere di mosaico rinvenute nei pressi dell'edificio. Il culto a cui il tempio era destinato è, verosimilmente, quello di Giove, come testimoniano l'epigrafe funeraria dedicata a Sesto Paccio e il toponimo - Jovis Larene - con cui era nota anticamente l'area.
Contestualmente alla costruzione del tempio di Giove, fu realizzato l'ampliamento del recinto sacro, a ridosso del quale, sul lato interno settentrionale, furono realizzati degli ambienti destinati a magazzini, botteghe e vani ad uso dei cultori del santuario. Lo spazio recintato, eletto in tal modo a luogo del sacro, è tecnicamente definito temenos e presentava probabilmente un'organizzazione spaziale interna tesa alla celebrazione delle attività religiose da parte dei sacerdoti.
Il sacello delle divinità femminili

Nella zona posta a Occidente del temenos e dei due templi maggiori, su un terrazzo inferiore rispetto agli altri, è stato rinvenuto un terzo edificio templare di piccole dimensioni, affiancato da un deposito votivo e circondato da un recinto sacro: trattasi di un sacello di base quadrata, posizionato in perfetto allineamento con gli altri templi, anch'esso con ingresso a Sud-Est; l'ambiente conserva ancora parte del pavimento originale, realizzato in tessere rosse, e dell'intonacatura interna. All'interno del sacello, eretto verosimilmente tra il III e il II sec. a.C., è stata rinvenuta una discreta quantità di oggetti tipici del mundus femminile, come ampolle e balsamari vitrei, che conservano ancora le tracce di unguenti, profumi e cosmetici. L'elemento, in relazione anche agli oggetti conservati nel deposito (statuette e maschere votive fittili) ha lasciato intendere che il sacello era dedicato a divinità femminili, e in particolare a Cerere, Venere e Proserpina, culti spesso legati a quello di Giove.
La zona produttiva: la fornax calcaria

l'intensa attività produttiva e commerciale che faceva di Ocriticum un centro sufficientemente attivo anche sotto il profilo economico. Dalla Via Nova si diramava, difatti, una via glareata, una massicciata di pietrame ricoperta da pietrisco battuto misto a malta, che, dopo aver attraversato il pianoro, si inerpicava su per la collina orientale e conduceva a un vasto edificio rettangolare suddiviso in vani interni di differente dimensione. Sul lato orientale l'edificio, che poggia direttamente su roccia, presenta un'ampia cavità cilindrica scavata direttamente nel pendio: trattasi di una fornax calcaria, un impianto per la produzione della calce; tutti gli ambienti dell'ampio fabbricato (uno dei quali ancora conserva l'originale pavimento in terracotta) dovevano dunque essere destinati al raffreddamento, alla conservazione, allo stoccaggio e infine alla vendita della calce. Dell'impianto produttivo colpisce l'efficienza organizzativa quanto il diretto coinvolgimento - mediante il collegamento immediato della via glareata - nei traffici commerciali della Via Nova. È interessante mettere in evidenza come attività basilare per l'economia del paese di Cansano sia stata per molto tempo e almeno fino allo scorso secolo, proprio la produzione della calce, secondo un sistema meno sofisticato ma non dissimile da quello adottato dagli abitanti di Ocriticum: la calcara. Lungo la via glareata, in prossimità della fornax calcaria, è stato rinvenuto il basamento di un sepolcro monumentale, probabilmente un mausoleo della tipologia "a dado" o "ad ara".
Il tramonto di Ocriticum fra capanne, necropoli e campi coltivati
All'inizio dell'epoca imperiale, l'area templare di Ocriticum - l'unica sezione del sito archeologico indagata rigorosamente e totalmente, allo stato attuale degli studi - raggiungeva il culmine della propria estensione. Mentre Roma si apprestava a vivere gli ultimi anni di gloria del cosiddetto Beatissimum Seculum, il II secolo d.C., tutta l'area peligna fu colpita da un violento sisma, di cui restano tracce più o meno evidenti in buona parte dei siti archeologici un tempo parte dell'Ager Sulmonense. Il santuario di Ocriticum ne fu gravemente danneggiato e non fu ricostruito. Ebbe inizio un periodo di declino di tutta l'area, che fu, così, progressivamente abbandonata.
La sacralità che aveva contraddistinto l'area, però, fu percepita a lungo da chi la abitava. Se, infatti, fra i frequentatori probabilmente si ignorava l'originale funzione o il culto caratterizzanti i templi diruti, di questi si percepiva il peso spirituale e religioso, sicché i morti continuarono ad essere seppelliti all'interno del temenos: a ridosso del recinto sacro e delle fondamenta del tempio italico sono stati rinvenuti due sepolcri risalenti al VI secolo d.C., uno dei quali ospitava i resti d'una madre con la figlia e il loro (povero) corredo funebre, costituito da pochi gioielli all'interno di anfore di terracotta.
A ridosso del tempio romano, invece, fu eretta una capanna altomedievale di evidente impiego pastorale: già in questo periodo, infatti, il pianoro era ormai luogo di pascolo, e i templi come gli edifici romani e italici rimanenti fungevano da alloggio o rifugio per i pastori, oltre che da cava di materiale da poter reimpiegare altrimenti. Nei secoli successivi, quando l'area divenne feudo e quindi ambiente agricolo, i campi furono divisi mediante l'innalzamento di bassi muri a secco (detti macerine nel dialetto del luogo), i cui percorsi talora ricalcavano le sommità delle mura perimetrali degli edifici della quasi scomparsa Ocriticum, che a tratti fuoriuscivano dal terreno.
Le espoliazioni e gli scavi clandestini, che a partire dall'Ottocento hanno fortemente impoverito la zona, non hanno impedito di rinvenire una buona quantità di reperti nel corso della campagna di scavi intrapresa nel 1992 sulla base degli studi attuati nel corso del XX secolo da Antonio De Nino, Valerio Cianfarani con Ferruccio Barreca, Frank Van Wonterghem ed Ezio Mattiocco.

Terme Stufe di Nerone, Bacoli (Campania)



«Le terme, alimentate da vapori caldi, sono più salubri di qualsiasi bagno riscaldato artificialmente, poiché la Natura eccelle di gran lunga l'umano ingegno ...»
(Cassiodoro, Variae, IX, 6, 6)

Le Terme Stufe di Nerone sono un antico centro termale romano che si trova tra Bacoli e Pozzuoli nella città metropolitana di Napoli. Nascono principalmente per le cure termali utilizzando le acque termali ed i fanghi provenienti dalle sorgenti e dai laghetti.
Sul luogo, ai tempi dei romani, sorgevano le cosiddette Terme Silvane dedicate a Rea Silvia (madre di Romolo e Remo).
Dalle stampe del Morghen (1769) si evince una precisa visione dei resti di epoca romana che furono realizzati lungo le pendici della collina di Punta Epitaffio: insediamenti di ville disposte sui terrazzamenti con vista sul lago di Lucrino, impianti termali privati e pubblici. Infatti durante l'età imperiale, la zona fu molto apprezzata dagli aristocratici romani che solevano trascorrere il loro tempo libero nelle loro lussuose ville.
Il Sudatorio di Tritoli, detto Stufe di Nerone, aveva l'accesso dalla strada che conduce alla vicina cittadina di Baia (frazione di Bacoli). Era costituito da stanze rettangolari con letti completamente scavati nel tufo. In queste stanze veniva convogliato il vapore caldo tramite cunicoli che avevano origine nel cuore caldo della collina dove si trovava una sorgente termale molto attiva.
All'interno delle attuali Stufe è visibile ancora oggi un pezzo di esedra in opera cementizia, con resti di intonaco. Terminante in origine ai lati con due paramenti laterizi, cui si aggiunsero due prolungamenti decorati a conchiglie e tessere mosaicali, la struttura, databile intorno al II secolo, era un ninfeo tutto aperto verso il lago Lucrino e appartenente al complesso esteso sulla collina, del quale tutt'oggi si vede in alto, un muro in opera reticolata.
Sempre a questo complesso, appartiene un lungo cunicolo ad andamento semicircolare, cui si accede dalla sauna posta in basso dell'esedra. Questa area fu utilizzata ancora nel Medioevo e fino al XVIII secolo grazie alla costante presenta di sorgenti termominerali. Queste Stufe sono citate da Vitruvio (II 6.2) e Celso (de Medicina II 17.1).
A poca distanza da queste, ai piedi della collina, sorgeva il Balneum Silvianae e coincide, benché ristrutturato con le Terme Stufe di Nerone. Strutture medievali rinvenute anni fa, voltate a botte e poste alla quota di quelle inferiori romane, sono individuabili invece come sudatorio.

Necropoli della Pedata (Toscana)



La necropoli della Pedata è un sito etrusco situato a Chianciano Terme, in provincia di Siena (Italia). Il sito prima della sua esplorazione sistematica negli anni '80, era già stato oggetto del ritrovamento nel 1846 della Mater Matuta etrusca, un cinerario antropomorfico del Periodo classico.
Gli scavi hanno portato alla luce una ventina di tombe, di cui una con soffitto particolarmente ornato, risparmiata dal saccheggio dei tombaroli nel XIX secolo.
La tomba Morelli, scoperta nel 1995, quella di un principe del periodo orientalizzante etrusco (VII secolo), ritrovata con i suoi corredi funerari intatti, è stata ricostruita nel museo cittadino con gli oggetti ricollocati nella configurazione del loro ritrovamento.
Alcuni degli arredi funerari delle tombe sono esposti nel Museo Archeologico delle Acque, altri sono stati trasferiti al museo archeologico nazionale di Firenze (un tipo Sarcofago degli sposi, della posa del banchetto etrusco).

Museo Civico, Castellana Sicula (Sicilia)

 
Il Museo Civico si trova in contrada Muratore, al di fuori del centro abitato di Castellana Sicula.I reperti testimoniano la ricchezza di storia del territorio di Castellana Sicula. Decisamente interessante è la storia dell’edificio in cui il museo è ospitato; edificio che ingloba ancora degli ipogei di età tardo romana ma che è nato forse come struttura termale, diventato poi una masseria, quindi trasformato in frantoio.
Il Museo Civico è situato nell’ambito dell’area archeologica di contrada Muratore, dove è stata rinvenuta una necropoli composta da tre ipogei interamente scavati nella roccia, uno dei quali il più grande è allocato all’interno del Museo. Esso consta di due sezioni: etnoantropologica ed archeologica. La prima, costituita dalla collezione di Padre Abate, donata al Comune, comprende una piccola raccolta di reperti archeologici di provenienza varia, oggetti e strumenti di lavoro testimonianza della locale cultura contadina ed una singolare raccolta di animali impagliati ed in formalina.
La sezione archeologica espone reperti rinvenuti negli scavi condotti In c.da Muratore ed alcuni reperti provenienti da ricognizioni archeologiche di superficie effettuate i su Cozzo del Morto, Cozzo Zara, Monte Rotola Vecchia e Cozzo Re, attestanti l’antichità dell’insediamento umano in questi luoghi, risalente alla Preistoria. Nel 200l l’Archeologo Valentino e nel 2004 l’Archeologo Fontana, in collaborazione con la Soprintendenza Beni Culturali di Palermo, hanno avviato due campagne di scavi che portarono alla luce la zona dell’abitato e l’area pubblica di un probabile “pagus” d’età romana imperiale.
Per quanto riguarda l’abitato sono state individuate tre epoche principali, una più recente medievale, una più antica di età tardo imperiale ed una di età ellenistico- romana. Sono stati rinvenuti un numero considerevole di reperti: anfore, brocche, lucerne paleocristiane, monete in bronzo e frammenti ceramici a vernice nera. E’ stato, inoltre, rinvenuto un impianto termale polilobato, con annessi una serie di vani afferenti che ruotano attorno ad una piccola corte interna, che presentano un piano lastricato di ottima fattura ed una sorta di ambulacro ben conservato.


(testo e immagini tratte dal sito web: https://www.parcodellemadonie.it/museo-civico-di-contrada-muratore/

venerdì 11 ottobre 2024

Caccia al leone di Assurbanipal - REGNO UNITO

 

La cosiddetta Caccia al leone di Assurbanipal è una famosa opera d'arte assira composta da un gruppo di rilievi, originariamente collocati nel "Palazzo Nord" di Ninive e ora esposti nella Sala 10a del British Museum, considerati nel loro insieme uno dei capolavori della produzione artistica di questo popolo mesopotamico. Le sculture mostrano diverse scene di una caccia organizzata all'interno di un'arena nella quale il re Assurbanipal (regno 668-631 a.C.) massacra con frecce, lancia o spada dei leoni aizzati contro di lui dai servitori. Questo gruppo scultoreo fu realizzato tra il 645 e il 635 a.C. e disposto in diverse zone del palazzo imperiale. Probabilmente, in origine i rilievi erano dipinti e concorrevano al generale arredamento a colori vivaci del complesso palaziale.
Le lastre o ortostati del Palazzo Nord furono scavati da Hormuzd Rassam nel 1852-54 e da William Loftus nel 1854-55 e la maggior parte fu inviata al British Museum ove sono stati sin da allora apprezzati dal pubblico quanto dagli storici dell'arte. Il realismo dei leoni è sempre stato elogiato, anche se il pathos che gli spettatori moderni tendono a sentire forse non faceva parte della risposta psicologica assira all'opera. Le figure umane sono per lo più viste in pose formali, di profilo (spec. il re che ricorre in tutte le scene) mentre i leoni sono raffigurati in una grande varietà di pose, vivi, morenti e morti.
Le incisioni risalgono all'ultimo periodo di produzione dell'arte assira e, nella fattispecie, al termine dei 250 anni di produzione che videro la realizzazione dei rilievi dei palazzi reali assiri, e ne mostrano la forma più raffinata. Assurbanipal fu infatti l'ultimo grande re assiro e dopo la fine del suo regno l'impero neo-assiro collassò in una spirale di guerre civili e invasioni straniere. Nel 612 a.C., forse appena 25 anni dopo la creazione della Caccia al leone, l'impero era caduto a pezzi e Ninive fu saccheggiata e bruciata.
Già da un millennio circa prima della realizzazione di questi rilievi, l'uccisione dei leoni era diventata, in Mesopotamia, appannaggio dei reali e spesso i re venivano raffigurati mentre lo facevano. Una lettera superstite su una tavoletta di argilla riporta che quando un leone entrava in una casa nelle province, doveva essere intrappolato e portato in barca dal re.
Potrebbe esserci stata una dimensione religiosa in quest'attività, suggerita dal rilievo nel quale Assurbanipal versa una libagione sui corpi raccolti dei leoni morti, forse con intento apotropaico.
Nell'insieme, questa "caccia reale al leone" era concepita come le successive venationes dell'Antica Roma: in uno spazio artificiale, un'arena, si simulava la battuta di caccia che veniva in realtà gestita come una corrida. I leoni, in gabbia, venivano liberati in uno spazio circoscritto da soldati assiri dotati di alti scudi e lance che fungevano ad un tempo da guardiani e da battitori. I rilievi mostrano anche alcuni attendenti con mastini alla catena per meglio controllare le fiere. 

I leoni venivano spinti incontro al re ed ai suoi aiutanti (soldati armati di tutto punto con spade, archi e lance) e debitamente fiaccati. All'atto pratico, l'uccisione del leone poteva avvenire in tre modi, come ben esemplificato nei rilievi di Assurbanipal: con arco e frecce, con la lancia o con la spada. Nei primi due casi, il cacciatore era montato: a cavallo o su di un carro da guerra. Il ricorso alle frecce poteva non essere risolutivo: i rilievi mostrano chiaramente leoni che, pur infilzati da frecce, caricano il re e ne vengono allontanati dalle guardie armate di lancia. L'uccisione del leone con la spada avveniva invece in un corpo-a-corpo, a piedi. Pratica certamente più rischiosa, non era impresa impossibile. 
Sembra probabile che, come in tempi relativamente recenti, "l'uccisore di leoni si avvolgeva il braccio sinistro con un'enorme quantità di filo di pelo di capra o stoffa da tenda" e se ne serviva per provocare e distrarre il leone mentre lo trafiggeva con la spada. Il manicotto difensivo non è mai raffigurata sui rilievi assiri che mostrano invece il re in posa eroica mentre afferra con la sinistra il leone per la criniera e gli trapassa il cuore con la spada impugnata nella destra.
Un precedente re assiro, Assurnasirpal II (regno 883-859 a.C.), aveva già commissionato rilievi di una caccia al leone nel suo palazzo a Nimrud circa 200 anni prima di Assurbanipal. In iscrizioni del 865 a.C. circa, si vantò che "gli dei Ninurta e Nergal, che amano il mio sacerdozio, mi hanno dato gli animali selvaggi delle pianure, ordinandomi di cacciare. 30 elefanti ho intrappolato e ucciso; 257 grandi tori selvaggi ho abbattuto con le mie armi, attaccando dal mio carro; 370 grandi leoni ho ucciso con lance da caccia". Ashurnasirpal viene mostrato mentre scocca frecce ai leoni dal suo carro, quindi forse questa era una caccia più convenzionale, in aperta campagna (o una simulazione di caccia effettuata nell'arena).
Nei rilievi successivi i leoni catturati vengono rilasciati in uno spazio chiuso, formato da soldati che erigono un muro di scudi dirottando verso il bersaglio prestabilito la belva. Alcuni vengono mostrati mentre vengono rilasciati da casse di legno da un inserviente che, al sicuro in una cassa più piccola posta sopra quella della fiera, ne solleva il cancello.
A volte i leoni erano direttamente allevati in cattività dagli Assiri. Sempre Ashurnasirpal II, in un'iscrizione, afferma: "Con cuore feroce ho catturato 15 leoni dalle montagne e dalle foreste. Ho portato via 50 cuccioli di leone. Li ho radunati in Kalhu e nei palazzi della mia terra in gabbie. Ho allevato i loro cuccioli in gran numero."
Nonostante la caccia, i leoni mesopotamici sopravvissero nel deserto, fino al 1918.
Ci sono circa due dozzine di scene di caccia al leone registrate nei rilievi dei palazzi assiri la maggior parte delle quali offre al soggetto un trattamento molto più breve di quanto fanno i rilievi di Assurbanipal. I palazzi neo-assiri erano ampiamente decorati da rilievi: bassorilievi su lastre per lo più di alabastro di gesso, materiale abbondante nel nord dell'Iraq. I rilievi raffigurano anche altri animali cacciati ma il soggetto principale per i rilievi narrativi erano sempre le campagne militari del re che commissionava le opere. Altri rilievi mostravano il re, la sua corte, il "genio alato" e le divinità protettive minori, i lamassu.
La maggior parte dei rilievi occupava le pareti di grandi sale del palazzo, spalmandosi su diverse stanze in sequenza. 
La Caccia al leone di Assurbanipal occupava invece diversi ambienti del Palazzo Nord: per lo più passaggi relativamente stretti che conducevano a stanze più grandi. La serie non è purtroppo completa. Alcune lastre erano anche originariamente collocate al piano superiore, anche se erano cadute al di sotto del livello del suolo quando furono rinvenute. La loro impostazione originale non era, in termini di dimensioni, molto diversa da come sono esposte oggi, anche se il soffitto era più alto. Lo stesso palazzo ha un rilievo molto meno usuale raffigurante un leone maschio e una femmina (sonnecchiante) che si rilassano in un rigoglioso giardino del palazzo: un "idillio ombroso" che forse rappresenta gli animali domestici del re.
Alcuni dei rilievi della caccia al leone occupano l'intera altezza della lastra e sono quindi a registro orizzontale singolo, laddove invece gli altri rilievi narrativi del palazzo, come quelli dedicati alle campagne militari, sono a doppio registro. I rilievi provenienti dal piano superiore presentano scene su tre registri. La linea del terreno è chiaramente indicata ma ad alcuni leoni vengono assegnate linee di terra individuali quando fanno parte di una scena più ampia. Oltre agli animali, raffigurati con "straordinaria sottigliezza di osservazione", sono particolarmente belle le incisioni dei dettagli del costume del re. In una fase avanzata della loro esecuzione, le code di quasi tutti i leoni nei rilievi a registro unico furono accorciate.
Le scene a registro singolo mostrano tre raffigurazioni di grandi dimensioni su un lato di un corridoio. Viene mostrata l'arena degli scudi, con una folla di persone che si arrampica su una collina boscosa per una buona visuale o si allontana da questa pericolosa attività. In cima alla collina c'è un piccolo edificio a sua volta ornato da un rilievo con scena di caccia al leone. Il re si prepara sul suo carro, i cavalli tenuti dagli stallieri. I cacciatori, con grandi mastini e lance, aspettano nell'arena qualsiasi leone che si avvicini troppo al muro di scudi. Nella scena grande con il re che caccia sul suo carro, viene mostrato un totale di 18 leoni, per lo più morti o feriti. L'altro lato del corridoio aveva scene simili con il carro reale in azione mostrato due volte.
Un altro gruppo di rilievi, alcuni originariamente collocati al piano superiore e altri in una piccola "camera-cancello privata", sono disposti in tre registri con una striscia liscia tra loro, con le figure molto più piccole. Alcune scene si ripetono, ma non esattamente, tra i due gruppi. Da qui vengono i leoni liberati dalle gabbie che caricano il re a piedi, e anche il re che versa una libagione sui corpi raccolti dei leoni morti. Alcuni di questi rilievi sono oggi conservati a Parigi, mentre altri sono ormai perduti e ne conosciamo il contenuto perché registrati tramite disegni: scene che mostrano il re a caccia di leoni e altri animali allo stato brado; gazzelle sospinte dai battitori verso il re che, nascosto in una fossa, le abbatte con l'arco; in una scena, lo stesso leone viene mostrato in tre scene ravvicinate (uscente dalla gabbia; caricante il re; balzante addosso al re) come in un moderno fumetto.


Lamassu dal palazzo di Khorsabad - FRANCIA


Lamassu dal palazzo di Khorsabad sono dei reperti assiri in alabastro e gesso (h. circa 440 cm) databili al 721-705 a.C. circa e conservati nel Museo del Louvre, a Parigi. Costruiti a Dur-Sharrukin (oggi Khorsabad) a est del fiume Tigri per il re assiro Sargon II, risalgono al periodo del suo regno tra il 721 e il 705 a.C.
Gli archeologi francesi furono tra i primi a riscoprire la civiltà assira, con gli scavi del 1843-1844 di Paul-Émile Botta, e già nel 1847 a Parigi fu aperta la prima istituzione europea dedicata a questa cività orientale. Tra il 1852 e il 1854 Victor Place scavò la residenza di Sargon II, portando numerosi reperti in patria, assieme ai rilievi di Flandin e alle foto in calotipo di Georges Transhand.
Non tutti i Lamassu vennero trasportati a Parigi: alcuni naufragarono nell'Eufrate e altri furono lasciati in loco su minaccia dei Beduini. Oggi la "corte di Khorsabad" al Louvre ricostruisce un ambiente del palazzo con originali e copie in gesso.
I lamassu venivano posti davanti ai palazzi per "difenderli". Sono esseri benevoli che hanno intelligenza umana e forza animale.
I Lamassu sono divinità alate dal corpo taurino e dalla testa umana, le cui dimensioni monumentali ne fanno tra i reperti più impressionanti delle civiltà orientali. Essi erano situati alle porte delle città e nei principali passaggi del palazzo, con funzione intimidatoria verso gli estranei e protettiva verso gli abitanti. Tra le zampe e il dorso sono spesso presenti iscrizioni.
I Lamassu lavorati a rilievo, come quelli del Louvre, presentano una singolare disposizione delle gambe: visti frontalmente mostrano gli zoccoli allineati, in posizione d'arresto, mentre di lato simulano il movimento con una zampa arretrata, per cui in tutto vengono raffigurati cinque arti. Quelli destinati a uno stipite guardano in avanti, mentre altri, destinati a una parete, ruotano la testa di lato, verso l'ideale spettatore.

Abu Simbel e Isambul - EGITTO

 


Abu Simbel e Isambul  è un sito archeologico dell'Egitto. Si trova nel governatorato di Assuan, nell'Egitto meridionale, sulla riva occidentale del lago Nasser, circa 280 km a sud-ovest di Assuan per via stradale.
Il complesso archeologico del sito di Abu Simbel, in egizio Meha, è composto principalmente da due enormi templi in roccia, detti templi rupestri ricavati dal fianco della montagna dal faraone Ramses II nel XIII secolo a.C., eretti per intimidire i vicini Nubiani e per commemorare la vittoria nella battaglia di Qadeš.
Il sito archeologico fu scoperto il 22 marzo 1813 dallo svizzero Johann Ludwig Burckhardt, quasi completamente ricoperto di sabbia, e fu violato per la prima volta il 4 agosto 1817 dall'archeologo italiano Giovanni Battista Belzoni. Nel 1979 è stato riconosciuto come patrimonio dell'umanità dall'UNESCO.
La costruzione del tempio iniziò nel 26º anno di regno di Ramses II in occasione del secondo giubileo per divinizzare se stesso.
Tra i molti monumenti eretti dal faraone Ramses II il grande tempio di Abu Simbel è generalmente considerato il più imponente ed il più bello.
Sorgeva sulle antiche vestigia di un tempio dedicato al dio Horus che venne completamente distrutto per edificare il nuovo tempio dal nome egizio di Per-Ramesses-Miamon.
Sulla facciata, alta 33 metri e larga 38, spiccano le quattro statue di Ramses II, ognuna delle quali alta 20 metri, in ognuna il faraone indossa lo pschent ovvero le corone dell'Alto e del Basso Egitto, il copricapo chiamato "nemes" che gli scende sulle spalle e ha il cobra sulla fronte. Ai lati delle statue colossali ve ne sono altre più piccole, la madre Tuia e la moglie Nefertari mentre tra le gambe ci sono le statue di alcuni dei suoi figli, riconoscibili dalla treccia infantile al lato del capo quali Amonherkhepshef, Ramses B, Bintanath e Nebettaui.
Sopra le statue, sul frontone del tempio ci sono 14 statue di babbuini che, guardando verso est, aspettano ogni giorno la nascita del sole per adorarlo.
Una delle statue di Ramses è rimasta senza testa, infatti questa è crollata pochi anni dopo la costruzione del tempio a causa di un terremoto ed è rimasta ai piedi della statua. Nel crollo essa ha distrutto alcune delle statue più piccole che si trovavano nella terrazza del tempio, rappresentazioni dello stesso faraone e del dio Horus (falco).
Sopra la porta di entrata del tempio in una nicchia scavata nella roccia, c'è la statua del dio Ra-Horakhti, è il dio falco Horus unito al dio solare Ra, la mano destra del dio poggia sullo scettro indicante forza, detto user, mentre la sinistra poggia sull'immagine della dea Maat rappresentante l'ordine cosmico.
Questi due simboli uniti al dio solare Ra' che li porta, formano a mo' di rebus il nome stesso di incoronazione di Ramsete II, cioè User Maat Ra, quindi il faraone vuole indicare che il tempio è dedicato sia al dio solare Ra che a sé stesso. Ai lati della nicchia ci sono due altorilievi raffiguranti il faraone mentre fa offerta del simbolo della maat al dio.
Ai lati delle statue poste presso l'ingresso ci sono delle decorazioni, c'è Hapy dio del Nilo, simbolo dell'abbondanza, che lega fiori di loto, simbolo dell'Alto Egitto, con i fiori di papiro, simbolo del Basso Egitto, per dimostrare l'unione del Paese. Sotto queste scene, nel lato destro, quindi a nord, sono rappresentati dei prigionieri asiatici legati con corde che terminano con il fior di papiro, simbolo del nord, mentre nel lato sinistro, quindi a sud, sono rappresentati dei prigionieri africani legati con corde che terminano con fiori di loto, simboli del sud.
L'entrata del tempio conduce alla grande sala dei pilastri osiriaci, otto dei quali raffigurano il faraone con sembianze di Osiride (Orione), si tratta di statue alte 11 metri. Nel soffitto ci sono disegni incompiuti che rappresentano la dea Mut, che protegge il tempio con le sue ali distese.
Le pareti della sala nel lato destro, a nord, sono ricoperte di scene che rappresentano la vittoria di Ramses nella battaglia di Qadeš combattuta contro gli Ittiti nel 1274 a.C. Queste descrizioni formano il famoso Poema di Pentaur. Nel lato sinistro ci sono altre imprese di Ramses e le guerre contro la Siria, la Libia e la Nubia.
Da qui si entra nella sala più piccola del tempio, detta dei nobili, con quattro pilastri quadrati coperti da rilievi raffiguranti il faraone con varie divinità. Sulle pareti c'è il faraone mentre offre profumi e incensi alla barca di Amon, seguito dalla consorte, la regina Nefertari. Questa sala conduce al "Sancta Sanctorum".
Il Santuario contiene quattro statue sedute. Che da sinistra a destra raffigurano Ptah di Menfi (dio dell'arte e dell'artigianato), Amon-Ra di Tebe (dio del sole e padre degli dei), Ramses II divinizzato e Ra-Horakhti di Eliopoli (il falco con il disco solare). All'epoca queste costituivano le divinità più importanti del pantheon egiziano
Qui, grazie all'orientamento del tempio calcolato dagli ingegneri, due volte all'anno, il 20 febbraio oppure il 19 o anche il 21 e il 20 ottobre, o il 21 corrispondente quest'ultima data forse alla Heb-Sed del 1260 a.C., il primo raggio del sole si focalizza sul volto della statua del faraone. I raggi illuminano parzialmente anche Amon-Ra e Ra-Horakhti. Secondo gli antichi egizi i raggi del sole avrebbero così ricaricato di energia la figura del faraone. Il dio Ptah considerato dio delle tenebre non viene mai illuminato.
Dopo lo spostamento del tempio non si è riuscito a replicare questo fenomeno che cominciò a verificarsi il 22 febbraio e il 22 ottobre.
A nord del tempio maggiore, a un centinaio di metri, nella collina di un sito denominato Abeshek, si trova il tempio, scavato nella roccia, dedicato ad Hathor di Ibshek (con cui la regina fu associata), a Nefertari (moglie di Ramses) e altre divinità preposte alla maternità.
La facciata, larga 28 metri e alta 12 metri, è ornata da sei statue alte 10 metri, tre a ogni lato della porta di ingresso e separate da iscrizioni geroglifiche indicanti le titolature dei due sovrani. Le statue raffigurano quattro volte Ramses e due Nefertari. Ai lati delle statue del faraone ci sono i figli in dimensioni minori, mentre ai lati di Nefertari sono raffigurate le figlie.
È l'unico tempio egizio dove una regina ha la stessa importanza del faraone, lo stesso Ramses lo ha fatto scrivere in una incisione nei rilievi della facciata: ...la casa dei milioni di anni, nessuna costruzione simile è mai stata scavata.
L'entrata del tempio conduce a una sala contenente sei pilastri alti 3,20 metri sulla cui sommità vi sono le teste di Hathor, dette colonne hathoriche. Sui pilastri ci sono iscrizioni che raccontano la vita del faraone e della regina e rilievi colorati che rappresentano sia Ramses che Nefertari con alcune divinità.
Alle pareti vi sono scene del faraone e della consorte che offrono sacrifici agli dei. L'ultima sala è quella con la statua della dea Hathor in forma di vacca, contenuta in una nicchia.
Nel 1960 il presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser decise l'inizio dei lavori per la costruzione della grande Diga di Assuan, opera che prevedeva la formazione di un enorme bacino artificiale.
Tale grande progetto rischiava di cancellare numerose opere costruite dagli antichi egizi tra cui gli stessi templi di Abu Simbel. Grazie all'intervento dell'UNESCO, ben 113 paesi si attivarono inviando uomini, denaro e tecnologia per salvare il monumento.
Vennero formulate numerose proposte a tale scopo e quella che, infine, ottenne maggiori consensi fu quella svedese di tagliare, numerare e smontare blocco per blocco l'intera parte scolpita della collina sulla quale erano stati eretti i templi e successivamente ricostruire i monumenti in una nuova posizione 65 m più in alto e 210 m più indietro rispetto al bacino venutosi a creare.
I lavori durarono dal 1964 al 1968 con l'impiego di oltre duemila uomini, guidati da un gruppo di esperti cavatori di marmo italiani, messi insieme dall'azienda italiana Impregilo e provenienti da Carrara, Mazzano, Chiampo e dalla Garfagnana in provincia di Lucca e con uno sforzo tecnologico senza precedenti nella storia dell'archeologia. L'impresa costò in totale circa 40 milioni di dollari. Le reti di imbrago dei blocchi vennero realizzate in Italia dalla Zaccheo Bellieni SPA
La ricostruzione comprese anche l'erezione di una cupola in calcestruzzo armato posta appena sopra il monumento con la duplice funzione di preservare la struttura e di dare forma alla collina artificiale a cui vennero addossati i templi. L'intervento interessò sia il tempio principale dedicato a Ramses II sia quello secondario dedicato alla regina Nefertari.
Nel ricostruire i templi, circa 210 metri più indietro e 65 metri più in alto, fu mantenuto l'originale orientamento rispetto agli astri e al sole, in modo da consentire (seppur con lo sfalsamento di un giorno) al sorgere del sole, due volte l'anno - il 22 febbraio e il 22 ottobre - di illuminare la camera centrale del tempio maggiore dove troneggiano le quattro divinità sedute: Ptah, Amon, Ramses II e Ra.
Altri monumenti di minore rilevanza, e di minori dimensioni, anch'essi minacciati dal livello delle acque vennero smontati e donati a vari musei tra cui anche il Museo egizio di Torino. Il 22 settembre 1968 una grande cerimonia annunciava al mondo la rinascita dei magnifici complessi monumentali di Ramses II e di sua moglie Nefertari.
Una leggenda vuole che la regina Nefertari sia morta all'ingresso del grande tempio mentre quasi sicuramente morì prima del completamento del tempio a lei dedicato.
Scoperta nel 1909 da Alessandro Barsanti, la cappella del culto presenta due altari ricavati nell'arenaria, due obelischi, e statue cinocefale oggi conservate al Museo del Cairo.
La stele è scolpita vicino al grande tempio e tratta della natura divina del sovrano.
Nel sito vi è anche un nilometro a sud del tempio minore.
La piccola cappella tolemaica  è posta nelle immediate vicinanze del pilone a nord del tempio minore
Posto a sud-ovest, il piccolo mammisi è anch'esso scavato nella roccia.

Ceramica protoattica

 

La ceramica protoattica è una classe di vasi attici la cui produzione è compresa tra il 700 e il 610 a.C. circa, tra lo stile geometrico e le figure nere attiche. Se lo stile geometrico si era distinto per un forte senso dell'ordine, le generazioni successive, attive durante il periodo orientalizzante, mostrano la stessa tendenza alla sperimentazione che pervade l'intero mondo greco del VII secolo a.C. e una decisa continuità nella predisposizione attica verso la narrazione e il "fare grande". 
Compaiono, prevalentemente importati da Corinto, gli animali reali e fantastici di origine orientale, ma la generale tendenza sperimentale del VII secolo a.C. viene applicata in Attica a grandi anfore funerarie, ereditate dal periodo geometrico, che sfuggono alla pura decorazione vascolare. Si trovano in modo del tutto nuovo sui vasi protoattici i miti di Ulisse, di Perseo, di Menelao, l'uccisione di Egisto, Chirone e Achille, la lotta di Ercole e Nesso e di Bellerofonte con la Chimera. L'epoca orientalizzante è per Atene un periodo di relativa chiusura e provincialità, raramente sono state trovate testimonianze protoattiche al di fuori dall'Attica o dell'isola di Egina; la produzione del periodo risponde alle richieste del fabbisogno locale restando lontana da esigenze esterne dovute ad una grande richiesta da parte del mercato, come sarebbe accaduto a Corinto.
La ceramica protoattica è stata individuata stilisticamente da J. Böhlau nel 1887; a partire dalla fine dell'Ottocento altri ritrovamenti a Egina, dove è stata trovata la Brocca degli arieti, hanno permesso di proseguire e approfondire gli studi. Non è ancora stata chiarita l'occasione del ritrovamento del gruppo di ceramiche indicate come di provenienza eginetica ora conservato ai Musei statali di Berlino, dove è giunto nel 1936. La stessa incertezza, per quanto riguarda la provenienza, investe altre opere protoattiche, come la loutrophoros attribuita al Pittore di Analato e acquistata negli stessi anni dal Museo del Louvre. Gli studi sulla ceramica protoattica si basano sul fondamentale lavoro di J. M. Cook (del 1935), in seguito aggiornato anche ad opera di altri studiosi, con nuovi ritrovamenti ad Atene, nel Ceramico e nell'Agora, e nella necropoli di Eleusi che ha restituito la celebre Anfora di Polifemo.
Le ceramiche protocorinzie vengono esportate in tutta la Grecia ed arrivano ad Atene dove si sviluppa uno stile dall'influenza orientale meno marcata. Maggiore importanza rispetto all'influsso orientalizzante può aver avuto sulla formazione dello stile protoattico il ritrovamento delle antichità micenee come testimoniato da forme e motivi decorativi già presenti sui vasi attici tardo geometrici.
Nell'ultimo quarto dell'VIII secolo a.C. le figure sui vasi attici geometrici progressivamente si arrotondano, si fanno più grandi e corpose, assumono posizioni stabili e movimenti più audaci, proporzioni più corrette. La tendenza al cambiamento nei vasi attici tardo geometrici è osservabile ad esempio sul calderone frammentario al Museo archeologico di Atene. Gli elementi curvilinei nell'ornamentazione sono un segno della fase evolutiva insieme ad un tratto più energico e meno controllato, visibile nella marcia delle donne e nella figura audace del cavallo che si impenna durante l'allevamento. In un vaso conservato a Oxford (Ashmolean Museum), sotto la tradizionale processione di carri, si trova l'orientalizzante fregio continuo con animali che si rincorrono. Rispetto alle precedenti anfore geometriche si riscontra un contrasto maggiore, un minore impiego di ornamentazione di riempimento e la scena principale è più grande in proporzione al vaso. L'auriga è accolto all'interno della biga e non più precariamente posato sopra di essa; nelle figure dei cavalli si notano i primi esempi di sovrapposizione.
Le forme vascolari più diffuse sono l'hydria, l'anfora, il cratere e soprattutto le forme adatte ai prevalenti scopi funerari come l'anfora a collo distinto in versione monumentale e la sottile loutrophoros, ma anche calderoni e grandi ciotole con coperchio. Dal 650 a.C. si incontra il cratere a skyphos, fornito di coperchio e alto piede, caratteristica quest'ultima presente anche in tazze o piatti e da ricondurre al rito funerario caratterizzato dall'esposizione delle offerte.
Protoattico antico (700-675 a.C. Circa)
Le figure durante il primo periodo protoattico si fanno più grandi e maggiormente strutturate, la composizione abbandona la precedente simmetria e diventa più libera. Gli ornamenti caratteristici sono le foglie puntinate, le palmette e le coppie di spirali in forma di cuore. Gli uncini, già presenti nel tardo geometrico, si fanno più grandi e vengono usati come nella ceramica protocorinzia si usano i triangoli a raggiera. I soggetti preferiti sono le processioni, le parate di carri e cavalli, gli animali reali e fantastici in fila o affrontati. Le tecniche utilizzate sono la silhouette e il disegno a contorno, ottenuti con una pittura leggera, quasi color pastello. Un esempio del primo protoattico è l'anfora attribuita al Pittore di Analato (Parigi, Louvre CA2985), dove tra motivi geometrici e novità orientalizzanti viene introdotta la tecnica a incisione sulla criniera dei cavalli. Il Pittore di Mesogeia è un contemporaneo minore del Pittore di Analato con il quale condivide la preferenza per il pennello fine e per gli ornamenti a rete, ma il Pittore di Mesogeia nel confronto risulta più rigido.
Medio protoattico
(675-650 a.C. circa)
Il passaggio dal primo al medio protoattico è caratterizzato da due tendenze opposte e contemporanee: uno stile minuto e delicato, realizzato con tecnica a contorno, e uno stile esuberante che fa uso di abbondante vernice bianca e talvolta rossa. Gli esponenti di quest'ultimo mostrano un tratto corsivo che viene loro dall'essersi liberati dalla disciplina geometrica. Questa modalità è stata definita stile bianco e nero, per una preponderante alternanza di questi due colori. Un esempio di questo stile è la celebre Anfora di Eleusi del Pittore di Polifemo, poco più piccola del Vaso del Dipylon (Atene 804), le cui raffigurazioni sul corpo sono le più grandi decorazioni vascolari giunte sino a noi e rappresentano il mito di Perseo: il corpo senza testa di Medusa, le Gorgoni che inseguono Perseo e una rigida e sottile Atena, forse uno xoanon, a simbolizzare il favore divino. Sul collo si trova la scena dell'accecamento di Polifemo, convenzionalmente usata per indicare l'anonimo autore. Dello stesso periodo o immediatamente successiva è l'attività del Pittore della Brocca degli arieti. Se il Pittore di Polifemo si distingue per una straordinaria immaginazione grafica, il più pacato Pittore della Brocca degli arieti acquisisce negli ultimi anni una inconfondibile capacità nella rappresentazione dei volti. La tecnica adottata da questi artisti non è prettamente ceramografica, il Pittore di Polifemo, in particolare, usa l'intero vaso come campo figurato, una modalità più adatta alla pittura murale.
Esempi di ceramica protoattica in stile bianco e nero sono stati trovati ad Egina, rari ritrovamenti sono stati effettuati anche in Beozia, a Megara, Perachora e presso l'Heraion di Argo.
Progredisce la struttura corporea delle figure, ma si accompagna a dettagli interni dotati di valenza decorativa. L'incisione viene usata in modo subordinato rispetto al vivace impiego del colore e del disegno a contorno. La scarsa ornamentazione di riempimento viene adattata al gusto attico con una crescita incontrollata degli elementi fitomorfi e l'alternanza in bianco e nero degli elementi ornamentali più comuni. L'hydria diviene meno popolare e si diffonde maggiormente il cratere.
Protoattico recente (650-610 a.C. circa)
Con il Pittore di Polifemo e il Pittore della Brocca degli arieti si chiude il periodo migliore della ceramica protoattica. Il periodo definito "protoattico recente" si sovrappone in parte alle "prime figure nere" e la trattazione del primo o delle seconde dipende dalla posizione assunta dall'osservatore. 
È il periodo che va dal Pittore di Kynosarges al Pittore di Nesso, quest'ultimo escluso essendo egli ormai in possesso di una tecnica consolidata e di uno stile costante che indicano l'avvento delle figure nere attiche e la chiusura della sperimentazione protoattica. Durante il protoattico recente il disegno si fa generalmente più controllato e l'ornamento di riempimento più invadente, un maggiore senso dell'ordine sembra essere un primo sintomo della ricezione dello stile preciso protocorinzio che sarà tipico delle prime figure nere attiche. L'uso diffuso del colore rosso, che diventa da questo momento una componente regolare del regime decorativo, e una incisione particolarmente precisa e netta sono altri elementi presi dal protocorinzio recente. Di derivazione cicladica è invece l'uso della protome equina o muliebre nel pannello figurato sul collo del vaso, già presenti nel periodo medio, ma che presentano una nuova specializzazione nell'impiego delle tecniche: i cavalli sono solitamente eseguiti a figure nere, le donne a linea di contorno.


Via Lauretana (Toscana)

  La  via Lauretana  è un'antica strada etrusco-romana della Val di Chiana che collegava Cortona a Montepulciano e Siena. Venne realizza...